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Epatectomie maggiori robotiche vs epatectomie maggiori tradizionali: due tecniche a confronto.

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Academic year: 2021

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Riassunto

3

Introduzione

4

Breve storia della chirurgia epatica

4

Cenni di anatomia

10

Anatomia morfologica epatica 10

Aspetto esterno 10

Vascolarizzazione 12

Anatomia funzionale epatica 13

Segmentazione epatica e denominazione delle epatectomie 13

Principali patologie chirurgiche epatiche

17

Patologia benigna 17

Adenoma 17

Iperplasia nodulare focale 17

Emangioma 18 Patologia maligna 18 Epatocarcinoma 19 Colangiocarcinoma 21

Valutazione preoperatoria

22

Valutazione dell’anatomia chirurgica e dell’estensione delle lesioni 22

Studio della riserva funzionale epatica 24

Resezioni epatiche

28

Classificazione secondo l’anatomia 28

Classificazione secondo la tecnica chirurgica 28

Epatectomia con legatura vascolare immediata 28

Epatectomia mediante sezione parenchimale immediata 28

Combinazione dei due metodi 29

Il sanguinamento intraoperatorio 29

Controllo della pressione venosa centrale 29

(2)

Metodiche di dissezione parenchimale 33

Materiali e metodi

37

Chirurgia epatica robotica

37

Il sistema robotico Da Vinci 37

Stato dell’arte e prospettive future 39

Modalità di esecuzione robotica delle resezioni epatiche 41

Setup di sala e ruolo dell’aiuto 41

Posizionamento del carrello e dei port 43

Tecnica chirurgica 45

Selezione dei pazienti

49

Risultati

51

(3)

Riassunto

Introduzione

Nonostante il progresso delle tecniche mininvasive, la chirurgia a cielo aperto resta oggi la metodica standard per le epatectomie maggiori. Recentemente sia la chirurgia laparoscopica che il sistema robotico Da Vinci sono stati sperimentati con successo in serie limitate di pazienti sottoposti a epatectomie maggiori. La chirurgia robotica offre vantaggi su quella laproscopica per la minore difficoltà tecnica, la maggiore precisione, visione tridimensionale e coordinamento occhio-mano, che consentono un controllo ottimale delle strutture vascolari e biliari minimizzando il sanguinamento.

In questa tesi sono riportate le tappe fondamentali della chirurgia epatica e viene descritto lo sviluppo delle nuove tecniche fino all’introduzione del sistema robotico Da Vinci.

Sono poi riportati dati di uno studio osservazionale di confronto fra tecnica tradizionale e tecnica robotica applicate alla chirurgia epatica maggiore.

Materiali e metodi

Sono state selezionate da database clinico di reparto due serie di pazienti consecutivi omogenei per genere ed età sottoposti ad intervento di resezione epatica maggiore, rispettivamente a cielo aperto (n=17, 9F/8M, età media 64 anni) e con procedura robotica (n=18, 9F/9M, età media 62 anni). I pazienti erano caratterizzati per molteplici parametri clinici e chirurgici.

E’ stata eseguita un’analisi statistica con confronto di medie e correlazione lineare.

Risultati

I pazienti sottoposti a chirurgia robotica presentavano in media lesioni epatiche di maggiore diametro (9,45±3,81 vs 5,24±2,93 cm, p<0,001); lo score medio di rischio operatorio era simile (2,78±0,43 vs 2,77±0,60 ASA, ns) come la durata media dell’intervento chirurgico (428,33±117,24 vs 480,65±164,83 minuti). Nel decorso post-intervento robotico vi era un minor fabbisogno di emotrasfusione (0,44±0,92 vs 2,69±3,30 unità medie di emazie, p<0,01) e la degenza media post-operatoria risultava significativamente ridotta dopo la chirurgia robotica (9,82±3,71 vs 28,42±22,36 giorni, p<0,005).

Conclusioni

Questi dati osservazionali, pur nei limiti di una casistica non numerosa e relativamente eterogenea, appaiono sostenere la chirurgia robotica con sistema Da Vinci come una valida alternativa alla chirurgia laparotomica per le resezioni epatiche maggiori.

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Introduzione

Breve storia della chirurgia epatica

Sin dalle epoche più remote della storia assiro-babilonese, il fegato fu considerato come la parte più importante delle interiora delle vittime sacrificate: si hanno infatti manufatti e testi divinatori basati sull'osservazione del fegato che risalgono al ventisettesimo secolo a.C.

Ma se da una parte la conoscenza del fegato affonda le radici nel mito, la sua chirurgia, intesa come chirurgia del parenchima epatico, è invece relativamente recente. La chirurgia epatica si è evoluta lentamente nel corso della storia, soprattutto a causa del timore del facile sanguinamento di questo viscere. Il fegato infatti è stato considerato per secoli un organo mistico (figura 1), fonte del sangue e della vita, intoccabile dal chirurgo; ancora oggi l’esecuzione di una corretta epatectomia rappresenta comunque una sfida. E’ comunque sorprendente il fatto che già nella mitologia greca ritroviamo due aspetti fondamentali della chirurgia epatica. Il primo aspetto è il sanguinamento massivo in seguito a ferite al fegato: Omero scrisse che “Achille il ferro nell'èpate gl'immerse, che di fuori riversossi, e di sangue un nero fiume gli fe' lago nel seno. Venne manco l'alma, e gli occhi coprì di morte il velo” (Omero, Iliade XX libro). Il secondo aspetto è la sua capacità rigenerativa: secondo la leggenda di Prometeo, portata in versi da Esiodo (Il Prometeo incatenato, ottavo secolo a.C.) questi rubò il fuoco a Zeus, re dell’Olimpo, per donarlo al genere umano. Come atroce punizione, Zeus incatenò Prometeo ad una rupe e mandò un avvoltoio a divorare il suo fegato. E il fegato ogni notte rigenerava completamente così da poter essere nuovamente divorato dal rapace la mattina successiva, in un supplizio senza fine. Oggi la straordinaria capacità rigenerativa del fegato non appartiene più al mito ma è alla base della moderna chirurgia epatica.

Figura 1 - il Fegato di Piacenza, modello etrusco di fegato per l'interpretazione delle viscere degli

animali sacrificati

Dobbiamo all’alessandrino Erofilo (330-280 a.C.), noto per essere stato il primo anatomista della storia, la prima descrizione del fegato. Anche Galeno (130–200 d.C.) ha accuratamente descritto l’anatomia lobare e la vascolarizzazione, interpretando il fegato come fonte del sangue. Nei successivi secoli invece, la conoscenza dell’anatomia epatica è progredita molto lentamente. Sarà necessario infatti attendere almeno fino al 1600 perchè gli anatomisti riprendano ad interessarsi

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nuovamente al fegato: tra loro Francis Glisson nel 1654 ha studiato e discusso dettagliatamente la vascolarizzazione epatica.

Nel diciannovesimo secolo due concetti fondamentali hanno permesso l’avvio di interventi di chirurgia maggiore: l’anestesia e l’asepsi. Nel 1842 negli Stati Uniti Crawford W. Long usò per la prima volta l’etere come anestetico. Nel 1867 Joseph Lister in Irlanda introdusse tecniche di antisepsi contro le infezioni batteriche dopo che Louis Pasteur, in Francia, ebbe scoperto ed evidenziato i pericoli portati dai batteri. Prima di questo periodo esistono solo incerte testimonianze di alcuni interventi su fegato nei rari casi in cui si riteneva di dover intervenire chirurgicamente su un trauma.

Nel 1888 il tedesco Carl Langenbuch, autore della prima colecistectomia, eseguì con successo la prima resezione epatica in regime di elezione e nel 1891 l’americano William W. Keen compì la prima resezione epatica usando la tecnica che in futuro successivamente è stata conosciuta come “digitoclasia” per dividere il parenchima epatico.

Il controllo del sanguinamento intraoperatorio divenne presto la sfida più impegnativa: nel 1908 lo scozzese Pringle descrisse un metodo di compressione temporanea del peduncolo epatico, tuttavia le maggiori scoperte dovevano ancora arrivare. E’ stato infatti il fine lavoro degli anatomisti che ha offerto la chiave per ridurre la maggior parte del sanguinamento. Nel 1897 l’inglese James Cantlie sfidò la divisione anatomica del fegato, riconosciuta all’epoca, che lo riteneva diviso dal legamento falciforme. Riuscendo a separare il parenchima dai rami vascolari, definì un piano avascolare passante attraverso il letto della colecisti fino al solco posteriore della vena cava. Oggi, questo piano è un importantissimo repere chirurgico noto come linea di Cantlie.

Figura 2 - Claude Coinaud e la sua collezione di modeli di fegato

Ma è il 1950 l’anno in cui si può far risalire la nascita della vera chirurgia epatica anatomica, quando, durante il Congresso Internazionale di Anatomia di Oxford, lo svedese Hjortsjo descrisse con assoluta chiarezza scissure, settori e segmenti, iniziando quella “rivoluzione anatomica” portata avanti dall’americano Healey nel 1954 e dal francese Coinaud (figura 2). Quest’ultimo nel 1957 pubblicò il suo lavoro in cui divideva il fegato in cinque settori ed otto segmenti basandosi sulle diramazioni della vena porta. I lavori di Hjortsjo, Healey e Couinaud hanno rappresentato un importantissimo contributo che ha migliorato notevolmente la tecnica chirurgica e ridotto la mortalità dei pazienti.

Nella relazione del 1952 Lortat-Jacob e Robert descrissero una tecnica che si articolava sulla precedente preparazione, legatura e sezione dei vasi e dei dotti biliari a livello dell’ilo glissoniano e

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delle sovra-epatiche al loro sbocco nella vena cava inferiore. Ottenuta l’emostasi preventivamente, la dissezione del parenchima veniva affidata al bisturi. Tecnica molto elegante che richiedeva però anche tempi operatori molto lunghi.

Nel 1953 Quattlebaum descisse invece tre casi di resezione epatica maggiore, di uno con tranciatura del fegato con il manico del bisturi e clampaggio dei vasi nel piano di transezione. Nel 1958 Tien Yu Lin introdusse una nuova tecnica nominata “digitoclasia”, che si attua mediante “frantumazione” del tessuto epatico tra le dita e isolamento e legatura dei vasi e dei dotti che successivamente vengono incontrati. Dal 1960 al 1980 Ton That Tung ha operato oltre 1000 casi modificando questa tecnica nel 1963 con l’introduzione della legatura preventiva del peduncolo portale prima della digitoclasia.

Nel corso degli anni si rese inoltre necessario un accordo sulla nomenclatura riguardante la chirurgia epatica poichè in tutto il mondo i chirurghi usavano una terminologia differente e spesso fonte di confusione. Solo nel 2000 un gruppo internazionale di chirurghi epatici propose una terminologia standard, introdotta durante il congresso biannuale dell’International Hepato-Pancreato-Biliary Association a Brisbane in Australia, a cui oggi ci si riferisce con il termine

Nomenclatura di Brisbane 2000.

Figura 3 - strumentario laparoscopico

Nel tempo di una generazione la chirurgia del fegato ha conosciuto una prodigiosa evoluzione ed è oggi ai più alti gradini di tutta la chirurgia addominale. Dalla prima colecistectomia laparoscopica eseguita da Philippe Mouret nel 1987, che dimostrò una riduzione della morbilità, del sanguinamento intraoperatorio e del tempo di degenza postoperatorio, la chirurgia mini-invasiva è stata applicata a un numero di patologie chirurgiche sempre maggiore. Il fegato invece sembra che sia stato inizialmente quasi ignorato dai laparoscopisti (figura 3), soprattutto se guardiamo alla rapida diffusione di altre procedure laparoscopiche come la colecistectomia e la fundoplicatio secondo Nissen. Questo non deve stupire se pensiamo all’alto grado di complessità della chirurgia epatica, che nel caso della chirurgia mini-invasiva richiede la competenza di un laparoscopista avanzato unita all’esperienza di un chirurgo specialista in chirurgia del fegato.

Nonostante ciò, negli ultimi venti anni numerosi studi hanno proposto la chirurgia epatica laparoscopica come una sicura scelta per patologie benigne e patologie maligne, sia primitive che metastatiche. Dati recenti rivelano che centri specializzati hanno eseguito con successo epatectomie maggiori per via laparoscopica con risultati positivi quando confrontate ad epatectomie tradizionali. 1, 2 I risultati favorevoli osservati con la laparoscopia dapprima nelle resezioni a cuneo e nelle epatectomie minori e successivamente nelle resezioni maggiori e dei segmenti posteriori continuano a ridefinire il trattamento chirurgico delle lesioni epatiche benigne e maligne.3

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La vera evoluzione nel campo della chirurgia mininvasiva, e di conseguenza anche delle resezioni epatiche maggiori, è stata lo sviluppo della chirurgia robotica. Con questa opzione chirurgica, discussa nel paragrafo dedicato, è stato possibile abbattere alcune limitazioni insite nelle indicazioni della chirurgia laparoscopica, quali la dimensione della/e lesioni, o la sede delle stesse.

Figura 4 - un master controller robotico: si può notare la varietà di articolazione che corrisponde ai

numerosi gradi di libertà di movimento degli strumenti robotici.

La chirurgia robotica nasce dalle qualità e dalle carenze del suo predecessore, la laparoscopia.

La chirurgia mini-invasiva comincia nel 1987 con la prima colecistectomia laparoscopica. Da allora, l’elenco delle procedure eseguite per via laparoscopica è cresciuta notevolmente, contemporaneamente ai miglioramenti nelle strumentazioni e nelle abilità tecniche dei chirurghi. I vantaggi della chirurgia mini-invasiva sono ormai ben conosciuti ed apprezzati dai chirurghi e dai pazienti. Le incisioni sono più contenute e molti studi hanno dimostrato che il rischio infettivo è minore, la degenza post-operatoria è nettamente ridotta così come la convalescenza e il dolore rispetto alla chirurgia laparotomica.4, 5

Per quanto attraente però, la chirurgia mini-invasiva presenta alcune limitazioni. Alcune tra le più importanti limitazioni attuali risiedono di fatto nella natura tecnica degli strumenti. Un esempio è l’effetto fulcro, che comporta notevole difficoltà di coordinamento naturale tra occhio e mano: muovere la strumentazione laparoscopica guardando un monitor in due dimensioni risulta, soprattutto durante le prime esperienze, molto poco intuitivo, dovendo, per raggiungere il bersaglio, muovere lo strumento nella direzione opposta al sito di interesse visualizzato sullo schermo. Gli attuali strumenti laparoscopici hanno inoltre limitate possibilità di movimento ed articolazione. La maggior parte di questi ha solo quattro gradi di libertà, quando il polso umano ne ha ben sette. C’è anche un ridotto senso del tatto, che rende la manipolazione dei tessuti molto più dipendente dalla loro visualizzazione. Infine, il fisiologico tremore del chirurgo è direttamente trasmesso attraverso i lunghi e rigidi strumenti laparoscopici.

Queste limitazioni hanno reso più difficili se non impossibili da eseguire in chirurgia mini-invasiva le procedure chirurgiche più complesse. La spinta nello sviluppo della chirurgia robotica si deve quindi al desiderio di superare i limiti della laparoscopia, al fine di estendere il campo d’azione della chirurgia mini-invasiva e poter beneficiare delle sue indiscusse qualità (es figura 4).

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I primi robot chirurgici

La storia della chirurgia robotica comincia con il PUMA 560 (Fig.5), un robot usato nel 1985 da Kwoh per eseguire biopsie neurochirurgiche con la massima precisione.6 Tre anni dopo Davies esegue con lo stesso robot una resezione transuretrale della prostata.7 Questo sistema porta allo sviluppo del PROBOT, un robot progettato specificamente per la resezione transuretrale della prostata. Durante lo sviluppo del PROBOT, Integrated Surgical Supplies Ltd progetta ROBODOC, un sistema robotico destinato alla chirurgia del femore: è il primo robot approvato dalla FDA.8

Questi primi robot chirurgici erano però esclusivamente degli strumenti che agivano seguendo dati preprogrammati o generati tramite algoritmi dal computer, senza imput diretti in tempo reale da parte dell’operatore. Furono utilizzati soprattutto in campo neurochirurgico, urologico e ortopedico. In chirurgia generale fu utilizzato l’ AESOP 3000 (figura 6), un dispositivo in grado di controllare l’ottica in laparoscopia tramite comandi vocali.

Nella seconda metà degli anni ’80, un gruppo di ricercatori della NASA intento nello studio della realtà virtuale cercò di applicare le proprie conoscenze nello sviluppo della tele-chirurgia, aspetto che divenne una delle principali ragioni dello sviluppo dei robot chirurgici. Nei primi anni ’90, alcuni ricercatori della NASA in collaborazione con l’SRI (Stanford Research Institute) svilupparono un tele-manipolatore, il cui principale obiettivo era di fornire al chirurgo la sensazione di operare direttamente al tavolo operatorio, sul paziente e non a distanza, dall’altra parte della stanza.8

L’Esercito degli Stati Uniti notò il lavoro dell’SRI e cominciò ad interessarsi nella possibilità di ridurre la mortalità al fronte, “portando il chirurgo direttamente dal soldato ferito, attraverso la telechirurgia”. Grazie ai fondi economici dell’Esercito degli Stati Uniti, venne progettato un sistema che permetteva ad un soldato ferito può essere caricato su un veicolo dotato di

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Figura 7 - Da Vinci surgical system Figura 8 - Zeus system

equipaggiamento chirurgico ed essere sottoposto all’intervento eseguito da un chirurgo localizzato invece in un ospedale da campo.8

Cominciò quindi lo sviluppo della nuova generazione di sistemi robotici, detti “master-slave”. Questi erano incapaci di eseguire alcune azioni in modo autonomo o preprogrammato, ma permettevano al chirurgo di entrare virtualmente nel campo operatorio attraverso la visualizzazione tridimensionale ed eseguire le procedure tramite un sistema computerizzato in grado di replicare fedelmente i movimenti delle mani convertendoli in atti chirurgici, per mezzo di bracci robotici applicati al corpo del paziente tramite accessi laparoscopici.

Furono così introdotti dal 1994: Da Vinci surgical system (Intuitive Surgical Inc., Mountain View, Sunnyvale, CA, USA, figura 7), utilizzato per la prima volta sull’uomo nel 1997 per una colecistectomia laparoscopica e Zeus system (Computer Motion, figura 8), utilizzato da Jacques Marescaux per realizzare il primo intervento transoceanico.8

Ad oggi, Da Vinci Surgical system è l’unico sistema robotico chirurgico autorizzato dalla FDA all’impiego in chirurgia generale. Tuttavia nuovi sistemi robotici (es. Amadeus, Titan Medical Inc., Toronto, Ontario, CA, figura 9) sono attualmente in fase di sviluppo ed è probabile che negli anni futuri ci possano essere ulteriori progressi.

Figura 9 - Prototipo di Amadeus surgical system (migliorata articolazione dei bracci,

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Cenni di anatomia

Il fegato, l’albero biliare e la colecisti occupano il quadrante superiore destro dell’addome. Il fegato si trova tra il canale alimentare e il resto del corpo e funziona come una stazione di transito tra la circolazione splancnica e quella sistemica. Come sorgente dell’albero biliare, il fegato si colloca in mezzo al circolo enteroepatico. Esso svolge il compito critico di mantenere l’omesostasi metabolica dell’organismo; si occupa, quindi, dell’elaborazione di aminoacidi, carboidrati, lipidi e vitamine di provenienza alimentare; della rimozione di microbi e tossine nel circolo splancnico durante il trasferimento alla circolazione sistemica; della sintesi di numerose proteine plasmatiche e della detossificazione ed escrezione nella bile di prodotti di scarto endogeni ed esogeni dannosi.

Anatomia morfologica epatica

L’anatomia morfologica epatica è l’anatomia “classica”, che si limita a descrivere il fegato nel suo aspetto esteriore, come esso appare alla laparotomia o alla laparoscopia.

Aspetto esterno

Il fegato adulto si trova nell’ipocondrio destro sotto la gabbia toracica e si estende dal quinto spazio intercostale destro sulla linea emiclaveare, appena sotto il margine costale. Si proietta leggermente sotto il margine costale sulla linea intercostale destra e sotto il processo xifoideo lungo la linea mediana. Il fegato è un viscere liscio, di colorazione bruna, costituito da un parenchima friabile circondato da una capsula fibrosa, la capsula di Glisson. Viene classicamente paragonato alla metà superiore di un ovoide, con l’estremità più grossa a destra e la più piccola a sinistra, che si modella sulla faccia inferiore del diaframma di destra e che sovrasta la regione pilorico-duodenale e la testa del pancreas. Presenta un’estrema variabilità di volume, dimensioni e peso. Il suo peso è di circa 2.500 grammi nel vivente, quando è pieno di sangue (pari a circa 1.500 g nel cadavere).9

La faccia superiore, o diaframmatica (figura 10) è convessa e modellata sul muscolo respiratorio. All’unione dei due terzi di destra con quello di sinistra presenta l’inserzione del legamento sospensore o falciforme, piega peritoneale sagittale che unisce il fegato al diaframma e che si prolunga col legamento rotondo, teso tra il margine anteriore del fegato e la parete addominale anteriore. Questo legamento separa il fegato in due parti: il lobo destro ed il lobo sinistro.

La faccia inferiore, o viscerale figura 11) è leggermente concava e la sua superficie è percosa da tre solchi: il sagittale destro, il sagittale sinistro e il trasverso. Quest’ultimo rappresenta l’ilo epatico che accoglie i rami di divisione della vena porta, dell’arteria epatica e i dotti epatici destro e sinistro. Il solco sagittale destro accoglie anteriormente la colecisti (letto della colecisti) e posteriormente la vena cava (fossa della vena cava).

I due solchi sagittali e quello trasverso consentono di individuare sulla faccia viscerale del fegato un lobo destro, situato a destra del solco sagittale destro, un lobo sinistro, situato a sinistra del solco sagittale sinistro, un lobo quadrato, tra i due solchi sagittali e davanti al solco trasverso, e un lobo caudato (di Spigelio), posizionato tra i due solchi sagittali e dietro al solco trasverso.

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Il sangue raggiunge il fegato attraverso due correnti di afflusso e lo lascia attraverso un’unica corrente di deflusso per versarsi nella vena cava inferiore. I vasi sanguiferi che vanno al fegato sono l’arteria epatica e la vena porta; dal fegato defluiscono le vene epatiche.

L’arteria epatica e la vena porta, unitamente alle vie biliari, ai nervi e ai vasi linfatici, costituiscono il peduncolo epatico nel tratto in cui decorrono nel legamento epatoduodenale.

Arteria epatica e vena porta penetrano perciò nel fegato in corrispondenza dell’ilo; le vene epatiche si aprono invece nella vena cava inferiore a livello della faccia posteriore dell’organo.

Figura 10 - Legamenti del fegato: (1) falciforme; (2) rotondo; (3) coronario; (4) triangolare

Figura 11 - Faccia inferiore del fegato. Lobo destro e sinistro, lobo quadrato (Q) e lobo caudato

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Vascolarizzazione

L’arteria epatica comune origina dal tripode celiaco assieme all’ arteria gastrica di sinistra ed all’ arteria splenica: da qui si dirige al fegato nel piccolo omento, essendo posta a sinistra del coledoco ed anteriormente rispetto alla vena porta. Dopo aver generato tre rami principali – l’arteria gastroduodenale, la sopraduodenale e la gastrica di destra – l’arteria epatica comune si divide in due rami, destro e sinistro. Il ramo destro è posizionato posteriormente al dotto epatico comune e dà origine all’arteria cistica. Variabili anatomiche sono presenti nel 40% dei casi (figura 12).

La vena porta confluisce al fegato il sangue proveniente dallo stomaco, dall’intero intestino, dal pancreas e dalla milza. Origina posteriormente alla testa del pancreas dall’unione della vena mesenterica superiore con la vena splenica; nel legamento epato-duodenale è sita in un piano posteriore rispetto all’arteria ed al coledoco. Le diramazioni di I, II e III ordine intraparenchimali dell’arteria epatica, della vena porta e delle vie biliari si distribuiscono rispettivamente ai due emifegati, ai quattro settori epatici ed ai sette segmenti. Il segmento I ha una vascolarizzazione autonoma. Il sistema di efflusso venoso del fegato origina dalle vene centrolobulari, le quali drenano nelle sublobulari e quindi nelle tre vene sovraepatiche maggiori che separatamente, o spesso confluendo tra di loro, si portano nella vena cava a livello diaframmatico. Sono inoltre presenti alcune vene epatiche minori, come quelle provenienti dal I segmento, che sboccano separatamente nella cava inferiore.

La vena sovraepatica destra drena il sangue refluo dei due settori destri del fegato (segmenti V,VI,VII e VIII); la vena sovraepatica media riceve sangue dal settore anteriore destro (segmenti V e VIII) e dal settore mediano sinistro (segmento IV); la vena sovraepatica sinistra dai due settori sinistri (IV, II e III)

Figura 12 - Rappresentazione schematica della vascolarizzazione del fegato:

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Anatomia funzionale epatica

La convenzionale suddivisione del fegato in lobi destro, sinistro, caudato e quadrato è una classificazione topografica che non corrisponde ai lobi funzionali ed ai segmenti epatici. I lobi funzionali o fisiologici destro e sinistro sono definiti dalla distribuzione del sistema venoso portale destro e sinistro. Di maggiore significato per il chirurgo è infatti l’organizzazione funzionale del fegato in otto segmenti. Accanto all’anatomia «morfologica» descrittiva esiste oggi un tipo di anatomia più recente, chiamata anatomia funzionale, che meglio si adatta alla chirurgia e che ha reso possibile le resezioni parziali epatiche.

Segmentazione epatica e denominazione delle epatectomie

Una delle maggiori conquiste nella chirurgia epatica è stata la comprensione dell’anatomia interna del fegato e della sua suddivisione in segmenti. Ciò ha reso possibile eseguire resezioni complesse con maggiore sicurezza e minore danno al parenchima rispetto al passato. Seguendo l’anatomia portale e biliare, il fegato viene diviso in otto segmenti. La definizione di tali segmenti è soprattutto il risultato degli studi anatomici del francese Coinaud10 (figura 13) e dell’americano Healey.11

Figura 13 - Divisione del fegato in 8 segmenti secondo Coinaud

Nel 1998 l’International Hepato-Pancreato-Biliary Association (IHPBA) ha nominato una commissione di otto chirughi epatobiliari al fine di standardizzare la terminologia usata per descrivere l’anatomia e le resezioni epatiche. Il risultato dello studio è stato approvato nel 2000 al congresso dell’IHPBA a Brisbane (Australia) ed è oggi conosciuto come terminologia di Brisbane12.

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L’anatomia epatica è descritta secondo divisioni di primo, secondo e terzo ordine.

La divisione di primo ordine (figura 14) divide il fegato in emifegato (o fegato) destro e sinistro. Il termine lobo non è usato perchè la divisione tra l’emifegato destro e sinistro non è apprezzabile dall’esterno e non c’è quindi corrispondenza con i lobi destro e sinistro descritti nell’anatomia morfologica. La linea di demarcazione tra i due emifegati, la linea di Cantlie, è considerata in realtà un piano passante per il letto della colecisti e la vena cava inferiore. I termini per le resezioni in questo primo ordine di divisione sono epatectomia (o emiepatectomia) destra o sinistra.

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La divisione di secondo ordine (figura 15) divide il fegato in quattro settori basandosi sull’anatomia vascolare e biliare. Il fegato destro è diviso nei settori anteriore destro e posteriore destro. Il fegato sinistro è diviso nei settori mediale sinistro e laterale sinistro. Il termine per le resezioni in questo secondo ordine di divisione è settoriectomia.

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La divisione di terzo ordine (figura 16) fa riferimento ai singoli segmenti del fegato. La resezione di un singolo segmento è chiamata segmentectomia13. Una epatectomia di quattro segmenti deve essere definita “maggiore”.14 Le resezioni che prevedono l’asportazione di un maggior numero di segmenti rispetto ad una resezione maggiore, vengono definite “allargate” (figura 17).

Figura 16 - Divisione di terzo ordine

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Principali patologie chirurgiche epatiche

Patologia benigna

Le neoformazioni benigne del fegato possono assumere forma cistica o solida. Tra le prime si annoverano le cisti semplici, le cisti idatidee, le cisti da malattia policistica epatorenale, le lesioni pseudocistiche a contenuto sieroematico o gelatinoso, i cistoadenomi, gli ematomi intraparenchimali e gli ascessi epatici. Lesioni solide benigne sono: gli angiomi, gli adenomi epatici, gli amartomi mesenchimali e l’iperplasia focale nodulare. Nella maggior parte delle lesioni solide si rende necessario, per una più precisa definizione diagnostica, il ricorso all’agobiopsia ecoguidata. Le immagini radiologiche ed ecografiche di alcune lesioni cistiche e degli emangiomi cavernosi, invece, sono in genere sufficienti per suggerire la diagnosi senza che si renda necessario il ricorso alla biopsia. L’iter diagnostico deve essere seguito fino al raggiungimento di una ragionevole certezza sulla natura benigna delle lesioni e l’utilità di una terapia chirurgica va sempre presa in considerazione.

Adenoma

È una neoplasia benigna rara, con incidenza 40 volte minore rispetto a quella dell’epatocarcinoma. È più frequente nelle donne in età fertile, e l’aumento di frequenza riscontrato negli ultimi anni è stato da molti autori messo in correlazione all’assunzione di anticoncezionali estroprogestinici. Numerose casistiche hanno evidenziato la possibilità di regressione dell’adenoma dopo la sospensione del trattamento con estroprogestinici.

Macroscopicamente il tumore si presenta come una lesione capsulata sferoidale, a superficie liscia, del diametro di 5 o più centimetri, frequentemente localizzata in sede sottocapsulare. La consistenza è molle ed il colore variabile dal giallo al marrone. Nel 30% dei casi sono presenti lesioni multiple. Microscopicamente la neoformazione appare costituita da epatociti maturi e ben differenziati, privi di grossolane atipie nucleari e citoplasmatiche, riuniti in strutture trabecolari. Caratteristica dell’adenoma è la totale assenza di spazi portali e di dotti biliari nel suo contesto. All’interno del tumore possono osservarsi aree di raccolta biliare, di emorragia intratumorale o di zone infartuali. I vasi sanguigni nel tumore non risultano infiltrati, e questo costituisce un criterio differenziale nei confronti dell’adenocarcinoma a cellule ben differenziate. Non sono noti casi di trasformazione maligna dell’adenoma epatico.

Iperplasia nodulare focale

È una lesione nodulare solitamente unica, priva di potenziale maligno, che insorge in un fegato normale. L’età media dei pazienti è di 40 anni, ma può essere riscontrata anche nell’infanzia. Le donne sono colpite in proporzione doppia rispetto agli uomini. Nonostante in qualche caso possano riscontrarsi analogie con l’adenoma, le due patologie sembrano configurarsi come entità a sé stanti. Macroscopicamente l’iperplasia nodulare focale appare come una lesione ben circoscritta ed irrorata

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da vasi tortuosi e molto evidenti che decorrono sulla sua superficie. Il colore è rosso scuro o marrone, ed il diametro medio è di 2-3 cm; nei pazienti sintomatici supera però i 5 cm. Nel 20% dei casi si riscontrano lesioni multiple. Il parenchima epatico circostante appare compresso. La superficie di taglio mostra un aspetto a noduli multipli, separati da sepimenti di connettivo compatto disposti a raggiera attorno ad un’area fibrosa centrale.

All’osservazione microscopica i noduli appaiono costituiti da epatociti maturi e ben differenziati; gli spazi portali sono assenti, ma è possibile riscontrare un discreto numero di dotti biliari di piccolo calibro. La lesione non appare circondata da capsula fibrosa. L’esatta natura e l’eziologia della iperplasia nodulare focale non sono ancora conosciute. È stato ipotizzato che possa trattarsi di un amartoma o di un fatto riparativo conseguente ad una anomalia vascolare.

Emangioma

L’emangioma è la neoformazione epatica benigna di più frequente riscontro; esso costituisce un reperto occasionale nel 5-7% delle autopsie. È 6 volte più frequente nelle donne rispetto agli uomini. Solitamente si tratta di lesioni nodulari, singole o multiple, di consistenza molle, del diametro medio di 1-3 cm. Alcuni angiomi possono però assumere dimensioni cospicue sino a 10-20 cm. Il colore è variabile dal rosso al bluastro, al grigio, in rapporto alla quantità di tessuto connettivo presente. Frequentemente si localizzano a livello sottocapsulare, lungo la superficie convessa del fegato, in corrispondenza del lobo destro.

Microscopicamente sono costituiti da una rete di canali tappezzati da endotelio e ripieni di sangue. Parte delle strutture pseudovascolari va incontro ad obliterazione e viene sostituita da connettivo fibroso. Il tumore appare separato dal parenchima da una capsula fibrosa continua. L’emangioma cavernoso, costituito da ampi spazi vascolari comunicanti, rappresenta, secondo alcuni Autori, una anomalia congenita; è di riscontro meno comune e può raggiungere dimensioni ragguardevoli. L’aumento di volume dell’angioma nel tempo avviene sostanzialmente per dilatazione degli spazi vascolari esistenti, per cui gli angiomi di vecchia data assumono quasi sempre un aspetto cavernoso.

Patologia maligna

I tumori maligni di più frequente riscontro nel fegato sono le metastasi da carcinoma. Ogni anno in Italia vengono diagnosticati circa 15.000 nuovi casi. Il fegato, che accoglie circa il 25% della portata ematica, rappresenta un filtro infatti per gli organi tributari del circolo portale. I carcinomi che metastatizzano al fegato con maggior frequenza sono i carcinomi primitivi di colon, mammella e polmone, anche se qualsiasi cancro localizzato in altra sede, comprese le leucemie ed i linfomi, può diffondere al fegato. Esso, insieme ai polmoni, è sicuramente l’organo più coinvolto dalla diffusione metastatica dei carcinomi.

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I tumori maligni primitivi del fegato sono invece relativamente rari soprattutto in Nord America e in Europa (0,5-2% di tutti i tumori), mentre rappresentano il 20-40% dei tumori in numerosi altri paesi 15.

Epatocarcinoma

Epidemiologia

Il carcinoma epatocellulare (HCC), cancro primitivo del fegato che origina dagli epatociti, è il quinto tumore più comune nell’uomo e il settimo nella donna ed è diagnosticato in più di mezzo milione di soggetti ogni anno in tutto il mondo. L’Italia si pone tra i paesi europei ad alta incidenza: 6,9 ogni 100.000 abitanti di sesso maschile e 2,7 ogni 100.000 abitanti di sesso femminile.

Come gli altri tumori, insorge quando alcune mutazioni colpiscono i geni di una cellula che comincia così a moltiplicarsi disordinatamente. Queste mutazioni possono essere casusate da agenti esterni, come i virus dell’epatite, o per il continuo stimolo proliferativo promosso ad esempio dall’epatite cronica.

L’HCC è caratteristicamente molto aggressivo, presentandosi già in stadio avanzato alla presentazione dei primi sintomi, comunemente ittero e/o ascite. Se diagnosticato solo in fase sintomatica, il paziente senza trattamento ha un’aspettativa di vita inferiore a un mese, e comunque in questa fase di malattia i trattamenti disponibili sono limitati e poco efficaci.

L’HCC costituisce circa l’80% dei tumori epatici primari ed è il tumore primario del fegato più comunemente osservato.

L’incidenza maggiore si osserva nei paesi in via di sviluppo, soprattutto nelle regioni dove l’infezione da virus dell’epatite B (HBV) è endemica: Sud est asiatico e Africa subsahariana.

L’ HCC insorge raramente prima dei 40 anni di età ed ha il suo picco intorno ai 70 anni con un rapporto M/F di circa 2-4.

Eziologia

L’epatocarcinoma, soprattutto nei paesi occidentali, si associa frequentemente a cirrosi. Attualmente si ritiene che non si tratti di una relazione causa-effetto, bensì che entrambe le patologie avrebbero alcune possibili cause comuni.

La più stretta correlazione è infatti con il virus dell’epatite B. Da un punto di vista epidemiologico, un alto numero di portatori di HBsAg, coincide con elevata frequenza di epatocarcinomi (classico esempio sono le regioni dell’Africa in cui più del 10% della popolazione è HBsAg positiva).

Da un punto di vista biologico, è ormai stata ampiamente dimostrata la capacità dell’HBV di trovarsi nel DNA degli epatociti. Studi di biologia molecolare hanno dimostrato la presenza di materiale genetico del virus B incorporato nel DNA delle cellule di carcinoma epatico, a suggestiva conferma del ruolo eziologico di questo virus nell’insorgenza di tali neoplasie. In egual modo, l’agente causale potrebbe essere il virus dell’epatite C, come è ormai ampiamente dimostrato.

Un altro fattore predisponente, o comunque associato, di notevole importanza è rappresentato dall’emocromatosi, mentre per quanto riguarda le sostanze alimentari, l’attività carcinogenetica è svolta sicuramente dalle nitrosamine, che derivano dai nitrati presenti in diversi alimenti, o anche

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dal cloruro di vinile e da alcune micotossine. Di queste ultime la più importante è l’aflatossina, prodotta da un fungo, l’Aspergillus flavus, che è diffuso in alcuni paesi tropicali,in cui è frequente la contaminazione del cibo da parte di tale sostanza ed in cui il carcinoma primitivo del fegato è molto comune. Altri possibili fattori cancerogeni sono rappresentati dal trattamento prolungato con androgeni ad alte dosi, dal fumo di sigarette e soprattutto dall’alcool.

Anatomia patologica

L’epatocarcinoma si presenta come una massa tumorale unica, per lo più a carico del lobo destro oppure come una neoplasia multinodulare diffusa. L’origine può essere unicentrica, con eventuale diffusione metastatica intraepatica, oppure pluricentrica. Le metastasi extraepatiche sono comuni soprattutto nei linfonodi dell’ilo epatico, ma possono coinvolgere anche quelli del mediastino e quelli cervicali, ed eventualmente il polmone, lo scheletro (specialmente vertebre e coste) e l’encefalo.

Microscopicamente è caratterizzato da una proliferazione di epatociti maligni, con grado variabile di anaplasia. Queste cellule possono formare noduli solidi, trabecole variamente anastomizzate tra loro o strutture pseudoghiandolari (molto difficile può essere la differenziazione tra adenoma epatocellulare ed epatocarcinoma ben differenziato); molto spesso il tessuto epatico circostante ha aspetto cirrotico.

Clinica

La sintomatologia è molto varia ed in genere subdola all’inizio; spesso compare un dolore sordo, di tipo profondo, mal localizzato (all’epigastrio, all’ipocondrio destro, talvolta anche posteriormente, in regione dorsale); poco significativi sono di solito i disturbi gastrointestinali sotto forma di nausea, anoressia, pesantezza epigastrica postprandiale; più importante ai fini diagnostici è il rapido dimagrimento, tanto più sospetto se insorge in presenza di cirrosi epatica. Può esserci febbre, in genere non elevata; l’ittero, pur frequente, non è costante in tutti i casi e comunque non è mai molto intenso, salvo nel caso in cui si stabilisca una compressione dei grossi dotti biliari da parte di linfonodi metastatici.

L’aumento di volume del fegato è il reperto obiettivo più costante: molto importante dal punto di vista diagnostico è l’irregolarità del margine inferiore, talora plurilobato, di consistenza dura, a volte lapidea, in genere non molto dolente a meno che non vi sia una distensione della glissoniana o ancor più flogosi peritoneale; la dolorabilità è comunque maggiore che nella cirrosi; la superficie può apprezzarsi bernoccoluta. Nel caso in cui il processo neoplastico si impianti su un fegato già cirrotico, si verifica di solito un improvviso aggravamento della sintomatologia ed un rapido aumento delle dimensioni di quest’organo. Si può anche apprezzare all’ascoltazione un soffio in regione epatica per l’aumento e l’irregolarità della vascolarizzazione arteriosa; talvolta il quadro clinico è caratterizzato dall’improvvisa comparsa di coliche epatiche con emobilia o emoperitoneo e, quindi, anche addome acuto. Infatti, il tessuto tumorale, fragile, molto vascolarizzato, senza uno stroma connettivale sufficiente (in caso di epatocarcinoma) può rompersi per traumi minimi e la conseguente emorragia produce il brusco mutamento del quadro.

La presenza di tumefazione splenica, sebbene non frequente, non esclude la diagnosi di cancro del fegato, poiché può essere correlata alla precedente condizione di cirrosi o può derivare da ipertensione portale, dovuta per lo più a trombosi neoplastica della vena porta o dei suoi rami

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principali. L’ascite è presente in circa il 50% dei casi con liquido talora ematico o comunque di tipo misto, ma di regola con discreto contenuto di proteine.

Colangiocarcinoma

Rappresenta il 10-20% dei tumori maligni primitivi del fegato ed ha origine dall’epitelio dei dotti biliari intraepatici. L’incidenza è più alta nelle zone a basso rischio di epatocarcinoma con un rapporto maschio:femmina pari a 1,5:1. L’età di insorgenza è più alta rispetto alla forma epatocellulare; non si sviluppa su fegati cirrotici.

Il carcinoma colangiocellulare si presenta come una massa solida, solitamente di grosse dimensioni, di colorito rosso-grigio per la presenza di un abbondante stroma fibroso. A seconda dell’aspetto macroscopico viene suddiviso in una forma infiltrante, nodulare e diffusa. In tutte le forme sono frequentemente presenti al momento della diagnosi metastasi intraparenchimali diffuse a tutto il fegato. Dal punto di vista istologico il colangiocarcinoma è un adenocarcinoma con abbondante stroma fibroso; si riconoscono le forme papillare, tubulare, scarsamente differenziata, mucinosa; forme più rare sono il carcinoma adenosquamoso, mucoepidermoide e carcinoide.

La presentazione clinica è sfumata e non si discosta da quella del carcinoma epatocellulare se non per la presenza in maggior numero di casi di ittero, qualora il carcinoma abbia origine da uno dei dotti biliari sito in vicinanza dell’ilo epatico. La tendenza a generare metastasi intraparenchimali, linfonodali ed a distanza è più elevata rispetto alla forma epatocellulare. La diagnosi strumentale si avvale delle stesse metodiche descritte per l’epatocarcinoma, da cui è differenziabile solo dopo esame istologico mediante biopsia epatica.

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Valutazione preoperatoria

Gli interventi di resezione epatica rappresentano un momento destabilizzante l’equilibrio delle molteplici e delicate funzioni svolte dal fegato. In presenza di alcune lesioni circoscritte (voluminosi tumori benigni) il fegato può trovarsi già in condizioni di relativo compenso; più frequentemente, la presenza di una lesione (soprattutto se maligna) o le malattie epatiche che ne costituiscono il terreno predisponente (cirrosi) comportano alterazioni delle funzioni epatiche che riducono ulteriormente la capacità del fegato di mantenere l’omeostasi dell’organismo in un momento critico come quello provocato dallo stress chirurgico.

La decisione di intraprendere un intervento di resezione epatica deve quindi essere preceduta, oltre che da un’accurata valutazione delle condizioni generali, da specifici esami preoperatori che hanno di solito tre obbiettivi:

• lo studio dell’anatomia chirurgica dei singoli casi osservati e cioè la rilevazione esatta dei rapporti della lesione con le strutture circostanti;

• lo studio della riserva funzionale del fegato e cioè della fattibilità o meno dell’epatectomia, tenendo conto del sacrifico di parenchima funzionale previsto;

• lo studio, in caso di lesione neoplastica maligna, della diffusione neoplastica a distanza.

Valutazione dell’anatomia chirurgica e dell’estensione delle lesioni

Ecografia addominale

Nelle mani di un operatore esperto, permette uno studio estremamente preciso della situazione locale. L’ecografia localizza la lesione in rapporto ai peduncoli glissoniani ed alle vene sovra-epatiche. In effetti, i vasi sono relativamente facili da individuare e da seguire all’interno del parenchima epatico. Ciò permette di localizzare le lesioni a livello dei segmenti e conseguentemente orienta l’operatore verso il tipo di epatectomia da eseguire. La grande sensibilità di questo esame lo rende più performante della TC addominale nella diagnosi di lesione (numero e sede delle lesioni). In caso di patologia neoplastica maligna, l’ecografia precisa l’estensione loco-regionale con la ricerca di adenopatie peduncolari o celiache, i cui criteri morfologici (dimensioni, aspetto arrotondato) possono farne sospettare il carattere metastatico. Un versamento addominale può far sospettare un’ascite neoplastica. Infine, con la dimostrazione di anomalie della morfologia del fegato (aspetto nodulare della superficie del fegato, lesioni dovute ad atropo-ipertrofia), con la scoperta di anomalie del flusso portale (inversione del flusso, ricanalizzazione di una vena ombelicale), con un aspetto di iperecogenicità del parenchima epatico, l’ecografia può suggerire la presenza di un’epatopatia : cirrosi o steatosi. Questa ecografia viene completata con l’esecuzione di un’ecografia epatica intra-operatoria all’inizio dell’intervento.

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Tomografia computerizzata addominale

Deve essere di eccellente qualità ed eseguita con e senza iniezione endovenosa di mezzo di contrasto. Le sezioni debbono essere almeno centimetriche ed estese dall’apice della cupola epatica alla punta del segmento 6. La TC permette di materializzare in modo chiaro le informazioni fornite dell’ecografia e contribuisce anche al bilancio dell’estensione loco-regionale in caso di patologia neoplastica maligna. Al contrario dell’ecografia, la TC ha il vantaggio di fornire piani di sezione sempre identici che, con l’esperienza, permettono di eseguire buone stime delle possibilità chirurgiche. Inoltre, i programmi informatici attuali permettono uno studio volumetrico del fegato o di parti di questo. La loro importanza diventa fondamentale quando viene previsto un notevole sacrificio parenchimale. Lo studio volumetrico deve fornire i volumi stimati rispettivi della lesione, del fegato non neoplastico sacrificato dall’epatectomia e del parenchima restante dopo l’exeresi. Queste informazioni, combinate con altri test, permettono di eseguire una valutazione della riserva funzionale del fegato. La qualità delle immagini è stata enormemente migliorata, recentemente, dall’introduzione della TC spirale che fornisce immagini chiare, che si prestano alla ricostruzione dell’anatomia tridimensionale. La colangio-TC è stata proposta per l’esplorazione delle patologie biliari intra-epatiche.

Risonanza magnetica nucleare

La formazione di immagini mediante risonanza magnetica nucelare (RMN) permette di ottenere sezioni sagittali e frontali che la TC solitamente non fornisce. Più che a scopo topografico, la RMN viene impiegata in caso di dubbi diagnostici che non possono essere risolti con altri esami o qualora le condizioni tecniche locali (obesità, precedenti epatectomie) non permettano l’esecuzione di un esame ecografico soddisfacente. Lo studio dell’intensità dei segnali (ipo- o ipersegnale), ma soprattutto delle loro variazioni in funzione dell’eco dello spin, permetterebbe talvolta di orientare la diagnosi di natura. In caso di tumore unico su fegato sano, con marker neoplastici negativi, l’esame RMN contribuirebbe, ad esempio, a migliorare la diagnosi differenziale tra tumore benigno e piccolo carcinoma epatocellulare. I risultati della RMN verrebbero potenziati dall’iniezione di sali metallici (gadolinio). La disponibilità di sezioni frontali può essere importante nello studio di neoplasie vicine della vena cava inferiore retroepatica. La colangio-RMN fornisce immagini frontali delle vie biliari extra-epatiche di eccellente qualità.

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Studio della riserva funzionale epatica

Di fondamentale importanza nella valutazione di resecabilità di una lesione epatica è l’efficienza dei meccanismi di attivazione della riserva funzionale di rigenerazione tissutale che si instaurano dopo resezione. Dopo exeresi limitate ed in assenza di insufficienza epatica, le capacità di compensazione funzionale sono rapidamente attivate ed in 5-6 giorni vi è già una normalizzazione delle alterazioni cliniche e biochimiche associate all’intervento demolitivo.

I pazienti affetti da epatopatia sono particolarmente a rischio di insufficienza epatica e di altre complicanze (quali emorragia, infezioni e insufficienza renale, in particolare in caso di coesistente cirrosi) e di conseguenza vanno valutati con estrema attenzione. Ciò è motivato anche dalle morbilità e mortalità operatorie relativamente elevante, che risultano particolarmente importanti in caso di resezione per epatocarcinoma su cirrosi o di ampie resezioni per metastasi da colon-retto. Se l’intervento è condotto su fegato cirrotico anche resezioni limitate possono dare origine ad una situazione di scompenso, latente prima dell’intervento e caratterizzata da ipoalbuminemia ed ipoglobulinemia, aumento delle transaminasi, riduzione dei fattori della coagulazione, iperbilirubinemia, iperammoniemia. Tali alterazioni non sempre sono reversibili e la loro normalizzazione non è facilmente prevedibile nella valutazione preoperatoria (tabella 1). Nel fegato cirrotico, inoltre, la rigenerazione epatica risulta essere ridotta.

È pertanto necessario giungere ad una adeguata valutazione della funzione epatica nel preoperatorio anche se si tratta di resezioni epatiche parziali. Infatti la cirrosi epatica, pur aumentando il rischio di mortalità, non costituisce una controindicazione all'intervento ma implica una selezione dei pazienti, anche su base funzionale, che garantisce una riduzione di morbilità e mortalità a limiti accettabili esclusivamente se effettuata in modo estremamente accurato”

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La capacità funzionale del fegato viene in genere valutata mediante la classificazione dei pazienti secondo Child-Turcotte modificata da Pugh (tabella 2). Questo approccio, di immediato utilizzo poichè si basa sulla valutazione di parametri clinici e biochimici routinari, risulta essere

ampiamente diffuso e tuttora uno dei più validi.

Tra questi elementi la comparsa spontanea di ascite, di un'infezione di un'ascite, di un ittero o di un'encefalopatia rappresentano elementi di significato prognostico negativo che debbono rendere estremamente prudenti allorché si prenda in esame la possibilità di un'epatectomia. La presenza di un'ipertensione portale notevole può far temere il verificarsi della rottura di varici esofagee o gastriche per aumento dell'ipertensione portale nel corso dell'epatectomia. Quando i pazienti sono della classe A di Child si precisa il grado della cirrosi mediante lo studio della capacità di eliminazione del verde di indocianina. Se ne esegue un'iniezione di 0,5 mg/kg in una vena periferica del braccio e la cinetica dell'eliminazione epatica viene studiata con dei prelievi sequenziali sul braccio controlaterale. Una percentuale di ritenzione a 15 minuti superiore al 10% indica l'anormalità della funzione epatica. Altri parametri sono stati proposti per ottimizzare lo studio della riserva funzionale epatica e tra questi: lo studio delle clearance separate del verde di indocianina nelle vene sovraepatiche o della clearence di altre molecole eliminate specificatamente per via epatica (BSF [test alla bromosulfonftaleina], galattosio, aminopirina); lo studio della tolleranza ad un carico di glucosio: lo studio della funzione mitocondriale epatocitaria determinato mediante il rapporto arteriosoacetoacetato/(3-idrossibutirrato (arterial ketone body ratio), o infine uno studio scintigrafico con albumina umana marcata (mtc99-GSA [Galactosyl human serum albumin]). Tra tutte queste possibilità, lo studio della clearance del verde di indocianina, combinato con una stima predittiva della volumetria del fegato restante, rappresenta un metodo affidabile e facilmente utilizzabile in pratica clinica corrente.

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Volume epatico residuo e resecabilità

La chirurgia epatica si basa sull'anatomia segmentaria di Couinaud, che ha dimostrato come sia possibile realizzare decurtazioni parenchimali, anche ampie e/o plurime, dette anatomiche, seguendo i piani scissurali vascolari e realizzando così resezioni definite “tipiche” o appunto “anatomiche”. Il solo imperativo è quello di lasciare un parenchima ben vascolarizzato e di volume sufficiente a mantenere la funzione minima d’organo.

L'insorgenza di un'insufficienza epatocellulare post operatoria dipende dalla capacità del fegato residuo di assicurare, appunto, una funzione sufficiente.

Quest'ultima dipende dalla quantità di massa epatica residua (RLV: remnant liver volume) e della sua qualità preoperatoria (esistenza o meno di un'epatopatia) e post operatoria (alterazioni parenchimali correlate all’ischemia intraoperatoria).

Se infatti dopo una resezione parenchimale epatica il RLV risulta inadeguato o “borderline”, si svilupperà necessariamente quella che viene definita dagli epatologi come “small for size liver syndrome”, che esiterà inevitabilmente in insufficienza epatica transitoria (transient liver insufficiency) o irreversibile (irreversibile liver failure). Se il RLV risulta invece congruo (rapporto ottimale tra RLV e massa corporea totale) si otterranno ottimi risultati con morbilità inferiori al 20% e mortalità dello 0-3%, come riportato ormai in tutta la letteratura.

La capacità e la rapidità della rigenerazione epatica, successiva a epatectomia, è nota da tempo ed è in relazione sostanzialmente con la quantità e la qualità del parenchima residuo (in particolare con l'esistenza o meno di una cirrosi).

Sono state descritte epatectomie con asportazione prossime all'80% del volume totale del fegato ma è anche dimostrato che la mortalità e la morbilità sono correlate in modo significativo con l'estensione dell’epatectomia. In effetti la percentuale minima di fegato da lasciare per assicurare una funzione sufficiente non è stata scientificamente stimata per l'uomo.

Basandosi su studi di mortalità e morbilità delle epatectomie, e sui dati derivanti dalla chirurgia del trapianto, in particolare quello del donatore vivente, si stima che:

• se la resezione è su fegato sano si può realizzare una resezione che mantenga RLV > 30%;

• se è un fegato a bassa riserva funzionale, RLV > 40%; dove con bassa riserva funzionale si identificano le seguenti situazioni: fibrosi maggiore, cirrosi (HCV, HBV, alcool), steatosi grave (obesità, CT), steato-epatite (CT con irinotecan) +/- danno vascolare sinusoidale (CT con Oxaliplatino);

• se è un fegato “piccolo” (pluriresecato). La resecabilità, in caso di recidiva tumorale su di un fegato già operato che abbia subito una o più decurtazioni parenchimali, rappresenta una sfida tecnica molto più complessa dal momento che alcune strutture vascolari sono spesso già state sacrificate. Il problema è tuttavia frequente: dal 50% al 70% dei pazienti resecati per metastasi epatiche recidivano e tra questi il 40%-50% con una nuova localizzazione epatica. Dal 20 al 30% di questi pazienti recidiva in maniera epatica esclusiva. Oggi è provato che la chirurgia interativa del fegato è fattibile e sicura.

Calcolo del volume di fegato residuo

In questi casi il calcolo volumetrico del RL assume importanza cruciale per il buon esito dell'intervento ed oggi disponiamo di mezzi affidabili per eseguire questo calcolo.

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per immagini hanno recentemente ulteriormente migliorato la precisione di questi calcoli (TAC ad acquisizione rapida, ricostruzioni tridimensionali, processori integrati). Rapportando virtualmente il volume di fegato restante (FR) dopo la resezione pianificata, al volume totale del fegato, previa integrazione del volume tumorale non funzionante, si ottiene la percentuale di fegato residuo. È quindi necessario che il chirurgo comunichi al radiologo quale epatectomia conta di eseguire.

Questo semplice calcolo è tratto dalla formula d'Okhamoto16 che viene così rappresentata:

%FR= volume del fegato residuo dopo l’epatectomia prevista/volume totale del fegato - volume tumorale

Il problema è più complesso se vi sono metastasi plurime: la sottrazione del volume tumorale risulta in quel caso complicata e in tal caso si adottano formule che mettono in rapporto il fegato residuo con il volume teorico del fegato calcolato in base alla superficie corporea del paziente (formula di Urata).17

Liver Volume (cm3) = 706 x Body Surface Area (m2) + 2.4

Liver Volume (ml) = 2.223 × Body Weight 0.426 (kg) × Body Height 0.682 (cm)

E’ importante sottolineare che il 50-70% dei pazienti con metastasi recidivano dopo una chirurgia epatica R0 e che nel 40-50% dei casi compare un nuovo focolaio epatico; il 20-30% di questi presentano una ripresa di malattia esclusivamente epatica.

A maggior ragione, per questi casi di chirurgia iterativa dove una riresezione epatica si impone, con tutti i rischi legati agli esiti dei precedenti interventi, il calcolo del volume epatico risulta di capitale importanza per prevedere e valutare appieno l'eventuale rischio funzionale, legato alla sindrome da "fegato piccolo".

Strategie per aumentare il tasso di resecabilità

Se il problema deriva dal volume delle metastasi, si può tentare di ridurre le dimensioni delle stesse mediante una chemioterapia neoadiuvante di induzione per permettere in seguito una resezione curativa (R0); oppure diminuire il numero delle metastasi epatiche trattando alcune di esse con procedure di distruzione locale (radiofrequenza, crioterapia).

Se il problema deriva dal volume di fegato residuo (RLV) giudicato insufficiente è possibile tentare di ipertrofizzare il futuro fegato residuo mediante un’embolizzazione portale controlaterale, al fine di realizzare in seguito una resezione epatica che preservi almeno dal 25 al 40% di fegato sano, così prevenendo il rischio di insufficienza epatica maggiore post operatoria.

Infine sono state descritte delle strategie complesse di exeresi in più tempi (staged hepatectomy) comprendenti una prima epatectomia che bonifichi la malattia epatica dal lato del fegato previsto come "remnant”, seguita da un congruo intervallo di tempo che permetta la rigenerazione epatica (indotta mediante legatura intraoperatoria o embolizzazione portale intraoperatoria), e da un secondo tempo chirurgico (two stage hepatectomy) che contempli l'intervento maggiormente demolitivo con resezione ad intento radicale (R0). Tale tecnica è spesso associata ad una chemioterapia adiuvante, “single agent” o “combined”.

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Resezioni epatiche

Esistono al giorno d’oggi molti tipi di epatectomie che possono schematicamente suddividersi in funzione della rilevanza della resezione e della tecnica chirurgica impiegata. Il chirurgo deve essere in grado di scegliere tra tali opzioni in modo da realizzare l’epatectomia più appropriata alla lesione che deve essere trattata ed al parenchima epatico che verrà preservato.

Classificazione secondo l’anatomia

Nel paragrafo “anatomia funzionale epatica” è riportata la denominazione delle resezioni in tre ordini di divisione anatomica del fegato. Inoltre dobbiamo aggiungere che le epatectomie si dividono in:

- epatectomie tipiche, definite dall’exeresi di una parte del parenchima epatico limitata da un piano di scissura anatomico: epatectomia destra o sinistra, settoriectomia e segmentectomia.

- epatectomie atipiche, che consistono nell’exeresi di una porzione di parenchima epatico che non corrisponde ad una porzione anatomica del fegato ed il cui piano di sezione, di conseguenza, non passa su una scissura anatomica.

Classificazione secondo la tecnica chirurgica

Epatectomia con legatura vascolare immediata

Gli elementi vascolari portali e sovra-epatici vengono legati e sezionati prima di qualsiasi sezione parenchimale. Questa tecnica (figura 18 A) è stata descritta nel 1952 per la prima volta da Lortat-Jacob. L’epatectomia inizia con la legatura e la sezione del peduncolo portale destro a livello dell’ilo, prosegue con la legatura e la sezione della vena sovra-epatica destra e si conclude con la trans-sezione parenchimale. Questa tecnica comporta due vantaggi: il controllo vascolare immediato permette di veder comparire il limite della sezione tra il territorio sano e quello ischemico e di ridurre l’entità dell’emorragia al momento della sezione parenchimale. Essa però ha due inconvenienti: da un lato il rischio di ledere la vena sovra-epatica, mettendo a repentaglio la prognosi in modo improvviso, dall’altro la possibilità di devascolarizzare una porzione del fegato da conservare in caso di variazione anatomica.

Epatectomia mediante sezione parenchimale immediata

Il principio di questa tecnica (figura 18 B), descritta inizialmente da Thon That Tung e Nguyen Diong Quang, è quello di iniziare l’epatectomia incidendo il parenchima lungo una proiezione scissurale. Gli elementi glissoniani vengono scoperti e legati con un approccio transparenchimale. Del pari, la sezione della vena sovra-epatica viene eseguita alla fine dell’epatectomia a livello della trancia di sezione parenchimale. Questa tecnica ha due vantaggi: essa permette l’ablazione a richiesta del parechima epatico adattato alla localizzazione della lesione e mette al riparo da

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eventuali variazioni anatomiche per le legature vascolari nella misura in cui ai vasi si accede al di sopra dell’ilo. Tuttavia, poichè tale tecnica aumenta i rischi di emorragia (a causa dell’assenza di controllo vascolare) è necessario eseguire la procedura molto rapidamente e/o fare ricorso al clampaggio del peduncolo epatico, per l’intera durata dell’intervento, o in modo intermittente.

Combinazione dei due metodi

Questa tecnica di epatectomia (figura 18 C) associa le due tecniche precedenti e ne combina i vantaggi senza sommarne gli inconvenienti. Essa prevede di iniziare con un tempo di dissezione ilare per il controllo degli elementi arterioso e portale, che vengono clampati ma non legati, senza toccare il dotto biliare. Il parenchima epatico viene poi sezionato secondo il piano scissurale e si accede agli elementi del peduncolo portale per via transparenchimale, nel fegato e vengono legati a tale livello e pertanto al di sopra delle clamp. Solo alla fine della dissezione parenchimale la vena sovra-epatica viene legata, anch’essa, all’interno del fegato.

Questa tecnica ha il vantaggio di far precedere la sezione parenchimale dal controllo vascolare arterio-portale (come nella tecnica di Lortat-Jacob) e di legare i vasi nel parenchima epatico, al riparo dalle anomalie anatomiche (come nella tecnica di Ton That Tung).

Figura 18 - (A) Epatectomia con legatura vascolare immediata; (B) epatectomia con sezione

parenchimale immediata; (C) epatectomia con clampaggio peduncolare settoriale immediato e legatura vascolare posposta.

Il sanguinamento intraoperatorio

L’emorragia intraoperatoria rappresenta un fattore prognostico essenziale della morbilità e della mortalità dopo chirurgia epatica. Numerose tecniche di controllo vascolare sono state messe a punto per limitarne l’entità.

Controllo della pressione venosa centrale

Durante l’esecuzione delle resezioni epatiche, il concetto di pressione venosa centrale (PVC) si è rivelato molto importante per limitare il sanguinamento. L’afflusso al fegato può essere ridotto dalla legatura della vena porta e dell’arteria epatica, ma sanguinamenti retrogradi dalle vene epatiche durante l’incisura del parenchima possono essere causa di importanti perdite ematiche. In passato, la strategia era mantenere il paziente in una condizione di ipervolemia anticipando di fatto la routinaria instabilità emodinamica dovuta al sanguinamento. Questa strategia distendeva la vena cava e le vene epatiche. Poichè non ci sono valvole nelle vene epatiche, la pressione del sanguinamento venoso è direttamente dipendente dalla pressione nella vena cava e quindi dalla PVC. Più è alta la pressione centrale, maggiore è il sanguinamento. Quindi riducendo la PVC durante la sezione del parenchima, il sanguinamento venoso retrogrado può essere significativamente ridotto.

L’intervento, adottando questa tecnica, viene di fatto diviso in due fasi: una fase pre- e una post-resettiva. Per la fase pre-resettiva, la PVC è mantenuta idealmente sotto i 5 mmHg e ciò è ottenuto limitando l’infusione di liquidi. La fase post-resettiva comincia dopo le resezioni e dopo che tutti i

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principali sanguinamenti sono stati controllati. Il paziente viene così riportato in condizione di euvolemia con cristalloidi, colloidi o sangue.

Clampaggio ed esclusione vascolare

Prima dell’avvento dell’anestesia a bassa PVC, il controllo del sanguinamento era ottenuto tramite occlusione ed esclusione vascolare. Più di un secolo fa, J.H. Pringle pubblicava il suo lavoro sul trauma epatico nel quale scriveva che “the hepatic and portal vessels were grasped between fingers and thumb as soon as the abdomen was opened’’ ottendendo così ‘‘perfect control of the bleeding areas of the liver.’’ Questa tecnica di compressione del legamento epatoduodenale per bloccare l’afflusso ematico al fegato è conosciuta da allora come “manovra di Pringle”.

In letteratura sono state descritte diverse tecniche di clampaggio ed esclusione vascolare, ma tutte si basano sulla provata tolleranza del fegato all’ischemia calda e sulla forte evidenza che quest’organo tollera meglio l’ischemia dell’emorragia.18 Bisogna sottolineare però che pazienti con cirrosi hanno minore riserva epatica e clampaggi continui possono causare importanti danni al parenchima epatico. Per questo motivo nei fegati cirrotici si ottengono migliori risultati in termini di danno epatico e di mortalità adottando clampaggi intermittenti.19

Figura 18 - (A) Epatectomia con legatura vascolare immediata; (B) epatectomia con sezione

parenchimale immediata; (C) epatectomia con clampaggio peduncolare settoriale immediato e legatura vascolare posposta.

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Clampaggio del peduncolo epatico

Si tratta della classica manovra di Pringle (figura 19, a sinistra). Viene eseguito clampando in blocco l’intera la triade peduncolare. Ciò richiede l’apertura del piccolo epiploon. L’assenza di qualsiasi manovra dissettiva alla base del peduncolo permette di applicare la clamp su del tessuto cellulo-adiposo che protegge le pareti vascolari e biliari dalle lesioni traumatiche di un clampaggio diretto. Il clampaggio del peduncolo epatico può essere eseguito in modo continuo o intermittente. Su fegato sano sono stati riportati clampaggi continui del peduncolo della durata superiore ad un’ora. Questa durata può essere raddoppiata se si impiegano clampaggi intermittenti.

Clampaggi selettivi ilari e sovra-ilari

Il clampaggio selettivo (figura 19, a destra) può interessare un emifegato (clampaggio del peduncolo portale destro o sinistro) o di uno dei due settori del fegato destro (clampaggio dei rami settoriali). Nell’accesso ilare, i rami portale ed arterioso corrispondenti vengono dissecati nel peduncolo epatico, a livello dell’ilo all’altezza della loro biforcazione extraparenchimale. Nell’accesso sovra-ilare, la placca ilare viene abbassata e si penetra superficialmente nel parenchima epatico, al di sopra ed al di sotto del ramo portale, restandole a contatto, in modo da poter fare il giro del peduncolo destro o ai suoi rami settoriali risalendo un po’ nel parenchima epatico. Il peduncolo, isolato, viene clampato in blocco. Un vantaggio è che la durata massima dell’ischemia tollerata è infinita, dato che si clampa una porzione di parenchima epatico che dovrà essere asportato. Il parenchima epatico che non viene resecato rimane vascolarizzato per tutta la durata dell’intervento.

Figura

Figura 2 - Claude Coinaud e la sua collezione di modeli di fegato
Figura 11 - Faccia inferiore del fegato. Lobo destro e sinistro, lobo quadrato (Q) e lobo caudato  (C); (1) ilo epatico; (2) solco ombelicale; (3) colecisti; (4) vena cava inferiore
Figura 12 - Rappresentazione schematica della vascolarizzazione del fegato:
Figura 13 - Divisione del fegato in 8 segmenti secondo Coinaud
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Riferimenti

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