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I romanzi polizieschi: dal Giorno della Civetta ad Una

III.2 La poetica: ecletticità e denuncia

III.2.3 I romanzi polizieschi: dal Giorno della Civetta ad Una

“Non c’è autore italiano del Novecento che meglio di Sciascia abbia contribuito alla piena legittimazione del romanzo poliziesco come genere della letteratura tout court.”66

Non si può non dare ragione a Traina quando pronuncia queste parole: di tutta la produzione dello scrittore di Racalmuto il genere poliziesco è senza ombra di dubbio il più usato e quello a lui più congeniale. Tra i suoi gialli troviamo infatti Il

giorno della civetta, A ciascuno il suo, Il contesto, Todo modo, Il cavaliere e la

65 SCIASCIA, Candido, p.132 66 TRAINA, Sciascia, p.116

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morte e Una storia semplice. Prima di affrontarli singolarmente può esserci utile

una breve panoramica su cos’è il giallo per Sciascia e su come viene sviluppato; per farlo ci serviremo di nuovo delle parole di Traina:

“Se alla base di ogni romanzo poliziesco che si rispetti c’è un mistero da risolvere, alla base della riflessione di ogni uomo che si rispetti c’è il Mistero per antonomasia, l’esistenza o la non esistenza di Dio. Così è anche per Sciascia, uomo di pensiero e scrittore di pensiero: confrontarsi con lo Sciascia giallista vuol dire, allora, studiare il modo in cui egli affrontava il problema della metafisica, come ha suggerito Gesualdo Bufalino con il calzante aforisma critico con cui definì Sciascia ‘poliziotto di Dio’. Un poliziesco metafisico nel caso di Sciascia dev’essere un poliziesco eretico, poiché innanzitutto viola le regole canoniche su cui il romanzo poliziesco tradizionale è costruito: i suoi ‘gialli’ presentano, fra l’altro, trappole del narratore nei confronti del lettore […]; una scoperta del colpevole che può essere, come in Una storia semplice, anche casuale; il fatto che il colpevole non è mai solo […], anzi va sempre ricondotto a una trama occulta di complicità; la preferenza del

detective per le intuizioni più che per le deduzioni (Sciascia detesta la logica astratta di

Sherlock Holmes, preferendo l’intuitività partecipe di Maigret).

Un’altra importantissima ‘regola’ elusa dal nostro autore prescrive la punizione del criminale perché, scriveva il grande giallista Raymond Chandler, ‘senza la punizione, il romanzo diventa simile a un accordo non risolto in musica. Lascia un senso di irritazione’. Non c’è invece uno solo dei testi polizieschi sciasciani in cui il colpevole sia punito. O, meglio, il singolo colpevole può anche essere punito, ma non si può mai sconfiggere la trama criminale di cui fa parte, come avviene in Una storia semplice. Eppure il lettore dei ‘gialli’ di Sciascia non resta deluso perché sa che egli usa il poliziesco- sostiene giustamente Mario Fusco- come ‘un mezzo, particolarmente efficace, per far nascere la riflessione e la presa di coscienza sul carattere inaccettabile di un sistema politico e sociale. […] L’inchiesta non è per lui una cosa in sé; è, al contrario, il mezzo privilegiato d’una riflessione insieme politica e filosofica’ ”67

Dopo questa riflessione generale passiamo ad esaminare i singoli testi; iniziamo dall’ultimo, Una storia semplice.

67 TRAINA, Sciascia, pp.116-117

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Il libro inizia con l’anziano console Roccella che torna nella sua casa in campagna, da lui creduta disabitata, e avverte la polizia di aver trovato qualcosa. Il giorno dopo, quando viene ritrovato morto, il caso viene inizialmente archiviato come suicidio: non è così; la casa era in realtà un deposito di droga che faceva anche da nascondiglio ad un quadro, molto famoso, rubato qualche tempo prima. Il professor Franzò, aggiornato sugli avvenimenti dall’amico brigadiere Lagandara, inizierà a seguire le indagini. Alla fine si scopre che il colpevole altri non è se non il commissario che, scoperto dal brigadiere a causa di un lapsus, tenterà di sparargli: il brigadiere, più veloce di lui, spara per primo, uccidendolo in presenza del questore e del giudice che decideranno di catalogare l’accaduto come incidente.

Questo testo si lega, seppur in maniera molto sottile, con un altro ‘giallo’ di Sciascia: Il cavaliere e la morte.

In questo altro romanzo Sciascia crea il personaggio che più gli assomiglia: un Vice commissario di polizia che prova a opporsi al potere, che lotta contro un tumore che lo consuma dall’interno, al quale lo scrittore presta le sue idee, le sue emozioni, i suoi pensieri. La storia inizia con l’omicidio dell’avvocato Sandoz: grazie alle indagini il Vice scopre che l’assassino è il potentissimo industriale Aurispa, che tira i fili delle trame criminose in Italia. Il Vice non ha prove e nemmeno il sostegno del commissario che, corrotto dal potere, darà la caccia ad un inesistente gruppo terroristico. Ogni momento della sua indagine è focalizzato sui suoi pensieri, anche quando questi vanno a toccare temi come la situazione in Italia, il rapporto con la morte che si avvicina a causa della malattia. Questi pensieri accompagneranno il Vice verso la pensione che non raggiungerà mai: verrà ucciso da uno sparo misterioso non appena deciderà di riaprire le indagini.

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Abbiamo parlato prima del collegamento tra questo testo e Una storia semplice, approfondiamo adesso il concetto con le parole di Traina:

“Il rapporto tra Il cavaliere e la morte e Una storia semplice è sottile, tanto che i due testi formano un dittico perché narrano di due opposte imposture: il secondo narra di una storia che semplice non è, ma al potere come tale fa comodo contrabbandarla, il primo una storia che invece è semplice, ma che il potere complica in tutti i modi, inventando un gruppo terroristico inesistente.”68

Il Potere è onnipresente nei testi polizieschi di Sciascia, e non sempre il modo di opporsi ad esso è lo stesso: se infatti il Vice prova fino all’ultimo a combatterlo secondo i principi di giustizia non mancano romanzi in cui la soluzione prevede addirittura l’omicidio per difendersi dal potere; è questo il caso di Todo modo e Il

contesto.

In quest’ultimo romanzo il protagonista è l’ispettore Rogas che si ritroverà, in uno stato fittizio molto simile all’Italia, ad indagare su una serie di omicidi di magistrati. Durante le indagini che lo portano a Cres, un uomo condannato ingiustamente per uxoricidio, viene spinto dai piani alti a indagare sulla fazione politica avversaria: gli verrà poi rivelata, dal giudice Riches, l’esistenza di un complotto per organizzare un colpo di stato. Uscito dall’ufficio del giudice Rogas incontra Cres e, nonostante abbia intuito che l’uomo era lì per uccidere Riches, l’ispettore non lo arresta, rendendosi così complice dell’omicidio. La narrazione termina con il ritrovamento dei corpi di Rogas e Amar, capo dell’opposizione al quale l’ispettore voleva raccontare dell’accaduto, in un museo; il finale, volutamente ambiguo, apre una

68 TRAINA, Sciascia, pp.214-215

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serie di opzioni che trovano la più probabile nell’assassinio di Amar per mano di Rogas che viene subito dopo ucciso da un agente dei servizi segreti.

In questo romanzo sono molti i pensieri e i ragionamenti sull’effettiva legittimità del potere, come lucidamente fa notare Onofri:

“Rogas ha la percezione esatta di essere finito al centro di un osceno labirinto, come offerto in pasto al minotauro del Potere. […] Rogas si affaccia pericolosamente sull’eterna questione della legittimità del Potere, come tentato da quella secolare tradizione monarcomaca che invoca il diritto di giustiziare il sovrano, una volta divenuto tiranno. Il risultato è la sua identificazione con l’assassino a cui sta dando la caccia, la vittima innocente di quello Stato criminale.[…] Con la trasformazione da poliziotto in criminale, del poliziotto che incontra il boia a cui affidare il compito di giustiziare un intoccabile, con il definitivo congedo da una figura di detective tradizionale e rassicurante, il giallo palesa ormai in modo inequivocabile il suo carattere di parodia.”69

Passando invece a Todo modo è utile sottolineare la caratteristica che lo rende unico nella produzione poliziesca sciasciana: è l’unico romanzo narrato in prima persona; il protagonista, un famoso pittore del quale non conosciamo il nome, si ritrova a passare davanti l’eremo di Zafer, eremo che fa le veci di albergo e che ospita importanti ospiti per esercizi spirituali sotto la guida di Don Gaetano. Quest’ultimo è uno dei personaggi più riusciti di Sciascia: personificazione del potere, il prete riesce, con la scusa degli esercizi spirituali, a riunire sotto il tetto dell’eremo personaggi di altissima levatura sociale: imprenditori, ministri, importanti cariche ecclesiastiche. Durante questi esercizi spirituali, mentre si recita il rosario, viene assassinato uno degli ospiti; il protagonista si unirà ai ragionamenti della polizia per

69 ONOFRI, Storia di Sciascia, p.155

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cercare il colpevole ma prima che si possa giungere ad una conclusione verrà ucciso un altro ospite, con la polizia che brancolerà nel buio ancor più di prima. In questo tesissimo clima si verificherà un ulteriore delitto: verrà infatti ritrovato, accanto alla pistola che ha ucciso i due ospiti, il corpo senza vita di Don Gaetano. Il romanzo finisce dunque così, senza una conclusione certa, in perfetto stile sciasciano: la più probabile delle ipotesi è che i primi due omicidi siano stati architettati ed eseguiti da Don Gaetano che viene successivamente ucciso dal pittore protagonista, che vede nell’omicidio del prete l’unico modo per trovare giustizia e fare in modo che l’ecclesiastico sia punito. Durante la narrazione il pittore e il prete si trovano spesso a discorrere di arte, letteratura, filosofia ed etica, dando vita a interessantissimi duelli di citazioni e rendendo elegante e colta la prosa del testo. Entrambi in fondo ricevono l’eredità culturale del loro creatore che ritrova, nel loro rapporto, lo stesso dualismo, la stessa attrazione tra poli opposti che abbiamo visto nel Consiglio

d’Egitto e che rivedremo nel Giorno della civetta.

Altro elemento interessante è il parallelismo tra Don Gaetano e il diavolo ritratto in un quadro della chiesa:

“Me lo indicò, e fino a quel momento non lo avevo visto: un santo scuro e barbuto, un librone aperto davanti; e un diavolo dall’espressione tra untuosa e beffarda, le corna rubescenti, come di carne scorticata. Ma quel che più colpiva, del diavolo, era il fatto che aveva gli occhiali: a pince-nez, dalla montatura nera. E anche l’impressione di aver visto qualcosa di simile, senza ricordare quando e dove, conferiva al diavolo occhialuto un che di misterioso e pauroso: come l’avessi visto in sogno o nei visionari terrori dell’infanzia. […] don Gaetano, saliti i gradini dell’altare, aveva tirato fuori, da una tasca interna all’altezza del petto, gli occhiali e, inforcatili, alzandosi sulla punta dei piedi si era inclinato a scrutare l’angolo destro del quadro. Quando si voltò per dirmi ‘C’è la firma, venga a vedere’ ebbi un momento di vertiginoso stupore: i suoi occhiali erano una copia esatta di quelli del diavolo. Non colse, ché doveva essere visibile, il mio stupore; o finse di non

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coglierlo, godendoselo. Del resto, io passai subito a rintuzzare il colpo, se da parte sua c’era stato il gusto di far colpo, assumendo un’espressione che voleva dire: vecchio istrione, serba per il tuo gregge di imbecilli la trovata di questi occhiali. Ma non sembrò far caso nemmeno al mio passaggio dallo stupore al dispregio.”70

Il particolare degli occhiali verrà poi ripreso nella descrizione del cadavere di don Gaetano che, privato della vitalità della sua retorica, si rivela come un guscio vuoto:

“Era stato ucciso. Al vecchio mulino, che era poi quello di cui restava la mola di pietra. E la mola, da cui era scivolato, gli faceva ora da spalliere.

Non mi fece forte impressione, rivederlo morto. La morte, che anche agli imbecilli conferisce solennità, a don Gaetano un po’ ne aveva sottratta. Era scomposto e come disarticolato. Le gambe, aperte quasi a squadra, tendevano l’abito talare; che nello scivolare era andato su, scoprendo le calze bianche, di lana grossa. E quelle calze calamitavano gli sguardi, e perché facevano spicco tra il nero delle scarpe e il nero della veste, e perché erano da pieno inverno e si era in piena estate. Distogliendoli dalle calze, l’occhio, almeno il mio, si fermava poi agli occhiali che, dal cordoncino attaccato al petto, erano scivolati su una radice e vi stavano in curiosa angolazione rispetto a un raggio che, di tra le foglie, vi cadeva. Sembrava il particolare di un quadro caravaggesco minore. E dico minore perché tutto, in don Gaetano morto e intorno a lui, era minore; voglio dire sminuito, ridotto sommesso: rispetto a come era da vivo.”71

Don Gaetano, prete luciferino, rappresenta la personificazione dell’ecclesiastico corrotto ed è a quelli come lui che arriva la critica, forte e perentoria, di Sciascia: affinchè non debba più esserci, in Italia, una chiesa che non solo si mischia con la politica ma ne tira le fila da dietro le quinte, esercitando un potere malsano e criminale.

70 LEONARDO SCIASCIA, Todo modo, Adelphi, Milano, 1995, pp. 34-36 71 SCIASCIA, Todo modo, p.115

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Dedichiamoci adesso a quello che è il romanzo più famoso di Sciascia: Il giorno

della civetta. Pubblicato nel 1961, il testo ha il merito di essere il primo in cui si

parla apertamente della mafia, nonostante gli alti vertici siciliani e nazionali non si fossero ancora decisi ad ammetterne ufficialmente l’esistenza, come faranno nel 1963 con l’istituzione della commissione antimafia. Il libro si apre, come quasi tutti i romanzi gialli di Sciascia con un omicidio: la vittima è Salvatore Colasberna, socio di una piccola cooperativa di muratori.

“L'autobus stava per partire, rombava sordo con improvvisi raschi e singulti. La piazza era silenziosa nel grigio dell'alba, sfilacce di nebbia ai campanili della Matrice: solo il rombo dell'autobus e la voce del venditore di panelle, panelle calde panelle, implorante ed ironica. Il bigliettaio chiuse lo sportello, l'autobus si mosse con un rumore di sfasciume. L'ultima occhiata che il bigliettaio girò sulla piazza, colse l'uomo vestito di scuro che veniva correndo; il bigliettaio disse all'autista ‘un momento’ e aprì lo sportello mentre l'autobus ancora si muoveva. Si sentirono due colpi squarciati: l'uomo vestito di scuro, che stava per saltare sul predellino, restò per un attimo sospeso, come tirato su per i capelli da una mano invisibile; gli cadde la cartella di mano e sulla cartella lentamente si afflosciò.”72

Di questo omicidio se ne occuperà il capitano Bellodi, ex partigiano originario di Parma, che intuisce subito che l’omicidio è una rappresaglia per non aver voluto la protezione dei potenti della zona; dopo aver convocato i parenti della vittima ed essersi sempre più convinto che il colpevole fosse un sicario della mafia, convoca Calogero Di Bella, detto Parrinieddu 73, piccolo malavitoso e informatore della polizia, che gli fa il nome di un certo Salvo Pizzuco, che si rivelerà poi essere il mandante dell’omicidio.

72 LEONARDO SCIASCIA, Il giorno della civetta, Adelphi, Milano,1993, p.9 73 Dal dialetto siciliano, vuol dire letteralmente “piccolo prete”

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Ad aiutare il capitano nell’indagine è il collegamento con una sparizione, quella di Paolo Nicolosi, che, come scoprirà poi Bellodi, aveva incontrato il sicario e, riconoscendolo, aveva siglato la sua condanna a morte. Andando a casa di Nicolosi per parlare con la moglie, riesce a scoprire il soprannome del presunto assassino. Durante il dialogo Sciascia usa Bellodi come pretesto per parlare dei siciliani e della tipica abitudine di usare i soprannomi:

“Il capitano cominciò a parlare della Sicilia, più bella là dove è più aspra, più nuda. E dei siciliani che sono intelligenti: un archeologo gli aveva raccontato con quale abilità e alacrità e delicatezza i contadini sanno lavorare negli scavi, meglio degli operai specializzati del nord. E non è vero che i siciliani sono pigri. E non è vero che non hanno iniziativa. Venne il caffè e parlava ancora della Sicilia e dei siciliani. La donna lo prese a piccoli sorsi, con una certa eleganza per essere moglie di un potatore. Sorvolando il panorama letterario siciliano, da Verga al Gattopardo, il capitano era andato a posarsi su quella specie di genere letterario, diceva, che erano i soprannomi, le ingiurie: che spesso, acutamente, esprimevano in una parole un carattere. La donna non capiva molto, e nemmeno il maresciallo: ma certe cose che la mente non intende, il cuore le intende; e nel loro cuore di siciliani le parole del capitano musicalmente stormivano. 'È bello sentirlo parlare' pensava la donna; e il maresciallo pensava 'per parlare, sai parlare: meglio di Terracini', che per lui era, idee a parte si capisce, il più grande parlatore che, in tutti i comizi che per servizio gli toccava di sentire, avesse mai incontrato.

‘Ci sono ingiurie che colgono i caratteri o i difetti fisici di un individuo’ diceva il capitano ‘e altre che invece colgono i caratteri morali; altre ancora che si riferiscono a un particolare avvenimento o episodio. E ci sono poi le ingiurie ereditate, estese a tutta una famiglia; e si trovano anche sulle mappe del catasto... Ma procediamo con ordine: le ingiurie che dicono dei caratteri e dei difetti fisici. Le più banali: l'orbo, lo zoppo, lo sciancato, il mancino... Somigliava a qualcuna di queste l'ingiuria che disse suo marito?’.

‘No’ disse la donna scuotendo la testa.

‘Le somiglianze: ad animali, ad alberi, a cose... Per esempio, il gatto: per un uomo che ha gli occhi grigi, o qualcosa che lo fa somigliare a un gatto... Ho conosciuto uno soprannominato lu chiuppu, cioè il pioppo, per la statura e per una specie di tremito che lo

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muove: così mi hanno spiegato... Le cose: vediamo un po', soprannomi per somiglianza a un qualche oggetto…’.

‘Conosco uno soprannominato bottiglione’ disse il maresciallo ‘e ha davvero forma di un bottiglione’.

‘Se permette’ disse il carabiniere Sposito, per la sua immobilità divenuto come invisibile in quella stanza ‘se permette posso dirne qualcuna, di ingiurie che sono nomi di cose: lanterna, uno che ha gli occhi scasati come lanterne; peracotta, uno che è fradicio di non so che malattia; vircuocu, albicocca, non so perché, forse perché di faccia inespressiva; ostia- divina, perché ha la faccia tonda e bianca come un'ostia...’.

Il maresciallo tossì con significato: non ammetteva che si facesse allusione scherzosa a persone o cose che in qualche modo avessero a che fare con la religione. Sposito tacque. Il capitano guardò interrogativamente la donna. Lei fece di no più volte scuotendo la testa. Il maresciallo, con gli occhi che tra le palpebre parevano diventati due acquose fessure, violentemente si protese a guardarla: e lei precipitosamente, come se il nome le fosse venuto su con singulto improvviso, disse ‘Zicchinetta’.

‘Zecchinetta’ tradusse subito Sposito ‘giuoco d'azzardo: si fa con carte sicilia-ne...’.

Il maresciallo gli diede un'occhiataccia: ché il momento della filologia era passato, ora avevano il nome; e che significasse giuoco di carte o santo del paradiso non aveva importanza (e nella sua testa talmente squillavano i segnali della caccia, eccitandolo, che il santo del paradiso si trovò a battere il naso sulle carte siciliane).

Il capitano, invece, si era sentito dentro, di colpo, oscuro scoraggiamento: un senso di delusione, di impotenza. Quel nome, o ingiuria che fosse, era finalmente venuto fuori: ma solo nel momento in cui il maresciallo era diventato, agli occhi della donna, spaventosa minaccia di inquisizione, di arbitrio. Forse quel nome lei lo ricordava fin dal momento che il marito lo aveva pronunciato, e non era vero che lo avesse dimenticato. O soltanto nell'improvvisa disperata paura lo aveva ritrovato nella memoria. Ma senza il maresciallo, senza quella sua minacciosa materializzazione, un uomo grasso e bonario che di colpo diventa colata di minaccia, al risultato di quel nome forse non si sarebbe arrivati.”74

Le indagini su questo soprannome porteranno a Diego Machica, che verrà trattenuto in stato di fermo dai carabinieri. Nel frattempo, Parrinieddu viene ucciso per via

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della sua confessione; l’informatore riesce però a far pervenire due nomi al

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