Capitolo Primo
I modelli rimediali
Sommario: I. Gli esordi della disciplina in Italia. – II. L’evoluzione del diritto
industriale e l’inerzia italiana. – III. Il Trade Related Intellectual Property rights (TRIPs) e la riforma italiana. – IV. Il nuovo sistema rimediale introdotto dall’accordo TRIPs e la dottrina italiana. – V. L’art. 134 C.P.I. – VI. Le successive riforme. – VII. La direttiva Enforcement. – VIII. L’art. 125 C.P.I. – IX. Una visione comparatistica. – X. La legislazione statunitense. – XI. La tutela dei marchi. – XII. Il risarcimento e le sue componenti. – XIII. I danni subiti. – XIV. Il
disgorgement of defendant’s profits. – XV. La sentenza Pebble Beach. – XVI. I costi
dell’azione e le spese legali. – XVII. Gli “adjustments” del giudice. – XVIII. I
punitive damages. – XIX. Gli statutory damages. – XX. La disciplina statunitense
dei brevetti. – XXI. Il Patent Act del 1952. – XXII. I lost profits e la entire market
value rule. – XXIII. La reasonable royalty. – XXIV. I punitive damages. – XXV. La Patentgesetz e le transazioni. – XXVI. L’esperto. – XXVII. La royalty virtuale.
– XXVIII. La Markengesetz. – XXIX. La genesi delle prime leggi cinesi. – XXX. Le modifiche. – XXXI. Il sistema dualistico. – XXXII. I rimedi risarcitori nella Patent
Law e nella Trademark Law. – XXXIII. I problemi. – XXXIV. La riforma del 2013
della Trademark Law. – XXXV. I punitive damages. – XXXVI. La draft fourth
amendment della Patent Law.
I. Gli esordi della disciplina in Italia. Il sistema di
risarcimento del danno per la contraffazione di marchi e brevetti è istituto che si è evoluto nel tempo. Il primo provvedimento normativo che ha trattato l’argomento si rinviene in epoca preunitaria, con la legge piemontese 30 ottobre 1859, n. 3731 sulle privative industriali, esteso poi all’Italia unita. In questo testo normativo era previsto un risarcimento del danno modellato sulle forme del diritto civile, tranne in caso di contraffazione incolpevole. In questo frangente, infatti, il soggetto possessore degli oggetti costituenti contraffazione avrebbe soltanto dovuto subire la “perdita degli oggetti suddetti in beneficio della parte
danneggiata” (art. 66 l. cit.). Nella scelta legislativa di parametrare il risarcimento del danno per violazione delle privative industriali su quello di diritto generale si può scorgere un atteggiamento proprio di tutto il diritto industriale nascente. Tale branca del diritto, infatti, si afferma come risposta ad un’evoluzione storica che aveva contribuito all’emersione di nuovi situazioni economiche, necessitanti di una loro specifica disciplina. La materia industriale risponde a questa nuova esigenza attingendo agli istituti conosciuti e consolidati, cosicché il diritto industriale nascente, sul finire quindi del XIX secolo, si caratterizzava per una forte interdisciplinarietà.
II. L’evoluzione del diritto industriale e l’inerzia italiana.
Con il proliferare delle situazioni che abbisognavano di una disciplina ad hoc, tuttavia, il diritto industriale è andato specializzandosi ed acquistando una propria autonomia. A questa evoluzione ha poi contribuito Josef Kohler, il quale cercò di dare una base concettuale al diritto di autore e delle invenzioni, creando la categoria del “bene immateriale”. Di questo rinvigorimento della materia dànno credito, inoltre, la Convenzione di Unione di Parigi per la Protezione della Proprietà industriale del 20 marzo 1883 sul piano internazionale e, in Italia, un po’ più tardi, la riforma emanata in periodo fascista, che portò all’elaborazione, tra gli altri, di due distinti testi normativi, che si occupavano specificatamente uno dei marchi (R.D. 21 giugno 1942, n. 929, d’ora innanzi l. m.) e l’altro delle invenzioni (R.D. 29 giugno 1939, n. 1127, d’ora innanzi l. inv.). Nonostante l’attenzione sempre più evidente alla materia del diritto industriale, ancora il particolare aspetto del risarcimento del danno conseguente a violazione di marchio o di brevetto per invenzione non sembrava essere particolarmente toccato, in quanto in entrambe le leggi si faceva riferimento ad
esso solo per statuire che “La sentenza che provvede sul risarcimento dei danni può farne, ad istanza di parte, la liquidazione in una somma globale stabilita in base agli atti della causa e alle presunzioni che ne derivano” (art. 86, I c. l. inv. e art. 66, II c. l. m.). A questo breve accenno al sistema di liquidazione del danno si contrapponeva un articolato e composito sistema di sanzioni accessorie, che servissero da una parte «allo scopo di scoraggiare e prevenire il compimento di atti che violini i diritti di privativa; dall’altro lato [a consentire] un’efficace reazione contro tali atti tale da tutelare, anche dopo la violazione, il valore economico dei diritti di proprietà violati»1. Seppure questo fosse, con ogni probabilità, l’intento del legislatore, la combinazione di sanzioni accessorie, tra cui spiccava per importanza l’inibitoria, e di un criterio di liquidazione del danno così vago non portò i risultati sperati. Fin da subito infatti la giurisprudenza si mostrò restìa a fare uso dell’ampio potere discrezionale che le norme le concedevano per quanto concerne i parametri di monetizzazione del danno, atteggiamento peraltro acutizzato dalla riluttanza dei giudici a consentire all’attore in contraffazione l’acquisizione dei libri contabili dell’altra parte2. Questi rimedi risultarono ancora più inadatti con l’evolversi della materia della proprietà industriale, un’evoluzione testimoniata dagli ingenti investimenti che vengono ormai da tempo riversati in questo settore, soprattutto per quanto riguarda la ricerca ed il marketing pubblicitario, fattori, questi ultimi, che non possono essere trascurati nel calcolo del risarcimento dovuto al titolare della privativa industriale. La profonda revisione della legislazione nazionale in materia di
1 M. VANZETTI, Contributo allo studio delle misure correttive e delle sanzioni civili nel diritto industriale: i profili processuali dell’art. 124 C.P.I., in Riv. Dir. Ind., I, 2010, pag. 26 e ss., spec. pag. 28.
2 P. A. FRASSI, I danni patrimoniali. Dal lucro cessante al danno emergente, in AIDA, 2000, IX, pag. 93 e ss.
proprietà industriale del 1979, tuttavia, non si occupò dell’istituto oggetto di analisi e, soprattutto da parte di operatori stranieri, questo atteggiamento suscitò aspre critiche. La debolezza della tutela di marchi e brevetti, infatti, scoraggiava da una parte gli investimenti, soprattutto esteri, ma anche l’impegno domestico alla ricerca ed all’innovazione. A questo si aggiunse lo sdegno per il progressivo affastellarsi d’interventi normativi settoriali e frammentari, che spesso creavano duplicazioni o causavano incoerenze nella disciplina industrialistica.
III. Il Trade Related Intellectual Property rights (TRIPs) e la riforma italiana. Lo stimolo al cambiamento arrivò il 15 aprile
1994, anno in cui a Marrakech venne firmato l’accordo internazionale TRIPs (WTO Agreement on Trade Related Intellectual Property rights) da parte di numerosi Stati, soprattutto del Terzo Mondo. Questo accordo infatti si pose come modello per il riordino della legislazione che si era accumulata dal periodo fascista fino agli anni ’90 ed inoltre introdusse una rilevante novità in materia di risarcimento del danno da contraffazione di marchi e brevetti, novità che diede impulso ad un vivace dibattito dottrinale sulla materia, aprendo scenari inediti al sistema di risarcimento del danno italiano, il quale è da sempre basato su un rigido principio compensatorio.
Si arriva così alla L. 12 dicembre 2002, n. 273, contenente “Misure per favorire l’iniziativa privata e la concorrenza”, che al Capo II reca “Disposizioni in materia di proprietà industriale”, dedicando al tema gli artt. da 15 a 18. Il primo di questi articoli, in particolare, concedeva al Governo 18 mesi per l’attuazione della delega, indicando una serie di direttive che esso era tenuto a seguire nella stesura del decreto delegato.
Per quanto qui interessa è opportuno richiamare solo alcuni dei criteri e principi direttivi, quelli che richiedevano al Governo che, nella stesura di “uno o più decreti legislativi”, mirasse:
a) [alla] ripartizione della materia per settori omogenei e [al] coordinamento, formale e sostanziale, delle disposizioni vigenti per garantire coerenza giuridica, logica e sistematica;
b) [all’] adeguamento della normativa alla disciplina internazionale e comunitaria;
f) [all’] introduzione di appositi strumenti di semplificazione e riduzione degli adempimenti amministrativi.
All’uopo fu istituita una Commissione Ministeriale, composta da esperti in materia, che indirizzasse il Governo alla stesura di un testo legislativo che recepisse i suggerimenti e le istanze della dottrina prevalente.
Per i punti a) ed f), la Commissione Ministeriale, come emerge dalla Relazione Illustrativa del 22 luglio 2003 e come era stato suggerito da autorevole dottrina 3 , prese ad ispirazione l’articolazione dell’accordo TRIPs (WTO Agreement on Trade-‐ Related Aspect of Intellectual Property Rights), in quanto, si rilevava, esso è strutturato in parti nelle quali «la materia trova collocazione “per settori omogenei” come richiede la legge di delega, e che sono disposte in modo da realizzare un “coordinamento formale e sostanziale”, come chiede la legge di delega, il tutto “per garantire coerenza giuridica, logica e sistematica”»4. Il disegno
3 G. FLORIDIA, Il riordino della proprietà industriale, in Dir. Ind., I, 2003, pag. 22 e ss.
4 Fortunata formulazione elaborata da Giorgio FLORIDA, Il riordino della proprietà industriale, in Il diritto industriale, I, 2003, pag. 22 e ss. e ricalcata nella Relazione illustrativa del testo del “codice della proprietà industriale” redatto dalla Commissione ministeriale all’uopo costituita e trasmesso in data 22.7.2003 all’Ufficio Legislativo del Ministero delle Attività produttive al fine di dare corso alla delega concessa al Governo con la Legge 12.12.2002, n.
immaginato dalla Commissione Ministeriale era quindi un codice composto da 236 articoli, divisi in sette libri (chiamati così per rimanere fedeli alla dicitura del Codice Civile), a loro volta divisi in più sezioni.
Dei sette libri, i primi quattro seguivano fedelmente la struttura dell’accordo internazionale, mentre gli ultimi tre raccoglievano le numerose leggi speciali che non hanno trovato il loro spazio nei precedenti libri.
Più precisamente nel primo libro venivano presentati le disposizioni generali ed i principi fondamentali della materia, comuni a tutti i diritti di proprietà industriale, in maniera tale da evitare le ripetizioni presenti nel nostro sistema, quando ogni singolo diritto veniva trattato in un’apposita legge speciale; il secondo libro riportava invece le “Norme relative all’esistenza, all’ambito e all’esercizio dei diritti di proprietà industriali”, specificando, in apposite sezioni, i diversi presupposti di ogni singolo diritto di proprietà industriale. Il terzo libro era dedicato alla “Tutela giurisdizionale dei diritti di proprietà industriale”, anche in questo caso uniformando e, tra l’altro, semplificando le discipline anteriormente vigenti, mentre il quarto libro sviluppava le scarne disposizioni dell’accordo TRIPs relativamente all’acquisto ed al mantenimento dei diritti di proprietà industriale ed alle relative procedure. La convenzione internazionale, infatti, aveva inteso lasciare, per questo aspetto, la più ampia discrezionalità agli Stati, limitandosi a fissare, quindi, una base indefettibile da cui essi sarebbero dovuti partire.
Questa struttura è rimasta sostanzialmente invariata fino ai nostri giorni, sebbene vi siano state, in fase di elaborazione del testo definitivo, modifiche di singole disposizioni e continui 273 sul “riassetto delle disposizioni in materia di proprietà industriale”.
aggiornamenti per dare spazio a nuovi fenomeni che meritano la tutela accordata dal codice.
IV. Il nuovo sistema rimediale introdotto dall’accordo TRIPs e la dottrina italiana. Quel che più qui interessa è il libro
terzo, che, seguendo la direttiva b) della legge di delega, recepì nel nostro ordinamento le novità in tema di risarcimento del danno a cui l’art. 45 dell’accordo TRIPs aveva dato origine e stimolo. La disposizione da ultimo richiamata, recante la rubrica “Damages”, per contrapporla alla successiva che prevede le sanzioni accessorie, così recitava:
1. The judicial authorities shall have the authority to order the infringer to pay the right holder damages adequate to compensate for the injury the right holder has suffered because of an infringement of that person’s intellectual property right by an infringer who knowingly, or with reasonable grounds to know, engaged in infringing activity.
2. The judicial authorities shall also have the authority to order the infringer to pay the right holder expenses, which may include appropriate attorney’s fees. In appropriate cases, Members may authorize the judicial authorities to order recovery of profits and/or payment of pre-‐established damages even where the infringer did not knowingly, or with reasonable grounds to know, engage in infringing activity.
Era, questa, un’importante innovazione con riguardo al nostro sistema rimediale perché introduceva la reversione degli utili conseguiti in ragione della contraffazione come reazione alla violazione della privativa. La dottrina che confluiva nella Commissione Ministeriale mirò a valorizzare questo aspetto in una
maniera singolare, cioè, com’è stato lucidamente osservato5, cercando di assorbire la novità senza però alterare i principi fondamentali del nostro sistema rimediale, garantendo quindi, allo stesso tempo, continuità con il passato. In prima approssimazione e rinviandosi al prosieguo per un’analisi più accurata di tale filone interpretativo, si può dire che il merito di questa originale soluzione si deve ad un’illuminata dottrina6 che, perlomeno in materia industriale, per prima sottolineò come “molto spesso [omissis] a rilevare non è tanto il danno subito dal titolare del diritto, quanto il vantaggio economico conseguito da chi, arbitrariamente, illecitamente violando il diritto altrui ha realizzato un esito di gran lunga più favorevole al proprio patrimonio di quanto non sia il detrimento subito dal titolare del diritto violato”, situazione questa aggravata dal fatto che spesso il titolare del diritto non è in grado di dimostrare di aver subito perdite e mancati guadagni a causa della contraffazione che è stata realizzata.
V. L’art. 134 C.P.I. Da questa riflessione nacque l’art. 134
C.p.i., che al primo comma omaggiava la tradizione giuridica italiana con un rinvio alle disposizioni del codice civile per la liquidazione del danno e lasciava comunque quella discrezionalità che al giudice era accordata anche dalle leggi previgenti in materia di marchi e brevetti (ed in ciò si nota la linea di continuità), stabilendo che “il risarcimento dovuto dal danneggiato è liquidato secondo le disposizioni degli art. 1223, 1226, 1227 c.c.. Il lucro cessante è valutato dal giudice con equo apprezzamento delle
5 P. PARDOLESI, La retroversione degli utili nel nuovo Codice dei diritti di proprietà industriale, in Dir. Ind., I, 2005, pag. 37 e ss. 6 C. CASTRONOVO, La violazione della proprietà intellettuale come lesione del potere di disposizione. Dal danno all’arricchimento, in Dir. Ind., I, 2003, pag. 7 e ss.
circostanze”; al secondo comma, invece, si introduceva la reversione dei profitti, a cui faceva riferimento l’art. 45 TRIPs; infatti si statuiva che: “il titolare del diritto può altresì chiedere che gli vengano attribuiti gli utili realizzati dal contraffattore”. Disposizione che, come esplicitato, riprendeva quella internazionale, ma con una differenza non da poco, in quanto veniva trascurata la necessità che questo rimedio potesse essere richiesto anche nei confronti di chi aveva violato il diritto di proprietà industriale senza colpa (“even where the infringer did not knowingly, or with reasonable grounds to know, angage in infringing activity”). Questa omissione, tuttavia, ben si spiegava alla luce del fatto che la norma italiana si basava su una teoria dottrinale che riteneva opportuno, allo scopo di risolvere i problemi sopra descritti, prevedere un cumulo integrativo tra risarcimento del danno (come previsto al primo comma) e arricchimento senza causa (secondo comma). Istituto, quest’ultimo, che prescinde dall’accertamento del dolo e della colpa per concentrarsi sulla rilevanza oggettiva della presenza di un danno conseguente alla lesione di un diritto soggettivo. Inoltre da questa disposizione si può forse vedere in controluce la volontà della dottrina di reagire in maniera decisa alla paralisi della giurisprudenza e quindi invertire la tendenza ormai consolidatasi di risarcimenti del danno irrisori o addirittura nulli; circostanza, questa, che aveva portato ad un rallentamento inevitabile della concorrenzialità delle industrie italiane anche in ambiti dove queste sono tradizionalmente più forti (come per esempio nell’abbigliamento, nella produzione di mobili, nel commercio di prodotti alimentari, etc.) e al quale l’ordinamento cercava di porre rimedio. La legge-‐delega del 2002 associando i due profili del diritto della proprietà industriale e dello sviluppo, della concorrenza del mercato (si ricorda, infatti, che la legge delega
receva “Misure per favorire l’iniziativa privata e la concorrenza”), dava conto della relazione funzionale che sussiste tra la tutela della proprietà industriale e la competitività delle imprese; e proprio questo duplice aspetto è quello che, a detta dei suoi componenti, ha ispirato i lavori della Commissione Ministeriale.
VI. Le successive riforme. La vicenda, sebbene finalmente il
profilo del risarcimento del danno avesse trovato un’inquadratura legislativa e teorica piuttosto chiara e stabile, non si concluse qui. Già nel dicembre 2003, infatti, la prima bozza per la stesura del Codice venne modificata con una seconda, in cui l’art. 134 venne rinumerato ed emendato. Esso sfociò nell’art. 125 C.p.i., che mantenne sostanzialmente inalterati il primo ed il secondo comma della precedente disposizione (con una piccola modifica terminologica nel secondo comma, in quanto all’espressione “gli utili realizzati dal contraffattore” si è sostituito, tra l’altro stabilmente, la dicitura “gli utili realizzati in violazione del diritto”), mentre fu introdotto un terzo comma in tema del domain name, subito espunto e che comunque non è stato particolarmente rilevante per l’evoluzione della disciplina in questione.
Di maggiore peso fu la modifica registratasi a seguito dell’esame del progetto di riforma da parte del Consiglio dei Ministri, il quale elaborò una terza bozza nella quale l’art. 125 si presentava così: «Il risarcimento dovuto al danneggiato è liquidato secondo le disposizioni degli art. 1223, 1226 e 1227 c.c.. Il lucro cessante è valutato dal giudice anche tenuto conto degli utili realizzati in violazione del diritto». All’apparenza questo sembrerebbe un mero accorpamento dei primi due commi dell’art. 134, così come si ritrovava nella prima bozza della Commissione ministeriale, ma in realtà venne stravolto l’impianto concettuale alla base di esso. Si perse infatti totalmente quell’apertura dottrinale innanzi
esaminata, che era riuscita a valorizzare il profilo dell’arricchimento illecito del danneggiante o comunque di una prospettiva risarcitoria non meramente compensativa, ed anche l’oggettività dello strumento del recupero dei profitti, adesso inserito nell’ottica della responsabilità extracontrattuale ed in particolare nel calcolo, meno preciso, del lucro cessante.
VII. La direttiva Enforcement. Sebbene questa innovazione sia
stata vista da gran parte degli studiosi come un passo indietro rispetto al previgente articolo, non si può non prendere atto del fatto che tale impostazione trova conferma nella Direttiva 2004/48/CE, che di lì a poco, emanò l’Unione Europea, per regolare e “rinforzare” la materia dei diritti di proprietà industriale. Con questa il legislatore comunitario per la prima volta si spinse a regolare la materia della tutela giurisdizionale delle privative industriali, al fine probabilmente di creare uno “standard minimo di tutela alla vigilia dell’ingresso nell’Unione di dieci nuovi paesi, alcuni dei quali non proprio sensibilissimi alle ragioni della proprietà intellettuale” 7 , ma anche, come si deduce dal considerando 3 della direttiva, “per il successo del mercato interno”. Anche a livello europeo si era quindi colto il nesso tra un diritto di proprietà industriale ed intellettuale efficace e la competitività del mercato.
Dei criteri di risarcimento del danno per la lesione di diritti di proprietà intellettuale si tratta all’art. 13, il quale, così come si legge nella traduzione italiana, dispone che:
«Gli Stati membri assicurano che, su richiesta della parte lesa, le competenti autorità giudiziarie ordinino all'autore della violazione, implicato consapevolmente o con ragionevoli motivi per esserne
7 L. NIVARRA, L’enforcement dei diritti di proprietà intellettuale dopo la direttiva 2004/48/CE, in Riv. Dir. Ind., 2005, I, pag. 33 e ss.
consapevole in un'attività di violazione di risarcire al titolare del diritto danni adeguati al pregiudizio effettivo da questo subito a causa della violazione.
Allorché l'autorità giudiziaria fissa i danni:
a) tiene conto di tutti gli aspetti pertinenti, quali le conseguenze economiche negative, compreso il mancato guadagno subito dalla parte lesa, i benefici realizzati illegalmente dall'autore della violazione, e, nei casi appropriati, elementi diversi da quelli economici, come il danno morale arrecato al titolare del diritto dalla violazione;
b) oppure in alternativa alla lettera a) può fissare, in casi appropriati, una somma forfettaria in base ad elementi quali, per lo meno, l'importo dei diritti che avrebbero dovuto essere riconosciuti qualora l'autore della violazione avesse richiesto l'autorizzazione per l'uso del diritto di proprietà intellettuale in questione.
2. Nei casi in cui l'autore della violazione è stato implicato in un'attività di violazione senza saperlo o senza avere motivi ragionevoli per saperlo, gli Stati membri possono prevedere la possibilità che l'autorità giudiziaria disponga il recupero dei profitti o il pagamento di danni che possono essere predeterminati».
Come si può notare nel primo comma si rinviene la stessa logica del legislatore italiano di attrarre la considerazione dei benefici realizzati illegittimamente dall’autore della contraffazione nella sfera dell’illecito aquiliano, aggiungendo inoltre la facoltà «nei casi appropriati» di valutare anche elementi non economici, quale il danno morale. Il secondo comma, come si legge nel considerando 26 della direttiva stessa, è preordinato alla risoluzione di casi in cui “sia difficile determinare l’importo dell’effettivo danno subito”, per cui il legislatore europeo ha inteso ancorarsi a parametri oggettivi («l’importo dei diritti che avrebbero dovuto essere riconosciuti qualora l’autore della violazione avesse richiesto
l’autorizzazione per l’uso del diritto di proprietà intellettuale in questione») per indirizzare la giurisprudenza nella determinazione della somma forfettaria da accordare come liquidazione del danno. L’ultimo comma, poi, in maniera riprende la convenzione internazionale di Marrakech, quando stabilisce che l’autorità giudiziaria disponga il recupero dei profitti o dei danni che possono essere predeterminati nel caso di mancanza di colpa dell’autore della violazione.
Come si può agevolmente notare l’istituto della reversione dei frutti è, da una parte, elemento come altri da prendere in considerazione per la liquidazione del danno da illecito extracontrattuale in caso di dolo e colpa e, dall’altro, rimedio autonomo quando il fatto illecito sia stato compiuto senza colpa.
VIII. L’art. 125 C.P.I.. Il contraccolpo si fa, ovviamente sentire
anche nel nostro ordinamento, prima con un’indicazione della Camera dei deputati, in occasione dell’acquisizione dei pareri obbligatori, e che ha portato all’emanazione della prima versione ufficiale dell’art. 125 (d.lgs., 10 febbraio 2005, n. 30) e poi con un formale recepimento della direttiva con il d.lgs. 16 marzo 2006, n. 140, che mise fine a questa “odissea legislativa”8.
Nella stesura del d.lgs. 10 febbraio 2005, n. 30, al primo comma dell’art. 125 era semplicemente stato aggiunto che, in sede di calcolo del lucro cessante, era necessario, oltre alla valutazione degli utili realizzati in violazione del diritto come già era stato stabilito nella bozza precedente, una considerazione «dei compensi che l’autore della violazione avrebbe dovuto pagare qualora avesse ottenuta licenza dal titolare del diritto». A questa disposizione si
8 Formula utilizzata da P.PARDOLESI, La retroversione degli utili nel nuovo Codice dei diritti di proprietà industriale, in Dir. Ind., 2005, I, pag. 37 e ss.
aggiunse un secondo comma, che riprese l’impostazione degli albori, quando prevedeva che: «La sentenza che provvede sul risarcimento dei danni può farne, ad istanza di parte, la liquidazione in una somma globale in base agli atti della causa e alle presunzioni che ne derivano». Una soluzione, questa, che sollevò non pochi dubbi, poiché il legislatore, in questa maniera, aveva definitivamente levato ogni autonomia funzionale alla reversione degli utili, che invece aveva un’evidente centralità nell’accordo TRIPs e che nella direttiva era sì parametro per il calcolo del lucro cessante, ma anche misura specifica per la violazione del diritto di proprietà industriale in mancanza di colpa. La Commissione ministeriale, nella Relazione finale, non mancò di mostrare il suo disappunto sulla questione e la delusione per la perdita dell’occasione di utilizzare l’arricchimento senza causa per rimediare all’inefficienza del sistema giudiziario e legislativo italiano.
Un anno dopo, comunque, si giunse alla versione attuale della norma, in sede di recepimento della Direttiva Enforcement.
L’art. 125 C.p.i., rubricato “Risarcimento del danno e restituzione dei profitti dell’autore della violazione” dispone che:
«1. Il risarcimento dovuto al danneggiato è liquidato secondo le disposizioni degli articoli 1223, 1226 e 1227 del codice civile, tenuto conto di tutti gli aspetti pertinenti, quali le conseguenze economiche negative, compreso il mancato guadagno, del titolare del diritto leso, i benefici realizzati dall'autore della violazione e, nei casi appropriati, elementi diversi da quelli economici, come il danno morale arrecato al titolare del diritto dalla violazione.
2. La sentenza che provvede sul risarcimento dei danni può farne la liquidazione in una somma globale stabilita in base agli atti della causa e alle presunzioni che ne derivano. In questo caso il lucro cessante è comunque determinato in un importo non inferiore a
quello dei canoni che l'autore della violazione avrebbe dovuto pagare, qualora avesse ottenuto una licenza dal titolare del diritto leso.
3. In ogni caso il titolare del diritto leso può chiedere la restituzione degli utili realizzati dall'autore della violazione, in alternativa al risarcimento del lucro cessante o nella misura in cui essi eccedono tale risarcimento».
Si ritrova, in questa formulazione, il rimedio della restituzione dei profitti illecitamente ottenuti dal contraffattore sia come criterio, insieme ad altri, da prendere in considerazione per la liquidazione del danno ex art. 1223, 1226 e 1227 c.c., sia come misura alternativa, che, però, può essere richiesta “in ogni caso”, al risarcimento del danno, in particolare al lucro cessante, anche quando quest’ultimo non sia sufficiente. Questa impostazione sembra ricalcare dunque la direttiva comunitaria, ma con un’importante, non trascurabile differenza: la mancanza della considerazione dell’elemento soggettivo. Nella direttiva Enforcement, infatti, la retroversione degli utili appare come rimedio utilizzabile nel caso in cui la contraffazione sia stata commessa inconsapevolmente, mentre nel caso in cui ci sia almeno una ragionevole possibilità che l’autore della violazione avesse cognizione della potenzialità lesiva della sua azione i profitti di questi sarebbero dovuti essere solo un elemento da prendere in considerazione dal giudice per un risarcimento adeguato da accordare alla vittima.
Tale discostamento dalla direttiva in questione, come accennato, non è senza rilievo, soprattutto in considerazione del fatto che invece negli altri Paesi europei il testo della norma è stato ripreso con estrema fedeltà. Per questo motivo, allora, la dottrina ha cercato di risolvere il difficile rompicapo creato da un singolare recepimento della legislazione comunitaria e si è soprattutto
occupata di come conciliare questa norma e, maxime, il nuovo istituto della riversione dei profitti nel nostro sistema risarcitorio.
IX. Una visione comparatistica. Questo, dunque, il quadro
italiano e a livello di legislazione italian; andando però a dare uno sguardo oltre tali confini, di particolare interesse sono la legislazione statunitense, quella tedesca ed infine quella cinese, di recente aggiornata.
Nella presente trattazione saranno dapprima analizzate le discipline dei due stati occidentali, in quanto questi presentano un sistema che riflette una situazione economica, tendenzialmente analoga, che li caratterizza come Paesi economicamente sviluppati. Di seguito la Cina, che per la sua storia politica e per la sua condizione di Paese in via di sviluppo è alle prese con l’introduzione di una disciplina sui marchi e brevetti che le permetta uno sviluppo economico in linea con gli altri ordinamenti.
X. La legislazione statunitense. Passiamo ora ad analizzare
gli Stati Uniti. Al contrario della Cina, gli Stati Uniti si sono muniti di un moderno sistema di protezione di marchi e brevetti subito dopo la seconda guerra mondiale, con il Lanham Act del 5 luglio del 1946, seguito dal Patent Act del 1952, ora inseriti, con le modifiche che sono intervenute negli anni, nell’U.S. Code, rispettivamente ai Titoli 15 e 35. Il sistema è stato riformato, in parte, come è tipico di un sistema di common law, dalla giurisprudenza, la quale ha affinato i metodi di protezione dei titolari di marchi e brevetti, ed in altra parte da alcune leggi, la Trademark Counterfeiting Act del 1984, che ha implementato i rimedi in caso di contraffazione di marchi aggiungendo una tutela penale in caso di “counterfeit mark”, l’Anticounterfeiting Consumer
Protection del 1996, che ha implementato sia la tutela civile che quella penale in materia di marchi data la loro non ottimale efficacia e la Leahy-‐Smith America Invents Act (AIA), con cui, tra le altre cose, è stato abbandonato il principio del “first to invent” per approdare a quello del “first to file”.
XI. La tutela dei marchi. Il Lanham Act fu emanato per
mettere ordine alla serie confusa di leggi che regolavano la materia della proprietà intellettuale e per apprestare una disciplina più efficace9. Questa legge, secondo molti autori, ha mostrato nel tempo la sua capacità di adattamento e la sua vis espansiva ed infatti, solo in parte modificata, è riuscita a resistere ai cambiamenti politici ed economici che si sono susseguiti nel tempo10.
La materia che qui interessa si trova nella Section 34-‐35 del Lanham Act, confluito, come sopra accennato, nel Titolo 15 dello U.S. Code. Qui si trova una gamma piuttosto vasta di rimedi che possono essere concessi dal giudice in caso di contraffazione di marchio. Misura cardine dell’ordinamento d’oltreoceano è senza dubbio l’injuction, la nostra inibitoria, accordata secondo i principi di equity. Questo significa che viene lasciata alle corti un margine di discrezionalità piuttosto ampio nel delineare il rimedio inibitorio più adatto alle circostanze. Questo ha permesso loro di affiancare ai rimedi tradizionali altre figure contigue che raggiungessero il risultato di far cessare l’utilizzo del marchio
9 Per una ricostruzione della situazione antecendente all’emanazione del Lanham Act E. HORWITZ e B. LEVI, Fifty Years of the Lanham Act: A Retrospective of Section 43(a), in Fordham Intellectual Property, Media and Entertainment Law Journal, 1996, Vol. 7, Issue 1, Article 6, pag. 59 e ss.
10 Joseph D. Garon, The Lanham Act: a living thing, Fordham Intellectual Property, Media and Entertainment Law Journal, 1996, Vol. 7, Issue 1, Article 5, pagg. 55 ss.
qualora questo fosse idoneo a creare confusione.
XII. Il risarcimento e le sue componenti. Non mancano però
veri e propri rimedi risarcitori ed anzi è prevista una articolato sistema rimediale, dato che “the plaintiff shall be entitled, subject to the provisions of sections 1111 and 1114 and subject to the principles of equity, to recover (1) defendant’s profits, (2) any damages sustained by the plaintiff, and (3) the costs of the action.”. Il titolare di un marchio che lamenti una violazione del proprio diritto di esclusiva ha quindi diritto ai profitti conseguiti dal presunto contraffattore, ai danni sofferti a causa della contraffazione ed ai costi dell’azione. Il risarcimento così calcolato può essere incrementato dal giudice, tenendo conto delle circostanze e comunque con un limite di tre volte il danno. Infine, in “exceptional cases” egli avrà anche diritto al ristoro delle spese legali.
A queste misure di base si aggiunge la possibilità per la corte, qualora si tratti di una contraffazione in mala fede, di moltiplicare per tre volte il danno calcolato, a meno che non vi siano circostanze attenuanti o, infine, si permette all’attore di chiedere degli “statutory damages”, invece del danno concretamente subito.
XIII. I danni subiti. Occorre a questo punto andare ad analizzare
le varie componenti del danno per delineare un più preciso quadro di tale sistema risarcitorio. Partendo dal numero (2), cioè i danni sofferti dall’attore, questi possono essere individuati secondo diversi criteri: in primo luogo le effettive perdite dell’attore, secondariamente con il metodo della “reasonable royalty” ed infine attraverso la pubblicità correttiva.
Per quanto riguarda i “loss profits” del titolare del marchio, essi costituiscono quella che si dice una “prova diabolica”, per questo
motivo le corti statunitensi hanno sviluppato un procedimento che si compone di due fasi: una in cui l’attore deve provare di aver effettivamente subito un danno e l’altra che riguarda l’ammontare del pregiudizio. Mentre nel primo caso si richiede una dimostrazione rigorosa, nella seconda fase è richiesta una prova più blanda, nel senso che è richiesto solo “a reasonable degree of certain”11. Riguardo alla prova del pregiudizio è richiesto che colui che adisce l’autorità giudiziaria provi l’effettiva confusione creata dall’utilizzo illecito del marchio, attraverso ricerche di mercato, sondaggi tra i consumatori, ma anche inferendo questo dato alla natura della condotta dell’infringer, qualora questi abbia intenzionalmente utilizzato il marchio al fine di ingannare i consumatori. Con quest’ultimo metodo l’onere della prova viene invertito per cui sarà il convenuto a dover dimostrare la mancanza di confusione. Per quanto concerne, invece, la prova dell’ammontare dei danni secondo quanto affermato dalla Supreme Court nella sentenza Bigelow v. RKO Radio Pictures, Inc., “the most elementary conceptions of justice and public policy require that the wrongdoer shall bear the risk of the uncertainty which his own wrong has created”12, per cui, ad avviso della Corte Suprema degli Stati Uniti, una volta che è stata data prova del danno non è necessario che si provi precisamente l’ammontare dello stesso e questo per un basilare principio di giustizia per cui il rischio dell’incertezza deve ricadere su chi ha prodotto il danno e non su chi lo ha subito.
Il secondo parametro, quello della “reasonable royalty”, prende come punto di riferimento per calcolare l’ammontare di perdite subite dall’attore quanto a quest’ultimo sarebbe stato corrisposto
11 M. WANG, Remedies for trademark infringement, copia elettronica disponibile su http://ssrn.com/abstract=1285104 12 Bigelow v. RKO Radio Pictures, Inc., 327 U.S. 251 (1946).
se avesse concesso in licenza il suo marchio; questo criterio viene usato, di solito, quando il convenuto ha continuato ad usare un marchio dopo che la relativa licenza è scaduta oppure quando ha fatto richiesta di concessione di licenza ma gli è stata negata. Comunque, come affermato nella sentenza Boston Professional Hokey Ass’n v. Dallas Cap & Emblem, Mfg, Inc., è necessaria una “strictly rational correlation between the infringed rights at issue and the proposed measure of damages”13.
Per quanto riguarda la pubblicità correttiva essa consiste nella pubblicità necessaria al titolare del marchio contraffatto per eliminare la confusione creata nel pubblico dei consumatori dalla contraffazione stessa. Questo rimedio può essere concesso come injunction, nel senso che il giudice può imporre al convenuto di intraprendere una campagna pubblicitaria correttiva oppure, in sede di monetary relief, all’attore può essere corrisposta la somma di denaro necessaria per compensare una campagna pubblicitaria correttiva. Cosa si debba intendere per pubblicità correttiva è ben descritto nella famosa sentenza “Bigfoot”, cioè Big O Tyre Dealers, Inc. v. Goodyear Tire & Rubber Co. In questo caso, di cui si è occupato, dopo una District Court del Colorado, il decimo distretto di Corte d’Appello, si discuteva di un’ipotesi di denigrazione di marchio. L’impresa Big O produttrice di gomme, aveva infatti utilizzato i marchi “Big O Bigfoot 60” e “Big O Bigfoot 70” apponendoli sulle ruote di sua produzione e distribuendo il prodotto in quattordici Stati americani, pur senza registrazione del marchio. Consapevole di questa circostanza l’impresa Goodyear, in seguito, aveva lanciato una campagna pubblicitaria televisiva nazionale per pneumatici radiali con il nome “Bigfoot”.
13 M. A. EINHORN, Trademarks and financial remedies: standars in the common law, copia elettronica disponibile su http://ssrn.com/abstract=2405061
Orbene la Corte d’Appello dopo aver verificato che il marchio dell’impresa Big O era marchio protetto dalla common law in quanto non meramente descrittivo e dopo aver accertato che il comportamento dell’impresa Goodyear, per delle circostanze che possono in questa sede ben essere omesse, rientra nella fattispecie di “trademark disparagement”, cioè denigrazione di marchio, arriva a porsi il problema del risarcimento del danno. La District Court aveva provveduto stabilendo un risarcimento di 2.8 milioni di dollari di ristoro del danno e 16.8 milioni di dollari in punitive damages, sulla base della considerazione, avanzata dalla Big O, che Goodyear aveva speso approssimativamente 10 milioni di dollari per la campagna pubblicitaria nazionale e 2,8 milioni erano il 28% di 10 milioni, cioè lo stesso rapporto intercorrente tra i 14 Stati in cui Big O aveva la sua distribuzione di penumatici e i 50 Stati in cui si era diffusa la pubblicità di Goodyear. Inoltre il 28% era percentuale molto simile al 25% rispetto alle spese di pubblicità del colpevole che di solito la Federal Trade Commission richiede in caso di pubblicità ingannevole. La più rilevante novità, però, che venne introdotta in questo caso consiste nel fatto che il risarcimento, nella forma della pubblicità correttiva, venne accordato a Big O, senza che questa impresa avesse, prima del processo, speso alcunché in pubblicità promozionale del prodotto. Tale orientamento permane nella giurisprudenza recente, la quale commina sanzioni in termini di actual o estimated corrective advertising, a seconda che ci sia stata o meno una campagna pubblicitaria prima del processo.
La Corte di appello conferma questa novità, ma cambia l’ammontare del risarcimento, riducendolo a 678, 302 $ per la compensazione e a 4069,812 $ come punitive damages. Questo perché ad avviso della Corte prima di tutto Big O non necessitava di una pubblicità correttiva su scala nazionale poiché operava