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View of I reati culturalmente orientati: una triplice prospettiva criminologica

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Academic year: 2021

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Abstract

Cultural offenses might be considered an extreme consequence of the relationship between law, as a social scheme of formal power, and culture, as a dynamic system of patterns of behaviors influencing individuals actions. The aim of the article is to de-scribe social and criminological background of cultural offenses, through an interdisciplinary and systematic interaction between criminal law and social sciences, in order to put forth a solution for several problems they cause in Italian criminal law, that is traditionally unfit to face multiculturalism issues. Therefore, the article arranges a threefold analysis of social and criminological implications of cultural offenses. Firstly, from a descriptive point of view, the article sheds light upon cultural conflict as the main cause of cultural offenses and globalization and glocalization trends as increasing and enhancing factors upon clashes of cultures. Secondly, the article addresses reasons why cultural offenders should be punished according to rehabilitation as a con-stitutional binding aim of punishment. It is arguable that cultural offenders who attack lesser social interests should be exempted by punishment, because their fundamental right to culture prevail upon social needs of protection. On the contrary, cultural offender who offends supreme interests should be punished but his punishment should be mitigated, due to the consideration of compelling cultural norms that induced him to break law. Finally, the last section will examine deep relationship between punishment of cultural offenders and a renovated ideal of justice, related to Restorative Justice practices.

Keywords: cultural offense • cultural conflict • social integration • restorative justice • sentencing circles

Riassunto

Lo scopo del lavoro è delineare, attraverso un approccio integrato tra scienze sociali e diritto penale, il background socio - cri-minologico del reato culturalmente orientato, quale manifestazione patologica del biunivoco rapporto tra diritto, strumento di formalizzazione e potere, e cultura, sistema dinamico di schemi comportamentali condizionanti le scelte individuali. L’analisi è impostata secondo una triplice prospettiva criminologica, che può fungere da plafond per scelte normative razionali ed efficaci. Da un punto di vista descrittivo ed eziologico l’articolo si sofferma sulla tematica del conflitto culturale, causa immediata del reato culturalmente orientato, evidenziandone gli effetti esponenziali esercitati dalla globalizzazione e dalla glocalizzazione. Da una prospettiva finalistica, la funzione di integrazione sociale della pena, normativamente desunta dalle scelte politico - criminali formalizzate nella Costituzione, impone di esonerare dal trattamento sanzionatorio il cultural offender che commetta reati non lesivi di beni fondamentali, attraverso strumenti giuridici polimorfi come la cultural defense o esenzioni legali, che evidenzino la prevalenza del fondamentale right to culture nel bilanciamento con l’interesse tutelato dalla norma penale; la funzione di integrazione sociale e il rango dell’interesse tutelato inducono, invece, ad optare per una punibilità al-leviata per il cultural offender che commetta reati lesivi di beni giuridici fondamentali, alla luce della cogente forza motivazionale di cui sono dotate le norme culturali. Infine, in una prospettiva operativa, l’articolo suggerisce di esplorare il legame che in-tercorre tra la punizione del cultural offender e l’introduzione di una rinnovata forma di giustizia della diversità, ispirata ai det-tami della Restorative Justice.

Parole chiave: reato culturalmente orientato • conflitto culturale • integrazione sociale • giustizia riparativa • sentencing

circles

Per corrispondenza: Raffaele Muzzica, via Miano 150, Napoli • email: raffaele_23@hotmail.it - raffaele.muzzica@gmail.com

RAFFAELE MUZZICA: Dottorando di ricerca in “Sovranità e giurisdizione nella storia, nella teoria e nel diritto contemporaneo”, Dipar-timento di Giurisprudenza Università degli studi di Napoli Federico II

CARLO LONGOBARDO: Professore associato di Diritto Penale e Criminologia, DIpartimento di Giurisprudenza Università degli Studi di Napoli Federico II, carlo.longobardo@unina.it

I reati culturalmente orientati: una triplice prospettiva criminologica

Cultural offenses: three criminological points of view

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I reati culturalmente orientati: una triplice prospettiva criminologica

1. Diritto e cultura: il reato culturalmente orientato

Il termine cultura è uno dei principali strumenti di lavoro per la comprensione dei fenomeni sociali e la sua defini-zione è stata oggetto di immenso dibattito tra gli studiosi di antropologia e sociologia (Sciolla, 2007).

Da un punto di vista generale, la cultura è innanzitutto un sistema complesso di valori, credenze e azioni, veicolati spesso attraverso simboli, cioè significati trasmessi in assenza di significanti diretti, ma mediati (Geertz, 1973/1998): essa costituisce un fenomeno che attiene a gruppi sociali, dei quali rappresenta il cosiddetto ingroup value (Foblets, 1998), piuttosto che ai singoli individui.

Ogni essere umano vive immerso in questo sistema fluido di appartenenza fin dai primi istanti di vita. La cultura è un sistema pervasivo o societale, capace cioè di influenzare, sebbene in maniera non deterministica, il comportamento degli individui attraverso il cosiddetto processo di incultu-razione: la cultura stimola determinate attività, ne vieta altre, inducendo l’individuo, anche inconsapevolmente, a confor-marsi ai suoi dettami:”Individuals, because of enculturation, feel compelled to respond to stimuli in differing ways. Cul-ture affects their perceptions and behavior in powerful ways, without being conscious of it” (Renteln, 2009, p. 796). Ciò non toglie, però, che l’individuo conservi un margine di li-bertà nell’attuare, manipolare e ristrutturare la propria cul-tura, essendo dotato di tratti caratteriali e esperienze pregresse uniche: la relazione uomo - cultura è biunivoca, ed è proprio nel margine di autonomia dei singoli che ri-siede l’elasticità e il dinamismo del sistema. La cultura è un sistema dinamico, sia in senso diacronico che sincronico, e caratterizzato da un alto tasso di ibridazione, per cui non esi-stono «culture pure»: si definisce acculturazione (Van Broeck, 2001) il fenomeno attraverso il quale i valori culturali mu-tano e si riassesmu-tano in seguito al contatto con modelli cul-turali diversi. Quanto sia ampia la libertà di incidere sulla propria cultura dipende dalle condizioni concrete, non può essere stabilito in astratto e si riconnette all’eterno dibattito sul libero arbitrio: ciò che è innegabile è che, pur essendo gli individui più o meno liberi a seconda dei casi, la cultura conserva un ruolo di prim’ordine tra i fattori motivazionali che influenzano l’agire umano.

Nel sistema cultura il diritto svolge un ruolo fondamen-tale, rappresentando, insieme con la religione e la morale, un complesso di norme esplicite e più o meno cogenti: pa-rafrasando Gustav Radbruch, il diritto è fenomeno cultu-rale. Semplicisticamente, potremmo affermare che il diritto positivizzi la cultura di uno Stato, rendendola obbligatoria per tutti i consociati. Ciò varrebbe a maggior ragione per il diritto penale, che possiede una ingenita natura valoriale, localistica, fortemente identitaria. Nonostante sia presente un indiscutibile carattere di verità in tale assunto, compro-vato dal fatto che da lungo tempo si dibatte sulla funzione

promozionale del diritto (Bobbio, 1977), il rapporto tra di-ritto e cultura non è riducibile ad una relazione univoca. Infatti, come evidenziato dai sociologi della teoria costitu-tiva del diritto (Mezey, 2001; Parsons, 1973; Sciolla, 2007), l’elemento giuridico ha natura sia costituente che costituita rispetto alle pratiche culturali, poiché partecipa alla produ-zione ed alla convalida di significati all’interno del sistema cultura, ma al contempo è esso stesso un prodotto di quella cultura e di quelle pratiche che lo riproducono. Se ne de-sume la vacuità dell’ideale positivista, o quanto meno delle sue degenerazioni, che propugnano un diritto penale auto-nomo e autoreferenziale rispetto alle scienze sociali, nel quale i concetti giuridici vengono costruiti tramite sussun-zioni e dedusussun-zioni con esclusione di qualsiasi elemento va-lutativo e non formale (Baratta, 1966; Larenz, 1970).

Tuttavia il diritto, e soprattutto il diritto penale, quale veicolo di formalizzazione di una determinata cultura, non intreccia rapporti paritari con le diverse culture presenti sul suo territorio di applicazione, ma instaura relazioni mag-giormente solide con la cultura maggioritaria e, ciò facendo, può tramutarsi in un pericoloso strumento di potere del-l’élite egemone, come evidenziato dagli studi della crimino-logia del conflitto (Baratta, 1976) e delle altre scienze sociali (Campbell, 2012; Post, 2003), nonché dalle recenti politiche legislative di law and order e zero tolerance, foriere di una vi-sione del reo come “nemico” da estirpare (Apollonio, 2014). La cultura, dunque, in un’accezione relazionale del potere (Foucault, 1975/1976), trova nel diritto un potente veicolo di controllo sui corpi interni al sistema e di supremazia su quelli estranei.

Il concetto di reato culturalmente orientato, o cultural offense secondo la definizione invalsa nella dottrina anglo-sassone, può essere considerato una manifestazione patolo-gica della relazione biunivoca intercorrente tra diritto e cultura. Esso consiste in un comportamento realizzato da un soggetto appartenente ad un gruppo etnico - culturale di minoranza, considerato come reato dall’ordinamento giuridico, formalizzazione della cultura egemone (Van Bro-eck, 2001; Foblets, 1998). Il medesimo comportamento è tuttavia condonato, accettato come normale, approvato o, in certi casi, imposto dalla cultura di appartenenza del cul-tural offender, il quale si viene a trovare nel dilemma fra de-linquere o seguire le proprie Kulturnormen. Nella tematica dei reati culturali anche per ragioni dedotte dalla prassi -si tende a identificare il gruppo di riferimento come quello in senso etnico, ovvero individuato da un nome collettivo, da una storia comune e condivisa, da una cultura distintiva, dall’associazione ad un territorio specifico, da un senso di solidarietà e di auto-riconoscimento. Oltre ad essere corre-lato ad una nozione di cultura particolarmente pervasiva, l’elemento etnico è anche quello maggiormente rappresen-tato nella casistica dei reati culturalmente orientati, che hanno come soggetti per lo più membri di minoranze et-niche autoctone o immigrate.

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La categoria dei reati culturalmente orientati presenta notevoli problemi di matrice giuridica, a fortiori in un si-stema ordinamentale come quello italiano poco avvezzo al pluralismo culturale nelle sue forme più “estreme”: la pe-nalistica italiana recentemente ha iniziato ad affrontare con una certa sistematicità il problema della definizione di un concetto di cultura determinato ed “empiricamente testa-bile”, la prova in giudizio della matrice culturale, i pericolosi smottamenti da una responsabilità individuale verso una re-sponsabilità di gruppo, nonché la più generale collocazione dommatica del fattore culturale ed i suoi effetti sul sistema penale (Basile, 2010; Bernardi, 2010; Bernardi, 2006; De Maglie, 2010). Chi scrive ritiene che le difficoltà incontrate dalla dottrina e dalla giurisprudenza nella comprensione di quello che a tutti gli effetti può definirsi un “hard case” della postmodernità sia il frutto di un’impostazione di metodo errata, incentrata in maniera esclusiva sul diritto positivo.

Infatti, un’ottica integrata tra diritto penale e scienze criminologiche e sociali è da ritenersi essenziale non solo per una migliore comprensione del fenomeno giuridico ma soprattutto per costruire un sistema efficace rispetto ai fini prefissati (Moccia, 1992; Roxin, 1973/1998); ciò è mag-giormente evidente in una sistematica penale teleologica-mente orientata in base ai principi costituzionali, cogente espressione dei valori di riferimento dello Stato sociale di diritto.

Si ritiene quindi necessaria una analisi “metagiuridica” dei reati culturalmente orientati in una prospettiva meto-dologica di soluzione dei problemi, teorici e pratici, che tale categoria pone. I reati culturalmente orientati rappresen-tano, dunque, un importante banco di prova di come il di-ritto penale non possa vivere in una torre d’avorio, come propugnato dal positivismo giuridico, ma deve aprirsi al contributo delle scienze sociali, pur non smarrendo la sua funzione sistematica, garanzia di certezza del diritto e di uguaglianza di trattamento.

Il tema dei reati culturalmente orientati sarà dunque af-frontato da una triplice prospettiva, seguendo i tre interro-gativi che, fin dalla sua origine, la criminologia pone come obiettivi della sua ricerca (Ponti & Merzagora, 2008): in pri-mis si procederà ad una analisi del tema in una prospettiva esplicativa (perché il cultural offender delinque?), ricercando cioè, da un punto di vista descrittivo ed eziologico, le cause dei fenomeni normativi alla radice del conflitto culturale. D’altronde, i reati culturalmente orientati - rectius il conflitto culturale che ne è alla radice - rappresentano un oggetto di studio risalente per la sociologia criminale (Sellin, 1938).

Una migliore comprensione dei fenomeni alla base del conflitto culturale potrà fungere da punto di riferimento per una analisi finalistica, riguardante la scelta se punire o meno il cultural offender; in relazione alla quale le acquisizioni di politica criminale risulteranno inevitabilmente correlate alle scelte costituzionali effettuate dal nostro ordinamento circa la funzione della pena. Infine, l’articolo affronterà il fenomeno dei reati culturalmente orientati in una prospet-tiva operaprospet-tiva (come punire il cultural offender?), proponendo l’introduzione di una nuova forma di giustizia della diver-sità, ispirata ai dettami della Restorative Justice, laddove il bi-lanciamento tra il diritto alla cultura del cultural offender e il bene tutelato dalla norma violata non possa, per la pre-gnanza del bene, essere risolto a favore del primo.

2. La prospettiva esplicativa: perché il cultural

of-fender delinque?

Attualmente la criminologia moderna considera scarsa-mente praticabili approcci unicausali nell’analisi dei fattori criminogenetici (Ponti & Merzagora, 2008). In realtà è il concetto stesso di causa a dover essere delineato con pecu-liarità, non essendo la scienza criminologica una scienza po-larizzata intorno al concetto di causalità lineare. Se per molti fenomeni naturali più semplici la causalità lineare ha ancora pieno valore, questo principio non ha oggi più credito per quanto attiene ai fenomeni di cui si occupano le scienze umane. La prospettiva della causalità relativamente al com-portamento umano è cambiata radicalmente: essa è intesa infatti secondo una prospettiva sistemica e alla luce di un nuovo concetto di “causalità circolare”. Il modello è mu-tuato dalla cibernetica, che sostituisce lo schema della cau-salità lineare con quello di “retroazione” o feedback, per il quale ognuna delle parti di un sistema influisce sulle altre. Questa è una prospettiva sistemica che anziché rintracciare una precisa e assoluta relazione causa-effetto cerca piuttosto di analizzare le probabilistiche e reciproche influenze tra i diversi fenomeni inseriti nel sistema. Premesso ciò, il con-flitto culturale rappresenta la causa immediata del reato cul-turalmente orientato (Foblets, 1998; Sellin, 1938, Van Broeck, 2001).

Benchè infatti un soggetto appartenente ad una mino-ranza culturale possa delinquere per svariate ragioni, indi-viduali e sociali, implicite ed esplicite, ciò che permette di parlare di reato culturalmente orientato è dato essenzial-mente dalla motivazione culturale dell’offender e dalla pre-gnanza culturale del comportamento realizzato; ovvero, il reo deve agire sotto la spinta di una propria norma cultu-rale, condivisa con il suo gruppo di appartenenza, e il com-portamento realizzato deve costituire una pratica dal valore culturalmente simbolico sia per l’offender che per lo Stato ospitante, che giustifica la punizione di tale comportamento proprio in base alla sua ritenuta natura «aliena» rispetto ai valori della cultura maggioritaria.

La teoria dei conflitti culturali seleziona, tra le svariate cause del crimine, l’interazione tra la motivazione culturale e la pregnanza culturale del comportamento: nel caso clas-sico, definito conflitto culturale esterno primario, un sog-getto si trova, suo malgrado, a convivere con codici normativi confliggenti, quello culturale di appartenenza e quello giuridico di ricezione. La spinta del reo a delinquere in senso culturale, ovvero a realizzare pratiche culturali pe-nalmente sanzionate, è alimentata dalla prevalenza assegnata alle proprie Kulturnormen rispetto alle leggi penali locali, nonché dai meccanismi di difesa e rinforzo del sé che le pratiche culturali pongono in essere contro i meccanismi di acculturazione.

Non sussistendo minoranze culturali autoctone con un background culturale sensibilmente differente da quello mag-gioritario, in Italia la questione dei conflitti culturali, e dun-que dei reati culturalmente orientati, si è posta essenzialmente con riguardo alle minoranze immigrate. In realtà è opportuno precisare che il fenomeno dei reati cul-turalmente orientati rappresenta solo un sottoinsieme del-l’ambito più ampio della criminalità dei migranti (Gatti U., Malfatti D. & Verde A., 1997; Tonry, 1997; Tonry, 1998).

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Tut-Raffaele Muzzica • Carlo Longobardo

tavia, all’interno di questa più ampia porzione di criminalità, quelli che vengono definiti reati culturalmente orientati non possono che trovare causa determinante nel conflitto culturale, e non in generali predisposizioni individuali o va-riabili sociali, giacché il reato culturalmente orientato è il prodotto dell’attrito tra l’ingroup value che spinge il soggetto a compiere quell’atto, al costo di delinquere, e la cultura maggioritaria fattasi diritto, attraverso la predisposizione di norme penali a difesa dei suoi interessi primari.

Dai dati statistici (ISTAT, 2012) emerge come l’Italia sia, insieme con la Spagna, uno dei Paesi che negli ultimi venti anni hanno registrato la più alta crescita demografica per effetto delle dinamiche migratorie; il numero di stranieri residenti in Italia è passato dai 356.159 dell’anno 1991 ad 1.334.889 dell’anno 2001, fino ad arrivare a 3.769.518 pre-senze, per il 50 per cento riconducibili a cinque Paesi di origine (Romania, Albania, Marocco, Cina e Ucraina), se-condo i primi risultati del censimento 2011. Sese-condo i dati forniti dal Ministero dell’Interno, al primo gennaio 2014 il numero di stranieri residenti ammontava a 3.874.726 (ISTAT, 2014). Inoltre, le dinamiche di ricongiungimento familiare e il continuo aumento delle nascite straniere (dal 1992 al 2010 la quota di nascite con almeno un genitore straniero è passata da poco più del 2 per cento al 18,6 per cento del 2010, senza considerare il tasso demografico delle donne straniere, quasi il doppio di quello italiano) hanno contribuito ad aumentare notevolmente il numero statisti-camente misurabile degli immigrati di seconda generazione, categoria comprendente non solo gli stranieri nati in Italia, ma l’insieme dei bambini e dei ragazzi con background mi-gratorio, che hanno compiuto tutto o parte del loro per-corso di crescita e formazione in Italia e che fungono da ponte tra due culture. Com’è noto, già dai primi studi cri-minologici sul punto gli immigrati di seconda generazione sono considerati i più suscettibili di conflitti culturali (Sellin, 1938) ed oggi la criminologia prevalente è concorde nel-l’indicare queste fasce di popolazione come le più a rischio di una generalizzata vulnerabilità strutturale (Melossi D., De Giorgi A. & Massa, E., 2008). I dati statistici, per quanto da interpretare al netto della rilevante problematica del numero oscuro e senza dimenticare la forte caratterizzazione di classe del sistema penale (Baratta, 1976), dimostrano che il peso della componente straniera nella criminalità è andato aumentando: gli stranieri rappresentavano il 2,5 per cento degli imputati nel 1990, mentre costituivano il 24 per cento del totale nel 2009. Gli stranieri oggi rappresentano il 32,6 per cento del totale dei condannati, il 36,7 per cento dei detenuti presenti nelle carceri e il 45 per cento del totale degli entrati in carcere (ISTAT, 2012).

Tuttavia, soprattutto nell’ottica della criminologia ezio-logica più moderna, spiccatamente multifattoriale, l’immi-grazione non può essere considerata un fattore criminogenetico in sé, ma si associa ad altri fattori di vul-nerabilità individuale e ambientale. Di conseguenza, non è possibile elaborare una teoria generale della criminalità degli stranieri, perché l’immigrazione è un fenomeno pro-teiforme che interagisce in maniera differente a seconda del contesto di ricezione, dei gruppi in gioco, delle contingenze economiche e sociali (Ponti & Merzagora, 2008). Ciò no-nostante, gli immigrati sono generalmente uomini in gio-vane età, appartenenti cioè alla fascia statisticamente più propensa al crimine (Bandini T., Gatti U., Gualco B.,

Mal-fatti D., Marugo M. & Verde A., 2004; Ponti & Merzagora, 2008); si stabiliscono nelle aree socialmente svantaggiate che sono considerate, a partire dalla teoria ecologica della Scuola di Chicago, un habitat favorevole alla devianza e alla crimi-nalità, come sostenuto anche dal più recente filone di pen-siero della cosiddetta environmental criminology (Brantingham P. & Brantingham P, 1998), un filone variegato e interdisci-plinare che eleva a suo oggetto di studio il cosiddetto “pae-saggio criminogeno” (Newman, 1972; Serafino, 2008, p. 118); infine i migranti, a causa della loro diversità, subiscono sovente ostracismi e discriminazioni, nonché una maggiore attenzione da parte degli organi di polizia, dell’opinione pubblica, dai media e in generale da parte di tutte le agenzie di controllo che la società mette in atto, con conseguente effetto cristallizzante della compagine sociale (Baratta, 1976; Hood & Cordovil, 1992; Palidda, 1994). Dunque, lo status di migrante è spesso concausa di quello che è definito con-flitto culturale secondario, correlato ai meccanismi di ostra-cizzazione ed etichettamento che vivono le minoranze culturali immigrate, spesso relegate ai margini delle società ospitanti. Questa concomitanza di fattori può contribuire a spiegare l’incidenza criminale degli stranieri in maniera più efficace di una ventilata predisposizione “ontologica” del migrante al crimine.

Non essendo dunque un fenomeno esclusivamente connesso all’immigrazione, casi di reati culturalmente orientati si possono verificare ogni qual volta codici cultu-rali/giuridici diversi vengono a scontrarsi: si pensi alle mi-noranze autoctone, oppure ai casi in cui le leggi vengono imposte ad un gruppo culturale come negli ex Paesi colo-niali o nei Paesi sottoposti a leggi marziali straniere. Conflitti culturali possono ugualmente verificarsi nei Paesi in cui éli-tes di potere - nei fatti vere e proprie minoranze! - impon-gono norme penali confliggenti con la cultura diffusa negli strati più ampi della popolazione: Van Broeck (2001, p. 6) ricorda come nella Turchia di Ataturk, all’imposizione di un codice penale filo - occidentale fece da contralto un mag-giore tasso di delinquenza culturalmente orientata, così come in India il Dowry Prohibition Act del 1961, pur crimi-nalizzando la pratica della dote, non riuscì ad estirpare que-sto uso invalso presso la popolazione, soprattutto rurale.

Tuttavia, come è stato acutamente osservato da Ross (2001), la problematica dei conflitti culturali ha assunto maggiore importanza nel panorama della globalizzazione, ovvero nel momento in cui è esplosa in maniera diffusa e incontrollata la conflittualità tra le identità culturali ed i confini legali (Bandini T., Gatti U., Gualco B., Malfatti D., Marugo M. & Verde A., 2003; Campbell, 2012). L’annien-tamento dell’ideale di Stato - nazione, omogeneo dal punto di vista sociale e culturale, è causa ed effetto di un multi-culturalismo di tipo polietnico, ovvero causato da massicce ondate migratorie anche verso Paesi non tradizionalmente multiculturali (Basile, 2010; Kymlicka, 2005). In realtà, se-condo alcuni è impreciso parlare di multiculturalismo in tal senso, dal momento che questo concetto dovrebbe essere adoperato unicamente nella sua accezione statica e descrit-tiva di organizzazione sociale in cui minoranze etnico - cul-turali autoctone coesistono in una cornice ordinamentale che ne tutela l’identità e la convivenza: per indicare la mag-giore interazione culturale causata dalle onde migratorie è sempre più frequentemente adoperato il più ampio, e vago, termine “interculturalismo” (Meer & Modood, 2012): a

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prescindere dalle scelte terminologiche, il punto fondamen-tale è che i flussi migratori a livello globale ampliano note-volmente l’ambito dei conflitti culturali, finora rimasto appannaggio dei Paesi di più risalente tradizione multicul-turale: i dati statistici prima enunciati dimostrano che l’Italia rappresenta un esempio lampante di questo fenomeno. In-fatti la moltiplicazione delle occasioni di incontro e scontro culturale, veicolata dall’ipermobilità e dall’inesorabile disfa-cimento delle frontiere fisiche e ideologiche (Valier, 2003) rappresenta un indubbio propellente per i conflitti culturali. A ciò si aggiunge l’effetto straniante delle tendenze globa-lizzanti che, minando i legami territoriali con l’identità in-dividuale e collettiva, demoliscono certezze e pratiche sedimentate e, con esse, il loro naturale ruolo di freno ini-bitorio verso il crimine, come evidenziato già da tempo dagli studi di Shaw and Mc Kay, teorici della disorganizza-zione sociale, fenomeno criminogenetico che non sembra affatto un mero ricordo del passato (Bursik, 1998).

Inoltre, la globalizzazione incide sul canone di relatività del reato che, a partire da Sutherland E.H. & D.R. Cressey (1974), è diventato un vero e proprio topos della crimino-logia moderna (Fattah,1997): la natura localista del diritto penale, quale principale sistema di controllo formale, fa sì che in ogni Stato sia presente un catalogo di reati e di pene, in taluni casi affine ma più spesso divergente da quello di Paesi anche limitrofi, percepito come il nucleo non nego-ziabile dei valori di una data comunità su un determinato territorio. Come evidenziato da Höffe (2001) la globaliz-zazione da un lato stimola l’estensione della competenza penale nazionale a fatti commessi al di fuori del territorio nazionale, dall’altro essa erode la sovranità dei singoli Stati, che, incapaci di controllare fenomeni criminali sempre più transnazionali, ne delegano, direttamente o indirettamente, il controllo ad organi sovranazionali, provocando, attraverso la rinuncia del canone della relatività, una vera e propria frattura tra valori e sanzioni, con conseguente moltiplicarsi di discrasie tra codici normativi e codici culturali.

D’altro canto, i conflitti culturali sono alimentati anche da un fenomeno macrosociale speculare alla tendenze stra-nianti della globalizzazione, che viene definito glocalizza-zione. Secondo i suoi maggiori teorici (Morawska, 2010; Robertson, 1995) il termine glocalismo, o glocalizzazione, è desunto dal linguaggio giapponese (traducibile, approssi-mativamente, come “fare qualcosa di tipico del luogo”) poi occidentalizzato e penetrato nelle scienze sociali, per indi-care l’adeguamento della teoria della globalizzazione ri-spetto alla mutevole realtà locale di applicazione.

Secondo Robertson (1995), appartiene ad una certa mi-tologia della globalizzazione il voler legare a tutti i costi questo fenomeno a prospettive esclusivamente omogeneiz-zanti dal punto di vista culturale. Il bisogno di introdurre il concetto di glocalizzazione deriva in primis dalla consape-volezza che la rappresentazione della globalizzazione come una tendenza che scavalca i localismi è un dato mistificato-rio: la promozione di un determinato valore locale ha spesso forti radici transnazionali e, viceversa, i patterns of behaviour veicolati dalla globalizzazione non attecchiscono in egual modo ovunque, ma vengono rielaborati attraverso i filtri del locale. Negli attuali contesti di ricezione - probabil-mente il termine ricezione è fuorviante, dovendosi parlare più propriamente di contesti di interscambio - il processo di differenziazione e omogeneizzazione non è a senso

unico, ma involge in molteplici direzioni più comunità. il dibattito non dovrebbe, dunque, tanto riguardare la preva-lenza della omogeneizzazione o della eterogeneità, quanto i modi attraverso i quali entrambe le tendenze caratteriz-zano le società odierne, in un rapporto di complementarietà non sempre felice, ma neanche di apodittica opposizione.

Se consideriamo la glocalizzazione dal punto di vista del conflitto culturale, risulta particolarmente interessante la fase definita relativizzazione o, secondo Morawska (2010), di accomodation, nella quale gli attori sociali, pur entrando in contatto con culture diverse, in un primo momento pre-servano strenuamente le loro pratiche culturali, anche come una sorta di meccanismo di difesa e rinforzo del sé contro la mescolanza. Secondo i teorici della glocalizzazione, quindi, sono spesso le dinamiche della globalizzazione ad acuire i fenomeni connessi al locale, rendendo più pervicace e vivo il legame tra gli individui e le proprie culture d’ori-gine e, dunque, aumentando la forza di resistenza delle Kul-turnormen di origine. Proprio le tendenze disgreganti della globalizzazione, se da un lato recidono legami con territori, tradizioni, lingue madri, possono d’altro canto provocare un effetto di rinforzo di tali simboli culturali. D’altronde, le fre-quenti situazioni di marginalità in cui sono relegate le mi-noranze culturali contribuiscono a rendere gli individui maggiormente dipendenti dalla cultura e dal gruppo di ori-gine, visti come ultimi sostegni di conservazione della pro-pria identità (Van Broeck, 2001).

In conclusione, da un punto di vista esplicativo, al netto delle altre concause che secondo il modello della causalità circolare possono potenzialmente concorrere alla genesi della criminalità da parte dei migranti, il sottoinsieme dei reati culturalmente orientati è eziologicamente riconduci-bile ai conflitti culturali. Il conflitto tra codici normativi di-versi, acuito dalle dinamiche sociali della globalizzazione e della glocalizzazione, agisce sui due elementi della motiva-zione culturale e della pregnanza culturale, spingendo mem-bri di minoranze culturali non a delinquere tout court, ma a realizzare comportamenti dal valore culturale-simbolico considerati reato dallo Stato ospitante.

3. La prospettiva finalistica e l’integrazione sociale:

punire o meno i reati culturalmente orientati?

L’analisi dei fattori esplicativi del conflitto culturale dimostra che perché vi sia una condotta socialmente integrata è ne-cessario che vi sia sintonia tra i valori condivisi dalla società e quelli di cui la legge è espressione (Chinnici, 1983; Moccia, 1992): in caso contrario, soprattutto in circostanze di forte attaccamento alla cultura d’origine e di scarsa adesione a quella di ricezione, è piuttosto elevato il rischio di generare un conflitto culturale destinato a risolversi nella violazione della legge, oltre che nel più generale disadattamento dell’in-dividuo. La prospettiva esplicativa ci mostra, dunque, che colui che commette un reato perché spinto da motivazioni culturali non si pone semplicemente in una posizione di de-vianza rispetto alla società: sarà tutto il gruppo culturale cui appartiene a porsi in attrito con i valori espressi dalla mag-gioranza. Tuttavia, la convivenza pacifica in una società plu-ralista è assicurata soltanto se ogni gruppo rinuncia ad una parte della propria specificità, in modo da contrastare le

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na-Raffaele Muzzica • Carlo Longobardo

turali forze centrifughe che vanno ad azionarsi in contesti sociali così eterogenei e, pertanto, suscettibili di conflitti. Il diritto penale è normalmente azionato nel momento in cui tali forze centrifughe raggiungano un apice patologico: il soggetto viola la legge penale, ledendo o ponendo in peri-colo un bene giuridico, e l’ordinamento risponde con una sanzione per ripristinare la pacifica convivenza sociale. Il comportamento motivato dal fattore culturale è comunque lesivo di un bene giuridico, ovvero di un valore ritenuto dall’ordinamento meritevole della massima protezione ap-prontabile, ovvero della sanzione penale; nel reato cultural-mente orientato ci si trova, dunque, di fronte ad un’esigenza di bilanciamento tra il diritto alla manifestazione culturale invocato dal cultural offender e le esigenze di tutela invocate dalla società: per così dire, sembra che al conflitto vissuto dal cultural offender faccia da contralto una affine situazione di-lemmatica per il legislatore, chiamato a scegliere se crimina-lizzare o meno comportamenti costituenti espressione di un diritto culturale, e per il giudice, chiamato a sussumere nella fattispecie astratta di reato condotte concrete espressive della identità culturale dell’autore.

Una prospettiva finalistica tesa a rispondere allo spinoso quesito “perché punire il cultural offender” non può che par-tire dalle scelte politico-criminali formalizzate nella Costi-tuzione.

Come dimostrato da Moccia (1992), l’art. 27 Cost., at-traverso il riferimento alla personalità della responsabilità penale, al divieto di trattamenti inumani e degradanti, alla tensione verso la rieducazione, sintetizza il generale assetto di valori su cui si regge l’impianto personalista della Costi-tuzione: essa impone una funzione della pena quale inte-grazione sociale, concetto complessivo formato dalle prevenzione positiva speciale e generale, su un più generale plafond di non desocializzazione del reo: la pena deve offrire al reo un’opportunità di risocializzazione non coattiva, in-tesa come possibilità di orientare la propria esistenza nel ri-spetto dei diritti fondamentali dell’ordinamento, attorno ai quali l’effetto convalidante e aggregante della punizione sta-tale alimenta la coesione sociale dei consociati.

Secondo la prevalente dottrina che si è occupata del fe-nomeno, da una funzione di risocializzazione della pena de-riva, innanzitutto, l’illegittimità di un atteggiamento di rifiuto o di completo disinteresse dell’ordinamento verso la diversità culturale, per contrasto con la individualizzazione della pena necessaria allo svolgimento della funzione di in-tegrazione sociale, non solo nelle fasi dell’inflizione e del-l’esecuzione, ma già nella fase comminatoria (Basile, 2010; Bernardi, 2010; Bernardi, 2006; De Maglie, 2010). Inoltre, un tale atteggiamento risulterebbe anche ineffettivo dal punto di vista della tutela delle esigenze sociali, dal mo-mento che astenersi dal dominare e risolvere i conflitti cul-turali equivale ad una tacita accettazione di fenomeni criminogenetici quali la segregazione etnica, l’odio razziale, il rifiuto di qualsivoglia tentativo di aggregazione di con-sensi - e dunque di integrazione - intorno ai valori fonda-mentali dell’ordinamento.

Le voci contrarie ad una valorizzazione del fattore cul-turale stigmatizzano possibili distorsioni nella funzione de-terrente delle norme incriminatrici, che necessiterebbero di una vigenza generalizzata e inesorabile per produrre ef-fetti generalpreventivi negativi: il fatto stesso di poter con-tare su trattamenti diversificati potrebbe disincentivare

alcune minoranze dalla conoscenza della legislazione na-zionale, ovvero della cultura maggioritaria (Monticelli, 2003; Volpp, 1994). Tuttavia, adottare la generalprevenzione come obiettivo fondante del trattamento penale è un’op-zione testualmente contraria al dettato costituzionale, po-nendosi pesantemente in attrito con il principio di personalità della responsabilità penale e con il divieto di trattamenti degradanti (art. 27 Cost.), strumentalizzando il reo per finalità di controllo sociale. D’altra parte, una politica di indifferenza per il fattore culturale, propugnando una falsa neutralità, finirebbe per veicolare malcelate politiche di in-tolleranza, in chiaro spregio del principio di eguaglianza so-stanziale che, come è noto, impone di trattare in modo diverso casi diversi. Infine, da un punto di vista pragmatico, la portata intimidativa della norma penale nei reati cultu-ralmente orientati è per definizione fragile, vuoi a causa del-l’ignoranza della legge penale dei cultural offender, vuoi per la loro adesione piena e convinta a valori culturali diversi, che li spingono a realizzare comportamenti culturalmente motivati anche al costo di delinquere.

Neanche le critiche ad una valorizzazione del fattore culturale che si fondano sulla tutela della funzione general-prevenzione positiva della pena colgono nel segno (Ber-nardi, 2006). Una politica penale di indifferenza culturale non fungerebbe tanto da convalida dei valori lesi dai reati culturalmente orientati ma piuttosto mirerebbe ad adope-rare il diritto penale come strumento di un’assimilazione culturale coatta che, oltre a violare i principi costituzionali, risulterebbe necessariamente più di superficie che di so-stanza, essendo le norme culturali spesso dotate di una mag-giore pregnanza e cogenza rispetto alle norme penali del Paese ospitante nei confronti dei cultural offenders.

Una volta appurata la necessità - costituzionalmente im-posta - di considerare il fattore culturale nella risim-posta puni-tiva, le medesime ragioni militano per una valutazione esclusivamente in bonam partem: dal momento che il reato comporta una violazione di beni giuridici fondamentali, il fatto, benché motivato dalla cultura dell’individuo, deve es-sere punibile, ma il fattore culturale deve, però, fungere da fattore mitigante la responsabilità penale: ciò non è dovuto ad alcuna lettura indulgenziale del conflitto culturale o del più ampio fenomeno dell’immigrazione, ma deriva dalla considerazione che pene cosiddette esemplari, cioè inasprite sulla base della fenomenologia particolarmente perturbante di alcuni reati culturali o di una presunta necessità di estirpare modelli comportamentali sgraditi, contrastano con i valori costituzionali (art. 27, co. 1 Cost.), essendo espressione di una illegittima oltre che desocializzante strumentalizzazione del reo per finalità politico-criminali di mera deterrenza.

Allo stesso tempo appare difficile negare che l’individuo che commetta un reato spinto da valori culturali cogenti, per quanto aberranti ne siano le coloriture culturali, si comporti, a parità di offesa, in maniera meno riprovevole di un individuo che commette il medesimo fatto libero, se così si può dire, da un conflitto culturale. Non tenere pre-sente ciò equivale ad una palese violazione del principio di eguaglianza sostanziale, con notevoli riverberi sull’efficacia risocializzante della pena.

Al contrario, una valorizzazione in bonam partem del fat-tore culturale potrebbe ridurre i meccanismi di difesa nei confronti dell’ordinamento messi in atto da parte del cultural offender, che non percepirebbe la pena come un ingiusto

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so-pruso, ma potrebbe essere maggiormente predisposto ad ac-cettare l’offerta risocializzante.

Ciò nonostante, la prassi giudiziaria presenta tendenze ondivaghe nei confronti della diversità culturale: sebbene un tasso di discrezionalità sia incomprimibile, ed anzi la fles-sibilità del formante giudiziale contribuisca a delineare il ruolo della giurisdizione come organo principale di me-diazione dei conflitti culturali (Caputo, 2005), non sempre gli arresti giurisprudenziali hanno confermato il descritto assetto vincolante scaturente dalla Costituzione, anzi, in al-cuni casi la giurisprudenza ha valorizzato in malam partem il fattore culturale del reo, per esigenze sostanzialmente ge-neralpreventive negative. Emblematico il caso della sentenza del Tribunale di Padova n. 446 del 9 giugno 2006, in cui il giudice, nel condannare due uomini pakistani per uno stu-pro culturalmente orientato ha espressamente affermato che «più le condizioni individuali e sociali sono diverse dalla cultura maggioritaria, più la pena deve essere severa al fine di avere un impatto deterrente sulla società».

Nonostante tali eccessi, che fortunatamente non sem-brano trovare appiglio nella giurisprudenza di legittimità, la giurisprudenza italiana è consapevole di svolgere un ruolo di argine, ancorché flessibile, in materia di reati cultural-mente orientati: questo orientamento, elaborato in nume-rosi casi di violenza domestica culturalmente orientata a partire dalla fondamentale sentenza della Corte di Cassa-zione del 16 dicembre 2008, n. 46300, viene spesso definito «dottrina dello sbarramento invalicabile» (Basile, 2010; Ber-nardi, 2010; BerBer-nardi, 2006; De Maglie, 2010).

Secondo questo orientamento i diritti fondamentali dell’individuo e il principio di eguaglianza «costituiscono infatti uno sbarramento invalicabile contro l’introduzione, di diritto e di fatto, nella società civile di consuetudini, prassi, costumi che si propongono come antistorici a fronte dei risultati ottenuti, nel corso dei secoli, per realizzare l’af-fermazione dei diritti inviolabili della persona, cittadino o straniero» (16 dicembre 2008, n. 46300; cfr. anche Corte di Cassazione, sentenza del 29 maggio 2009, n. 22700; Corte di Cassazione, sentenza del 17 dicembre 2009, n. 48272).

Questo orientamento, applicabile a tutti i casi in cui il diritto alla manifestazione culturale lede beni giuridici in-violabili, sembra perfettamente compatibile con la funzione di integrazione sociale della pena che, pur imponendo una valorizzazione in bonam partem del fattore culturale, non ri-chiede necessariamente una esenzione totale dal tratta-mento sanzionatorio. Infatti, scriminare reati offensivi dei beni fondamentali porterebbe notevoli sconvolgimenti da un punto di vista teleologico, in relazione alla coesione so-ciale, dal momento che i consociati non percepirebbero come “giusta” la legittimazione di un comportamento a danni di diritti fondamentali di altri individui, di solito membri deboli del gruppo (Kymlicka, 1995). Il fattore cul-turale, in tali casi, dovrebbe veicolare la minore rimprove-rabilità del fatto al reo, soggetto all’influenza cogente delle proprie norme culturali all’interno del conflitto tra codici normativi differenti, attenuando la risposta sanzionatoria.

Diversamente, da una funzione di integrazione sociale della pena si deve desumere che i reati culturalmente orien-tati non lesivi di beni fondamentali dovrebbero essere com-pletamente esentati da pena, dal momento che il bilanciamento tra diritto fondamentale alla manifestazione della propria cultura e esigenze sociali di tutela (Renteln,

2009) vede nettamente prevalere il primo: ci si riferisce alla casistica di reati culturalmente orientati attinenti all’abbi-gliamento rituale, al possesso di sostanze stupefacenti o di armi per finalità rituali, al maltrattamento di animali, all’in-cesto. In questi casi un’esenzione da pena convaliderebbe i principi fondamentali dell’ordinamento, in primis la libertà di espressione culturale. Tuttavia, in casi di questo genere l’attuale materiale giurisprudenziale si presenta di difficile categorizzazione, benchè in nessun caso sia evincibile una chiara affermazione della prevalenza del diritto alla mani-festazione culturale sulla lesione di beni giuridici, ancorché minori: ad esempio, la Cassazione, con sentenza dell’8 ago-sto 2003, n. 34072, ha assolto un’imputata trovata in pos-sesso di circa 24 kg di khat (una droga rituale diffusa nel corno d’Africa), perché il fatto non era previsto come reato, dal momento che all’epoca le tabelle ministeriali non men-zionavano espressamente il khat tra le sostanze vietate, ma soltanto la catina, principio chimico estraibile esclusiva-mente attraverso un procedimento chimico e non attraverso la masticazione, tipico mezzo di consumazione da parte delle minoranze culturali che ne fanno abitualmente uso. In un caso analogo, la Cassazione ha escluso che il possesso di stupefacenti «possa trovare qualche causa di giustifica-zione nell’esigenza di praticare un certo culto religioso o di farne opera di proselitismo perché neppure in presenza di questi fenomeni (certamente liberi e anzi tutelati) è giammai consentito lo sconfinamento nell’illecito penale» (Corte di Cassazione, sentenza del 5 dicembre 2005, n. 44227). Nel caso dell’abbigliamento rituale, la giurispru-denza si presenta più attenta al profilo culturale e religioso degli imputati (in prevalenza donne), negando che la con-travvenzione prevista dall’art. 5 della legge 22 maggio 1975, n. 152 (cd. Legge Reale) possa essere integrata dal portare burqa o niqab, dal momento che tali indumenti non sono indossati con finalità di turbamento dell’ordine pubblico, ma sono espressione di libertà religiosa, concetto che dubbiamente travalica la ratio legis della norma e che si in-serisce perfettamente nel giustificato motivo previsto come causa di esclusione del fatto tipico (cfr. Tribunale di Cre-mona, sentenza del 27 novembre 2008). Il Consiglio di Stato, chiamato a pronunciarsi sull’annullamento prefettizio di un’ordinanza del sindaco di Azzano Decimo che aveva incluso ipso jure il burqa tra i mezzi atti a rendere difficoltoso il riconoscimento ex art. 5 legge Reale ha definitivamente confermato che indossare il velo che copre il volto è un «utilizzo che generalmente non è diretto ad evitare il rico-noscimento, ma costituisce attuazione di una tradizione di determinate popolazione e culture» (Consiglio di Stato, sen-tenza del 19 giugno 2008, n. 3076).

Per quanto concerne le modalità attraverso le quali ar-ticolare l’esenzione dal trattamento sanzionatorio, i Paesi di più risalente tradizione multiculturale hanno concentrato la loro attenzione sulla cosiddetta cultural defense: con tale sin-tagma si intende, in un’ottica sostanzialistica tipica dei sistemi di common law, qualsiasi istituto giuridico che abbia l’effetto di neutralizzare la risposta sanzionatoria, filtrandovi il fattore culturale del reo (Kim, 1997; Renteln, 2009); nell’ordina-mento italiano, nonostante le varie proposte della dottrina (Basile, 2010; Bernardi, 2010; Bernardi, 2006; De Maglie, 2010) e le divergenti soluzioni attinte dalla giurisprudenza sopramenzionata, la soluzione più adeguata sembra quella della causa di giustificazione dell’esercizio del diritto, che

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scrimina un comportamento il quale, pur concretizzando un fatto tipico di reato, risulta non antigiuridico nel bilancia-mento con il diritto fondamentale alla manifestazione della propria cultura. Tuttavia, la natura necessariamente elastica della causa di giustificazione dovrebbe indurre a riservarla per conflitti culturali particolari, residuali, non ancora com-pletamente sedimentati nel tessuto sociale, il cui bilancia-mento deve necessariamente essere effettuato in concreto ad opera del giudice; invece il legislatore dovrebbe discipli-nare con legge i conflitti culturali più frequenti e pacifici, in cui il bilanciamento di interessi può essere fissato in maniera rigida, esentando espressamente i comportamenti cultural-mente motivati dalla astratta e potenziale inclusione in una fattispecie di reato (come è ad esempio accaduto con la legge italiana 2 agosto 1978, n. 439, che disciplina la macel-lazione rituale, sottraendola esplicitamente, per la sua valenza culturale e religiosa, dall’ambito di applicazione del reato di maltrattamenti di animali).

Probabilmente, anche alla luce del fatto che la casistica giurisprudenziale relativa ai reati culturalmente orientati (Basile, 2010; Bernardi, 2010; Bernardi, 2006; De Maglie, 2010) è caratterizzata da dinamiche infragruppo, il vero vul-nus di una valorizzazione in bonam partem del fattore cultu-rale - attraverso esenzioni legislative, giudiziali, o trattamenti sanzionatori attenuati - è rappresentato dal rischio di di-scriminazione nei confronti delle vittime di reati cultural-mente orientati rispetto alle vittime di reati analoghi “comuni”. Tuttavia, il ragionamento sembra alludere ad una funzione lato sensu retributiva della pena, incompatibile con l’assetto costituzionale: una risposta sanzionatoria aggravata dal fattore culturale, o semplicemente indifferente rispetto alla diversità, non necessariamente implica una maggiore tutela delle vittime, da articolarsi invece attraverso interventi penali ed extrapenali di assistenza, supporto e empowerment: la recente introduzione del reato di mutilazioni genitali femminili è un esempio eclatante di come la mera crimi-nalizzazione, anche piuttosto severa, senza politiche extra-penali di ispirazione interculturale possa produrre più effetti collaterali (clandestinità della pratica, minori standard di si-curezza, autosegregazione, innalzamento del numero oscuro) che benefici per le vittime (Brunelli, 2008; Zanetti, 2008).

Ciò non toglie che il difficile equilibrio tra tutela delle vittime - in via mediata, della società - e individualizzazione del trattamento sanzionatorio sia il vero fulcro del ruolo del diritto penale nella società multiculturale: ma la ricerca di tale equilibrio non porta a soluzioni assolutizzanti, né può fungere da alibi per un’elusione più o meno marcata della funzione costituzionalmente desunta di integrazione so-ciale. Piuttosto, l’importanza e il ruolo che la vittima detiene nei reati culturalmente orientati e, con essa, la società e la comunità di appartenenza, offrono uno spunto notevole in relazione ad una prospettiva operativa, proponendo moda-lità di esecuzione della risposta sanzionatoria secondo i det-tami di una giustizia più inclusiva e condivisa, sulla linea di tendenza dell’esperienza maturata in relazione alla Restora-tive Justice.

4. La prospettiva operativa: come punire il cultural

offender?

Una funzione di integrazione sociale della pena impone di considerare, da un punto di vista operativo, anche le mo-dalità in cui la sanzione viene ad incidere, direttamente, sul cultural offender e, indirettamente, sul conflitto culturale. Si devono privilegiare, allora, strumenti sanzionatori che non mirino soltanto a “fare giustizia” dal punto di vista della cultura maggioritaria, ma che coinvolgano maggiormente la vittima, protagonista silenziosa del conflitto culturale, e la comunità di appartenenza. Nell’ottica di un vero e pro-prio paradigma alternativo di giustizia, la Restorative Justice sembra assolvere degnamente a questa funzione. Essa, da un punto di vista generale, rappresenta un modello attra-verso il quale la vittima, il reo e la comunità ricercano so-luzioni al conflitto interindividuale e sociale estrinsecatosi in un reato, attraverso la riparazione del danno, la riconci-liazione tra le parti e il ristabilimento dell’ordine sociale (Braithwaite, 1999).

Pur essendo un modello presente nella storia dell’uomo fin dagli albori, la giustizia riparativa ha subito, nel mondo occidentale, un inesorabile declino a causa dei processi di pubblicizzazione del reato, attraverso i quali quest’ultimo, piuttosto che come frattura del tessuto sociale tra reo e vit-tima, viene inteso imprescindibilmente come offesa alla so-vranità terrena o divina dell’autorità (Foucault, 1976); ciò nonostante, nell’ultimo ventennio del secolo scorso la giu-stizia riparativa è ritornata nuovamente ad interessare, dap-prima dal punto di vista applicativo più che teorico, gli studiosi di criminologia e di scienze sociali (Braithwaite, 1999). Tale interesse, che ha contribuito alla rinascita del-l’ideale di giustizia riparativa anche in ambito normativo, ha ricevuto grande impulso dalla ricerca antropologica: le esperienze di composizione alternativa del conflitto sono rintracciate fin dagli albori della civiltà, soprattutto nel mi-crocosmo rappresentato dalle comunità tribali africane o centro-americane, a testimonianza del carattere universale e transculturale delle soluzioni informali di tipo conciliativo (Gibbs, 1967). L’antropologia da tempo ha sottolineato, in-fatti, come l’idealtipo del processo penale, ovvero il mo-mento in cui la comunità, attraverso i suoi rappresentanti, si riunisce per condannare un proprio appartenente che abbia violato una regola di particolare importanza, rappre-senti un vero e proprio rito di separazione, composto da una fase preliminare, costituita dal momento dell’accerta-mento e del giudizio, e da una fase liminare, rappresentata dalla inflizione della pena, che, a seconda dei casi, può arti-colarsi nella neutralizzazione più o meno definitiva del reo, oppure dare seguito ad un’eventuale reintegrazione all’in-terno della comunità nelle forme di un rito di riaggrega-zione, simulacro della riparazione del conflitto (Van Gennep, 1909/1981). La presenza di forme tradizionali di risoluzione dei conflitti spesso si riscontra in contesti sociali ad alto rischio di conflitto culturale, come nei Paesi in cui sono stati imposti codici di impostazione occidentale (Van Broeck, 2001): non essendo espressione dei valori culturali di riferimento della popolazione, tali norme - oltre ad ali-mentare il conflitto culturale - sono spesso soppiantate, nella prassi, da forme di soluzione informale dei conflitti che, at-traverso il coinvolgimento della comunità ed un risvolto

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quasi terapeutico del processo conciliativo, mirano a rico-struire l’armonia sociale all’interno della comunità.

La Restorative Justice e, più in generale, la tematica dei reati culturalmente orientati sono improntate ad una gene-rale insoddisfazione nei confronti della giustizia tradizionale, sia per quanto riguarda il controllo del crimine, sia per quanto concerne l’adeguatezza del trattamento sanzionato-rio ai fini che lo legittimano, sia per quanto riguarda il ruolo della vittima e della comunità di appartenenza nella gestione del conflitto sotteso al reato.

Considerando che i reati culturalmente orientati costi-tuiscono tendenzialmente reati infragruppo, la giustizia ri-parativa arreca alla vittima, che sia consenziente e partecipi volontariamente al processo riparativo, un empowerment maggiore di quanto non faccia la giustizia tradizionale, la quale, attraverso le sue formalità eteronome e autoritarie la espone piuttosto a rischi di ostracizzazione dalla stessa co-munità, di vittimizzazione secondaria, di ritorsioni, oltre a lasciare completamente neglette le sue esigenze e i suoi bi-sogni: il processo tradizionale stigmatizza il comportamento del cultural offender con la pena, ma, stante anche la naturale propensione delle minoranze culturali a seguire più i propri dettami culturali che le norme giuridiche del Paese ospi-tante, questa risulta sprovvista di qualsiasi effetto preventivo, lasciando del tutto inevaso il conflitto culturale sotteso al reato culturalmente orientato. La giustizia riparativa, es-sendo improntata alla consensualità delle parti, può invece essere un giusto modo per riequilibrare la relazione di po-tere nella quale il reo si è mostrato egemone: la vittima ha il potere di acconsentire alla riconciliazione, di interloquire sul fatto, di scegliere comunque la via della giustizia tradi-zionale. A tal proposito, le forme riparative non devono però diventare l’alibi per privare il reo di quelle garanzie tipiche del processo penale, tramutando, in una pericolosa eteroge-nesi dei fini, l’ideale riparativo in un procedimento alta-mente repressivo ed eticizzante, come nota Robinson (2003). Il reo, dunque, deve avere la possibilità di considerare gli effetti negativi prodotti dalla sua azione, di ripararli, agendo anche dinnanzi alla sua comunità (reintegrative sha-ming, Braithwaite,1992) senza per questo essere vittima di stigmatizzazioni desocializzanti.

Per quanto concerne la comunità, nei processi riparativi essa è coinvolta non solo nel sostenere la vittima e nel pro-porre soluzioni di riparazione, ma anche nel sostenere il reo nell’accettazione del suo comportamento e nella sua rein-tegrazione nella comunità di appartenenza. La giustizia ri-parativa può dunque alimentare la solidità dei legami sociali anche nelle società odierne, dove spesso il concetto di co-munità è sostituito da quello di temporanee e fluide alleanze di interessi: come è stato dimostrato da recenti studi (Ban-dini T., Gatti U., Gualco B., Malfatti D., Marugo M. & Verde A., 2003; Kurki, 2000; Mc Cold, 2004) il coinvolgimento della comunità, come agenzia di controllo sociale, dimostra una notevole incidenza nel controllo del crimine e nella percezione di sicurezza degli individui coinvolti. Più in ge-nerale, il processo riparativo può essere la cornice per un dialogo tra la comunità minoritaria e la comunità statale, evitando l’uso dello strumento penale come vettore di as-similazione coatta: infatti, dal punto di vista della crimino-logia del conflitto (Baratta, 1975) gli esponenti delle minoranze etnico - culturali, soprattutto quando queste coincidano con quelle immigrate, sono tendenzialmente

visti come “nemici naturali” piuttosto che come “vittime ideali”, secondo la famosa definizione di Christie riportata da Hudson (1999): lo strumento penale, imponendo afflit-tivamente il marchio della cultura maggioritaria sul con-flitto culturale, recide ancora di più i legami tra vittima e reo, oltre che tra comunità minoritaria e comunità statale. Invece la giustizia riparativa riconosce le individualità in gioco e pone le basi per una loro migliore convivenza, sia in una prospettiva microsociale, riparando il danno e of-frendo alle parti la possibilità di rimarginare il conflitto, sia in una prospettiva macrosociale, gettando le basi per un vir-tuoso sistema relazionale di riconoscimento fra i gruppi so-ciali coesistenti sul territorio.

Nonostante i menzionati vantaggi della giustizia ripa-rativa, soprattutto se calata nella materia dei conflitti cultu-rali, l’introduzione nell’attuale sistema penale di forme ispirate all’ideale riparativo sembra incontrare ostacoli pres-soché insormontabili.

Innanzitutto, da un punto di vista pragmatico, sembra opinabile ed utopico immaginare che forme di risoluzione del conflitto nate in società poco complesse, omogenee e monolitiche dal punto di vista culturale come quelle tribali, possano essere impiantate tout court nelle società postmo-derne, dotate di elevata complessità, in cui le esperienze e le identità culturali non sono soltanto molteplici, ma anche sensibili ad un costante e fluido processo di acculturazione. Da un punto di vista teorico, a ciò si aggiunge la constata-zione che, in un sistema penale profondamente impostato su garanzie formali e procedurali, come il principio di le-galità, l’obbligatorietà dell’azione penale, il principio del giudice naturale, l’introduzione di procedure informali di giustizia riparativa porterebbe con sé il rischio di provocare una inaccettabile caduta in termini di diritti fondamentali dell’individuo.

Alla luce di ciò, riteniamo tuttavia che il solco segnato dalla Restorative Justice non debba essere completamente ab-bandonato, ma che possa essere percorso in una modalità più moderata e pur sempre rispettosa dei principi fonda-mentali del sistema penale.

Probabilmente, non potremmo mai giungere ad un pro-cesso riparativo che soppianti completamente la giustizia tradizionale, anche alla luce del fatto che, secondo quanto detto nei paragrafi precedenti, gli unici reati culturalmente orientati che dovrebbero arrivare alle soglie della punizione penale sono quelli di medio - alta gravità: un forte allarme sociale accompagnerebbe l’introduzione di processi ripara-tivi che, attraverso un processo non retto dalla legge, giun-gessero ad una pena non formale, benché giustificata dalla riconciliazione tra le parti direttamente coinvolte. Inoltre, in una visione non idealistica del tema, probabilmente de-legare alla comunità di appartenenza l’intera gestione del conflitto equivarrebbe a legittimare quella sbilanciata rela-zione di potere che ha reso la vittima tale, dal momento che con tutta probabilità sarebbero i membri forti del gruppo culturale a dover giudicare il comportamento lesivo del cul-tural offender: In questo modo si esporrebbe la vittima ad una vittimizzazione secondaria presumibilmente peggiore di quanto essa possa subire in un processo tradizionale retto da “estranei” e impregnato di cultura maggioritaria.

Per ragioni, sia strutturali che procedurali, analoghe a quelle sopra esposte, la Victim-Offender Mediation (VOM), nonostante sia una delle pratiche di Restorative Justice più

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diffuse sia a livello europeo sia nell’ordinamento italiano (Mannozzi, 2003), nell’ambito del processo minorile, del processo davanti al giudice di pace e recentemente intro-dotta anche nel processo penale per gli adulti, come com-ponente eventuale della sospensione del processo con messa alla prova (28 aprile 2014 n. 67), non sembra però la solu-zione più adatta per i reati culturalmente orientati.

La VOM infatti focalizza la risoluzione del conflitto su una diade rappresentata dal reo e dalla vittima, mentre uno strumento riparativo nei reati culturalmente orientati non può prescindere dal coinvolgimento della comunità etnico-culturale di appartenenza, che percepisce come propria la norma culturale causa del reato. D’altro canto, se si consi-dera che i reati culturalmente orientati sono spesso il frutto di asimmetriche relazioni di potere all’interno del gruppo, delegare la gestione del conflitto ad una struttura diadica, per quanto agevolata dal mediatore, potrebbe fungere da mezzo di perpetuazione delle ingiustizie a danno dei sog-getti più deboli. Per quanto concerne le ragioni procedurali, le ipotesi di VOM tendenzialmente mirano ad una diversion, agendo a livello predibattimentale o addirittura preproces-suale, in modo da evitare un processo tradizionale: non sem-bra ragionevole auspicare per reati culturalmente orientati medio-gravi una rinuncia pressoché totale alla giustizia tra-dizionale.

Il modello più congeniale alla tematica dei reati cultu-ralmente orientati e maggiormente suscettibile di introdu-zione nel sistema italiano sembra dunque essere il Sentencing circle, un istituto riparativo, originariamente diffuso in Ca-nada e in Australia, poi diffusosi anche negli Stati Uniti, che interviene nella fase della commisurazione della pena (Coa-tes R. B., Vos, B. & Umbreit, M. S., 2003; Stuart, B., 1996) e non nella fase di accertamento: i sentencing circles - non a caso spesso definiti anche peacemaking circles - affrontano la fase della commisurazione della pena coinvolgendo, oltre al giudice, al pubblico ministero, ai funzionari dei servizi so-ciali, anche membri della comunità di appartenenza, al fine di contribuire alla decisione sul danno da riparare, di assi-stere le vittime del crimine, e di alimentare un più profondo legame tra tutti gli interessati dal crimine all’interno della comunità. Il circle riporta in auge la ancestrale figura circo-lare, tipica di molte culture premoderne, non solo da un punto di vista simbolico ma anche pratico: tutti i membri coinvolti dovrebbero giungere consensualmente ad un sen-tencing plan, che contemperi tutti gli interessi delle parti coinvolte, prevedendo prestazioni riparatorie a favore della vittima, pubbliche scuse, lavori di pubblica utilità a favore della comunità, in un’ottica di corresponsabilizzazione nella soluzione del conflitto. Non dovrebbe essere del tutto estro-messa la possibilità di infliggere una pena tradizionale, anche sulla base di una migliore comprensione da parte del giu-dice dell’effetto che la pena potrebbe avere sul reo, sulla vit-tima e sulla comunità di appartenenza.

Se è pur vero che il conflitto culturale si radicalizzerebbe comunque all’interno di un processo penale tradizionale nel quale sia stata accertata la responsabilità del cultural of-fender, il sentencing circle sembra lo strumento migliore per realizzare un bilanciamento fra le esigenze sociali connesse alla punizione di determinati reati e le esigenze di riconci-liazione del conflitto e di rispetto della diversità culturale. Benchè attualmente non risultino in atto progetti pilota o esperienze consolidate in Italia, il sentencing circle rappresenta

una forma di giustizia più inclusiva della diversità culturale, senza per questo scadere in indulgenzialismi o rinunce a di-fendere i diritti inviolabili dell’uomo, quale tratto caratte-rizzante delle società occidentali.

Tuttavia, nell’ottica di una prospettiva operativa, la giu-stizia riparativa non dovrebbe limitarsi a permeare l’ambito penale: la reale prevenzione del conflitto culturale può seria-mente essere perseguita principalseria-mente attraverso politiche extrapenali e multiagenziali, che mirino ad arginare gli effetti disgreganti provocati dalla globalizzazione e di rinforzo ra-dicale della propria identità indotti dalla glocalizzazione, pun-tando sulla diffusione di contesti che favoriscano l’interculturalità, intesa come scambio e confronto tra culture senza una assimilazione coattiva ed univoca. Contesti sociali in cui i soggetti minoritari non si sentano “assediati” da schemi culturali dominanti ed estranei renderebbero meno frequente il radicalizzarsi di pratiche culturali diverse fino al momento patologico rappresentato dal reato culturalmente orientato. Inoltre, politiche di prevenzione ispirate all’ideale riparativo sono preziose, anche perché possono contribuire a creare una vera e propria Kultur della riparazione e della gestione condivisa del conflitto tra i consociati, con maggiori probabilità di esito positivo anche per eventuali istituti ripa-rativi presenti nel sistema penale.

Riferimenti bibliografici

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