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DIPARTIMENTO DI

FILOLOGIA, LETTERATURA E LINGUISTICA

CORSO DI LAUREA IN ITALIANISTICA

TESI DI LAUREA

Il ‘900 siciliano: cinque proposte per il canone

CANDIDATO

RELATORE

Andrea Antonio Giuseppe Panebianco

Chiar.mo Prof. Luca Curti

CORRELATORE

Chiar.mo Prof. Giorgio

Masi

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Il ‘900 siciliano: cinque proposte per il canone

È in Sicilia che si trova la chiave di tutto

Johann Wolfgang von Goethe

Nel bene e nel male, la Sicilia è l’Italia al superlativo

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Indice

Introduzione

5

Breve storia e definizione del canone 5

Il contesto storico: l’Italia dal 1936 al 1982 12

La Sicilia nel ‘900: il panorama artistico 15

Capitolo I

Elio Vittorini: un lungo viaggio tra mito e denuncia

18

I.1 La vita e le opere 18

I.2 La poetica: il mito delle origini, del viaggio, dell’uomo 23

I.2.1 Uomini e no: il racconto della Resistenza 29

I.3 Conversazione in Sicilia: un viaggio nel “mondo offeso” 33

Capitolo II

Vitaliano Brancati: la comicità tra fascismo ed erotismo

44

II.1 La vita e le opere 44

II.2 La poetica: erotismo, comicità e drammaticità 47

II.2.1 L’eros come motore dell’azione 47

II.2.2 Comico e drammatico: la vittoria del riso e la sconfitta dell’uomo 50

II.2.3 La trilogia del gallismo 52

II.3 Il bell’Antonio: gallismo ed antifascismo 55

Capitolo III

Leonardo Sciascia: tra romanzo poliziesco e critica sociale

66

III.1 La vita e le opere 66

III.2 La poetica: ecletticità e denuncia 72

III.2.1 I racconti: Gli zii di Sicilia e Mare color del vino 72

III.2.2 Una produzione a tutto tondo: dalle Parrocchie di Regalpetra a Candido ovvero un sogno fatto in Sicilia 77

III.2.3 I romanzi polizieschi: dal Giorno della Civetta ad Una storia semplice 83

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Capitolo IV

Vincenzo Consolo: narrare del passato per raccontare

il presente

103

IV.1 La vita e le opere 103

IV.2 La poetica:la memoria storica, l’autobiografia e la ricerca linguistica 106

IV.2.1 Le opere autobiografiche: memoria e malinconia 106

IV.2.2 Due parentesi “settecentesche”: Lunaria e Retablo 114

IV.3 Il sorriso dell’ignoto marinaio: un non romanzo tra finzione e realtà 120

CAPITOLO V

Gesualdo Bufalino: tra menzogna romanzesca e verità

autobiografica

132

V.1 La vita e le opere 132

V.2 La poetica: la metaletteratura, la menzogna, la morte 135

V.3. Diceria dell’untore: la storia e i perché dell’opera 143

V.3.1 La Diceria di Bufalino: sogno, memoria e finzione 145

Conclusione

155

Bibliografia

160

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5

Introduzione

Prima di proporre l’inserimento di alcuni autori nel canone è doveroso, da parte mia, cercare di definire cosa intendiamo per canone letterario; a questa breve spiegazione seguirà una ricapitolazione dei momenti storici di maggior importanza avvenuti nel periodo preso in esame nell’analisi; proporrò, infine, un’analisi del contesto artistico e letterario siciliano in cui queste opere sono venute alla luce.

Successivamente verranno presentati, individualmente, gli autori e le loro opere; alla fine, nel capitolo conclusivo, gli stessi autori saranno presentati in una visione d’insieme in cui verranno messe in risalto quelle peculiarità che li rendono papabili per l’inserimento nel canone e nei programmi letterari.

Breve storia e definizione del canone letterario

Cercando in un qualsiasi dizionario la parola canone1 ci si imbatte in una serie di definizioni che vanno dal pagamento corrisposto periodicamente per l’utilizzo di un bene alla parte essenziale di una messa, quella che va dal prefazio alla comunione. Quella che però più ci interessa è la definizione di canone letterario, inteso come elenco delle opere e degli autori che costituiscono i modelli da seguire.

Parlando del canone letterario, il primo esempio che viene in mente è sicuramente il canone alessandrino: una lista di autori greci, redatta dai grammatici Aristofane di Bisanzio e Aristarco di Samotracia intorno al II secolo a.C., considerati tra i più meritevoli e quindi da prendere come esempio, in ambito stilistico e contenutistico. La creazione del canone alessandrino ha favorito, nel corso dei secoli, sia la

1 Dal greco kanón: regolo, canna

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6

conservazione degli autori ivi compresi che lo studio del greco antico. Nella lista di autori stilata dai due grammatici erano presenti poeti epici, lirici, giambici, tragici, comici, storici, oratori e filosofi; nell’elenco troviamo nomi del calibro di Omero, Eschilo, Sofocle, Platone, Aristotele, Demostene, Erodoto e molti altri.

Un caso simile si è verificato con la redazione, ad opera del grammatico Volcazio (II-I sec. a.C.), di un elenco contenente i maggiori comici latini. Per fare un esempio più recente è da considerarsi come “canonizzazione” letteraria l’opera di Pietro Bembo che, con le sue Prose nelle quali si ragiona della volgar lingua crea quello che possiamo definire il primo canone della letteratura italiana. Nel trattato di Bembo viene esortato chiunque volesse scrivere in lingua volgare un’opera letteraria a prendere come modello la produzione di Francesco Petrarca per la poesia e Giovanni Boccaccio per la prosa. Proponendo questi due autori come modelli per la produzione artistica, Bembo fa in modo che i due scrittori fiorentini vadano a costituire, di fatto, il primo canone letterario italiano. Possiamo vedere come tutti questi esempi abbiano dei punti in comune:

“In tali liste sono già in giuoco i due elementi che c’interessano: un criterio d’eccellenza, implicito certo, che permette l’inclusione di una autore piuttosto che un altro; l’autorità di chi quegli autori include nella redazione di elenchi.”2

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7

Come scrive Onofri, sono due i criteri fondamentali3 per stabilire un canone: eccellenza e un’autorità che avvalori la tesi.

Questi due elementi saranno fondamentali per analizzare la polemica novecentesca, scoppiata negli Stati Uniti, sulla questione del canone: oggetto della disputa sono i programmi dei corsi di Literature Humanities e Contemporary Civilization, originariamente prerogativa esclusiva della Columbia University ma presenti, dagli anni Quaranta in poi, in molte università americane. Questi corsi, obbligatori per tutti gli iscritti all’università indipendentemente dal corso di laurea, sono dedicati rispettivamente ai classici della letteratura antica e moderna (da Omero a Conrad) e ai testi fondamentali di filosofia e scienze sociali, che spaziano da Platone a Foucault; rappresentano inoltre, secondo Onofri, un ottimo punto di partenza per chiarire il concetto di canone nel Novecento:

“Siamo al punto: i testi inseriti nel corso di Literature Humanities consentono perfettamente di definire il concetto di canone letterario così come s’è affermato nel Novecento. E cioè l’insieme delle opere cui una certa tradizione conferisce un valore particolare, auspicandone o addirittura, come nel caso della Columbia, ritenendone doverosa la salvaguardia della conoscenza. Un complesso di opere, si badi, la cui eccellenza e importanza sono garantite da un potere forte, da un’autorità indiscussa, e cioè una delle più prestigiose istituzioni accademiche americane. Tutto ciò è tanto più vero se si pensa alle critiche cui furono sottoposti questi due corsi; quelle cioè di rappresentare in realtà – sotto le spoglie di neutrali valori estetici – l’affermazione della cultura dominante, maschilista ed eurocentrica, a detrimento delle culture minoritarie, fossero quelle dei neri africani o delle donne”4

Inizia così una polemica che avrà ripercussioni in tutto il panorama letterario mondiale, con una schiera di difensori del valore estetico di un’opera contro quelli

3 Per quanto riguarda il canone bembiano,è da aggiungere, come criterio, l’ineguagliabilità

linguistica; è seguendo questo criterio che Bembo esclude Dante per via della vastità e della difficile riapplicabilità del suo lessico.

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8

che proporranno l’importanza contenutistica, in ambito sociale e politico, come maggior pregio possibile in un testo. Non essendo questa la sede più adatta a sviscerare una questione così contorta, mi preme segnalare solo un intervento che si frappone a metà tra i due schieramenti: la tesi di Romano Luperini che, nel libro

Il dialogo e il conflitto (1990), partendo dall’analisi del percorso che ha portato alla

crisi della critica letteraria arriva a riflettere sul concetto di canone. Analizziamo questa tesi usando le parole di Onofri:

“Luperini ha un concetto laico, antidogmatico e materialista della critica; non sembra più possibile, per lui, una definizione del ‘letterario’ che ne identifichi l’essenza ‘una volta per tutte, in termini filosofici e scientifici’ (come hanno creduto, fino a ieri o l’altro ieri, gli idealisti e Croce, i formalisti e gli strutturalisti). Una volta ammesso che la letteratura sia ‘una convenzione sociale’ ed aver sottolineato che la ‘letterarietà’ non sia ‘un requisito oggettivo’, col vantaggio di sottolinearne il significato di ‘rapporto storico’, bisogna però stare attenti a non ridurre tale letterarietà a un mero atto di ‘attribuzione’, coincidente con ‘lo sguardo di chi contempla’, magari privatissimo, esito a cui condurrebbero certe istanze dell’ermeneutica e del decostruzionismo, da Hans Georg Gadamer a Jacques Derrida, sino agli esiti estremi d’una lettura dei testi secondo cui ‘non esistono più fatti ma interpretazioni’.

Ecco: ‘la letterarietà’ non è un requisito eterno; ma non è neppure nulla’. Entro tali prospettive, Luperini rifiuta tanto ‘l’ideologia filologica’, quanto quella ‘ermeneutica’ di matrice francese e angloamericana. La prima ha il merito di restituire il testo ‘nella sua datità, al di là dei percorsi avventurosi della lettura e delle sue implicazioni soggettive’, ma, inchiodando il testo al suo tempo, può diventare ‘pericolosa negazione dell’interpretazione della critica stessa’, rifiutando le attese e le richieste del presente, nonché ogni responsabilità di mediazione sociale e culturale nei confronti della collettività, negandosi al giudizio di valore, confermando di fatto ‘il canone riconosciuto’ ed egemone, o dilatandolo indiscriminatamente, se pare dedicare ‘la stessa attenzione ai ‘documenti’ e ai ‘monumenti’ del patrimonio letterario’. La seconda, disancorandosi più o meno euforicamente dai testi, e respingendo la filologia come un’illusione, li riduce a pretesti per un discorso svincolato da ogni condizionamento sociale o materiale, non importa se per rivelare una ‘Verità, che s’incarna nel linguaggio, concepito come primum ontologico’ ( variante heideggeriana-gadameriana), o per mirare invece al ‘Nulla’, nel rifiuto d’ogni

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dialogo tra le interpretazioni, perché ‘tutte individuali, private, condannate all’incomprensione reciproca’, riducibili piuttosto a una mera sintassi del potere (variante nietzschiana- foucaultiana).[…]

Se le cose stanno così, quale significato assumerà il concetto di canone?[…]

Luperini quando prende direttamente in esame la questione, si ritrova, in fondo, a fare i conti con i due aspetti del concetto che già conosciamo: quello di sistema normativo, e l’altro che necessariamente lo riconduce all’autorità che lo pone. In questa seconda accezione, Luperini punta ancora una volta a una concezione pragmatica del fatto letterario e declina quell’autorità dal lato della ‘ricezione’, identificandola coi lettori e col pubblico, vero depositario della ‘tavola dei valori prevalente’ (con responsabilità sempre maggiori nell’industria culturale ove resta imprescindibile il concetto gramsciano di egemonia. ”5

Il quadro della questione non è ancora cambiato: cosa inserire nel canone e cosa no è tuttora motivo di discussione nell’ambiente critico-letterario, il che rende ancora più ostico il tentativo di definire, soprattutto alla luce delle polemiche novecentesche, il concetto di canone. Una delle poche certezze che abbiamo è che l’inserimento di un determinato autore nel canone ne comporta, quasi contemporaneamente, l’inserimento nei programmi scolastici. È su quest’ultimo punto che la mia proposta vuol battere con più forza: è infatti mia intenzione, analizzando cinque opere (a mio avviso fortemente significative per la prosa italiana novecentesca) di altrettanti autori siciliani, proporli per l’inserimento nel canone e nei programmi di studio. Per farlo prenderò come riferimento il programma di letteratura italiana stilato dal Miur in occasione dell’ultimo concorso a posti di insegnamento nella scuola, svoltosi nel 2016, che si propone come esempio di canone letterario italiano più recente. Il bando, nella sezione di riferimento per l’insegnamento della letteratura italiana, prevedeva che il candidato avesse una

5 ONOFRI, Il canone letterario, p. 41-44

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conoscenza approfondita dei seguenti autori: Dante, Petrarca, Boccaccio, Ariosto, Machiavelli, Guicciardini, Tasso, Galilei, Goldoni, Parini, Alfieri, Foscolo, Leopardi, Belli, Porta, Manzoni, Verga, Carducci, Pascoli, D'Annunzio, Pirandello, Svevo, Ungaretti, Montale, Saba, Quasimodo, Pavese, Vittorini, Morante, Primo Levi, Gadda, Calvino, Fenoglio, Moravia, Sciascia, Caproni e Pasolini. Come possiamo vedere sia Sciascia che Vittorini sono già presenti in questo canone anche se, spesso, l’analisi della loro opera non va oltre Il giorno della civetta e Uomini e

no. È a questo elenco che la mia proposta va a sommarsi, proponendo l’inserimento,

magari fin dal prossimo bando, di alcuni autori, secondo me meritevoli.

Per farlo presenterò un’analisi di ciascuno degli autori, segnalandone i punti di pregio e le caratteristiche dell’opera che ne dimostrano l’eccellenza, in ambito stilistico e contenutistico, puntando sul loro valore pedagogico e storico, prerogative, a mio avviso fondamentali, per degli autori ‘canonici’.

Gli autori, e le opere, che esamineremo sono, in ordine alfabetico, Vitaliano Brancati e Il bell’Antonio; Gesualdo Bufalino e La diceria dell’untore; Vincenzo Consolo e Il sorriso dell’ignoto marinaio; Leonardo Sciascia e A ciascuno il suo; Elio Vittorini e Conversazione in Sicilia.

Scegliere determinati autori vuol dire escluderne, per forza di cose, degli altri: mi preme qui aprire una piccola parentesi per spiegare cosa mi ha portato all’esclusione di altri autori che meriterebbero, forse ancor più di quelli presi in esame, l’inclusione nel canone letterario. Tra questi tre nomi vengono subito in mente: Salvatore Quasimodo, Tomasi di Lampedusa e Federico De Roberto.

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Salvatore Quasimodo è stato evitato principalmente per una questione di omogeneità: essendo un poeta un’analisi della sua opera sarebbe stata incoerente con l’esame a cui sono sottoposti gli altri autori, tutti prosatori. Nulla a che vedere dunque con l’opinione della critica letteraria che non lo considera, nonostante l’assegnazione del Nobel per la letteratura nel 1959, tra i migliori poeti del Novecento: probabilmente il suo talento come poeta è stato oscurato dalla sua incredibile vocazione per la traduzione.

Discorso diverso, invece, per quanto riguarda gli altri due ‘grandi esclusi’. L’assenza infatti del Gattopardo o dei Vicerè nei programmi scolastici è stata già in passato, e frequentemente, oggetto di polemica: assolutamente indiscusso il valore dei due testi, molti altri critici, ben più autorevoli del sottoscritto, hanno tentato di promuovere la discussione sui due testi. Tra i due il caso sicuramente più eclatante è quello del Gattopardo di Tomasi di Lampedusa che, pubblicato postumo nel 1958, vinse il premio Strega, nel ’59, ottenendo un successo, di critica e pubblico, clamoroso.

Dopo aver chiarito i motivi di alcune esclusioni, la mia scelta è ricaduta su questi autori perché, a mio avviso, hanno tutti in comune una particolarissima capacità: nonostante sia forte in ognuno, seppur in diversa misura, la sicilitudine riescono, usando la Sicilia come metafora per l’Italia tutta, a dipingere una realtà che non si fa fatica a ricondurre a quella generale italiana. Per questo è mia intenzione presentarli come se fossero un unico gruppo, il “gruppo della sicilitudine italiana”, dividendoli in due sottogruppi, uno formato dal duo Brancati-Vittorini, la prima generazione, dove l’antifascismo è parte essenziale della poetica, ed uno, composto

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dalla triade Bufalino-Consolo-Sciascia, la “generazione della Noce”6 , dove l’analisi dell’uomo e della società è il tema principale di riflessione. La cifra stilistica e il valore contenutistico di queste opere ne fa delle perfette candidate per l’inserimento nel canone e nei programmi scolastici, specialmente in un periodo storico come il nostro, in cui una svolta e dei cambiamenti nel sistema scolastico che possano riportare l’opinione pubblica a vedere sotto una buona luce la scuola è più che auspicabile.

Il contesto storico: l’Italia dal 1936 al 1982

La nostra ricostruzione storica comincia nel luglio 1936: in Spagna scoppia la guerra civile e le ripercussioni divampano in tutta Europa. La decisione di Vittorini di schierarsi, ideologicamente, contro Franco gli causerà dei problemi con i fascisti che decideranno per la sua espulsione dal partito e gli minacceranno il confino. Sarà dalla presa di coscienza dovuta alla guerra civile spagnola che Vittorini inizierà a parlare del “mondo offeso”: la dittatura e la violenza, come quelle perpetrate da Franco in Spagna con l’aiuto degli alleati Hitler e Mussolini, sono le peggiori offese che il mondo deve sopportare. Da questi sentimenti nasce Conversazione in Sicilia che, pubblicato integralmente nel 1941, gli causerà diversi problemi con la censura fascista. Siamo nel pieno della seconda guerra mondiale, il 25 luglio 1943 il fascismo cade ma l’Italia non sarà veramente libera fino al 1945, anno in cui, grazie all’aiuto delle armate degli Alleati, il paese viene abbandonato dalle truppe naziste. Si apre, con la fine del conflitto mondiale, una nuova fase storica per l’Italia: al fisiologico aumento della produzione e alla ripresa economica si accompagnano

6 Ho preso spunto per il nome dalla tenuta di campagna La Noce, proprietà di Leonardo Sciascia,

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momenti di confusione politica: nel 1946 la popolazione viene chiamata a scegliere la futura forma di governo del paese, la vittoria della Repubblica rappresenta un primo passo avanti per la democrazia. Le elezioni del 1948 vedono la vittoria, con ampio margine, della Democrazia Cristiana che prende il controllo del governo, sotto la guida di Alcide De Gasperi. La polemica di quegli anni è sulla mancata epurazione di dirigenti pubblici e personale amministrativo più compromessi con il fascismo; perfetto esempio di questo trasformismo le accuse mosse da Brancati nel suo Il bell’Antonio, pubblicato nel 1949, dove alla critica nei confronti del fascismo si accompagna l’accusa a molti fascisti di essere diventati, istantaneamente, antifascisti. Lo stallo politico non impedì all’Italia di crescere in maniera esponenziale, come ben dimostrato dall’analisi di Tommaso Detti e Giovanni Gozzini:

“Nel corso degli anni Cinquanta, mentre gli equilibri politici erano congelati, la struttura produttiva del paese conobbe una profonda trasformazione. Tra il 1951 e il 1961 gli addetti all’agricoltura calarono dal 42% al 29% della forza lavoro e gli addetti all’industria e ai servizi crebbero di due milioni di unità: l’Italia entrò in una fase di accelerata modernizzazione della sua base economica e per la prima volta il settore industriale conquistò la maggioranza relativa della popolazione attiva (38%, a fronte del 32% del terziario). Questo vistoso aumento non fu peraltro sufficiente a compensare la perdita di posti di lavoro in agricoltura che nello stesso periodo ammontò a 2,5 milioni di unità. Anche se impetuoso il processo di industrializzazione rimase inizialmente concentrato sul ‘triangolo industriale’ Torino-Milano-Genova, si estese poi al Veneto e all’Emilia ma non toccò in profondità il Mezzogiorno e non riuscì a cancellare una cronica penuria di lavoro. Nel periodo 1950-73 in Italia la disoccupazione fu infatti la più alta d’Europa: 5,5% a fronte del 2,8% del Regno Unito, del 2,5% della Germania, del 2% della Francia.”7

7 TOMMASO DETTI, GIOVANNI GOZZINI, Storia contemporanea, Vol. II, Il novecento,

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Come possiamo vedere la crescita non fu omogenea e il Mezzogiorno rimase indietro, covando nel suo profondo quel male che dalla Sicilia si allungherà fino ai confini dell’Italia: la mafia.

Gli anni Sessanta vedono l’Italia alle prese, per la prima volta in maniera ufficiale, con la lotta ai clan mafiosi. In quegli anni, precisamente nel 1961, Leonardo Sciascia scriveva Il giorno della civetta, il primo romanzo che osava denunciare apertamente la mafia, a cui faceva seguito, cinque anni dopo, A ciascuno il suo, dove l’autore descrive abilmente come la mafia sia riuscita, negli anni, a stringere la sua presa anche in sede istituzionale.

Arriviamo dunque agli anni Settanta, gli anni di piombo: mentre in Italia si sentivano le notizie degli attentati dei brigatisti, Vincenzo Consolo scrive Il sorriso

dell’ignoto marinaio che, pubblicato nel 1976 ma ambientato nel periodo

risorgimentale, rivive e rimette in discussione, in un momento tanto critico per la nazione, quel meccanismo che ha portato alla creazione del paese. Il pericolo rappresentato dalle Brigate Rosse cesserà solamente alla fine degli anni Ottanta.

Nel 1981 vede la luce La diceria dell’untore, romanzo d’esordio d’un sessantenne Gesualdo Bufalino, dove memoria e immaginazione si fondono creando un’atmosfera onirica che mette a nudo l’animo umano quando si trova ad affrontare sofferenza e malattia. L’anno successivo, quello in cui il nostro resoconto finisce, vede l’attentato di stampo mafioso ai danni del generale dei Carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa, da poco Prefetto di Palermo, e della moglie Emanuela Setti Carraro; ad un crimine del genere si oppose lo Stato, che promulgò e fece approvare,

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pochi giorni dopo, la legge per il reato di associazione per delinquere di tipo mafioso. Era l’11 settembre 1982 e cominciava la vera lotta alla mafia.

La Sicilia nel ‘900: il panorama artistico

“L’imprevedibile tempestività con cui la narrativa siciliana si è messa al passo col grande romanzo europeo è segno di quanto coinvolgente è stato il codice realistico e quale vigore abbia saputo trasmettere a quegli artisti d’impronta naturalistica che si ripoponevano di ri-creare un’ambientazione retoricamente estremizzata.

Il quadro che ne esce è intonato ad un pessimismo antropologico e civile connesso a quel culto della scienza da cui gli scrittori derivano una particolare passione per il vero, e a livello letterario per la verosimiglianza.”8

Con queste parole inizia il testo di Madrignani, Effetto Sicilia, ritrovando nel periodo di fine Ottocento quel momento in cui il romanzo siciliano inizia il suo cammino di evoluzione verso il romanzo moderno. Tra 800 e 900 la narrativa siciliana vivrà infatti quello che è probabilmente il suo periodo di maggior fortuna, con autori del calibro di Giovanni Verga e Luigi Pirandello che guideranno il profondo rinnovamento della creazione artistica:

“Da punti di vista diversi Verga, De Roberto, Pirandello, Sciascia hanno aperto valichi a una conoscenza romanzesca che contrasta con l’edonismo e il narcisismo di ogni forma, anche la più dignitosa d’intrattenimento; conoscere gli altri e se stessi è un atto di turbamento e di sofferenza, uno sguardo della Medusa che non può essere affrontato senza schermi.

Questo spiega perché, quando la tensione conoscitiva raggiunge i limiti di una sfida insopportabile, scatta un elemento di compensazione che si traduce in un’ideologia dell’innalzamento, sia che ispiri baluginanti squarci apocalittici oppure mitologie

8 CARLO ALBERTO MADRIGNANI, Effetto Sicilia. Genesi del romanzo moderno, Quodlibet,

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misteriose e nobilitanti. E in effetti la sgradevolezza del paesaggio di subumana normalità delineato dai veristi è tale da provocare in molti scrittori, come atto difensivo, l’insorgere di giustificazioni che trasformano la straziata Sicilia in un paese strano ed eccezionale.”9

Da queste premesse parte l’analisi di Madrignani, che vede nel Novecento siciliano un’evoluzione del romanzo la cui eco oltrepasserà i confini dell’isola:

“Tale narrativa a sfondo visivo e fattuale, aliena da ogni elemento di giudizio, si segnalò nel quadro della cultura letteraria come un dato eccezionale, una novità così netta che ha i caratteri di un atto fondativo da cui prese il via la stagione-chiave del romanzo moderno italiano. Il fenomeno è di tali proporzioni per cui non è fuori luogo parlare di un rinascimento siciliano o catanese, che oltrepassa la tradizione letteraria dell’isola e ne ingrandisce l’influenza sulla cultura del continente a tal punto che senza Verga e conterranei ogni discorso sul nostro romanzo non avrebbe un referente adeguato.”10

Gli autori che ora andremo ad analizzare si inseriscono perfettamente in questo contesto. Il “pessimismo antropologico e sociale” è parte integrante delle opere prese in analisi: Vittorini e la sua concezione del mondo offeso; Brancati e la disillusione del mancato ritorno a valori morali nel dopoguerra; Sciascia e la mafia impunita; Consolo e la critica ai moti di ribellione che avrebbero dovuto portare a condizioni più dignitose per i più umili; Bufalino e la sua lucida e fredda analisi dell’animo umano. La poetica di questi autori si inserisce, dunque, perfettamente nel solco aperto dagli scrittori di inizio secolo, prestandosi dunque ad un’analisi nel segno della continuità, seppur con le dovute differenze.

9 MADRIGNANI, Effetto Sicilia, pp. 7-8 10 MADRIGNANI, Effetto Sicilia, p. 9

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Riservando un confronto tra gli autori alla parte conclusiva dell’analisi mi preme sottolineare, fin d’ora, il filo che li lega e che può essere usato come prima chiave di lettura per capire non solo le somiglianze ma anche le differenze: la sicilianità espressa in tutte le sue forme, come scrive Aldo Scimè:

“Così ricordo i tre discutere quietamente nella bella casa di campagna di Leonardo alla Noce, un pomeriggio d’estate di tanti anni fa.

Erano stati riuniti insieme, per un’intervista collettiva, da Pietro Calabrese, allora redattore de ‘Il Messaggero’, nella giusta considerazione che essi rappresentassero, meglio d’ogni altro, la Sicilia. Tre varietà di siciliani, come proprio Bufalino le aveva descritte in una delle sue ultime interviste ed in cui identificare Sciascia, Consolo e se stesso.

‘ Ci sono tre varietà di siciliani (diceva a ‘La Stampa’ del 16 giugno): quello che se ne parte per sempre (Consolo ndr), quello che se ne parte per ritornare (Sciascia ndr) e quello che non se ne parte neppure’. ”11

Tre varietà che rappresentano anche tre diverse visioni della stessa cosa: un’isola, fonte di meraviglie e contraddizioni, di bellezze ineguaglibili e nefaste violenze; una terra che assume sfumature diverse per ognuno degli autori che però, ci si rende conto leggendoli, usano tutti lo stesso, identico, inconfondibile colore.

11 ALDO SCIMÈ, Alla Noce, un pomeriggio d’estate, in: NUNZIO ZAGO (a cura di), Simile ad

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CAPITOLO I

Elio Vittorini: Un lungo viaggio tra mito e denuncia

“È difficile associare l’idea della morte – e fino a ieri quella

della malattia – alla figura di Vittorini. Le immagini della negatività esistenziale, fondamentali per tanta parte della

letteratura contemporanea, non erano le sue: Elio era sempre alla ricerca di nuove immagini di vita. E sapeva suscitarle negli altri.”

Italo Calvino

I.1 La vita e le opere

Elio Vittorini nasce il 23 luglio del 1908 a Siracusa da padre di origine bolognese e madre siracusana. Seguendo il padre, di professione ferroviere, la famiglia trascorreva gran parte dei primi anni di vita dello scrittore in piccole e sperdute stazioni siciliane ; all’interno di una di queste, all’età di sette anni, Vittorini leggerà

Robinson Crusoe e Le Mille e una notte, due testi che avranno una fondamentale

importanza nella sua poetica e che desteranno in lui il fascino per il viaggio e per l’avventura. Una volta concluse le scuole di base venne iscritto dal padre in un istituto tecnico di ragioneria; nel 1921, ad appena tredici anni, fuggì di casa e, sfruttando i biglietti ferroviari gratuiti, arrivò fino in Italia settentrionale. A questa fuga ne seguiranno altre negli anni successivi fino al 1924, anno in cui abbandona gli studi di ragioneria e la Sicilia, partendo per Gorizia, in Friuli, dove rimarrà fino al 1930.

A Gorizia troverà prima un impiego come contabile e successivamente lavorerà come assistente in un’impresa edilizia; in questi anni inizierà anche a scrivere,

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pubblicando sul giornale “La Stampa” articoli e prose varie. Dal 1929 iniziò a collaborare con “Solaria”, la rivista fiorentina diretta da Alberto Carocci, Giansiro Ferrata e Alessandro Bonsanti, e l’anno successivo si trasferì a Firenze, dove alloggiò nella casa di uno zio pittore, per lavorare come segretario presso la redazione della rivista. Nel frattempo Vittorini lavora anche nella tipografia del quotidiano “La Nazione” come correttore di bozze: negli intervalli del lavoro in tipografia un collega accetterà di insegnargli l’inglese; le lezioni consistevano nel tradurre, parola per parola, il Robinson Crusoe che lo scrittore tanto amava. Alla fine Vittorini sarà in grado di tradurre correttamente l’inglese, capacità che gli consentirà anni dopo, quando dovrà lasciare la tipografia a causa di un’intossicazione da piombo seguita da complicazioni polmonari, di mantenersi lavorando come traduttore. Sul lavoro di Vittorini come traduttore mi sento in dovere di aprire una piccola parentesi, riportando le parole di Folco Zanobini:

“A proposito di Vittorini traduttore, la critica parla di un atteggiamento di estrema libertà interpretativa. Il caso di Saroyan (Che ve ne sembra dell’America?) è stato assunto come tipico: ‘In nessun altro testo tradotto da Vittorini incontriamo così frequentemente..quelle tipiche costruzioni sintattiche che costituiscono la caratteristica inconfondibile della sua prosa e che sono il frutto evidente di una reinvenzione stilistica sulla base di certe costanti che egli rintraccia in Saroyan e che cono sotanzialmente affini alla sua ricerca narrativa in chiave simbolica e poetica’. (Pautasso). L’infedeltà di Vittorini è stata definita, nel corso di un dibattito sulle sue traduzioni12, ‘fedeltà d’amore’ verso certi scrittori, un modo di

aggredirli criticamente e di renderli vivi. E a questo proposito ci sembra utile riportare qui una parte dell’intervento di Claudio Gorlier in quel dibattito:

‘ Vittorini a un certo momento vuol vedere lo scrittore in una simile prospettiva, con tutti i rischi che essa comporta. E a questo proposito io ho in mente un esempio che mi sembra

12 Il dibattito a cui Zanobini si riferisce è Vittorini traduttore e la cultura americana. Dibattito con

la partecipazione di Claudio Gorlier, Carlo Izzo, Agostino Lombardo e Fernanda Pivano, in

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tipico, che già comparve in ‘Americana’. Si tratta di un racconto di Hemingway, cioè uno degli scrittori più congeniali, che tradotto da Vittorini ha un titolo perfettamente vittoriniano; si chiama Vita felice di Francis Macomber per poco. Il titolo riflette una deliberata alterazione dell’originale, perché la dizione, tradotta letteralmente, suona semplicemente Breve vita felice di Francis Macomber, ma come tale possiede una precisa funzione operativa.

‘Nel contesto dello stesso racconto Vittorini compie dei singolari lavori di amputazione e di riporto, che appaiono molto significativi. In parte, egli introduce soluzioni sintattiche del tutto originali che smentiscono uno dei luoghi comuni più correnti su Vittorini, che, cioè, Vittorini fosse talmente influenzato dalla allure dell’originale americano da trasferire di peso delle soluzioni abnormi e prese di peso direttamente nell’italiano. […]

‘Ma quello che veramente conta, mi sembra, e che rende queste traduzioni perfettamente vitali, anche se le alterazioni sono là e si possono persin catalogare, è il fatto che Vittorini costringe lo scrittore americano a scendere sul suo terreno e che, soprattutto, rompe con una certa concezione della traduzione, così rigida, tradizionale, di cui c’era un’infinità di esempi in precedenza. Egli pone allora il grosso problema di costringere ad una nuova flessibilità questa nostra lingua rigida, che la narrativa non riesce mai a esorcizzare, perché suona così falsa;[…]’

Ma le traduzioni di Vittorini, oltre le suggestioni stilistiche che hanno saputo esprimere (‘non ho avuto un’influenza sui giovani per quello che ho tradotto ma per il modo in cui ho tradotto’), contano anche come impulso culturale e messaggio sociale in un determinato tempo. Tradurre Caldwell e Saroyan nel 1940, in quella congiuntura storica, aveva un significato.’13

Dopo questa parentesi sulle traduzioni di Vittorini ritorniamo alla sua biografia; nel 1931 pubblica i racconti di Piccola borghesia in “Solaria” e due anni dopo, nel febbraio del 1933, esce, nella stessa rivista fiorentina, la prima puntata del Garofano

rosso, che già dalla terza puntata provocherà il sequestro della rivista da parte della

censura; i successivi episodi saranno in parte censurati e la prima edizione integrale uscirà solamente nel 1948. Nel gennaio del 1936 iniziava la stesura di Erica e i suoi

13 FOLCO ZANOBINI, Introduzione e guida allo studio dell’opera vittoriniana, Le Monnier,

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fratelli, ma lo scoppio, nel luglio dello stesso anno, della guerra civile in Spagna e

l’enorme risalto che ebbe la notizia in Europa gli fecero interrompere la scrittura; il romanzo sarà poi pubblicato integralmente (dopo l’uscita, nel 1938, di un brano nella rivista fiorentina “Campo di Marte” e di un brano più lungo nell’almanacco milanese “Il Tesoretto” l’anno dopo) nella rivista “Nuovi Argomenti” di Alberto Moravia e Alberto Carocci nel 1954.

Sempre nel 1936 Vittorini venne espulso dal Partito fascista e pubblicò le prose

Viaggio in Sardegna e Nei Morlacchi, che comporranno, insieme ad altri

trentacinque capitoli scritti nel 1932, il volume Sardegna come un’infanzia, pubblicato nel 1953, che si presenta più simile un insieme di impressioni e immagini che ad un’opera narrativa in senso tradizionale.

Nel settembre del 1937 iniziava a scrivere Conversazione in Sicilia e dall’anno successivo la rivista “Letteratura”, che era succeduta a “Solaria”, ne iniziò la pubblicazione; nello stesso anno Vittorini si trasferisce da Firenze a Milano. La pubblicazione di Conversazione in Sicilia del 1941 gli causerà non pochi problemi con il fascismo a causa della critica, presente nel libro, all’ideologia del partito: Vittorini verrà arrestato a Milano il 26 luglio 1943 e rinchiuso nel carcere di San Vittore, dove rimarrà fino a settembre dello stesso anno. Una volta uscito di prigione diventerà un membro attivo della Resistenza; su quest’esperienza si baserà per la stesura del suo romanzo più “impegnato”: Uomini e no, che esce nel 1945, anno in cui vede la luce anche il primo numero del settimanale di cultura contemporanea “Il Politecnico”, pubblicato da Einaudi e diretto dallo stesso Vittorini. Nel maggio del ’46 la rivista passò da settimanale a mensile e pubblicò il suo ultimo numero, il n.39, alla fine dell’anno successivo. Questo periodo, anche

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per via dei temi trattati dalla rivista, uno fra tutti la funzione dell’arte nella società, vide la polemica tra Vittorini e Togliatti che si concluderà solo nel 1951, con l’allontanamento di Vittorini dal partito per motivi di natura ideologici e con lo scrittore sempre più vicino alle posizioni dei radicali.

In questi anni Vittorini pubblica altri tre romanzi: Il Sempione strizza l’occhio al

Fréjus, denuncia sulle condizioni dei lavoratori ma anche riflessione sull’uomo e

sulla morte, nel 1947; Le donne di Messina, l’opera vittoriniana che ha subito le maggiori variazioni dalla prima edizione, del 1949, a quella definitiva del 1964 e nella quale vediamo il confronto tra il mito delle origini, tipico in Vittorini, e l’evolversi della società verso forme che condizionano inevitabilmente l’uomo; La

Garibaldina, pubblicato nei numeri da febbraio a maggio del 1950 nella rivista “Il

Ponte” e successivamente, in edizione integrale, da Bompiani nel 1956: un racconto di viaggio che si snoda sui tempi della parodia amara.

Negli ultimi anni della sua vita si dedicò, con la collaborazione di Italo Calvino, alla rivista-collana “Il Menabò”, pubblicata da Einaudi e incentrata principalmente sul rapporto tra letteratura e industria e sulla capacità della letteratura di illustrare la realtà contemporanea italiana.

Nel 1963 scoprì di avere un cancro allo stomaco; nonostante l’operazione a cui si sottopose nell’estate del 1965 il cancro si ripresentò, incurabile: Vittorini morirà nella sua casa a Milano, il 12 febbraio dell’anno successivo, il 1966.

L’anno dopo vedrà la pubblicazione di Le due tensioni, a cura di Dante Isella, in cui sono raccolte le idee di Vittorini sulla letteratura e sulla sua funzione nei confronti della realtà; nel 1969 uscirà, postumo e incompleto, l’ultimo romanzo dello scrittore

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originario di Siracusa: Le città del mondo, di cui erano usciti alcuni stralci, in varie riviste, tra il 1952 e il 1959.

I.2 La poetica di Vittorini: il mito delle origini, del viaggio,

dell’uomo

“Nella prefazione al Garofano rosso, Vittorini ha scritto che la sua aspirazione non erano i libri, bensì il libro. Essendo una la verità da testimoniare, non molteplice, non contraddittoria, il libro si compone per successivi ritorni, per appassionate riprese e ricapitolazioni. Così nel suo grande libro che va da Piccola Borghesia a Le città del mondo, Vittorini aggredisce la sua verità, con un fervore che sempre si rinnova, ‘melodrammatico’ e lirico. E che si tratti di una verità, coerente nel tempo, lo dice proprio l’immutabile ripetersi, a lunghe scadenze, degli stessi temi. Tema e mito vengono, in certo modo, a identificarsi, proprio per questa resistenza, per il riferimento a qualcosa che ha fatto presa per sempre, che si è imposto come un destino.”14

Partendo da queste parole possiamo affrontare un discorso unitario sulle opere vittoriniane dalle quali escluderemo, per affrontarle singolarmente e più approfonditamente, Conversazione in Sicilia e Uomini e no.

Il vero esordio narrativo di Vittorini, Piccola Borghesia, è composto da otto racconti; tra questi particolarmente suggestivi sono i tre racconti della Prefettura,

Quindici minuti di ritardo, Educazione di Adolfo e Raffiche in prefettura, dove il

protagonista è Adolfo Marsanich, impiegato in prefettura, e la sua giornata che si divide tra fantasie, meditazioni e noie lavorative:

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“Velleitario e inetto - simile in questo ai personaggi cari ai solariani (come quelli di Svevo)- egli indugia in lunghe e minuziose autoanalisi, in rapite contemplazioni. Nell’opera di Vittorini, queste sono fra le pagine di psicologia più lente e più insistenti. E sono la prova di un ‘realismo psicologico’ che, alla luce delle esperienze successive, apparirà come il segno di una poetica superata.”15

Seguendo questo schema narrativo, una vicenda comune e prevedibile senza nessuna “rottura dell’equilibrio”, si articolano anche i racconti La signora della

stazione e Coniugi a letto. Il grigiore che circonda i personaggi farà però risaltare i

loro desideri d’evasione dalla realtà e il fascino verso un’avventura che possono solo sognare; questo desiderio d’avventura è riscontrabile anche ne La mia guerra che parla di un ragazzino che, allo scoppio della prima guerra mondiale, vede il conflitto sotto una luce fiabesca, come fosse un’avventura fantastica da vivere e da immaginare: il mondo della fantasia diventa dunque un rifugio sicuro per il ragazzo, che sfrutta la sua immaginazione per trovare, anche in un paese dilaniato dal conflitto, una via di fuga dalla realtà, verso l’avventura. Altro tema ricorrente nei racconti di Piccola Borghesia è quello del viaggio, in particolar modo quello ferroviario, che avrà sempre più importanza nella produzione vittoriniana.

Un altro racconto di viaggio è Sardegna come infanzia: “Si tratta, più che di un’opera propriamente narrativa, di una trama d’impressioni e immagini, nel gusto del reportage o elzeviro classico”16 come afferma Zanobini.

In questo testo viene descritto, attraverso suggestive descrizioni che richiamano il mito delle origini, un itinerario attraverso la Sardegna, con l’occhio del narratore

15 ZANOBINI, Introduzione e guida…, p.51 16 ZANOBINI, Introduzione e guida…, p.51

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che tende a focalizzarsi sulla natura primitiva delle cose; altro tema importante è la contemplazione sul dolore e sulla sofferenza che sfocia nella denuncia delle pessime condizioni dei lavoratori più umili, anticipazione dell’impegno umanitario che da qui in poi sarà sempre più importante nella produzione di Vittorini.

Il Garofano rosso è la storia di Alessio Mainardi, un giovane studente liceale

affascinato dal fascismo, e del suo amore per Giovanna, colei che gli donerà, come pegno d’amore, il garofano rosso che dà il titolo al romanzo. Il romanzo, dopo averci narrato del nascere dell’amore tra i due giovani, li mette di fronte ad una separazione: Alessio verrà allontanato da scuola dopo un’occupazione nata per protestare contro le commemorazioni di Matteotti e tornerà nella casa paterna, abbandonando la pensione della signora Formica e il suo migliore amico, Tarquinio Masseo. Lo scambio epistolare con quest’ultimo sarà, per il protagonista, l’unico modo per venire a conoscenza degli avvenimenti in città. Dopo essersi preparato all’esame da esterno nel suo paese d’origine, Alessio torna in città, alla pensione della signora Formica, dove però la situazione è cambiata: trasferitosi lontano Tarquinio, il ragazzo troverà conforto tra le braccia di Zobeida, bellissima e comprensiva, della quale si innamorerà, donandole il garofano rosso. I due però saranno costretti a separarsi: Zobeida sarà arrestata e Alessio verrà bocciato all’esame; il romanzo si chiude con la notizia, rivelata ad Alessio dall’amico Tarquinio, del tradimento di Giovanna. Il testo si presenta come un fedele documento di quanto sia stato forte il fascino del fascismo nel percorso di crescita di un adolescente qualsiasi, desideroso di esperienze forti, ansioso di giungere all’emancipazione totale.

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Incentrato sul tema del “mondo offeso”, che sarà presente anche in Conversazione

in Sicilia, è Erica e i suoi fratelli: iniziato e interrotto nel 1936, vedrà la

pubblicazione integrale quasi vent’anni dopo, nel 1954. Il testo narra la storia di Erica che, figlia maggiore di una famiglia indigente, inizia fin dalla tenera età di undici anni a rendersi conto della realtà umile che la circonda. La situazione peggiorerà quando il padre, partito per lavorare in un paese lontano, si ammala. La madre, desiderosa di scappare dalla famiglia, lo raggiunge, lasciando Erica, tredicenne, a badare alla casa ed ai due fratelli minori. Dopo un periodo in cui la ragazza riesce a mandare avanti la famiglia, suscitando l’ammirazione del quartiere, le poche fonti di sostentamento vengono a mancare, ed Erica sarà costretta a prostituirsi per mantenere i fratelli. Il romanzo, che nelle intenzioni dell’autore avrebbe visto ulteriori sviluppi, con la crescita di Erica e il suo comprendere la vita nelle sue sfaccettature, si ferma invece qui, quasi a voler sottolineare l’ineluttabilità della miseria per il ceto più umile, donando quella sensazione di irrisolto che troveremo anche nelle successive opere di Vittorini, e la denuncia per questa triste condizione.

Denuncia che troveremo ancor più marcate in Il Sempione strizza l’occhio al Fréjus, romanzo del 1947 che riflette sulla precarietà della vita del ceto più umile. Narrata attraverso la prima persona, la vicenda ci presenta la famiglia del narratore, in cui l’elemento di spicco è il nonno: monumentale “come un elefante”, ha lavorato come muratore ed ha costruito ponti e ferrovie; un giorno, davanti casa, viene riparata una strada e il nonno ed un operaio, Muso-di-Fumo, fanno amicizia: l’operaio viene invitato a pranzo, dove racconta del suo desiderio da bambino, di fare l’addestratore di elefanti e si tuffa in un’entusiastica descrizione di questi animali. Queste

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discussioni, usate da Vittorini come pretesto per riflettere sulla natura, sulla vita e sulla morte, fanno del Sempione strizza l’occhio al Fréjus l’opera più filosofica dello scrittore siracusano; la vicenda finisce con il nonno che si allontana, salutando con il bastone la famiglia, senza parlare: come un elefante va verso un luogo lontano, ormai pronto per dire addio a questa vita.

Le donne di Messina è l’opera di Vittorini che ha subito più modifiche: dopo la

prima stesura del 1949, l’opera fu modificata dall’autore che ne riscrisse diverse parti, ripubblicandola nel 1964. La storia si svolgerà tutta su due tempi: quello del villaggio e quello dello zio Agrippa; la vicenda inizia, un giorno imprecisato del dopoguerra, con un camion in panne in mezzo alla campagna inospitale: qui facciamo la conoscenza dei primi personaggi, che diventeranno poi gli abitanti del villaggio su cui il libro sarà incentrato. In un tempo diverso, arriva al villaggio lo zio Agrippa, che da anni viaggia in treno per cercare la figlia scomparsa. La narrazione prosegue, narrando la storia del progresso tecnologico del villaggio, che dall’ “età delle carriole” passa all’ “età del carretto” ed arriva all’ “età del camion”: in questa atmosfera arriverà Carlo il Calvo a parlare di proprietà e catasto, incontrando le resistenze di buona parte del villaggio, soprattutto in Ventura, personaggio dal passato sconosciuto. Arriva la primavera e adesso i due tempi, quello dello zio Agrippa e quello del villaggio, coincidono; iniziano a dissiparsi le ombre che avvolgono il passato di Ventura che si scopre essere un ex ufficiale, scappato da un campi di prigionieri e da quel momento clandestino. A riconoscerlo sarà proprio Carlo il Calvo; una volta scoperto, e venuto a conoscenza della presenza di cacciatori sulle sue tracce nella zona, Ventura si allontanerà dal villaggio. Il romanzo si chiude con l’ennesimo discorso in una carrozza ferroviaria

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tra Carlo e lo zio Agrippa, con quest’ultimo desideroso di apprendere le ultime novità sul villaggio che ormai si è modernizzato, accettando tutte le migliorie della tecnologia e rifiutando la sua vecchia natura di “comune”.

L’obiettivo dell’opera, il tema su cui vuole soffermarsi l’autore, la denuncia che vuole fare è da rintracciare soprattutto nelle differenze tra questa edizione e quelle precedenti, sulle modifiche apportate da Vittorini:

“Le differenze tra questa redazione del 1964 e le precedenti sono principalmente d’ordine strutturale, ma con chiare conseguenze anche sul piano ideologico. Lo scarto di tempo fra il ’49 e il ’64 equivale al passaggio dal clima post-resistenziale, agli anni del benessere, cioè ad una condizione storica e sociale assai modificata: e non si tratta di un fatto di poco conto, soprattutto nel caso di uno scrittore come Vittorini, costantemente preoccupato di sentirsi presente e partecipe del suo tempo. La prima stesura risentiva del fervore e delle illusioni del dopoguerra, cioè delle posizioni d’impegno proprie del neorealismo. La struttura drammatica del racconto […] sottintendeva una interpretazione tesa, non distaccata, della vicenda sociale. Nell’ultimo romanzo, molte tensioni sono state eliminate.[…] La delusione storica degli anni Sessanta è subentrata ai fervori e alle intransigenze dello ‘spirito del 45’.

Dal punto di vista ideologico, questo è uno dei libri più interessanti di Vittorini. Qui il mito delle origini e dell’autosufficienza dell’uomo è confrontato con la consapevolezza critica del reale evolversi della società verso forme e livelli cui l’uomo finisce per essere condizionato.”17

Confronto che vedrà l’evoluzione della società come unica alternativa valida: nel villaggio, così come nella realtà, lo sviluppo tecnologico avrà la meglio, allontanando l’uomo sempre più dalla condizione primitiva e dalle sue origini. Basato su un tema completamente diverso è invece La Garibaldina, racconto in sei parti che riprende il motivo, ormai familiare per l’autore, del viaggio. Il percorso

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itinerante di un bersagliere e di Leonilde, un’arzilla vecchietta, è il tema principale dell’opera. La storia parte dalla stazione di Gela, dove i due si incontrano e prendono un treno per Terranova: durante il viaggio la Garibaldina racconterà della sua giovinezza, rimpiangendo quel periodo della sua vita così avventuroso e riflettendo sul tempo che passava senza cambiamento alcuno. Arrivati a destinazione il soldato accompagna l’anziana signora a casa ma sulla via del ritorno viene circondato da alcuni mietitori, appena licenziati dalla Garibaldina: salvato dall’arrivo a cavallo di quest’ultima, il giovane bersagliere riprende, fischiettando, la sua strada. Scritto in chiave ironica, il racconto presenta, soprattutto nella figura di Leonilde, una stupenda vitalità, figlia anche dell’ambiente fiabesco in cui Vittorini colloca la storia, richiamando il tema del viaggio come ritorno non solo alle origini ma anche all’infanzia.

L’ultimo romanzo, Le città del mondo, ci arriva incompleto: alla fine dei primi quaranta capitoli ci troviamo di fronte ad una serie di capitoli non numerati e frammenti vari; ambientato in un mondo vastissimo, Vittorini ricrea, in quest’opera, un intreccio di storie e personaggi molto complesso. Il risultato è una visione fiabesca del mondo, in cui la lente d’ingrandimento si sposta da un personaggio all’altro, cercando di analizzare e comprendere il senso del suo pellegrinaggio nel mondo.

I.2.1 Uomini e no: il racconto della resistenza

Considerata l’opera più impegnata di Vittorini, Uomini e no viene pubblicato nel giugno del 1945.

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Il romanzo è ambientato a Milano, nel 1944; il protagonista è Enne2, membro della resistenza. La storia si apre con l’incontro tra Enne2 e Berta, che conosce fin dall’infanzia e della quale è innamorato, nonostante lei stia con un altro uomo; il discorso tra i due, teso e concitato, viene interrotto dalla comparsa di un cane e di uomini in nero con i fucili spianati: trovano rifugio in casa di Selva, un’anziana, che fa un discorso sull’importanza della felicità nella vita degli uomini. Dopo essere usciti da casa della donna, Enne2 e Berta si separano; il giovane si incontra con una donna, Lorena, che gli porge una rivoltella e si unisce ad altri tre giovani nella preparazione di un attentato ad un’auto delle SS; i quattro riescono a far esplodere l’auto e nella confusione che ne segue, dovuta ad una sparatoria, Enne2 rientra in casa, non prima però che la voce di Cane nero, capo fascista, risuoni nelle strade ormai deserte.

Enne2 viene dunque raggiunto da Lorena che lo informa di una riunione importante, i due fanno l’amore ma l’uomo allontana la donna, non volendo instaurare con lei una relazione. Durante la riunione i membri della resistenza pianificano un attacco ad una caserma: l’attesa appena precedente all’inizio dell’azione viene usata da Vittorini per raccontare la storia dei personaggi e per mettere a nudo le loro angosce. L’attacco va a buon fine ma due compagni di Enne2 perdono la vita.

L’indomani Berta torna nella casa di Selva, con la quale parla dei suoi sentimenti verso Enne2; dopo aver discusso con la vecchia va in strada, trovando i resti della battaglia del giorno prima. Nel frattempo giunge sul posto anche Enne2 che, scorgendola tra la folla, le si avvicina e i due riprendono il loro discorso amoroso: Berta non vuole concedersi prima di aver parlato con l’altro uomo. Nel frattempo, un uomo in pantofole, Giulaj, colpevole di aver offeso i tedeschi viene inseguito da

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uno dei cani del capitano Clemm: ucciso il cane, l’uomo viene catturato dai tedeschi e verrà sbranato da altri due cani del capitano come punizione.

Enne2 guida un attacco alla caserma di Cane nero: l’impresa fallisce e la foto del ribelle viene pubblicata sul giornale; i compagni di Enne2 provano dunque a convincerlo a lasciare Milano ma l’uomo non li ascolta: aspetta il ritorno di Berta, covando l’inutile speranza di coronare il loro sogno d’amore. Nel frattempo la sua posizione viene rivelata, dal tabaccaio vicino casa, a tre operai: mentre due di loro andranno a riferire le informazioni ricevute ai fascisti, il terzo correrà dal ribelle per avvertirlo, senza però riuscire a convincerlo a lasciare la casa.

Mentre Enne2 attende l’arrivo dei fascisti, i compagni provano un’ultima volta a persuaderlo a scappare, raccontandogli che sia Clemm che i suoi cani erano stati uccisi anche se l’impresa era costata la vita ad altri due compagni: Figlio-di-Dio e Ibarruri. L’uomo rifiuterà ancora, aspettando il suo destino in casa.

Il romanzo si conclude con l’operaio che aveva provato ad avvisare Enne2 che, una volta unitosi alla resistenza, non riuscirà ad uccidere un giovane tedesco incontrato in una bettola: il suo aspetto da operaio fermerà la mano della nuova recluta, che si immedesimerà in lui, nella sua tristezza, promettendo ai compagni che un episodio del genere non si sarebbe ripetuto in futuro.

Ventitrè capitoli in corsivo interrompono di quando in quando la narrazione, collocati dall’autore per suggerire una diversa dimensione e versione dei fatti; in questi capitoli, di cui la maggior parte ha funzione di flashback, possiamo notare come lo scrittore induca Enne2 al ricordo dell’infanzia, tema tipicamente vittoriniano che fa anche qui la sua comparsa, o l’interrogarsi di Berta sui morti da

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lei visti per strada; altro argomento è la sempre attuale riflessione sull’uomo e sull’offesa subita dal mondo. Attraverso il corsivo e creando uno sconvolgimento nell’ordine temporale nella successione del tempo della storia equello del racconto, Vittorini è come se creasse un secondo filo narrativo che si contrappone, con il suo valore psicologico di mondo della memoria, al realismo della storia raccontata. Su questo tema è intervenuta Rosa Montesanto, con la seguente analisi:

“Il corsivo, in definitiva, lungi dall’essere un semplice artificio narrativo vistoso ed esteriore diventa un mezzo per scandagliare l’humus da cui nasce l’opera narrativa come sistema connotato, in quanto la scelta del codice esplicativo è condizionata in ogni scrittore dal complesso dei modelli informativi che costituiscono la sua cultura, ma anche da elementi affettivi, emotivi, ed esistenziali che egli razionalmente cerca di censurare, ma che riaffiorano nella organizzazione scritturale dell’opera.

Il corsivo fa sì che Uomini e no che doveva essere il romanzo della resistenza e sulla resistenza divenga un’opera in cui affiorano le contraddizioni, o meglio le incertezze dell’autore, del suo essere uomo, del suo essere comunista, anzi, intellettuale comunista; incertezze e contraddizioni che si configurano anche come ‘crisi linguistica’, come vero e proprio scontro di scelte di messaggi e codici, preliminare alla operazione creativa.”18

Muoviamo da questa analisi, che partendo dal corsivo arriva ad analizzare la genesi creativa dell’opera, per spostarci su un altro tema importante, cioè il valore letterario dell’opera:

In Uomini e no (non uomini) Vittorini ha intrecciato la rievocazione di alcuni sanguinosi episodi della recente guerra civile italiana con le alternative di una passione amorosa non immune da qualche sentore dannunziano, per chi ne consideri l’effettiva sostanza e il loro stesso configurarsi, nonostante l’aura estremamente allusiva in cui sono tuffate dalla loro ieratica, sillabata, ma voluta, ostentata nudità. La quale in definitiva, volendo risultare

18 ROSA MONTESANTO, Nota al ‘corsivo’ in Uomini e no, in: PAOLO MARIO

SIPALA-ERMANNO SCUDERI (a cura di), Elio Vittorini, Atti del convegno nazionale di studi, Siracusa-Noto, 12-13 febbraio 1976, pp.86-87

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antiletteraria, si rivela ultraletteraria. In effetti, del realistico proposito di verità e di semplicità perseguito con un minuto lavorìo d’impoverimento e di spogliazione, viene a mancare la riprova che dovrebbe essere fornita dall’austera elementarità dei protagonisti. Ciascuno è fatto assurgere a significazione allegorica, a uomo in assoluto. E così, dilatati secondo un procedimento caro a Saroyan (il quale, derivandolo da Hemingway, ha la consapevolezza di doverne ricavare composizioni sulla specie del poemetto) e da Vittorini già sperimentato nella precedente ‘conversazione’ ma ora appesantito, codesti eroi perdono quella nettezza di contorno, quella concretezza che li avrebbe resi più riconoscibili, più veri.[…] Uomini e no offre ancora una conferma, e in sovrabbondanza, di quanta letteratura mal si celi sotto certa antiletteratura. La letteratura non si supera che a forza di letteratura, ma raffinandone, consumandone la tecnica, fin quasi ad annullarla e a farla diventare naturale.”19

Il valore dell’opera si presenta anche nelle conclusioni a cui giunge Enne2: una volta che gli è chiaro che non sopravvivrà si rende conto che l’unico modo per riparare alle offese subite dal mondo e dall’uomo per colpa dei fascisti (i non uomini) è resistere: senza se e senza ma, anche se sembra inutile. In questa riflessione c’è il senso di tutta l’opera, Vittorini ha voluto, parlando di un qualsiasi uomo della resistenza, dare il giusto merito a chi ha perso la vita per fare l’unica cosa possibile: combattere il fascismo e il nazismo.

I.3 Conversazione in Sicilia: viaggio nel “mondo offeso”

Io ero, quell’inverno, in preda ad astratti furori. Non dirò quali, non di questo mi sono messo a raccontare. Ma bisogna che dica ch’erano astratti, non eroici, non vivi; furori, in qualche modo, per il genere umano perduto. Da molto tempo questo, ed ero col capo chino.

19 ENRICO FALQUI, Letterarietà di “Uomini e no”, in: FOLCO ZANOBINI, Introduzione e

guida allo studio dell’opera vittoriniana, Le Monnier, Firenze 1974, pp. 156-157 (già in: Uomini e no, in Tra racconti e romanzi del Novecento, D’Anna, Messina, 1950)

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Vedevo manifesti di giornali squillanti e chinavo il capo; vedevo gli amici, per un’ora, due ore, e stavo con loro senza dire una parola, chinavo il capo; e avevo una ragazza o moglie che mi aspettava ma neanche con lei dicevo una parola, anche con lei chinavo il capo. Pioveva intanto e passavano i giorni, i mesi, e io avevo le scarpe rotte, l’acqua che mi entrava nelle scarpe, e non vi era più altro che questo: pioggia, massacri sui manifesti dei giornali, e acqua nelle mie scarpe rotte, muti amici, la vita in me come un sordo sogno, e non speranza, quiete.

Questo era il terribile: la quiete nella non speranza. Credere il genere umano perduto e non aver febbre di fare qualcosa in contrario, voglia di perdermi, ad esempio, con lui. Ero agitato da astratti furori, non nel sangue, ed ero quieto, non avevo voglia di nulla. Non mi importava che la mia ragazza mi aspettasse; raggiungerla o no, o sfogliare un dizionario era per me lo stesso; e uscire a vedere gli amici, gli altri, o restare in casa era per me lo stesso. Ero quieto; ero come se non avessi mai avuto un giorno di vita, né mai saputo che cosa significa esser felici, come se non avessi nulla da dire, da affermare, negare, nulla di mio da mettere in gioco, e nulla da ascoltare, da dare e nessuna disposizione a ricevere, e come se mai in tutti i miei anni di esistenza avessi mangiato pane, bevuto vino, o bevuto caffè, mai stato a letto con una ragazza, mai avuto dei figli, mai preso a pugni qualcuno, o non credessi tutto questo possibile, come se mai avessi avuto un’infanzia in Sicilia tra i fichidindia e lo zolfo, nelle montagne; ma mi agitavo entro di me per astratti furori, e pensavo il genere umano perduto, chinavo il capo, e pioveva, non dicevo una parola agli amici, e l’acqua mi entrava nelle scarpe.”20

Questo l’incipit di Conversazione in Sicilia, che si apre con la descrizione dello stato d’animo dell’Io narrante; l’inerzia spirituale di Silvestro, il protagonista, il suo pessimismo nei confronti del mondo, del genere umano ormai perduto, verranno stimolate da una lettera del padre che, lasciata la moglie per sposare un’altra donna, invita il figlio a far visita alla madre. È lo spunto per intraprendere il viaggio che lo porterà nella sua terra natale. Il romanzo si divide in cinque parti più un epilogo: nella prima parte vediamo il viaggio in treno, motivo sempre caro a Vittorini, del protagonista che partendo da Milano attraversa tutta l’Italia fino alla Calabria, dove prende il traghetto per raggiungere l’isola; una volta arrivato a Messina riprende il

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treno su cui fa la conoscenza di diversi personaggi: tra questi il più importante è sicuramente il Gran Lombardo:

“Era un siciliano, grande, un lombardo o un normanno forse di Nicosia, tipo anche lui carrettiere come quelli delle voci sul corridoio, ma autentico, aperto, e alto, e con gli occhi azzurri. Non giovane, un cinquantenne, e io pensai che mio padre ora somigliava forse a lui sebbene mio padre lo ricordassi giovane, e snello, magro, recitando il Macbeth, vestito di rosso e nero. Doveva essere di Nicosia o Aidone; parlava con il dialetto ancora quasi lombardo, con la u lombarda, di quei posti lombardi del Val Demone: Nicosia o Aidone. ‘Non sentivate la puzza?’ egli disse.

Aveva una piccola barba pepe e sale, gli occhi azzurri, la fronte olimpica. Stava senza giacca, nel freddo scompartimento di terza classe, un tipo carrettiere forse solo per questo, non per altro, e teneva arricciato il naso di sopra al pelo scarso dei baffi e della barba, ma capelluto come un uomo antico, senza giacca, in maniche di camicia a piccoli quadri scuri, e un panciotto enorme, marrone, con sei taschini”21

Questa la figura del Gran Lombardo che richiama, nella mente del narratore, echi del passato personale (il ricordo del padre) e mitici ( “un uomo antico”); questo incontro si rivelerà cruciale per Silvestro: il discorso, fatto dal Gran Lombardo, sull’inadeguatezza dei vecchi doveri e sul bisogno di cercarne nuovi darà motivo di riflessione al protagonista, e l’immagine del vecchio, il cui nome è di origine dantesca (primo protettore dell’esiliato Dante), sarà un punto di riferimento costante dell’opera. Il treno giunge infine a Siracusa dove Silvestro prende la via tra le montagne che lo porterà a casa di sua madre; così finisce la prima parte.

La seconda parte si apre con l’arrivo di Silvestro nel paese dove abita la madre e con una serie di riflessioni: sente che il suo viaggio non solo non è ancora giunto

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alla fine ma che addirittura deva ancora iniziare, è come se stesse viaggiando attraverso una quarta dimensione, quella del tempo, della memoria. Questa quarta dimensione farà da cornice a tutta questa seconda parte in cui, durante i discorsi tra Silvestro e Concezione, sua madre, i ricordi dell’infanzia e l’immediatezza del reale vanno a mischiarsi.

Buona parte della loro conversazione sarà incentrata sulle figure paterne: continuo il confronto, fatto dalla madre, tra il padre e il nonno del protagonista, individui dal carattere diametralmente opposto: inerme e debole ci viene presentato Costantino, padre di Silvestro, mentre di un uomo grande e forte è l’immagine che ci viene consegnata da Concezione quando parla di suo padre. Questo discorrere di figure maschili rievocherà nella mente di Silvestro un altro uomo: quel Gran Lombardo, conosciuto pochi giorni prima, che tanto spazio occupa nei pensieri del giovane:

“Parlò e parlò mia madre un pezzo del nonno, o del babbo, o di altri che fosse, dell’uomo insomma, e io mi trovai a pensare che doveva essere una specie del Gran Lombardo.[…]

Pensai a mio padre con gli occhi azzurri, non biondo, e come pensavo anche lui una specie di Gran Lombardo, in Macbeth, e in tutte le sue tragedie recitate su tavole di ferrovia, per ferrovieri e cantonieri[…]

E io: ‘Che importano i capelli? Sono sicuro che il nonno era un Gran Lombardo…Doveva essere nato in un posto lombardo.’[…]

‘Era di Piazza,’ disse mia madre. ‘Era nato a Piazza e poi venne qui. È un posto lombardo Piazza Armerina?’

Un momento io rimasi zitto, pensai, e poi dissi: ‘No, non credo che Piazza sia un posto lombardo.’

E mia madre trionfò. ‘Vedi che non era un Gran Lombardo?’ dise. ‘E invece sono sicuro che lo era!’ esclamai io. ‘Non poteva non esserlo!’ E mia madre: ‘Ma se non era di un posto lombardo!’

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E io: ‘Che importa il posto? Anche s’era nato in Cina sono sicuro ch’era un Gran Lombardo…’

Allora mia madre rise. ‘Sei testardo!’ disse. ‘Perché vuoi proprio che fosse un Gran Lombardo?’

E anch’io risi, un secondo. Poi dissi: ‘Come tu ne parli sembra che dovesse esserlo. Sembra che dovesse pensare ad altri doveri…’

Questo io dissi molto sul serio, con nostalgia del Gran Lombardo conosciuto in treno, e di uomini e uomini che fossero simili a lui, di mio padre in Macbeth, e del nonno, e dell’uomo in un’immagine, come lui. ‘Sembra che dovesse pensare ad altri doveri’ dissi.

‘Altri doveri?’ disse mia madre.

E io: ‘Non diceva che questi nostri doveri di ora sono troppo vecchi? Che sono marci, morti e che non vi è soddisfazione ad adempierli?”[…]

Ora a me pareva di nuovo mi fosse indifferente essere là, da mia madre, e non essere piuttosto nella mia vita di tutti i giorni, eppure, sempre con nostalgia del Gran Lombardo, chiesi: “Era soddisfatto di sé? Era soddisfatto di sé e del mondo, il nonno?’

Mia madre mi guardò un pezzo, sconcertata, e fu per dire qualcosa. Ma mutò pensiero e disse: ‘Perché no?’ Poi mi guardò di nuovo, e io non le rispondevo, e mi guardò, mi guardò, e di nuovo mutò pensiero, disse: ‘No, in fondo non lo era.’ ”22

La seconda parte continua, e termina, con il racconto di Concezione di una sua storia extraconiugale con un giovane viaggiatore sconosciuto vestito da soldato: l’immagine del viandante si inserisce anch’essa nel paragone con il Gran Lombardo; l’uomo, probabilmente morto durante uno sciopero, incarna quei valori umili del mondo offeso, ha altri, nuovi, doveri a cui pensare e per i quali ha perso la vita.

La terza parte, in cui Silvestro accompagna la madre nel suo giro di iniezioni, sarà di natura fortemente riflessiva. Il giro per le case, al seguito della madre che fa da

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