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Storie d'amore nelle Metamorfosi di Ovidio: analisi degli episodi di violenza e di passione non corrisposta

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Academic year: 2021

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Inno ad Afrodite

Afrodite immortale, dal trono fiorito,

figlia di Zeus, che trami gli inganni ti supplico -non dannare il mio cuore con angosce e dolori, signora immortale.

Ma vieni da me, tu che già una volta da lontano sentisti il mio grido, e mi hai ascoltato, e sei venuta da me abbandonando la casa del padre con un carro tutto d'oro;

e leggiadri uccelli veloci

ti portavano sopra la terra nera muovendo le folte ali, dall'alto attraverso il cielo.

Subito giunsero; e tu, beata,

Sorridendo nel tuo viso immortale, domandavi perché ancora una volta io soffrivo e perché ancora chiamavo e che cosa soprattutto volevo

avere nel mio cuore in affanno. «Chi ancora devo condurre al tuo amore? Chi, Saffo, ti ha fatto torto?

Se ora fugge, subito ti cercherà; se non accetta doni, presto ne farà, se non ama, subito ti amerà;

anche se non vuole». Vieni anche ora da me e liberami dal duro affanno e tutto ciò che il mio cuore vuole che per me si compia, tu compilo, e sii tu stessa mia alleata.

Saffo

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I. Introduzione

L'amore è la forza più grande conosciuta appartenente alla natura umana. Da sempre la letteratura ha messo in luce questa verità assoluta. Ricercare come l'amore si manifesti nelle Metamorfosi di Ovidio non può che essere un lavoro entusiasmante. In quest'opera infatti si intrecciano perfettamente e in modo indissolubile le infinite sfaccettature che l'amore può assumere. L'amore cambia, trasforma ed è energia vitale che tutto muove: il testo testimonia come esso sia effettivamente una forza distruttrice e genitrice di vita.

Ogni volta che esso interagisce con una qualsiasi entità vivente, sia essa umana o divina, nessuna resta identica a se stessa. Le Metamorfosi parlano di come tutto possa mutare, di come esista una storia nascosta dietro ogni entità.

La trasformazione è l'unico elemento che unifichi una materia tanto vasta (e senza ordine). Non c'è una sola trama nell'opera, ma un caos in movimento costante che scombina ogni ordine predefinito, anche là dove sembrava esserci stabilità assoluta, dove l'armonia complessiva si mantiene grazie all'abilità del poeta, che organizza magistralmente il suo perpetuum carmen associando con libertà, ma con consapevolezza, le numerose storie.

In questo equilibrio precario l'amore diventa l'energia più potente con cui l'umanità si scontra e sempre si scontrerà. Nella finzione del testo, come nella realtà, nessuno riesce a sfuggirgli: esso è inconsistente e assolutamente incontrollabile.

Analizzare le passioni d'amore nelle Metamorfosi consente di riscoprire l'origine della nostra cultura, che ha radici nella mitologia.

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All'interno delle Metamorfosi l'amore acquisisce gran parte delle forme possibili e Ovidio le indaga, le racconta coinvolgendo il lettore e mostrando quanto sia per lui familiare l'argomento.

La ragione di questo lavoro nasce dal voler tentare di organizzare una materia che ha poco o nulla di scientifico. La questione dell'amore d'altra parte non ha delle basi concrete e universali, essa è ricca di sfaccettature e soprattutto non è, nel mondo antico, elemento principale di canto.

L'epigramma, il teatro e l'elegia sono i luoghi a esso maggiormente predisposti, ma solo per l'ultima possiamo parlare di argomento totalizzante. Le elegie parlano d'amore, ma di un amore codificato incentrato sulla figura dell'amante: il poeta parla di come vive il sentimento con struggimenti, vittorie, speranze. Poco o nulla sappiamo delle figure che sono desiderate, di come sono, di cosa pensano.

Parlare d'amore coincide con il bisogno di rendere noto ciò che il poeta sente nel profondo del suo animo: il lettore prende atto di emozioni, anche contrastanti, che l'amante elegiaco vive con l'unica certezza di non essere ricambiato, o di non essere desiderato in modo unico e speciale. Il poeta scrive quando soffre, quando pensa a ciò che aveva, ma che ora non possiede più, o quando ripone delle speranze per un futuro non lontano.

Le dinamiche del desiderio e della sofferenza ad esso legate sono ben chiare a Ovidio, che si inserisce in una tradizione stabile e di cui conosce regole e maniere. Egli con gli Amores si sperimenta nel genere elegiaco e, pur restando a esso fedele, compie dei passi in avanti superandolo poi definitivamente con i Remedia Amoris e l'Ars amatoria. Ovidio va oltre i poeti precedenti, grazie alla totale padronanza del genere, che, una

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volta assimilato e rielaborato, può divenire punto di partenza per qualcosa di nuovo, radicato nella tradizione, ma con caratteri originali.

Nell'Ars amatoria e nei Remedia amoris egli infatti, fornendo le regole per far innamorare e i rimedi per sconfiggere l'amore, è come se rompesse l'involucro di sacralità e impalpabilità dell'elegia, le cui passioni si muovono su un piano distante da quello della realtà. Questo passo decisivo è reso possibile anche dall'elaborazione di un altro testo, le Heroides, opera che consente a Ovidio l'esplorazione di nuovi confini poetici e retorici, analizzando i sentimenti di figure mitologiche note, avvicinandosi al monologo teatrale.

Ovidio è quindi prima di tutto un poeta che vive, conosce e parla d'amore.

Per queste ragioni il suo epos, tale almeno per metro e struttura, non può prescindere dai suoi precedenti poetici. Non esiste all'interno delle Metamorfosi una linea guida che permetta di organizzare la materia in maniera perfetta e ordinata. Se certamente la trasformazione -la metamorfosi- costituisce l'elemento di continuità nel testo, il modo in cui esso si presenta nelle vicende narrate resta sfuggente e imprevedibile. Siamo assai lontani dall'epica di Omero o Virgilio: nell'epos ovidiano manca l'oggettività narrativa. In questo ricchissimo agglomerato di fatti, eziologie, miti entrano in gioco il ruolo dell'amore, della passione sensuale e un insieme di impulsi che si muovono tra l'istinto e la ragione. L'amore costituisce una possibile strada da perseguire per analizzare e organizzare la materia, dal momento che la passione e il desiderio sensuale sono il principale motivo di disordine: esso costituisce una forza agente concreta nel testo, poiché scombina e ricrea forze ed equilibri.

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sensuali o desideri inconfessabili e nei miti che decide di narrare prende consistenza il panorama di tutte le sfumature d'amore. Nelle Metamorfosi le varie sfaccettature del sentimento sono presenti in maniera completa e superano i limiti della poesia elegiaca: le numerose storie narrate hanno protagonisti di tutte le età, di diverse classi sociali e narrano di passioni sia lecite sia innaturali. Non ci sono solo amori mortali, ci sono gli amori degli dei, sovversivi, almeno in parte, dell'ordine appena conquistato.

Il mondo delle divinità non resta spettatore inerte delle vicissitudini umane, bensì vi partecipa intimamente, si mescola al destino degli uomini assumendo ogni genere di forma e prende parte attiva alla loro evoluzione. Inoltre i grandi eroi del passato sono quasi tutti figli di divinità, fatto che contribuisce alla mescolanza fra dei e uomini.

Per primo è il mondo divino che entra in contatto con la forza potente e distruttiva di eros, proprio dopo lo sforzo ordinatore e di creazione del cosmo: il primo amore non è solo quello di Febo, ma anche dell'universo e del poema. L'amore si rivela subito come una grande forza di alterazione e per i caratteri specifici di questo poema non può che risultare elemento fondamentale e fondante del testo. Esso infatti è causa di metamorfosi, è energia che porta alla nascita alla creazione di nuove entità, rompendo la catena degli eventi prevedibili e consueti della natura. Anche se agli dei compete, almeno in parte, la forza ordinatrice e regolatrice del mondo, esiste una forza, l'amore, che neppure essi sono in grado di dominare fino in fondo.

L'idea di questo lavoro nasce dalla volontà di indagare le dinamiche in cui si muove questa forza primordiale, di individuarne i caratteri e comprenderne le conseguenze. All'interno delle Metamorfosi sono numerose le storie incentrate su questa tematica.

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Non potendo indagarle tutte, dopo un breve elenco, ci concentreremo sull'analisi di uno dei macro gruppi individuati, quello dell'amore non corrisposto. Per le sue caratteristiche intrinseche infatti esso si collega più degli altri alla dinamica dell'elegia e alle opere precedenti di Ovidio. Inoltre, come detto, la passione non ricambiata è quella che più di ogni altra porta con sé il bisogno di esprimerla e quindi di fare poesia.

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II. L'amore nelle Metamorfosi

All'interno delle Metamorfosi l'amore assume moltissime forme e si muove con diverse dinamiche. Le tipologie e le modalità in cui esso può manifestarsi sono differenti e suscettibili di variazioni. In un panorama così vasto si cercherà di ordinare la materia, in modo da classificare l'argomento.

La differenziazione principale che si è deciso di tenere presente, perché macroscopica e dai confini più netti, è quella tra amore ricambiato e non ricambiato. Tra queste due categorie è possibile individuarne una terza che, per le caratteristiche a essa intrinseche, non rientra a pieno in nessuna delle due precedenti: l'amore che coinvolge tre individui, che perciò potremmo definire triangolare.

Tenendo conto di questa macro suddivisione è quasi superfluo affermare l'esistenza di ulteriori possibili classificazioni, quali ad esempio la passione nascente, l'amore stabile tra coniugi, quello omosessuale o ancora quello tragico. I gruppi più significativi con cui si andranno a ordinare le quarantasei narrazioni sono quindi: l'amore ricambiato, l'amore non ricambiato, la passione erotica che sfocia nel tentativo di una violenza e l'amore triangolare.

All'interno dell'amore ricambiato si inseriscono: 1. Cicno e Fetonte (II, 368-380)

2. Apollo e Coronide (II, 543-630) 3. Mercurio e Erse (II, 708-833) 4.Giove e Europa (II, 833-876)

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6. Piramo e Tisbe (IV, 55-167)

7. Perseo e Andromeda (IV 664-764) 8. Plutone e Proserpina (V, 345-570) 9. Borea e Orizia (VI, 680-712) 10. Filemone e Bauci (VIII, 218-724) 11. Meleagro e Atalanta (VIII, 260-546) 12. Orfeo e Euridice (X, 1-77)

13. Ciparisso e il cervo (X, 107-142) 14. Giove e Ganimede (X, 155-161) 15. Apollo e Giacinto (X, 163-219)

16. Pigmalione e la statua di donna (X, 243-298) 17. Venere e Adone (X, 529-740)

18. Atalanta e Ippomene (X, 560-705) 19. Ceice e Alcione (XI, 410-748) 20. Cillaro e Ilonome (XII, 394-438) 21. Pomona e Vertumno (XIV, 622-772) 22. Romolo e Ersilia (XIV, 829-851)

Riguardo questa categoria è opportuno fare una precisazione: infatti non è possibile considerare tutte le storie allo stesso modo. In alcune di esse i protagonisti non presentano un coinvolgimento sentimentale paritario e ugualmente forte: si tratta piuttosto di passioni che si accettano, forse passivamente, perché non si ha altra scelta. Si potrebbe quindi più precisamente suddividere questa categoria in: amori che sono sentiti in maniera paritaria e non. Ad esempio il tragico amore di Piramo e Tisbe è in

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contrasto con quello di Plutone e Proserpina o di Borea e Orizia. Il primo infatti, è sentito con lo stesso coinvolgimento da parte di entrambi gli innamorati, tanto che arriveranno ad uccidersi l'uno per l'altra; mentre gli altri due episodi vedono la figura femminile accettare, senza possibilità concreta di opposizione, un desiderio che in principio non nasce da loro.

Infine le storie di Meleagro e Atalanta ed Erse e Mercurio sono solo storie potenzialmente di amore ricambiato: esse sono interrotte prima che si possano sviluppare, quindi non è possibile definirne con certezza la tipologia. Basandosi sugli elementi presenti comunque, sembra più opportuno inserirli in questa categoria piuttosto che nelle altre.

Alla categoria dell'amore non ricambiato appartengono i seguenti episodi: 1. Apollo e Dafne (I, 453-568)

2. Narciso e Eco (III, 341-510) 3. Scilla e Minosse (VIII, 1-152) 4. Biblide e Caudo (IX, 450-665) 5. Cinira e Mirra (X, 299-518) 6. Ifi e Anassarete ( XIV, 698-761)

L'amore passione che sfocia nel tentativo di una violenza comprende: 1. Giove e Io (I, 584-751)

2. Giove e Callisto (II, 408-531)

3. Nettuno e la cornacchia (II, 569-589) 4. Ermafrodito e Salmacide (IV, 285-389)

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5. Aretusa e Alfeo (V, 573-641) 6. Peleo e Teti (XI, 223-265) 7. Esaco ed Esperie (XI, 750-795) 8. Nettuno e Ceni (XII, 185-209)

All'interno di quest'ultimo gruppo c'è un episodio che non sarà analizzato nelle prossime pagine poiché non si inserisce perfettamente nella categorizzazione, cioè quello di Peleo e Teti. Infatti, per quanto Teti non sia inizialmente consenziente al rapporto con Peleo, la loro unione presenta i caratteri quasi di una lotta giocosa, in cui a essere sconfitta è la figura femminile. Non ci sono metamorfosi, né nessun radicale cambio di vita tra le conseguenze della violenza: nasce un bambino, ma la dea del mare potrà continuare a vivere come era solita fare, senza dolore o compromessi.

Infine l'amore triangolare comprende: 1. Apollo, Leucotoe e Clizia (IV, 190-271) 2. Procne, Filomena e Tereo (VI, 424-676) 3. Giasone, Medea, Iole ed Egeo (VII, 1-424) 4. Cefeo, Procri e Aurora (VII, 672-865) 5. Arianna, Teseo e Bacco (VIII, 170-184) 6. Eracle, Deianira e Iole (IX, 1-273)

7. Chione, Apollo e Mercurio (XI, 291-347) 8. Galatea, Aci e Polifemo (XIII, 741-857) 9. Scilla, Glauco e Circe (XII, 90-XIII, 75) 10. Pico, Canente e Circe (XIV, 320-334)

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Come è possibile osservare, il panorama è molto vasto e complesso. Le varie storie sono inserite nel testo in maniera omogenea, risultando presenti in tutti i libri che compongono l'opera (tranne il XV che si differenzia dagli altri per struttura e argomento) con particolare concentrazione nel libro X, le cui fila sono tenute da Orfeo, protagonista e cantore di una serie di storie che vedono nell'amore il fulcro principale. Le vicende hanno una lunghezza variabile, che va dai sette versi dell'episodio di Giove e Ganimede ai quasi trecentoquaranta di quello di Ceice e Alcione. La struttura è differente dall'una all'altra narrazione: spesso troviamo dei racconti nel racconto (Aretusa V, Mirra X), e talvolta gli episodi sono motivati dalla volontà di inserire una nuova eziologia (Salmacide IV, la figlia di Coroneo II). Ciò che, ovviamente, tutte le storie hanno in comune è la metamorfosi (come già detto, unico elemento di connessione in tutta l'opera), che sia punizione divina, salvezza o strumento di conquista.

Il nostro lavoro si occuperà di analizzare e comprendere le dinamiche dell'amore non ricambiato e di quello che nasce da uno sguardo per divenire impulso incontrastabile alla violenza. Questi due macro gruppi infatti hanno in comune la non reciprocità del desiderio, che sia passione momentanea o amore che persiste nel cuore da tempo. Uno dei due personaggi coinvolti sente una forte passione amorosa o sensuale nei confronti dell'altro, che però non prova i medesimi sentimenti: da ciò scaturiscono sofferenza, dolore e incomprensione.

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III. L'amore non ricambiato

1. Apollo e Dafne (libro I, 453-568)

1.0 La vicenda

Apollo critica Cupido perché lo vede intento a destreggiarsi con l'arco, arma con cui egli ha da poco sconfitto un terribile pitone che terrorizzava il mondo. Per punire Apollo della sua presunzione, Cupido lo ferisce con una freccia che provoca nel dio del sole una grandissima passione d'amore per la ninfa Dafne. Ella, però, non corrisponde il dio: colpita da un dardo con effetti opposti, ha in odio il sentimento d'amore e si dedica unicamente al culto di Diana. Il desiderio di Apollo è incontrollabile e l'istinto lo spinge a inseguire la giovane, alla quale non resta altra possibilità che la preghiera di poter mantenere la verginità. Si ha così l'eziologia della sacralità della pianta di alloro, nuova sembianza che Dafne acquisisce salvandosi da Apollo: da questo momento, egli utilizza l'alloro al posto della quercia per celebrare le sue festività, ragione per cui sarà anche utilizzato nella Roma augustea come simbolo di vittoria.

1.1 La tradizione

La tradizione colloca il mito in due diverse località: la versione più diffusa, riportata da Pausania nella Periegesi della Grecia, ambienta la vicenda in Arcadia, mentre quella a cui si rifà Ovidio la situa in Tessaglia. Nel mito alternativo a quello narrato nelle Metamorfosi Dafne è una naiade, figlia del fiume Ladone e della Terra; per evitare la violenza di Apollo la giovane prega la madre perché apra una voragine nel suolo in cui

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cade e da cui poi nasce la pianta di alloro.

Un altro precedente significativo nella tradizione è quello di Partenio che, negli Erotikà Pathémata (XV), narra la vicenda aggiungendo tra i personaggi coinvolti anche Leucippo, il quale, innamorato di Dafne, per conquistarla indossa abiti femminili e si unisce alle compagne della ninfa. Allora Apollo, geloso, vedendo che Leucippo sta per raggiungere il suo obiettivo, ispira a Dafne l'idea di fare un bagno in una sorgente. Ma il giovane non potendosi spogliare, desta la curiosità delle fanciulle che lo forzano a farlo, scoprendo così il suo inganno. Nel momento in cui Leucippo fugge, Apollo approfitta dell'assenza del rivale e insegue Dafne, la cui fuga si conclude con la metamorfosi comune a tutte le tradizioni.

Per Ovidio Dafne è figlia del fiume sacro Peneo e della Terra. Di lei sappiamo che è giovane, molto bella e per questa ragione desiderata da molti pretendenti nonostante non ricambi nessuno. Il motivo della sua ostilità nei confronti dell'amore è spiegato nelle Metamorfosi come diretta conseguenza dei dardi dagli opposti effetti che Eros scaglia per punire Apollo.

1.2 Analisi 1.2.3 Cupido

Nella cosmogonia narrata nel primo libro delle Metamorfosi (5-88), Ovidio, al contrario di Esiodo (Teogonia, 120-23), non fa comparire il dio dell'amore che, invece, entra in scena soltanto nella storia di Apollo e Dafne. La sua scelta esprime una presa di posizione specifica: il dio dell'amore ha infatti un ruolo cardine nell'opera dove costituisce la forza fondamentale che muove i fili delle vicende. Il motivo dello scontro

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tra Cupido e Apollo va interpretato nell'ottica di voler accentuare la forza del primo rispetto a quella del secondo: inserire questo concetto nella prima storia mitologica narrata nei dettagli assume valenza ancor maggiore.

La voglia di primeggiare e la vanteria di Apollo sono giustificabili. Al contrario il motivo dello scontro con Cupido è gratuito, poiché il dio dell'amore non sta facendo altro che dedicarsi all'esercizio dell'arco che a lui compete (Viderat adducto flectem cornua nervo, «lo aveva poco prima visto mentre cercava di piegare l'arco»1, 455), quando Febo lo critica per il suo scarso valore, definendolo una divinità inferiore. Si vedrà che così non è: la dimostrazione è espressa nella formula dell'amor vincit omnia (Bucoliche, X, 69).

Non fors ignara dedit, sed saeva Cupidinis ira («lo suscitò non la cieca Fortuna, ma la feroce ira di Cupido», 452-453): è la volontà della divinità la causa dell'infatuazione, non si tratta di una reazione spontanea, ma nasce dal potere di Cupido. Un'azione così ferma e decisa del dio dell'amore si trova in Ovidio soltanto in questo episodio: infatti, se materialmente le sue frecce sono la causa concreta dell'infatuazione di Plutone per Proserpina (Met., V, 345-570), è per volontà di Afrodite che il dio alato agisce:

«Arma manusque meae, mea, nate, potentia dixit, illa, quibus superas omnes, cape tela, Cupido, inque dei pectus celeres molire sagittas,

cui triplicis cessit fortuna novissima regni»2 (365-368)

Anche l'amore di Afrodite per Adone (Met., X, 519-740) nasce dalla ferita provocata dalla freccia di Cupido, ma la dea si ferisce accidentalmente:

1 Ovidio, Metamorfosi, a cura di Nino Scivoletto, Torino, Utet, 2005.

2 «O figlio, mia arma, forza e mia potenza, prendi quei dardi con i quali, tu Cupido, vinci tutti e scaglia le veloci frecce nel petto del dio, a cui toccò in sorte l'ultima parte del triplice regno».

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namque pharetratus dum dat puer oscula matri, inscius exstanti destrinxit harundine pectus: laesa manu natum dea reppulit; altius actum

vulnus erat specie primoque fefellerat ipsam3 (525-528)

L'azione scaturita acquisisce da subito un senso di eccezionalità e esemplarità poiché vede Amore rivendicare il proprio potere con determinazione e sicurezza. Egli non ha nessun tipo di dubbio sull'efficacia della sua freccia, al cui potere nessuno, neppure gli dei, sono immuni.

Le parole con cui si esprime Cupido nel rispondere ad Apollo sono forti e incisive: […] figat tuus omnia, Phoebe,

te meus arcus […] quantoque animalia cedunt

cuncta deo, tanto minor est tua gloria nostra4 (vv. 463-465)

Il topos della forza invincibile di amore è ricorrente nella tradizione e in questo episodio sembra che Ovidio voglia attuarne una dimostrazione pratica: proprio l'amore ha la meglio anche sul fortissimo Apollo, che, pur essendo dio della medicina, non potrà curare le ferite del cuore.

1.2.2 Apollo

Negli inni omerici a lui dedicati (III e XXI) il dio, come accade anche per altre figure del pantheon greco, assomma in sé caratteri ambigui e spesso contrastanti, dovuti anche al fatto che si fondono in lui attributi originariamente appartenenti a diverse divinità. Guaritore e distruttore, dio del micidiale arco e della cetra, Apollo non è solo il dio razionale della formula «conosci te stesso» ma anche colui che sarà «oltre misura

3 «Infatti, mentre Amore armato della faretra dà baci alla madre, senza accorgersene le sfiorò il petto con una freccia che spuntava fuori: la dea ferita allontanò con la mano il figlio, ma la ferita era più profonda di quanto sembrasse e sulle prime era sfuggita alla dea stessa».

4 «O Febo, il tuo arco trafigga pure ogni cosa, ma il mio colpisca te, e di quanto tutti gli esseri animati sono inferiori a un dio, di tanto è minore la tua gloria della mia».

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violento» (Inno omerico ad Apollo, 67)5.

Il suo culto, centrale nella religione ellenica e poi in quella romana, che ha sede privilegiata a Delfi, acquisisce in Ovidio un valore maggiore proprio per il legame che Febo ha con la poesia e l'arte. Il meccanismo narrativo della vicenda è, come si è detto, innescato da Apollo, forse la prima divinità che agisce nelle Metamorfosi, fiero della vittoria sul temibile pitone che terrorizzava il mondo.

La storia diviene anche spunto per un'eziologia, poiché il dio, dopo l'uccisione, istituisce i giochi detti Pizi dal nome dell'animale per ricordare l'evento grandioso, a cui si collega anche quello della pianta sacra che, in precedenza, era la quercia. L'antefatto evidenzia la forza del dio del sole e fa comprendere quanto l'amore possa essere potente e distruttivo: tanto è forte Febo, tanto è grande la forza di Cupido per metterlo in difficoltà.

1.2.3 Dafne

La fanciulla Peneia, così definita per mezzo del patronimico (472, 504, 525), entra in scena solo dopo l'antefatto. La lite tra i due dei condiziona anche le sue abitudini poiché ella inizia ad avere in odio l'amore a tal punto da rifiutare qualsiasi compagnia maschile. Immediati l'effetto e la conseguenza del dardo che l'ha colpita:

protinus alter amat, fugit altera nomen amantis silvarum latebris captivarumque ferarum

exuviis gaudens innuptaeque aemula Phoebes;

vitta coercebat positos sine lege capillos6 (474-477)

Dafne si ritira nei boschi e si dedica al culto di Diana, sorella di Febo, emulandola in

5 Inni Omerici, ed, a cura di Cassola, Fondazione Lorenzo Valla, Milano, Mondadori, 1991.

6 «Subito uno si innamora, l'altra ha orrore del nome dell'amore, allietandosi dei recessi dei boschi e delle spoglie delle fiere catturate, emula della vergine Diana; una fascia tratteneva i capelli scomposti».

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tutto e per tutto e, come altre vergini protagoniste nelle Metamorfosi (quali Aretusa, Siringa, Callisto), risulta quasi una copia terrena della dea7 e non si cura di sapere cosa sia Imene, cosa amore, cosa il matrimonio (nec, quid Hymen, quid Amor, quid sint conubia, curat, «e non si cura di sapere cosa sia Imene, cosa Amore, cosa il matrimonio», 480).

In molti la chiedono in sposa: era consuetudine che le donne dovessero essere corteggiate dai pretendenti che il padre valutava se accettare o meno. Nonostante la procedura a livello giuridico e amministrativo fosse questa, difficilmente nel testo i pretendenti vi si attengono. La formula multi illam petiere («molti aspirano a lei», 478), che si rintraccia anche in altri episodi (II 571, III 353 e XII 404), solitamente presagisce un esito negativo della conquista. È come se la società rivendicasse l'impossibilità di un rifiuto d'amore: in qualche modo coloro che decidono di non venirne toccati sono sempre costretti a confrontarsi con esso.

In questo episodio (ma anche nella vicenda di Io, Met., I, 584-751.) molto tenero è il rapporto della protagonista col padre Peneo, genitor carissime («amatissimo genitore» 486), al quale la giovane chiede di poter restar vergine per sempre, dono che Giove aveva concesso alla piccola Diana8.

Ille quidem obsequitur («quello alla fine acconsente», 488): suo malgrado Peneo accetta la richiesta della figlia, ma per lui si tratta di un grande sacrificio, come si comprende dall'insistenza con cui egli chiede alla giovane prima un genero (generum mihi, filia, debes, «figlia, tu mi devi un genero», 481), e poi dei nipoti (debes mihi, nata, nepotes,

7 Il particolare dei capelli legati, proprio per la comodità del dover esser libera nella caccia, si ritrova in altri episodi e può esser definito un topos con cui è possibile identificare quelle fanciulle che vivono lontano dalla mondanità.

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«figlia tu mi devi dei nipoti», 482). In ogni caso già dall'incipit della vicenda si intuisce che il desiderio della giovane non potrà, nonostante l'accondiscendenza del padre, avere esito felice: l'amore di Febo si preannuncia come ostacolo e impedimento a ciò che ella vorrebbe.

Si va delineando una delle principali tematiche che ritroveremo nelle Metamorfosi: Dafne non può disporre del suo corpo come desidera e il fatto che sia bella le impedirà di poter vivere la vita che avrebbe voluto (votoque tuo tua forma repugnat, «la tua bellezza contrasta con la tua preghiera», 489). Molte volte le eroine nelle Metamorfosi finiscono per essere passive e impotenti: non solo negli episodi che le vedono rifiutare l'amore del corteggiatore, ma anche nei casi in cui la passione ha esito, potremmo dire, felice, frequenti sono le vicende di fanciulle per le quali il non esprimersi riguardo l'amante diviene assenso all'unione (Borea e Orizia, VI, 680-712, Proserpina, V, 345-570).

1.2.4 L'innamoramento

Dopo la lite, Cupido, offeso, per rendere palese la sua potenza e dimostrare che non è da meno del suo avversario, colpisce con un dardo dorato Apollo e con uno di piombo la ninfa Dafne9:

Hoc deus in nympha Peneide fixit, at illo laesit Apollineas traiecta per ossa medullas:

protinus alter amat, fugit altera nomen amantis10 (472-474)

9 Il tema delle frecce con diverso materiale si ritrova anche in Euripide, Ifigenia in Aulide ( 547-71), anche se in Ovidio assume maggior importanza. L'idea di due oggetti con effetti d'amore contrapposti viene ripresa nell'Orlando Furioso, dove sono due fontane differenti che portano Angelica e Orlando a provare passioni inconciliabili.

10 «Quest'ultimo il dio conficcò nel corpo della ninfa Peneia, mentre con l'altro trapassandogli le ossa ferì fin nelle midolla Apollo: subito uno si innamora, l'altra ha orrore del nome dell'amore».

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Il dio del sole è invaghito della ninfa, ma non può usare i suoi poteri per costringerla a ricambiarlo: Phoebus amat visaque cupit conubia Daphnes,/ quodque cupit, sperat, suaque illum oracula fallunt («Febo arde d'amore e brama l'unione con Dafne appena vista, e spera di avere ciò che desidera e resta ingannato dei suoi stessi oracoli», 490-91). La metafora del fuoco con cui Ovidio descrive i sentimenti provati dal dio è tradizionale, ma l'autore riesce a inserire elementi di originalità: Apollo va in fiamme come la stoppa una volta che le spighe sono mietute (adolentur) e brucia (ardent) come le siepi accostate al fuoco, ma soprattutto: deus in flammas abiit, sic pectore toto/ uritur («così il dio fu in preda del fuoco, così arde in tutto il cuore», 495-96).

Apollo è descritto intento a osservare la fanciulla: i particolari del corpo (videt igne micantes/ sideribus similes oculus, videt oscula, quae non/ est vidisse satis, «guarda gli occhi luminosi, simili alle stelle, guarda la boccuccia, che non si sazia di rimirare» 498-500), la bocca, gli occhi paragonati alle stelle e i capelli scomposti di lei, belli pur non essendo acconciati11.

1.2.5 La fuga

Ovidio però spiazza il lettore poiché, prima ancora che il dio possa iniziare il suo discorso di adulazione e convincimento, la fanciulla è descritta nell'atto di correre veloce (fugit ocior aura/ illa levi, «quella fugge più veloce del vento leggero», 502-503), tanto che non riesce a sentire quello che Apollo le dice. Egli la prega di non fuggire, la supplica di non avere paura di lui e cerca di persuaderla a correre più lentamente, per paura che si possa far male.

11 Amores, I, 14, 19-21: pur con i capelli non ancora sistemati, la giovane sembra bellissima al poeta, scarmigliata come una Baccante.

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Il paradosso dell'inseguimento rallentabile si accompagna al confronto con il mondo animale, rintracciabile in numerosi altri episodi delle Metamorfosi12. Tutte le specie hanno un nemico, ma Dafne non deve riconoscere Apollo come tale perché lui è un dio: nescis, temeraria, nesci, quem fugias, ideoque fugis («tu, impulsiva, non sai chi fuggi e per questo motivo fuggi», 514-15). Nella sua presentazione, lunga ben dieci versi (515- 524), in cui egli elenca le sue doti13, si rintraccia il momento chiave che esprime la potenza d'amore: il dio della medicina non riesce a curare la ferita di una freccia, che deve ammettere, suo malgrado, essere più potente delle sue, quella di Cupido: certa quidem nostra est, nostra tamen una sagitta/ certior, in vacuo quae vulnera pectore fecit («la mia saetta poi è infallibile, tuttavia ce n'è un'altra più infallibile della mia, che ha provocato una ferita nel petto sinora libero dall'amore», 519-20). Il tema della fuga dal nemico e la metafora della caccia sono assai frequenti nell'ambito del corteggiamento amoroso e, in questo caso specifico, assumono una valenza ancor più rilevante se teniamo in considerazione che Dafne, in quanto serva di Diana, è dedita alla caccia (silvarum latebris captivarumque ferarum/ exuviis gaudens innuptaeque aemula Phoebes, «allietandosi dei recessi dei boschi e delle spoglie delle fiere catturate, emula della vergine Diana», 475-76).

Per tutta risposta Dafne è pervasa da un un unico sentimento, quello della paura: Plura locuturum timido Peneia cursu figit («la figlia di Peneo impaurita corre via da lui che voleva dire di più», 525-26). L'aggettivo timidus (non forte come territus o pavidus) ha in sé anche l'idea di un timore che si accosta alla prudenza. La fuga accresce la bellezza

12 Nel caso ad esempio degli amori incestuosi sia Biblide che Mirra tentano, attraverso il confronto con il mondo naturale, di giustificare la propria passione: entrambe guardano agli animali per razionalizzare il proprio sentimento.

13 Molto più breve la presentazione che Apollo fa a Leucotoe ( Met, IV, 326-28), che comunque riesce a dare con efficacia l'idea dell'importanza del dio, soprattutto definendosi: ille ego sum […] mundi oculus.

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di Dafne (auctaque forma fuga est, «la bellezza accresceva con la fuga», 530), così anche Atalanta correndo sembrerà più seducente a Ippomene (Met., X, 560-705) o lo spavento abbellirà Leucotoe (IV, 230).

Il verso 530 è interrotto a metà da sed, che sottolinea la forza e l'impossibilità di resistere del dio: sed enim non sustinet ultra, «ma il dio non tollera oltre». Il desiderio di Apollo per Dafne è sempre più forte e incontrollabile. Dal momento che le lusinghe non bastano e i modi gentili sembrano non sortire alcun effetto, il dio ha due possibilità: rassegnarsi o tentare di usare la forza.

Essendo dio, Apollo è più forte della ninfa e si intuisce che difficilmente lei potrà vincere su di lui. La grande disparità che sussiste tra i due è resa da Ovidio per mezzo dell'immagine della lepre che fugge il veloce levriero della Gallia, famoso per essere il più adatto nella caccia dell'animale: Ut canis in vacuo leporem cum Gallicus arvo/ vidit, et hic praedam pedibus petit, ille salutem («come quando un cane gallico scorge una lepre in campo aperto, e l'uno cerca la preda correndo, l'altra la salvezza», 533-34). Significativo inoltre il particolare violento del cane che sta per azzannare la preda, scena descritta con realismo.

Precedentemente Apollo, nel suo discorso, aveva dichiarato come ogni specie abbia un proprio nemico naturale (505-507), e di come lui non lo sia per la ninfa; in questa seconda parte invece, egli finisce per incarnare proprio il nemico che aveva dichiarato di non essere. L'intento del dio non è quello di farle del male, tuttavia la insegue veloce, le è tanto vicino che ella sente sul collo il respiro del dio:

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Qui tamen insequitur, pennis adiutus amoris ocior est requiemque negat tergoque fugacis

inminet et crimen sparsum cervicibus adflat14 (540-42)

1.2.6 La metamorfosi

La ninfa, impotente e disperata, fa l'unica cosa che le è possibile: guarda il Peneo, il padre, ma invoca la Terra15 che la deve ingoiare, oppure metamorfizzare:

Tellus […] hisce vel istam,

quae facit ut laedar, mutando perde figuram!16(543-45)

Ovidio usa il particolare dell'arrivo della ninfa al fiume per sostituire l'intervento della Terra, che nella sua versione non figura come madre della giovane, e pone invece l'aiuto paterno, in perfetta consonanza con l'inizio della narrazione, dove aveva introdotto e fatto risaltare la relazione tra la ninfa ed il fiume suo padre. Il commento del narratore (remanet nitor unus in illa, «le rimane soltanto la bellezza», 552) sottolinea il pathos della vicenda e il dolore della bellezza come condanna: se Dafne non fosse stata bella non sarebbe accaduto nulla. La metamorfosi, improvvisa, poiché non si hanno assensi o risposte, arriva inizialmente col pesante torpore che invade il corpo della ninfa, poi Ovidio descrive la trasformazione nei dettagli, con l'umanizzazione dei tratti della pianta in cui Dafne si trasforma: Apollo è, suo malgrado, la causa di un radicale e irreversibile cambio di vita.

Anche sotto forma di pianta Dafne, fedele a se stessa, si sottrae ai baci del dio continuando a manifestare la sua ostilità (555-56), che però non impedisce ad Apollo di render noto il suo potere, assumendo il lauro come simbolo del suo culto. E di fronte

14 «Il dio tuttavia la insegue, spinto dalle ali dell'amore è più veloce e non dà tregua e sta addosso alle spalle della fuggitiva e alita sulla chioma sciolta sul collo».

15 Sono confuse due invocazioni, le quali si escludono a vicenda nella forma che è data dai manoscritti a noi giunti.

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a questa suprema sopraffazione è patetico che la pianta manifesti una sorta di movimento, tipico della sua natura visibile, che il dio interpreta come simbolo di assenso (566-67). In sostanza, quindi, Dafne diviene la pianta sacra di Apollo, trovandosi costretta ad acquisire un privilegio che non ricercava17.

Il motivo della pianta di alloro viene poi usato dall'autore come collegamento alla contemporaneità, per esaltare Augusto che, come Apollo, si fregia della pianta. Invece di avere notizie relative al rituale greco e agli usi soliti del sacro alloro, Ovidio ci fa assistere ai costumi romani del trionfo e ci fa conoscere la presenza dell'albero davanti al palazzo di Augusto sopra il Palatino (560-62).

1.5 Conclusioni

Fin da questo primo episodio in cui la passione amorosa costituisce il tema centrale, risulta fondamentale osservare che non si sceglie di amare e chi amare e soprattutto è difficile mantenere il controllo di fronte a ciò che ardentemente desideriamo: perfino Apollo, dio del raziocinio e dell'ordine, non vi riesce.

Tutti i personaggi sono assolutamente concentrati sul vivere il momento presente e persino gli dei, che possiedono una vita immortale, pensano solo al godimento momentaneo. E, solitamente, perseguendolo, qualcuno ne subisce le conseguenze. In quanto immortali, gli dei soffrono di un dolore nell'istante, che tocca la loro sfera emotiva-interiore, non fisica. Essi piangono, disperati e distrutti, per poi superare quasi subito il loro dolore, trovando fondamentale la materializzazione dell'amato 17 Si può notare la vicinanza con l'episodio di Giacinto (Met., X, 163-219), giovane amato da Febo. La chiusa della storia è la medesima: infatti, quantunque passato a forma insensibile, egli rimane ugualmente il compagno di Apollo e l'oggetto dei suoi canti. In tutte le Metamorfosi fiori e alberi divengono la reliquia di ciò che gli dei maggiormente hanno amato.

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scomparso, come se avessero bisogno di qualcosa per ricordare chi hanno desiderato. Se la loro natura immortale rende impossibile essere travolti da una sofferenza perpetua, in essi persiste comunque un'umanizzazione; le loro passioni sono terrene: odio, gelosia, desiderio, rabbia, sono tutti sentimenti che li rendono identici agli uomini e alle donne mortali.

Il bisogno di rendere umane le figure divine è una costante della mitologia greco-latina: Ovidio e fa degli dei i protagonisti principali del suo testo, mescolandoli con gli abitanti della Terra. La passione d'amore è il primario motore d'azione per le divinità: si comprende quanto questa forza sia inarrestabile e priva di una logica razionale.

Tenendo conto di ciò, diventa indubbiamente difficile arrivare a comprendere quanto una passione momentanea possa esser definita amore, nel senso romantico del termine. L'ideale moderno del sentimento infatti ci impedisce di collocare la violenza all'interno di questo concetto, poiché la nostra concezione di amore è legata all'idea che quando amiamo, l'altro viene prima di noi.

Febo inizialmente prova a conquistare la ninfa in modo galante attraverso le parole, cosa che, ad esempio, Giove non sarà disposto a fare18. Il dio del sole prega Dafne e la violenza diviene lo strumento ultimo con cui raggiungere l'oggetto del desiderio. Gli dei (e non solo19), non si fanno scrupoli nel ricorrere alla violenza, che diviene spesso consuetudine e sono, nella maggioranza dei casi, le fanciulle a pagare il prezzo della loro crudeltà. Sia che esse siano l'oggetto del desiderio sia che siano loro a tentare la conquista, sono sempre costrette a subire un mutamento o una punizione: da Salmacide a Scilla, a Mirra, nessuna resta immune. Ciò rende evidente la posizione

18 Negli episodi di Callisto, Io ed Europa possiamo notare che Giove non si preoccupa di usare la retorica per convincere le giovani: egli sa cosa vuole e lo ottiene.

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della figura femminile nel mondo antico, debole e sottomessa a delle leggi morali che vedevano l'uomo al centro della società.

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2. Pan e Siringa ( libro I, 589-712)

2.0 La vicenda

La vicenda, narrata da Mercurio per distrarre il mostro Argo e liberare Io dalla sua prigionia per conto di Giove, riprende per linee essenziali quella di Dafne e Apollo. Pan, invaghitosi della giovane ninfa Siringa, tenta di sedurla con la forza. Seguono la preghiera e la metamorfosi con la quale la ninfa si salva dall'aggressione. L'attenzione del narratore torna poi alla vicenda di Io, libera di allontanarsi, dal momento che Mercurio è riuscito a uccidere Argo distraendolo con il racconto.

2.1 La tradizione

Ovidio lega, per mezzo del racconto nel racconto, la storia di Pan e dell'eziologia della siringa con il mito di Io: Mercurio racconta la nascita dello strumento musicale ad Argo che, dopo averlo visto nelle mani del dio, ne resta molto incuriosito.

Per il collegamento tra Siringa e Io un presupposto interessante è un accenno nel Prometeo liberato di Eschilo, in cui la giovenca ode il suono di un flauto, mentre è minacciata da una visione punitiva. Inoltre Valerio Flacco, nel resoconto integrale del mito di Io, all'interno degli Argonautica (IV 381-90), fa udire alla giovane proprio il suono di una zampogna, indicata con il sintagma cava fistula.

È rilevante che sia Mercurio a narrare la storia di Pan, dal momento che entrambi sono nati in Arcadia, allevati dalle ninfe, e quindi dotati di stretta relazione con il mondo pastorale e bucolico: in Virgilio Pan viene indicato con il sintagma deus Arcadiae20.

20 Nell'ecloga, X, v. 26 Pan deus Arcadiae venit, quem vidimus ipsi; nelle Georgiche, III, v. 392 Pan deus Arcadiae

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La storia di Siringa, di possibile origine ellenistica, non è nota prima di Ovidio, anche se Virgilio aveva sancito il rapporto tra lo strumento musicale e Pan nell'ecloga II (32-33), senza però fare un preciso riferimento all'origine della siringa.

Il mito è ripreso da autori tardi, tra i quali si può ricordare Achille Tazio che, nel romanzo Leucippe e Clitofonte (VIII, 6), narra di come Pan abbia scoperto lo strumento casualmente mentre si lamentava, dopo aver portato le canne alla bocca. In Dafni e Cloe (II, 34.1) viene riportato il canto di un pastore siciliano che aveva narrato il mito: Siringa è una bella giovane dalla voce melodiosa; un giorno Pan cerca di piegarla ai suoi desideri senza riuscire a convincerla, così la insegue e lei, stanca di correre, si rifugia tra le canne e scompare. Pan, in preda all'ira, non trovando la fanciulla, comprende la sciagura e inventa lo strumento musicale usando canne di lunghezza diversa così come era stato dissimile il loro amore.

2.2 Pan

Pan è dio dei pastori e delle greggi, originario dell'Arcadia, benché il suo culto sia diffuso in tutta la Grecia e si sia generalizzato anche al di fuori del mondo ellenico. È rappresentato nell'inno omerico (XIX) come un demone mezzo uomo e mezzo animale, la figura barbuta, grinzosa, col mento prominente. Sulla fronte ha due corna, il corpo è villoso e le membra inferiori sono quelle di un caprone, con i piedi provvisti di uno zoccolo. Dotato di un'agilità prodigiosa, veloce nella corsa, si arrampica sulle rocce e si nasconde tra i cespugli.

La sua ora è quella meridiana, quando il sole è a picco e la natura sembra pietrificata nella luce e nel colore, un momento di pericolosa sospensione in cui tutto può

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accadere, in cui può scatenarsi quel timor panico che rivela drammaticamente lo scarto tra natura e uomo. Pan, inoltre, è un dio dalla forte connotazione sessuale, e perciò collegato a Priapo e Dioniso, ma anche simbolo della sessualità non procreativa. Nel mondo latino la figura a lui vicina è il dio Silvano.

Pan è ignorato dai poemi omerici, anche se nell'inno omerico a lui dedicato (XIX) viene celebrato come figlio di Mercurio e della ninfa Driope21. Alla nascita, la madre ebbe paura del figlio mostruoso, così il padre lo avvolse in una pelle di lepre e lo portò sull'Olimpo. Gli dei furono molto felici, soprattutto Dioniso, e gli dettero il nome di Pan perché egli rallegra il cuore di tutti.

Pan è l'unico dio mortale: Plutarco nel suo De defectu oraculorum racconta che intorno all'epoca di Augusto un navigatore avesse sentito sul mare voci misteriose annunciarne la scomparsa22.

Tra le ninfe che egli avrebbe desiderato si annoverano Eco e Pitis, la quale per sfuggire al dio fu trasformata in pino, ragione per cui il dio si orna con questa pianta.

Significativo per il legame con Apollo è l'episodio di Mida, nel libro XI, dove Pan (indicato con il sintagma deum pecoris «dio dei pastori», 160) è intento a gareggiare con Febo: Pan ibi dum teneris iactat sua carmina nymphis/ et leve cerata modulatur harundine carmen («Pan, mentre lì intona i suoi canti alle delicate ninfe e modula un motivo leggero sulle canne tenute insieme dalle cera», 153-54). La sconfitta del dio dei boschi è testimonianza dell'inferiorità della zampogna sulla cetra e stabilisce un ordine divino in cui Apollo risulta essere il più forte tra i due.

21 Un'altra curiosa versione della nascita del dio lo vede figlio di Penelope e di Ermes (De defectu oraculorum, 419). Ma Pan è anche figlio di Giove e Ibris o Giove e Callisto (in questo caso anche gemello di Arcade).

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2.3 Analisi

Il fatto che la storia ripercorra quella di Apollo e Dafne non deve far pensare a un semplice doppione. Ovidio non narra da principio, ma con abilità di costruttore di trame riesce a non annoiare, dal momento che la vicenda viene interrotta là dove risulterebbe ripetitiva.

Mercurio racconta la vicenda ad Argo, accompagnandola con la musica dello strumento che il figlio Pan ha ideato: si crea un gioco di rimandi interni molto particolare.

2.3.1 Siringa

Siringa, ninfa degli alberi, viene descritta con tratti rapidi ma essenziali: come nei casi di Dafne o Callisto, si tratta di una ninfa dedita al culto della dea Diana (Ortygiam studiis ipsaque colebat/ virginitate deam, «essa venerava con fervore e particolarmente con la castità la dea Ortigia», 694-95), a tal punto che se qualcuno l'avesse vista l'avrebbe potuta scambiare per la figlia di Latona, se non fosse stato per l'arco di corno che la dea invece possiede d'oro (695-98). Anche se dedita alla caccia, Siringa non può nascondere il fascino che la porta a essere desiderata da molti, sia satiri che dei del bosco. Il fatto di essere corteggiata è per lei una pena, qualcosa che la ninfa vive come una condanna.

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2.3.2 Il desiderio di Pan e la metamorfosi della ninfa

Per far scattare la passione basta uno sguardo (Pan videt «Pan la vide», 699): Pan vede la ninfa mentre torna dal monte Linceo, la cima principale del massiccio d'Arcadia, e subito nasce in lui un profondo desiderio. Sulle parole di Pan, si interrompe il discorso diretto di Mercurio e la storia viene conclusa dal narratore23. Nel frattempo, infatti, Argo si è addormentato: il dio ha raggiunto il suo obiettivo e non ha bisogno di continuare a raccontare.

Siringa fugge finché le è possibile, ma gli dei sono sempre più forti e più veloci e, arrivata alle sponde del fiume Ladone, non può far altro che invocare le sorelle fluviali per evitare la violenza.

La ninfa si metamorfizza in canne palustri da cui, casualmente, esce un suono: Pan pensa allora di creare uno strumento musicale che diventerà il modo di comunicare con la giovane. Siringa è indicata con il termine puella che le conferisce una dimensione corporea, nonostante l'abbia perduta per sempre in conseguenza della metamorfosi. Come nella vicenda di Dafne, Siringa finisce per esser sostituita da un vegetale che verrà strumentalizzato attraverso l'artificio egoistico del suo persecutore. La violenza sessuale sconvolge un ordine stabilito dagli dei, mentre la trasformazione, opponendole un nuovo ordine, in un certo modo cancella l'abuso.

23 Anche in Longo Sofista (II, 34.1) il discorso di Pan non è riportato direttamente, ma mentre nelle Metamorfosi le parole di Pan sono subito interrotte, qui si fa cenno a quale fosse l'argomento con il quale il dio cercava di convincere Siringa: «cercò di piegarla ai suoi desideri, con la promessa di concedere parti gemellari alle sue capre» (Longo Sofista, Dafni e Cloe, a cura di Maria Pia Pattoni, Milano, BUR, 2007).

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2.4 Conclusioni

L'aspetto più rilevante da segnalare in questa vicenda è il rapporto tra Pan e il mondo femminile delle ninfe. Se qui lo vediamo mentre desidera Siringa, sappiamo come le ninfe siano sempre soggette all'attenzione di creature divine e come il loro mondo bucolico sia sempre travolto dal loro desiderio. La passione di Pan per Siringa può essere identificata come una delle tante infatuazioni che egli prova in momenti diversi. Con i loro desideri o capricci gli dei modificano un ordine, sconvolgono un fragile equilibrio: basta che essi seguano i loro impulsi ed ecco che nascono nuove piante, si creano nuove entità. In un certo senso è come se la forza della passione amorosa diventasse una spinta creatrice, una sorta di metafora della riproduzione naturale. Non è certamente amore, ma all'interno del mito è un'energia fondamentale che muove le forze del mondo.

Siringa, come tutte le sue sorelle, non ha le capacità per reagire al dio: le ninfe non hanno il potere di cambiare le cose, ma soltanto quello di modificare la propria essenza. Così evitando la violenza, mantengono la verginità, per loro sacra, e l'onore, e per far questo sono disposte a perdere il loro corpo: di ciò che erano, resta solo il nome.

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3. Giove e Io ( Libro I, 584- 751)

3.0 La vicenda

Giove desidera ardentemente la giovane Io e grazie ai suoi poteri riesce a farle violenza. Giunone però, accortasi dell'assenza del marito e cercandolo là dove egli si trovava con la ragazza, costringe il dio a nascondere Io, mutandola in giovenca. La dea allora chiede in dono l'animale e dopo averlo ottenuto, non fidandosi del marito, lo fa sorvegliare dal mostro Argo. Trascorre un periodo di tempo in cui la fanciulla soffre perché imprigionata in un corpo non suo e perché obbligata a star lontano dalla famiglia. Giove manda Mercurio a uccidere Argo per poterla liberare. Dopo la morte del mostro, Giunone si accorge dell'inganno e fa perseguitare Io da una Erinni, finché la giovane, sfinita, si ferma sulle rive del Nilo, dove Giove le fa riacquistare nuovamente la forma umana a cui seguirà la divinizzazione della ragazza e di suo figlio.

3.1 La tradizione

La storia con ogni probabilità doveva aver avuto un revival nella cultura alessandrina, essendo un mito che media tra Egitto e Ellade, e dunque di importanza in termini di identità culturale24.

Nell'idillio in cui Mosco narra la vicenda di Europa (II), significativo è il racconto della storia di Io (56-79), incisa su un bel canestro d'oro che la figlia di Telefassa usa per raccogliere fiori. La dinamica della narrazione è la medesima nelle Metamorfosi, con la trasformazione in giovenca, l'intervento di Mercurio, l'arrivo di Io presso il Nilo,

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mentre non viene fatto cenno alla figura di Giunone.

Ovidio invece decide di mettere in primo piano il capriccio erotico di Giove e la gelosia della moglie, trascurando versioni più antiche in cui Io era sacerdotessa di Era. Inoltre il ruolo di Io come capostipite della genealogia argivo egiziana non è considerato di interesse per l'autore, che sfrutta la localizzazione geografica dell'episodio per collegare la storia successiva di Fetonte.

3.3 Analisi

La vicenda si apre con la descrizione della valle di Temple, in Tessaglia, famosa per il paesaggio naturale che separa il monte Olimpo dal monte Ossa e si concentra sopratutto sul catalogo dei fiumi, dai nomi risonanti, giunti là per onorare il Peneo25, la cui figlia è ormai divenuta la pianta sacra al dio Apollo.

Il modulo narrativo usato da Ovidio permette di collegare fra loro storie che non hanno legame, né personaggi in comune (Inachus unus abest «non è presente solo Inaco», 583): la storia che sarà narrata spiegherà il motivo dell'assenza del fiume Inaco, attraverso l'analessi. Egli, miserrimus (584), piange la scomparsa della figlia, accrescendo con le lacrime le proprie acque, e teme per la vita della ragazza, ma il narratore onnisciente sa che ella non è morta: se Io si trova lontano da casa è a causa del desiderio irrefrenabile di Giove.

25 Nescia, gratentur consolenturne parentem, «inconsapevoli se debbano congratularsi o consolare il genitore»(578): i fiumi non sanno se essere rammaricati per il genitore poiché effettivamente egli ha perduto la figlia, ma allo stesso tempo ella è anche divenuta un'entità sacra.

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3.3.1 L'incontro

L'incontro che fa scaturire la passione di Giove per la giovane non è approfondito ed è espresso per mezzo di tratti veloci e sintetici. Come nel caso di Pan è il verbo video che scatena il desiderio: viderat a patrio redeuntem Iuppiter illam/ flumine «ora, quella fanciulla Giove l'aveva scorta mentre ritornava dalle acque paterne», 588-89). La fanciulla mentre torna dal fiume, suo padre, viene scorta dal dio che subito le rivolge un discorso dal tono ironico26, introdotto dall'apostrofe o virgo Iove digna «vergine degna di Giove», (589), in cui le chiede, dato che fa molto caldo, di ristorarsi all'ombra del bosco. Il particolare del sole (a metà del suo cammino), e la descrizione dell'ora della giornata, l'ora panica in cui si manifestano le divinità, si ricollega al tentativo di conquista di Siringa da parte di Pan, la vicenda che Mercurio racconterà poco dopo. Giove, paradossalmente, si presenta come colui che proteggerà Io dalle fiere e dai posti pericolosi all'interno del bosco, quando in realtà è proprio lui (non un dio qualsiasi, ma quello che tiene tra le mani lo scettro celeste) a essere il suo principale nemico nonché persecutore.

Io si allontana, fuggendo più lontano che può (Ne fuge me! Fugebat enim «non fuggirmi, perché quella fuggiva», 597), come aveva fatto anche Dafne, ma Giove non è disposto a rinunciare al soddisfacimento del suo desiderio. Apollo aveva tentato di conquistare la ninfa con un lungo discorso e inizialmente voleva correre piano per darle il tempo di fuggire, per rispetto e cura verso di lei che temeva si sarebbe potuta far del male. In questo caso, invece, Giove non ha nessuna intenzione di far scappare Io e anche il fallito tentativo di presentazione non lo smuove dall'intento. Egli decide di usare il suo

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potere, fa scendere una densa nebbia che nasconde tutto e la fa sua in un istante: cum deus inducta latas caligine terras/ occuluit tenuitque fugam rapuitque pudorem («quando il dio suscitando la caligine nascose alla vista un largo tratto di terra e frenò la sua fuga, rapinandola della verginità», 599-600). Io non ha il tempo di capire quello che sta accadendo e non riesce a pregare alcuna divinità per chiedere aiuto: Giove è troppo forte e la sua azione improvvisa. Per descrivere la violenza, Ovidio sceglie il verbo rapio, coi significati principali di “afferrare”, “rapire”, “saccheggiare” e anche “rubare”: si ruba qualcosa che non ci appartiene. Il re degli dei dispone della giovane come se fosse di sua proprietà, togliendole il pudor, termine che indica la privazione non solo fisica, ma anche emotiva che Io è costretta a subire. Le vengono portati via la verginità, ma anche il rispetto, e la castità, di grandissima importanza per la cultura romana e greca27.

3.3.2 Giunone

La scena si concentra poi, inaspettatamente, sulla gelosia di Giunone (tratto costante del personaggio in tutte le Metamorfosi) e non sul dolore di Io che invece troveremo in un secondo momento. Giunone si accorge che c'è qualcosa di strano, che ci sono delle nebbie vaganti che non sembrano provenire dal fiume, si insospettisce (aut ego fallor/ aut ego laedor «o mi sbaglio o vengo ingannata», 607-608) e le collega immediatamente alla possibilità di essere stata nuovamente tradita dal consorte. Il fatto di non trovarlo in cielo, dove dovrebbe essere, le dà la conferma dei suoi dubbi, così ella decide di recarsi di persona nel luogo in cui si trova il marito, nella speranza di

27 A conferma di ciò, si può far riferimento alla terribile punizione che il padre infligge a Leucotoe per aver perduto la verginità prima del matrimonio: non conta che sia stato un dio ad averla irretita, per la giovane la pena sarà la morte ( IV, 239-40).

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evitare l'ennesimo tradimento. Ma Giove è il re degli dei, e i suoi furta (606) (termine ricorrente e proverbiale per indicare le sue scappatelle) riescono sempre28, mentre così non avviene per Apollo e Pan, i quali non arrivano a conquistare rispettivamente Dafne e Siringa.

La figlia di Saturno è dotata di un potere considerevole e può facilmente agire sulla natura, così, arrivata nel luogo, si affretta a far diradare le nebbie. Giove però, che aveva presentito il suo arrivo, anticipa le mosse della consorte ed evita il rischio di esser sorpreso in flagrante, trasformando Io in giovenca, la cui bellezza resta inalterata dalla metamorfosi: bos quoque formosa est29 («anche nella sua forma bovina è bella», 612). Anche in questo caso l'azione di Giove è repentina e la trasformazione viene data come già verificatasi, senza nessun tipo di descrizione (Ovidio decide di variare il tema, mostrando nel dettaglio la contrometamorfosi posta alla fine dell'episodio).

La Saturnia sorprende il marito con la giovenca senza capire con esattezza quale sia la verità: essa domanda a chi appartenga l'animale e la risposta vaga del dio (terra genitam «nata dalla terra», 615) non la rassicura sulla sua fedeltà, per questo Giunone la chiede in dono. Il conflitto interiore di Giove, indeciso sul da farsi, si risolve abbastanza velocemente: la sua reputazione è più importante da salvaguardare e Io viene facilmente sacrificata e donata alla dea. Se confrontiamo il monologo interiore del dio con quello di alcune eroine delle Metamorfosi, come Biblide o Mirra (rispettivamente IX, 450-665 e X, 299-518), è evidente come la profondità emotiva del

28 Solo in un caso Giove nelle Metamorfosi, intimorito da una profezia, rinuncia a una conquista amorosa, quello di Teti, che secondo l'oracolo avrebbe partorito un figlio più forte del padre. Per questo Giove, intimorito, lascia che sia Peleo a farla sua (XI, 223-265).

29 Si noti che nel momento in cui il poeta decide di descrivere la giovenca in cui Io viene da Giove trasformata va a utilizzare il termine formosa, la prima volta su le 29 usate in totale (Virgilio non usa questo termine al quale preferisce pulcher, molto più serio, che non si sarebbe molto adattato al contesto).

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conflitto non possa essere assolutamente paragonabile: per Giove Io è solo uno svago, un desiderio momentaneo il cui godimento è già stato raggiunto, mentre per le giovani la passione amorosa è tanto forte da non poter essere in alcun modo arginata. Per Giove la preoccupazione principale è quella di non essere scoperto e dunque non possiamo considerare il suo coinvolgimento emotivo pari a quello di Mirra e Bilblide. La giovenca non sembra avere gran valore, di conseguenza, se Giove non l'avesse voluta donare avrebbe destato sospetti sulla vera natura dell'animale, e quindi la soluzione più semplice è cederla alla moglie:

Victus pudor esset amore,

sed, leve si munus sociae generisque torique

vacca negaretur, poterat non vacca videri30 (619-621)

Comunque Giunone, non fidandosi, non ritiene che il dono sia spontaneo, ma continua a sospettare l'infedeltà del marito, e decide di affidare Io ad Argo, celebre per sua infallibile vista, affinché la custodisca.

3.3.3 La prigionia di Io

Argo, figlio di Arestore, era famoso per i sui cento occhi (numero iperbolico), che, chiudendosi a turno, gli permettono di avere costantemente sotto controllo la giovenca, in qualsiasi luogo essa si trovi. Dal momento che la sua caratteristica è proprio quella di avere una vista impareggiabile, l'unico modo per sconfiggerlo sarà evidentemente l'utilizzo di un altro senso, nel caso specifico l'udito.

L'attenzione di Ovidio si concentra sull'infelix (634) Io, che di giorno pascola, mentre la notte, nella stalla, con una catena al collo (definito indigno, 631, poiché ella non merita

30 «L'amore avrebbe avuto la meglio sul pudore, ma, se la vacca, dono di poco conto, venisse negata alla consanguinea e alla compagna del talamo, avrebbe dato l'impressione di non essere tale».

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la punizione crudele che è costretta a subire). Io emette muggiti (il tema della voce è da connettersi a quello della musica che tornerà poco dopo), restando atterrita dai suoni che emette e constata con dolore che i gesti che compie non hanno il risultato sperato. La pena si acuisce ulteriormente quando Io giunge presso il fiume dove era solita giocare (Inachidas ripas «le rive del fiume Inaco», 640) e, vedendo il suo riflesso nell'acqua (esattamente l'opposto di ciò che accadrà a Narciso, III, 341-510), resta sconvolta dalle sue corna bovine e fugge: novaque ut conspexit in unda cornua,/ pertimuit seque externata refugit («appena guardò nello specchio dell'acqua le corna che le erano appena spuntate, ebbe paura di sé e fuggì costernata», 640-41).

3.3.4 L'incontro con il padre Inaco

Naides ignorant, ignorat et Inachus ipse,/ quae sit; at illa patrem sequitur sequiturque sorores («le Naiadi non sanno chi sia, non lo sa perfino Inaco; ma quella va appresso al padre, va appresso alle sorelle», 642-43): è estremamente doloroso non poter comunicare con la sua famiglia e l'incontro con il padre ha toni drammatici (resi anche a livello retorico per mezzo del poliptoto del verbo ignoro, che sottolinea l'inconsapevolezza dei parenti). Segue il momento del riconoscimento per mezzo della scrittura nella sabbia: littera pro verbis («una lettera al posto delle parole», 649)31. Il sintagma Me miserum (651 e 653), ripetuto due volte, rende la situazione emotiva di Inaco, addolorato nel vedere la figlia: tu non inventa reperta/ luctus erat levior («quando non ti trovavo eri causa di un dolore più lieve di quello che provo trovandoti», 654-655). Scoprire che Io ha cambiato forma è un patimento ancora

31 L'episodio testimonia come per Ovidio la scrittura sia intensamente legata al mondo femminile, aspetto individuabile non solo all'interno delle Metamorfosi (più importante è l'episodio di Biblide, IX, 450-666), ma anche, e soprattutto, nelle Heroides.

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maggiore rispetto a quello provato per la sua perdita. A ciò si aggiunge la preoccupazione per la discendenza: Inaco, infatti, ignarus (658), preparava le fiaccole nuziali a lei che potrà, invece, avere come compagno solo un bue (de grege nunc tibi vir et de grege natus habendus, «tuo marito sarà scelto da un armento, e da un armento avrai i tuoi figli», 660). Inoltre il padre non troverà mai conforto, neppure nella morte, poiché, essendo una divinità, la sua vita è eterna:

Nec finire licet tantos mihi morte dolores, sed nocet esse deum, preclusasque ianua leti

aeternum nostros luctus extendit in aevum32 (661-663)

La tragicità e pateticità del discorso di Inaco è inevitabilmente accresciuta dall'impossibilità di risposta della figlia, che può solo emettere muggiti terrificanti. Si può notare, come punto in comune tra la vicenda di Io e quella di Dafne, la preoccupazione che i padri di entrambe hanno all'idea di non avere una discendenza: Peneo accetta a malincuore la decisione della figlia di mantenere la verginità, mentre Inaco, appena riconosciuta Io, per prima cosa lamenta di non poter avere un genero e dei nipoti.

Questo si spiega alla luce del significato che il mondo greco e romano danno al vincolo matrimoniale, considerato anche un dovere verso gli dei (il cittadino doveva lasciare nei suoi figli altrettanti servitori devoti alle divinità) e un dovere morale. L'unione matrimoniale, in quanto contratto, non prevede un rapporto sentimentale tra le parti coinvolte che, anzi, spesso non si conoscevano. Da sottolineare inoltre il fatto che la donna veniva onorata soprattutto come madre dei figli, e quindi trovava la realizzazione nella figura di generatrice.

32 «E non mi è possibile porre fine a dolori così acuti con la morte, ma è un danno essere dei, e la porta che non si apre alla morte prolunga fino all'eternità i nostri pianti».

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3.3.5 L'intervento di Mercurio

L'addio tra Inaco e Io è reso più straziante perché improvviso: Argo giunge e porta la giovane lontana, in pascoli distanti (664-66).

Soltanto a questo punto torna in scena Giove che, non sopportando più che Io subisca tante sofferenze, decide di convocare il figlio Mercurio affinché uccida Argo e la liberi (668-70). Mercurio si prepara a scendere sulla terra con tutti gli attributi che lo caratterizzano, per poi abbandonarli a favore di un travestimento che gli permetterà di avvicinarsi indisturbato ad Argo. Si toglie il copricapo, depone le ali, mantiene solo il caduceo e indossa i panni di un pastore che suona la zampogna: hac agit ut pastor per devia rura capellas,/ dum venit, adductas et structis cantat avenis («con questo, sotto il sembiante di un pastore, spinge attraverso campi fuori mano le capre da lui radunate mentre si avvicinava e intanto suona la zampogna», 676-77).

Il figlio di Arestore è molto incuriosito dallo strumento (namquam reperta/ fistula nuper erat, «la zampogna era da poco stata inventata» 687-688) e invita Mercurio a sedersi su una roccia, mentre il suo gregge può pascolare sicuro nei pressi. La scena ha i caratteri tipici del quadretto bucolico, volutamente ricercati da Ovidio per incorniciare la struttura del racconto nel racconto nel quale il figlio di Maia narra l'aition della zampogna al curioso Argo.

La storia di Pan e Siringa riesce a distrarre il mostro che, addormentatosi, diviene vulnerabile, così che Mercurio può facilmente ucciderlo e far cadere una notte sui suoi temibili e numerosi occhi. Anche la morte di Argo diviene spunto per una nuova eziologia: i suoi occhi vengono collocati sulle piume di un uccello che diverrà sacro a

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Giunone, il pavone33.

3.3.6 La furia di Giunone e la divinizzazione di Io

La dea protinus exarsit («subito avvampò d'ira», 724) e decide di vendicarsi immediatamente di Io (della quale si presuppone abbia scoperto la vera identità, anche se l'autore non lo specifica, forse per ragioni di economia testuale) facendo scaturire in lei un'ansia terribile dall'orrenda Erinni (la versione alternativa, che Ovidio decide di ignorare, la vedeva perseguitata da un terribile insetto34).

Segue la disperata fuga della giovenca per tutto il mondo, la cui peregrinazione termina in Egitto, significativamente indicato per metonimia con l'apostrofe al Nilo: il tema dei fiumi, da cui la vicenda era cominciata, ritorna anche nella conclusione. Arrivata all'ultima tappa del suo viaggio, la figlia di Inaco, spossata e disperata, si inginocchia per pregare (procumbuit genibus «si prostrò con le ginocchia», 730), benché non abbia né corpo né voce per farlo. La sua implorazione, tollens ad sidera vultus/ et gemitu et lacrimis et luctisono mugitu («alto levò il volto al cielo per quanto poteva e parve, a causa dei gemiti, delle lacrime del muggito lamentoso», 731-32), riesce a commuovere Giove, che finalmente decide di intervenire in aiuto della giovane. Per convincere Giunone a lasciar libera Io l'unica azione efficace è il giuramento sullo Stige. Le parole di Giove meritano un'attenzione particolare (in futurum/ pone metus […] numquam tibi causa doloris/ haec erit, «non avere paura per il futuro, non ci sarà nessun motivo di preoccupazione», 735-37): egli giura che Io non sarà mai più motivo di preoccupazione, non che egli non tradirà mai più sua moglie. Per il re degli dei questo è

33 Non così nell'idillio di Mosco (II) in cui il pavone nasceva dal sangue del mostro. 34 Eschilo, Supplici, vv. 556 sg.

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il modo migliore per risolvere la situazione senza risultare spergiuro: egli, certamente, non avrà altri motivi per tornare da Io, ma le situazioni di contrasto con Giunone si ripeteranno e saranno numerose. Alla dea comunque le parole del marito sembrano convincenti e, ritrovata la calma, smette di tormentare la giovane, che può finalmente tornare se stessa.

La contrometamorfosi è descritta con cura e risulta originale a livello narrativo. L'unica caratteristica in comune con l'animale è la bellezza, che resta intatta: de bove nil superest formae nisi candor in illa, «della giovenca nulla resta se non il candore» (743). La ninfa, timide (746), torna a articolare le parole per molto tempo non usate. Il nunc (747) introduce un momento di stacco: anche senza dati cronologici precisi si capisce che devono esser trascorsi diversi mesi, perché è nato il bambino di Io, divenuta divinità egiziana con il nome di Iside35.

Anche il figlio, Epafo, viene divinizzato perché riconosciuto stirpe di Giove, identificato non senza ironia, con un bovino, il sacro bue Api.

3.4 Giove

È opportuno soffermarsi sulle ragioni delle numerose avventure extraconiugali di Giove, che devono essere contestualizzate all'interno dell'ambito culturale del tempo. Benché i mitografi, sopratutto a partire dall'epoca cristiana, considerino queste unioni come altrettanti atti di libertinaggio, si deve fare uno sforzo nel cercare i motivi profondi che hanno portato il dio a dare figli a donne mortali. Ad esempio si spiegava la vicenda di Elena con la necessità di un conflitto sanguinoso per diminuire la

35 La metamorfosi con il ritorno allo stato primigenio e innalzamento finale di status si ritrova nel romanzo di Apuleio, in cui la vicenda del protagonista si salda, come in questo caso, con il culto di Iside.

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