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Il Pci e la nuova sinistra. 1960-1968

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Academic year: 2021

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Capitolo 1

I moti di Genova, 30 giugno 1960: una cesura storica

Ai fini della nostra ricerca è di particolare interesse esaminare, il modo in cui i fatti di Genova vennero letti dai partiti storici della sinistra italiana, e non solo, riflettendo attentamente su come fossero già in moto una serie di processi che giungeranno a piena maturazione sette/otto anni dopo, passando per Piazza Statuto. Quelli che seguono sono articoli di giornale, stralci di documentazioni, riflessioni personali raccolte in interviste, che cercheranno di fornirci delle informazioni su come sono state interpretate quelle giornate e le considerazioni di lungo periodo che ne scaturirono.

Genova 1960. Il Movimento sociale italiano annuncia che il 2 luglio terrà il suo VI Congresso nazionale. La città scelta per l’occasione è Genova 1a. Tra gli esponenti di spicco del Congresso figurano Carlo Emanuele Basile, capo della Provincia di Genova durante la Repubblica sociale italiana, direttamente coinvolto nella repressione, attraverso torture ed eccidi, della resistenza partigiana oltre che nella deportazione di migliaia di lavoratori in Germania. L’operazione avviene in piena sintonia con l’allora Presidente del Consiglio Fernando Tambroni, esponete di spicco della Democrazia cristiana. Per Genova, città medaglia d’oro al valore della Resistenza, che ha ricevuto direttamente nelle sue mani l’atto di resa da parte delle truppe tedesche, la convocazione è una provocazione inaccettabile. Di questo ne sono ben consci i neofascisti del MSI, ma soprattutto il governo Tambroni e il fronte di classe, nazionale e internazionale, che rappresenta.

Da tempo gli Usa e la Nato guardano con preoccupazione lo scenario italiano, dove proletariato e classe operaia non hanno smesso di coltivare l’utopia immaginata nel corso della guerra partigiana. A questo va aggiunta l’esistenza di un Partito comunista che, nonostante il nuovo corso inaugurato da Togliatti, è pur sempre ascritto al campo avverso 3a. Genova, pertanto diventa il banco di prova per l’inaugurazione di una stagione politica dove, anche in Italia e una volta per sempre, lo spettro comunista può essere ricondotto nel mondo delle tenebre.

Un progetto, quello di Genova, che però non tiene conto delle masse come variabile autonoma delle vicende politiche. L’errore fatale per Tambroni e il blocco politico e sociale che incarna, è l’aver identificato e scambiato la linea politica del Pci con il comune sentire delle masse. Ma non solo. Nelle valutazioni dei fautori del “golpe legale” 4a, è assente una qualunque attenzione per le trasformazioni sociali intervenute

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all’interno della composizione della classe operaia. Un errore che si rivelerà fatale.

Se, pur lamentandosi, gli operai più vicini al Partito non sembrano in grado di rompere le consegne che questi ha diramato, preoccupandosi soprattutto che le manifestazioni non vadano oltre la dialettica democratica, i giovani, al contrario, rompono repentinamente gli argini ritrovandosi insieme a quelle aree partigiane anziane che non avevano mai digerito l’ordine della smobilitazione generale. Mentre manifestanti e forze dell’ordine si fronteggiano, i “ragazzi con le magliette a strisce” partono all’attacco senza fare troppe distinzioni tra fascisti e polizia 5a. I vecchi partigiani, per altro verso, non sono stati ad aspettare e si sono precipitati a Genova portandosi appresso parte di quel “logistico” che il partito aveva aveva ordinato di consegnare senza remore ma che al contrario, continuava ad essere gelosamente ed efficacemente custodito 6a. Genova dunque è insorta, una minoranza giovanile e partigiana si è fatta direzione politica guadagnando il controllo della città. L’evento già di per sé è stato sufficiente a far naufragare i sogni restauratori di Tambroni, fascisti e alleati vari.

Il 30 giugno genovese, dunque, suona come un martello per l’intera classe operaia e nel giro di poche ore, in tutta Italia, furono in molti a sintonizzarsi sulla stessa lunghezza d’onda dei “teppisti genovesi”.

Un’ondata di insubordinazioni di massa pone una pietra tombale sul “golpe legale”, anche se il prezzo pagato fu alto. Lo Stato non rimane a guardare, anzi contrattacca, centinaia di feriti e decine di prigionieri torturati nelle caserme fanno da sfondo all’eccidio di Reggio Emilia, quando il 7 luglio le forze dell’ordine sparano sulla folla uccidendo cinque persone e ferendone ventuno.

Il giorno dopo uno sciopero generale blocca l’intero paese e in particolar modo nel triangolo industriale la situazione diventa, a dir poco tesa. Questa è una breve e sommaria descrizione dei fatti, cominciamo, invece, a vedere come viene interpretata quella giornata attraverso “le autorevoli penne” della sinistra italiana.

La prima testimonianza la fornisce proprio il segretario del Pci, Palmiro Togliatti, con un articolo sul settimanale “La Rinascita”, intitolato La trama politica dei fatti.

L’articolo del Migliore, cerca di descrivere come la Democrazia cristiana, con l’aiuto del Msi e l’appoggio politico-mediatico statunitense cercarono di far credere che il movimento di protesta di quei giorni fosse un’orchestrazione del Partito Comunista per il rovesciamento del governo Tabroni.

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E’ nota a tutti la cronaca dei fatti che si sono succeduti in Italia dall’inizio della agitazione contro la celebrazione a Genova del governo fascista, attraverso le cariche di cavalleria di Roma, gli eccidi di Reggio Emilia e di Palermo e la proposta Merzagora per una tregua politica, sino al dibattito parlamentare e alle sue conseguenze. Non è noto, invece, non è anzi affatto chiaro quale sia il dietroscena politico di questi avvenimenti; quale la trama politica sulla quale si sono inseriti, da un lato un potente movimento delle masse, dall’altro lato una precisa, ma disgraziatissima e assai pericolosa azione di governo. Questa trama sarebbe stata fornita, secondo la posizione ufficiale tanto del governo quanto del partito democristiano e dei partiti della destra (inclusi, sembra, anche i liberali), dal proposito e piano concreto dei comunisti di dare nientemeno che <<l’assalto allo Stato>>. Noi avremmo dunque voluto muovere alla conquista del potere, o per lo meno preparare le condizioni di questa conquista? Stranissima intenzione, soprattutto se si tengono presenti le condizioni attuali della lotta politica e se a questo si aggiunge che, secondo quegli stessi che ci accusano, noi saremmo oggi un partito <<disorientato>>, <<isolato>>, <<in crisi permanente>>. L’idea che i partiti

comunisti diano l’assalto allo Stato così, perché, convintisi, all’improvviso, che sia giunto il momento buono, perché questo faccia loro comodo in quella determinata occasione, è una balordaggine, è un aspetto del cretinismo politico. 1

Il Segretario dopo aver smentito, come era presumibile, un qualsiasi coinvolgimento ufficiale del Pci durante la sollevazione popolare, quasi stranito dal fatto che solo la classe dirigente non avesse ancora capito che la rivoluzione, nella mente dei vertici di partito, era cosa estranea, fa riferimento alla leggerezza con la quale <<i dirigenti politici dell’imperialismo americano>> diffondono questa notizia nell’opinione pubblica:

Bisogna però riconoscere, in pari tempo, che questa idea è parte integrante dell’arsenale su cui si fonda la attuale visione propagandistica americana della lotta politica. Vogliamo dire che i dirigenti politici dell’imperialismo americano probabilmente non credono a queste stupidità, ma fanno però tutto ciò che sta in loro perché esse abbiano la massima diffusione nella opinione pubblica, sino a diventare moneta spicciola corrente su tutti i giornali, in tutte le assemblee, nei discorsi di tutti i pezzi grossi. 2

E’ comunque un dato oggettivo, che i fatti di Genova si incrociano nel tempo con una serie di avvenimenti che hanno potuto creare nella sfera di influenza americana, una ondata particolare di ossessione anticomunista. A maggio vi fu il pronunciamento popolare e militare turco contro Menderes, la grande protesta di popolo che ha praticamente stracciato il trattato di guerra nippocoreano, mettendo praticamente in fuga il presidente Eisenhower.

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loro di “mostrarsi forti”, di “dominare la piazza”, di respingere l’assalto dei comunisti>>. 3

Anche queste spiegazioni, però, potrebbero sembrare riduttive per tessere la trama degli avvenimenti. Emergono infatti dall’esame della situazione altri momenti e fatti di peso molto più grande.

Togliatti parte proprio dal congresso di Genova e dagli:

…stessi propositi politici, evidenti e manifesti, intessuti attorno al congresso del partito fascista. […] Ciò che importa sottolineare è che i circoli più reazionari italiani non dispongono, in questo momento, di una forza politica d’assalto di cui servirsi per la lotta aperta, con tutti i mezzi, contro la classe operaia e contro il movimento

democratico. Il partito fascista è troppo compromesso, troppo screditato e sospetto,

per il passato stesso a cui si riferisce. A Genova gli si doveva dunque dare una verniciatura legalitaria e democratica. 4

Forse i democristiani e la destra parlamentare, stavano cercando di immaginarsi una “via italiana” per uno stato clerico-fascista?

Secondo Togliatti:

La conclusione cui si deve giungere è che ci siamo trovati improvvisamente di fronte alla manifestazione di propositi e piani reali, che lo svolgersi rapido e impetuoso degli avvenimenti costrinse a venire alla luce in modo oltre ogni dire disgraziato e informe, ma che certamente erano in via di maturazione. 5

Nella conclusione del suo articolo il Migliore non dimentica di elogiare le masse popolari scese nelle piazze e nelle strade:

Di fronte a queste conclusioni, tanto più grande appare il valore di ciò che è avvenuto nel paese nel corso delle ultime settimane. E’ risultato chiaro che esiste nelle masse popolari un nuovo enorme potenziale di lotta e che esso è al servizio della causa democratica e antifascista. Si è creata, nella azione contro il fascismo, per riaffermare e difendere gli ideali della Resistenza, la più ampia e solida unità di forze democratiche e popolari. Gli intellettuali e le nuove generazioni hanno dato a questa unità il più efficace contributo. Tra comunisti e socialisti la collaborazione è stata completa, dalla base alla sommità. Il grande movimento si è concluso con evidente, innegabile successo, che sprona, oggi, a nuove avanzate, per ottenere che gli ideali della Resistenza ispirino di fatto tutta la vita della nazione. 6

Per ultimo la raccomandazione a non abbassare la guardia:

Il successo ottenuto non faccia però dimenticare quali sono i pericoli e le minacce che corre oggi il nostro regime democratico, e che la ricerca oggettiva della trama politica degli avvenimenti recenti denuncia e mette in luce con molta chiarezza. 7

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La caduta del governo Tambroni, per le cause che l’hanno prodotta e per il momento politico in cui è avvenuta, rimane una grande vittoria democratica e antifascista, un successo delle forze popolari e di sinistra che aprì una nuova fase della vita politica italiana, il cui significato andò ben al di là della soluzione parlamentare che venne data alla crisi con l’accordo dei quattro partiti di centro per un nuovo governo.

Ci sono buone possibilità che l’inserimento del MSI nella maggioranza governativa debba sanzionare politicamente ciò che da tempo era una realtà all’interno dell’apparato statale: dalla magistratura alla polizia, dai ministeri alle prefetture, il passaggio dal fascismo alla democrazia, ha visto la mimetizzazione degli uomini del passato regime dietro le insegne democristiane e reazionarie.

Riportare il tutto all’interno del quadro istituzionale, in nome della democrazia progressista, è stato l’imperativo categorico imposto dalla maggioranza togliattiana al Partito, cominciando dalla svolta di Salerno fino ad arrivare ai fatti di Genova. A ciò, pur tra non pochi borbottii, finirono con l’allinearsi in molti. Solo recentemente, e in forma privata, qualche attore dell’epoca ha deciso di rompere le consegne. La breve intervista che segue, rilasciata da un militante del Pci, a Emilio Quadrelli, è più che mai esplicativa. In piena coscienza, il Partito, prima sabota e poi mistifica il senso di quelle giornate contando, ed è questa l’altra faccia della medaglia, sulla fiducia indiscussa che molti militanti operai e proletari continuano a tributargli.

Secondo il militante che rimarrà anonimo:

Non c’è molto da dire, nei confronti del luglio’60, il Partito ha fatto una porcata dietro l’altra e, alla fine, anche noi militanti di base o intermedi, ne siamo stati complici […] Il Partito si è spaventato, ha visto che quello che stava succedendo poteva far precipitare la situazione, verso una strada che non gli piaceva. Così c’è arrivato l’ordine di far rientrare la protesta, di far calmare gli animi e isolare quelle parti della piazza più scalmanate. Quello che la polizia e i carabinieri non erano più in grado di fare dovevamo farlo noi. Il Partito ci chiedeva di riprendere in mano la situazione e noi lo abbiamo fatto, usando anche la calunnia. Ma la cosa non è finita lì. Subito dopo, quando si è trattato di difendere i manifestanti, gli si è detto chiaramente che la loro difesa dipendeva dal loro comportamento. Il problema doveva essere il Msi, i fascisti e solo loro. Si dovevano lasciare fuori le forze dell’ordine, le classi dominanti etc. I moti dovevano passare come lotta ai rigurgiti fascisti e reazionari in difesa della Costituzione e della Repubblica, non si doveva parlare di rivoluzione sociale. In cambio, il Partito, si sarebbe adoperato per una buona difesa legale e, una volta terminato il processo, per l’inserimento dei coinvolti in alcuni posti di lavoro. Chi non ci stava sarebbe stato abbandonato a se stesso e bollato come provocatore e teppista. La stessa cosa è successa quando si è trattato di scriverci sopra. La cosa migliore era non parlarne ma, nel caso, bisognava farlo seguendo la linea che il

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Partito, in merito a quei fatti aveva stabilito. C’è stato un controllo capillare e attento, ma bisogna anche dire che gli intellettuali si sono adeguati velocemente, perché il peso del Partito nel mondo della cultura era notevole ed essere scaricati voleva dire finire nell’ombra e gli intellettuali possono sopportare tutta tranne che non apparire. Da parte di quelli come me, ubbidire è stata l’ennesima riprova della fiducia mitica che avevamo nel partito. Eravamo cresciuti nella convinzione che era meglio sbagliare nel Partito piuttosto che avere ragione contro il Partito. Sapevamo che, nei confronti di chi si era battuto in piazza, eravamo in errore ma la fedeltà al Partito veniva prima di ogni cosa. 7a

(G.)

Una trasformazione in senso legalitario e riformista quella avviata da Togliatti già presente nel corso della Resistenza e formulata, senza troppi indugi, fin dal suo rientro in Italia nel 1944. Nella nuova formulazione, il Partito, da “partito di quadri” finalizzato alla conquista del potere politico, secondo i dettami dell’impostazione leninista e bolscevica, si doveva trasformare in un “partito di massa” il cui compito non era più la rivoluzione socialista ma la “democrazia progressiva” 8a. Secondo la penna di Tullio Vecchietti, ex partigiano e direttore dell’<<Avanti>> durante i fatti di Genova, quella attuata dalla DC, <<era una operazione di vertice, tentata col riassorbimento dell’ala parlamentare del fascismo, eversiva e ingombrante, nella “legalità” dello Stato e sotto il controllo clericale, di fronte alla quale il Parlamento si era dimostrato impotente a resistere, per la paralisi in cui l’aveva gettato la DC>>. 8

A differenza del Parlamento che rimase a guardare questo tentativo di spostamento verso destra dell’asse governativo, secondo Vecchietti chi si fece trovare pronta a fronteggiare un ipotetico governo clerico-fascista fu la popolazione.

Veccheitti, nell’articolo apparso sempre su <<Rinascita>> dal titolo: Responsabilità di tutta la D.C., osserva:

La sottovalutazione della realtà del paese c’è stata, totale o parziale (da parte del

governo). La protesta popolare partita da Genova, non è stata arrestata né dalle

violenze poliziesche di Roma né dal sangue versato a Reggio Emilia e in Sicilia. L’operazione diretta al passaggio a un regime clerico-fascista scoperto per via relativamente pacifica e graduale, è stata stroncata sul nascere dalla protesta popolare che ha assunto proporzioni e intensità tali da consigliare ai protagonisti dell’operazione Tambroni almeno un ripiegamento tattico, e da suscitare il risveglio anche delle forze democristiane che erano divenute strumento passivo dell’operazione, dopo essere state travolte dalle loro contraddizioni, dalle loro rivalità interne e dall’opportunismo. 9

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pura opposizione al fascismo? Vecchietti continua nel suo articolo parlando di una coscienza popolare che si oppone al trasformismo della Democrazia Cristiana, trasformismo che venne tentato con l’ipotesi di un governo di centro sinistra.

Vecchietti prosegue:

La Democrazia cristiana, facendo proprie le spiegazioni, in chiave di complotto comunista addirittura a livello mondiale, che Tambroni ha dato della protesta popolare, ha voluto con ciò ipotecare l’azione del nuovo governo democristiano, anche per indirizzarla a compiti di lotta anticomunista e antipopolare, sia pure con metodi diversi da quelli usati da Tambroni. 10

Dopo aver rinunciato alla saldatura “democratica” con il fascismo <<la Dc cerca oggi di tornare ai metodi trasformisti di lotta, e ricorrere al nome di Fanfani per <<sfondare a sinistra>>. 11

Fanfani, deputato Dc, criticò aspramente i mezzi inefficaci di lotta al comunismo con le alleanze a destra, sostenendo invece la validità strumentale del centro sinistra come la formula idonea per <<marciare verso e contro le posizioni tenute a sinistra dai più temibili nostri avversari, non per dilapidare il nostro patrimonio ideale, ma per difendere e accrescere il numero degli estimatori suoi>>. 12

Una alleanza a sinistra per destabilizzare una parte della sinistra stessa? In questo caso una apertura verso il Psi avrebbe destabilizzato il Partito Comunista.

Vecchietti si chiede se fosse possibile questa soluzione politica, che lo stesso Fanfani aveva teorizzato, senza successo, nell’aprile dello stesso anno.

Il direttore dell’<<Avanti>> prosegue:

Nel centro sinistra confluirono un’illusione e una politica. L’illusione che con un’operazione di vertice si potesse realizzare quella svolta politica a sinistra che avrebbe poi messo in movimento le cose nel paese: era una pura e semplice inversione della realtà della lotta democratica e popolare. Una politica, quella di Fanfani e di Moro, diretta a sferrare a <<sinistra>> un attacco al Pci, isolandolo prima nel Parlamento e poi nel paese, con una nuova maggioranza estesa praticamente al Psi. Ma anche quella di Moro e di Fanfani in realtà era anch’essa un’illusione: troppo alto apparve il prezzo che la DC e le forze che la controllano avrebbero dovuto pagare perché il centro-sinistra avesse almeno la prospettiva di successo iniziale. 13

Se, quindi, in quel clima politico di trasformismo uno pseudo centro-sinistra prese corpo non realizzandosi, è assurdo pensare che il governo monocolore che si formò attorno a Fanfani alla fine dello stesso mese,

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potesse perseguire gli stessi obbiettivi. Dalla rivolta di Genova alla formazione del nuovo governo passarono poche settimane, ma le condizioni della lotta, come il dibattito politico cambiarono rapidamente, lasciando inalterati i protagonisti di quei giorni, le masse lavoratrici e il paese stesso.

Vecchietti conclude:

Le lotte e le proteste unitarie per obiettivi di fondo delle scorse settimane, hanno creato una nuova situazione politica, che è la condizione per una nuova politica unitaria anzitutto del movimento operaio e la giustizia anche del trasformismo di vertice, diretto a <<sfondare a sinistra>> con combinazioni ministeriali e parlamentari.

La stanchezza delle masse, l’indifferenza dei giovani alla politica, laddove si erano manifestate, erano l’effetto di una causa ben chiara e individuata: erano il prezzo naturale di una politica trasformistica e di vertice diretta a una svolta a sinistra nelle parole soltanto, erano il sintomo della resistenza popolare a una manovra ingannatrice che le masse intuivano e individuavano nell’invito a una rottura dell’unità del movimento operaio, nella collocazione strumentale e passiva che veniva loro assegnata in un processo di avanzamento che, per essere genuino, avrebbe dovuto avere invece le forze lavoratrici all’attacco, protagoniste e non oggetto della svolta politica. 14

Il compito, quindi, di vigilare sulle azioni e alleanze parlamentari secondo Vecchietti, deve spettare alle <<forze antifasciste e democratiche>> 15, l’auspicio è che le forze popolari che hanno animato le lotte nella penisola contro l’ipotesi di un governo clerico-fascista non si abbandonino alle speranze o illusioni che vengono dai vertici dei vari partiti.

Responsabilità politiche, accordi istituzionali “poco genuini” o “poco credibili”, attacchi mediatici, possono essere solo questi gli elementi su cui soffermarci nel narrare l’esperienza di Genova del 30 giugno e le precedenti lotte che per settimane infiammarono e, purtroppo, insanguinarono tutto lo stivale?

Riporterò di seguito altri articoli che da ora in poi si soffermeranno sullo spirito antifascista, elemento fondamentale della giornata di Genova, e i protagonisti di quelle lotte, i giovani.

Giorgio Amendola, deputato del Pci, ex partigiano e scrittore, con il suo articolo focalizza nello spirito antifascista le motivazioni della rivolta di Genova. Senza limitarsi all’aspetto “romantico” dell’azione antifascista, Amendola parla di un dovere, per certi versi, istituzionale degli antifascisti e del Consiglio federativo della Resistenza, che fu ricevuto al termine del dibattito parlamentare dall’allora presidente della Repubblica

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Giovanni Gronchi.

Perché partire proprio dall’antifascismo? Amendola dà una risposta semplice e a mio parere esaustiva:

Nella lotta antifascista fu saldata per la prima volta l’unità della nazione italiana e il popolo italiano ritrovò i motivi essenziali di una sua coesione nazionale. L’unità antifascista non è una alleanza di partiti, ma l’espressione di una profonda mobilitazione di forze popolari, spinte alla lotta da fortissimi motivi ideali, per risolvere non problemi politici contingenti, ma più generali questioni istituzionali e strutturali. 16

Questo sentimento antifascista, quindi, secondo Amendola raccoglie ed esprime la rabbia degli italiani nei confronti dei <<gruppi dirigenti clericali>> 17 che volevano guidare il paese verso una deriva autoritaria. Amendola non dimentica di ricordare i moltissimi giovani, la maggior parte di loro non ha ricordi diretti della dittatura fascista, che presero parte agli scontri:

…E, soprattutto, è scesa in lotta la gioventù. Questi giovani non hanno inteso combattere una battaglia di retroguardia, per coprire una difficile ritirata, e per mantenere aperte le vie della ripresa democratica, come abbiamo dovuto fare altre volte, ma dare il primo combattimento di un nuovo ciclo di lotte, che dovrà portare avanti il paese nella via del progresso civile e sociale. 18

A chi rimprovera una voglia di semplice ribellione che ha spinto i giovani a scendere in piazza in quei giorni Amendola replica:

Ma è contro lo stato generale della nazione che essi sono insorti, è questo stato che vogliono cambiare, per questo sono diventati antifascisti, essi che sono nati dopo il fascismo, perché l’antifascismo per essi vuol dire indipendenza nazionale, democrazia, dignità umana, lavoro e benessere. Nella sua lunga battaglia l’antifascismo ha saputo più volte rinnovarsi, esprimersi in forme nuove, arricchirsi del contributo delle nuove generazioni che esso ha saputo comprendere ed educare.

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Nella conclusione del suo articolo, il deputato del Pci, espone alcune questioni che sono sorte all’interno del movimento antifascista e che dovrebbero essere sottoposte ad un esame in Parlamento:

scioglimento del MSI, uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge, senza discriminazioni e senza favoritismi, rispetto delle libertà nelle fabbriche, riforma della legge fascista di P.S., attuazione dell’ente regione, insegnamento democratico nelle scuole, con l’illustrazione degli ideali e degli eroismi della lotta antifascista e della Resistenza. 20

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Ho accennato prima ai protagonisti dei fatti, i giovani: sul loro protagonismo ha discusso la maggior parte dell’intellighenzia dell’epoca. Il primo articolo , sempre riconducibile al settimanale “Rinascita” del luglio 1960 dal titolo Testimonianze sui giovani del luglio 1960, è dell’artista Carlo Levi, tra i più significativi scrittori del Novecento italiano, che non ha dubbi nel descrivere come gli avvenimenti del luglio 1960 hanno dato i natali al <<movimento più profondo dopo la Resistenza>>. 21Lo scrittore prosegue nel descrivere come il decennio che separa, il movimento di liberazione dei contadini del sud, dalla rivolta di Genova sia un periodo di restaurazione e allo stesso tempo maturazione, fino alla scesa in campo delle generazioni dei giovani.

Sulle giornate di Genova:

Perché i giovani si muovono, riunendo in uno i complessi motivi di insoddisfazione, di bisogni di libertà, di difficoltà economiche, di intolleranza per un mondo privo di sviluppo e di prospettive dietro l’ideale antifascista? E’ forse un fenomeno simile a quello che in Francia conservava tanti anni dopo, nei moti popolari e giovanili, nei personaggi di Stendhal e Victor Hugo, il mito di Napoleone?

La Resistenza non si celebrava in se stessa, ma viveva nella sua ragione, nei suoi programmi, nelle sue scelte, nei suoi scopi, nei suoi motivi diretti: autonomia, libertà, abolizione degli organismi prefettizi, controllo operaio, Stato dei Consigli, riforma agraria e industriale, ecc.: quell’insieme di programmi che avevano iniziato a prendere forma di leggi nella attività legislativa dei C.L.N. Per questo la Resistenza può essere, per i giovani nuovi di oggi, un punto di riferimento e di cristallizzazione. L’antifascismo rinasce, non come anti-MSI, o anti-clericalismo, o anti-governo, ma come momento positivo, come una delle affermazioni di una realtà nuova che prende forma. 22

Genova dunque, secondo Levi, è su questa strada, nuovi giovani che elaborano, condividono e praticano pensieri che furono dei giovani di ieri.

Ma chi sono i giovani che durante quei giorni di lotta, scesero nelle piazze, invasero strade e si batterono contro fascisti e clericali?

Sono, in gran parte, dei giovani, dei nuovi, degli sconosciuti, dei ventenni. Un ragazzo è stato ucciso a Palermo, in un lunghissimo pomeriggio che ha avuto il carattere della lotta di liberazione della rivolta popolare. Vent’anni aveva Salvatore Novembre, il bracciante disoccupato di Catania, fucilato per terra. Giovanissimi sono i morti di Reggio Emilia, colpiti al bersaglio di un atroce tiro a segno. Giovani dappertutto, in tutti i luoghi cruenti e incruenti di questo primo risveglio di coscienza nazionale, di questa improvvisa affermazione popolare dei valori dello Stato e della legge, contro un regime sentito come privo di coscienza dello Stato, incapace di

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rispetto della legge. Che cosa spinge questi giovani a considerare straniero quello che domina e governa, a formulare un apposizione intransigente, che non consente compromessi, che spinge all’azione, fino ad accettare, tranquillamente, la possibilità della morte? Mille motivi inversi convergono in un punto, ideali e pratici, individuali e sociali, che fanno comune oggi, per loro, l’affermazione e il rifiuto. Non si tratta più di disperazione anarchica, o di primi, semplici impulsi irrazionali ad agire, ma di un atto, anche se non sempre formulato con chiarezza, di coscienza e di libertà, di fronte a una situazione che spinge alla rivolta morale. 23

Tutta la sinistra democratico-istituzionale italiana concorda sul fatto che a Genova i giovani hanno avuto il ruolo del protagonista, ma dopo la domanda: chi sono questi giovani? Il secondo quesito che si pongono politici ed intellettuali è: da dove viene l’impulso che ha sprigionato queste energie, per qualcuno inattese e insospettate?

Di seguito riporto le testimonianze raccolte da Flavio Michelini nell’articolo: Genova e i fascisti di oggi:

Abbiamo parlato con molti giovani, alcuni appena usciti dal carcere, cercando di registrare fedelmente il pensiero. Non è vero, anzitutto, che la maggior parte di questi ragazzi abiti nella città vecchia, dove le condizioni di vita sono particolarmente dolorose. R.P. è un ragazzo di 17 anni, magro e bruno, con la testa rapata e una grossa bozza. <<Camminavo sul Ponte Monumentale quando la dimostrazione era già finita, e improvvisamente due camionette mi hanno preso in mezzo. Un agente mi ha afferrato per i capelli sbattendomi il manganello in testa con tutta la sua forza. Poi mi hanno portato all’ospedale a bordo di una 600 e subito dopo in questura. Qui un pugno mi ha riaperto la ferita alla testa, così hanno dovuto medicarmi di nuovo>>. <<Sono stati i poliziotti. Ci hanno picchiato dopo l’arresto, però solo uno di noi ha pianto perché era piccolo>>. La testimonianza delle violenze ricorre in quasi tutti i racconti. Ora questa fermezza sembra dimostrare che la partecipazione alla lotta non è nata da un impulso momentaneo; perché, se così fosse, l’arresto e le sofferenze avrebbero spento il primo entusiasmo. Un dato che deve essere oggetto di meditazione, moltissimi ragazzi non aderiscono a nessun partito. Noi ne abbiamo avvicinato una quindicina, e soltanto cinque sono risultati iscritti alla FGCI. Dove hanno tratto tanta forza ideale? Quando il 30 giugno un corteo di centomila persone attraversò via XX Settembre, i giovani erano quasi tutti in testa e cantavano gli inni partigiani. Lo facevano con una sorta di concentrazione interiore, come se avessero davvero vissuto la lotta di Liberazione e ne conservassero vivo il ricordo. Ecco alcune risposte date alla domanda: <<Perchè hai preso parte alla lotta e che cosa hai provato>>. U.R., ventidue anni: <<Ho sempre sentito dire tanto non c’è nulla da fare. Ora invece gli operai hanno il morale alto perché s’è visto che se ci si muove tutti si ottiene qualcosa>>. F.A., diciassette anni: <<ho avuto soltanto paura che all’ultimo momento i dirigenti ci dicessero di stare buoni, di sospendere la lotta. E infatti qualcuno l’ha detto, che quando la polizia ci ha attaccato, in corteo non eravamo rimasti neppure la terza parte; e questo è stato male>>. G.G. diciannove anni: <<Ho dovuto interrompere gli studi per mancanza di soldi, e ora sono senza lavoro e senza mestiere. Sono convinto che è colpa dei governi venuti dopo il ’48. Per conto mio la esistenza è stata tradita, e tutto rimane da fare. Se però si farà

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come a Genova, anche i governanti saranno costretti a rispettare gli impegni di una volta>>. R.M., vent’anni: <<Mio fratello era partigiano ed è morto. Io i fascisti di allora non li ricordo, ma mi basta conoscere quelli di oggi. Non ho provato paura, ma solo il desiderio che fossimo in un numero ancora più grande>>. 24

Anche Palmiro Togliatti sul settimanale “Vie Nuove”, con un articolo intitolato Fiducia nei giovani, elogia il protagonismo giovanile. Il Migliore non tardava a riconoscere nei fatti di Genova e in quel che ne era seguito un segnale importante circa una società che stava rapidamente e profondamente mutando. I giovani ne rappresentavano i rivelatori più sensibili:<< Quello di Genova non è un sintomo isolato o un episodio riconducibile ad una particolare situazione locale>> 25. Togliatti elenca una serie di manifestazioni contro la disoccupazione e per il diritto al lavoro che nei mesi precedenti hanno attraversato tutta la penisola, mostrando, consapevolmente, che la matrice di molte proteste giovanili di quel periodo era uno stato d’animo ribellistico non sempre e non tanto ideologicamente motivato ed orientato, ritenendolo però <<un momento della più generale insofferenza e della spinta a sinistra in atto nel paese>> 26.

Questa ribellione giovanile mostrava alcune caratteristiche di fondo che potevano e dovevano far ben sperare il movimento operaio e quel partito che da sempre ne rivendicava il ruolo di guida e di esclusivo riferimento. Togliatti individua le caratteristiche :

A. una volontà democratica, per la quale i giovani non solo respingono l’inganno neo-fascista e i tentativi addormentatori del paternalismo clericale, ma vi si oppongono con chiara coscienza, ricollegandosi agli ideali della resistenza; B. uno spirito unitario che parte dalla liquidazione o dall’abbandono

dell’anticomunismo e si esprime in manifestazioni, prese di posizione, iniziative che vedevano uniti i giovani socialdemocratici, socialisti, repubblicani, radicali, comunisti e spesso anche la presenza dei cattolici e delle loro organizzazioni;

C. una presenza combattiva nella vita politica e nella resistenza agli arbitri polizieschi e nelle lotte del lavoro, che si accompagna al crescente peso specifico dei giovani nelle attività produttive e al vasto moto di riscossa operaia;

D. una grande carica ideale che si esprime nel desiderio del dibattito, nella consapevole aspirazione di un profondo rinnovamento sociale;

E. la presenza attiva di studenti e di operai, che indica come la ripresa democratica interessi largamente i ceti intellettuali e l’avanguardia dei lavoratori. 27

E’ da notare il collegamento che il leader comunista tentava di stabilire fra il malcontento giovanile e le rivendicazioni del movimento operaio.

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Tale collegamento per Togliatti avrebbe dovuto sortire due tipi di effetti: in primo luogo, avrebbe fatto del Pci, l’interlocutore privilegiato di giovani, studenti o lavoratori in cerca di prima occupazione; in secondo luogo, avrebbe dovuto ricondurre una carica eversiva priva di controllo e direzione entro il più sicuro alveo della politica parlamentare del Pci, in modo da trasformarla in accresciuto peso elettorale.

All’orizzonte pareva dunque configurarsi un nuovo soggetto dalle forti potenzialità antagoniste, intimamente insoddisfatto dell’assetto sociale, politico e culturale vigente: i giovani.

Negli anni ’60 la figura dell’operaio giovane e dequalificato, rappresenta la maggioranza all’interno delle fabbriche. La consapevolezza della sua condizione, lo spinge a non rispettare le regole dello sciopero praticate fino a quel momento, provocando così la perplessità dei quadri comunisti, di fronte a pratiche a loro estranee.

Pochi giorni dopo, Mario Alicata, responsabile per il Pci della sezione cultura, con un pezzo sulla ”Unità” intitolato I giovani e la democrazia scrive:

contro che cosa si ribella la gioventù italiana? Si ribella contro uno stato che porta ancora incise in profondità le stigmate del fascismo; si ribella contro una società i cui comportamenti fondamentali sono ancora oggi quelli lasciati in eredità dalla Controriforma e da secoli di servaggio allo straniero; si ribella contro una scuola, che è ancora sostanzialmente, quella dei gesuiti, si ribella contro una tradizione culturale, dove non domina certo l’insegnamento del Machiavelli e di Leopardi, ma quello dell’Arcadia, di Gabriele d’Annunzio, e di Giovanni Gentile. Cioè si ribella contro qualche cosa che costituisce un bersaglio, dove si colpisce sempre giusto, anche se non si colpisce sempre secondo le regole e non sempre proprio al centro. 28

Emerge, ancora una volta, la preoccupazione per eccellenza del Pci, quella di non essere scavalcato a sinistra e quindi ragionare su come mettere la morsa a qualsiasi movimento di protesta potenzialmente antagonistico della Dc, allo scopo di cavalcarlo meglio, dirigendolo secondo i tempi e le modalità della tattica partitica. 29

Non rimane indifferente al dibattito la Fgci, che nell’estate del 1960 produce un opuscolo dove inserisce i due articoli sopracitati. Tale lavoro, dal titolo particolare La nuova Resistenza al congresso della Fgci, offre l’opportunità di cogliere quanto si muoveva all’interno del mondo giovanile comunista all’indomani del 1956 e alla vigilia del centro-sinistra.

Lo scritto è corredato di numerose fotografie che esaltano, quasi

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mitizzano, la nuova gioventù italiana che ha riscoperto e fatto propri, attualizzandoli, i valori e gli ideali della Resistenza.

Del fermento giovanile che stava attraversando tutta la penisola, il Pci prendeva coscienza all’indomani del luglio ’60. In particolare, la sua federazione giovanile ne venne scossa dall’interno, come suggeriscono alcuni interventi apparsi nell’organo della Fgci, “Nuova Generazione”. Da una loro lettura si può facilmente notare come da parte della “base” si interpretassero i moti di Genova e delle altre città in chiave “rivoluzionaria”, si declinasse cioè con toni più radicali il discorso ufficiale dei vertici della Fgci, ma anche del Pci, entrambi centrati sulla necessità/ opportunità storica di realizzare il “rinnovamento democratico e la trasformazione socialista dell’Italia”. 30

Fra gli interventi pubblicati, compare un commento di Augusto Illuminati, segretario della Fgci di Roma, che mostra una profonda avversione al centro-sinistra, giudicato esperienza già morta ancora prima della sua nascita:

Oggi le masse, e i giovani in modo particolare, hanno capito cos’è il potere borghese. Hanno imparato come lo si può incrinare e modificare, hanno imparato che l’obiettivo è al di là del centrosinistra, che non ci si fermerà ad esso, ma che per risolvere certi problemi in modo stabile e non illusorio occorre un governo democratico delle classi lavoratrici. E’ inevitabile che per una soluzione riformista si passi. Ma allora le masse sapranno benissimo andare avanti, lottare sul nuovo terreno, evitare le illusioni e i discorsi demagogici. La fine del mito del centro-sinistra è forse l’insegnamento più importante a lunga scadenza di queste “gloriose giornate di luglio. 31

L’intervento di Illuminati segnala un aspetto che accomunerà gran parte della dissidenza marxista e che riempirà le pagine delle riviste che nasceranno a sinistra del Pci dopo il 1960.

Crescenti spaccature dentro il Pci, come dentro il Psi, saranno provocate nel corso degli anni ’60 proprio in merito alla pregiudiziale anti-riformista, e, sul piano strettamente politico, a quel centro-sinistra che andava sempre più prefigurandosi come possibile premessa per un ulteriore futuro allargamento a sinistra della formula di governo.

Luciano Cafagna descrive bene la posizione ambivalente del partito guidato dal Migliore:

Il Pci è stato a lungo, e senz’altro fu in questo periodo, un partito che ha giocato pressoché interamente dentro il sistema, e quindi in termini che avrebbero dovuto tradurre in potere, la forza di un partito anti-sistema, senza però trasformarlo mai in una opposizione costituzionale di tipo classico. 32

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Qui si spiega anche la presa di distanza da parte dei vertici comunisti nei confronti di Piazza Statuto del luglio 1962. Non scaturiti né controllati direttamente dalle organizzazioni del partito ma da un proletariato spesso non inquadrato a livello sindacale oppure agitato da mitologie operaiste malviste dentro il Pci, quei disordini segnalarono la presenza antisistemica che eccedeva la dose tradizionalmente gestita dal Pci. Il Partito comunista italiano, secondo Cafagna, mantenne sempre il ruolo di unico regolatore autorizzato del flusso della protesta anti-sistema. Metodi democratici, vie democratiche, istituzioni democratiche, queste sono le parole ricorrenti che ci vengono fornite da intellettuali e quadri di partito. Omettere o far finta di nulla però non è sufficiente, è inequivocabile che attorno ai fatti di luglio, comincia a delinearsi la presenza autonoma e attiva di una generazione operaia e proletaria, della quale nessuno sembrava avere avuto sentore. A sinistra non saranno in molti a comprendere che a Genova, come poi nel resto d’Italia, lo scontro nato sull’onda della lotta al fascismo in concreto si caratterizza come antagonismo nei confronti dello Stato e delle classi dominanti. Al contrario la borghesia capisce in fretta, inaugurando la stagione dei governi di centro-sinistra dove un antifascismo di stretta marca istituzionale, tenderà ad emanciparlo sempre più dai suoi connotati di classe. All’interno di tale scenario, gli eventi del luglio 1960, attraverso una sorta di revisionismo storico ante litteram, saranno consegnati alla storia come la battaglia in difesa delle istituzioni democratiche mentre, sull’antagonismo di classe che aveva animato i moti, calerà l’oblio.

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