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Il Mulino - Rivisteweb

Biblioteca

(doi: 10.1412/26990)

Ricerche di storia politica (ISSN 1120-9526)

Fascicolo 2, agosto 2008

Ente di afferenza:

Universit`

a di Firenze (unifi)

Copyright c

by Societ`

a editrice il Mulino, Bologna. Tutti i diritti sono riservati.

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L’articolo `

e messo a disposizione dell’utente in licenza per uso esclusivamente privato e personale, senza scopo

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Biblioteca

Nel proporre la selezione di titoli che seguono, RSP segue i criteri della più vasta copertura a lei possibile dei temi di suo interesse. Tutto ciò che si segnala è rite-nuto, a vario titolo, significativo per lo studioso di storia politica. Avendo fatto la scelta di prediligere la tempestività nelle segnalazioni e l’essenzialità nelle argomentazioni per ampliare lo spettro della copertura dei temi, RSP ha tuttavia pensato che fossero possibili limitate «eccezioni». Sono i volumi contrassegnati dalla sigla «Focus» su cui l’attenzione dell’analista si espande un poco. Essa testimonia semplicemente un particolare impegno di lettura che quel libro ha trovato in un recensore e nella redazione.

Generale

Gunilla Budde, Sebastian

Kon-rad, Oliver Janz (a cura di),

Transnationale

Ge-schichte. Themen,

Ten-denzen und Theorien,

Göttingen, Vandenhoeck &Rup-recht, 2006, pp. 320.

Raccolta di saggi in onore del sessantacinquesimo compleanno di Jürgen Kocka, il volume vuole es-sere un omaggio, come scrivono i curatori nella prefazione, alla complessa figura di uno storico che ha dato un ricco contributo allo sviluppo della sua scienza, sia con le sue importanti ricerche di storia sociale (specie quelle sui ceti borghesi e gli impiegati), sia con la sua forte apertura alla storia comparata e al confronto con una dimensione an-che teorica nello studio del passato.

Chiamando a raccolta una nutrita schiera di contributori (ben ventitré), molti dei quali noti anche al più vasto pubblico degli studiosi, non si è potuti sfuggire a quello che è un po’ il vizio di tutti gli «scritti in onore», cioè di essere una miscellanea di contributi sui temi più vari, senza un filo condut-tore che non sia quello, un po’ strumentale, della presentazione dei molti filoni su cui oggi si cimenta la storiografia. Però, data la qualità degli interve-nuti, quasi ogni saggio presenta molti elementi di interesse, soprattutto per il dibattito storiografico.

In senso più generale i temi della prima parte, presentati quasi come capitoli di un bilan-cio, si occupano delle aperture della storiografia ad una dimensione «globalizzata», sia da un punto

di vista geografico, sia da un punto di vista più interessante, quello di una storiografia in cui la dimensione della comparazione assume carattere di obbligatorietà. Da questo punto di vista è assai interessante il saggio di Hans-Ulrich Wehler sulla storia «transnazionale» come «nuova via regia del-la ricerca storica» (pp. 161-174). Qui, sia pure met-tendo insieme in maniera un po’ scolastica studi sull’imperialismo, studi post-coloniali, storia delle religioni in prospettiva mondiale e non più limi-tata al cristianesimo e all’ebraismo, invita ad ab-bandonare la cornice, magari implicita, degli stati nazionali come perimetro degli studi storici se si vuole comprendere l’ultima evoluzione della storia. Progetti senza dubbio affascinanti, che tuttavia suscitano nel lettore qualche questione quando li si vede poi chiusi in un dibattito un po’ alla moda, come è nel saggio di Heinz Gerhard Haupt sulla comparatistica nella storiografia in-ternazionale, che in realtà si limita ad un assai circoscritto orizzonte di scrittori che ripetono il ritornello della necessità di uscire dalle «storie nazionali», dimenticando che è una attitudine già ampiamente presente nell’Ottocento e che, sia con-sentito dirlo, se la nazione è una struttura portan-te della politica del XIX e del XX secolo una storia comparata degna di questo nome deve essere capa-ce di affrontarla elevandola ad idealtipo generale che non impedisca lo studio integrato delle diverse nazioni storiche piuttosto che vagheggiare la sua non-esistenza.

Credo abbia ragione James J. Sheehan quando nota, nel suo saggio sul «paradigma

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per-duto» del Sonderweg, che piuttosto che affaticarsi a cercare paradigmi che inquadrano tutto e darsi a «dichiarazioni programmatiche» su cosa sarebbe necessario fare e non fare ci si dovrebbe applicare a produrre ricerche. «Historiographical programs are like maps, which may be useful to guide our explorations, but should never be mistaken for the journey itself» (p. 160): una conclusione che ci sentiamo di sottoscrivere appieno.

Detto questo, i contributi stimolanti non mancano certo in questo volume. Citiamo a titolo di esempio il saggio di J. Osterhammel sugli impe-ri, quello di H. Kaelble sulla storia d’Europa scrit-ta nell’ottica dell’Europa occidenscrit-tale, quello di P. Jelavich sulla storia culturale (tema peraltro assai

à la page che torna in un modo o nell’altro

nel-la maggior parte degli scritti contenuti in questo volume), quello di V. De Grazia su una riconsidera-zione della storia della rivoluriconsidera-zione commerciale se letta in una prospettiva globale.

In definitiva un volume assai utile se si vuole avere una panoramica delle più recenti fron-tiere su cui si affatica un certo tipo di storiografia: specialmente di lingua tedesca, come era naturale, e di lingua inglese, con qualche limitata incursione in quella francese. Anche questo un dato curioso in studiosi che si preoccupano molto di globaliz-zarsi alla Cina, all’India, al mondo arabo, ma che ignorano totalmente l’Italia (sarà senz’altro colpa nostra), ma anche la Spagna e il resto d’Europa. Ci verrebbe voglia di dire, in una prospettiva ri-gorosamente di storia culturale come piace alla maggior parte di questi autori, che tutto somma-to, globalizzazione o meno, la vecchia distinzione ottocentesca di queste tradizioni fra Herrenvolk e altri non è poi che sia tanto venuta meno.

Paolo Pombeni

Mario Del Treppo,

La libertà della memoria.

Scritti di storiografia,

Roma, Viella, 2006, pp. 352.

Mario Del Treppo,

Storiografia nel

Mezzo-giorno,

Guida, Napoli, 2007, pp. 188.

I saggi che Mario Del Treppo ha raccolto nei due volumi che qui segnaliamo costituiscono una ri-gorosa e sofferta riflessione sul senso del lavoro storico; al tempo stesso essi rappresentano una riconsiderazione storiografica ad ampio raggio. Composti lungo un arco di tempo di alcuni decen-ni, i vari interventi sono una sorta di personale controcanto critico ad una lunga carriera di stu-dioso che ha illustrato con competenza e rigore la medievistica italiana.

Il lungo saggio metodologico che dà il ti-tolo alla prima raccolta (La libertà della memoria) è una rivendicazione della obiettività della ricerca storica, dell’apporto conoscitivo che essa realizza. La storia serve a conoscere il passato, a ricostruire non solo gli avvenimenti, ma un modo di essere e di stare al mondo diverso da quello di cui ab-biamo esperienza nella nostra quotidianità. Questa forte riaffermazione dello statuto epistemologico della storia rimanda a una critica del paradigma etico-politico, proprio della storiografia crociana nella quale Del Treppo si è formato. Il circolo tra sollecitazioni che ci arrivano dal presente, spinta a chiarificare nel passato un problema attuale, ca-tarsi euristica che si traduce in una più larga con-sapevolezza delle radici del presente non è sempre un circolo virtuoso. Tutt’altro. Esso può produrre, infatti, un circolo vizioso tra interessi immediati e indagine storica, risolvendosi in un indebito ap-piattimento del passato sulle esigenze del nostro presente immediato. Al paradigma etico-politico Del Treppo contrapponeva quello annalistico. La conoscenza del passato può giungere a risulta-ti obietrisulta-tivi, servendosi di strumenrisulta-ti d’indagine scientifica (la demografia, l’archeologia medievale, la topografia), perché tendenzialmente non mani-polabili a fini polemici. Per intendere il senso del saggio basta guardare alla data di composizione: 1976. Quelli erano anni nei quali la ricerca disin-teressata veniva spesso condannata in nome di un diffuso panpoliticismo. Nella prefazione, scrit-ta per introdurre la raccolscrit-ta, Del Treppo rievoca quella stagione mettendone in luce gli eccessi e le incongruenze. Soprattutto, chiarisce come riven-dicare l’obiettività della ricerca storica fosse un modo per mantenere intatto il rigore degli studi e la dignità della ricerca.

Pure, la temperie culturale in cui è stato scritto, se serve a capire l’origine del saggio, non

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esaurisce lo spessore problematico che lo innerva e che pervade anche molti degli altri contributi storiografici ristampati nelle due sillogi. Il fatto è che la specifica riflessione di Del Treppo, per essere rettamente intesa, va inquadrata in un orizzonte problematico più ampio, che, schematicamente, può essere definito come l’anelito a una storia glo-bale. Questo è un ideale storiografico che era in voga attorno alla metà degli anni Cinquanta del se-colo scorso. In quella stagione, le possibilità aperte dall’applicazione di nuove tecnologie allo studio di epoche trascorse, con il conseguente allargamen-to delle fonti disponibili, faceva vagheggiare una storia totale fatta da équipes di studiosi in grado di assommare competenze diverse e fra loro com-plementari. Naturalmente questo ideale regolatore, ingenuamente tecnocratico, della storia totale vie-ne reinterpretato da Del Treppo con un assai più vigile senso critico, in modo da configurarne una più sofisticata e consapevole messa a fuoco.

Lo si intende assai bene in due lunghi saggi che danno il tono complessivo a ciascuna delle due raccolte, dedicati rispettivamente a Federigo Melis e a Bartolomeo Capasso.

Per quanto assai diversi fra loro, Melis uno storico della ragioneria e dell’economia scomparso nel 1974, Capasso un erudito napoletano vissuto nell’Ottocento, i due personaggi sono accostabili per il carattere del loro lavoro. Nessuno dei due, infatti, si accontentava della monografia storica, nella quale trasfondere in forma narrativa il risul-tato delle ricerche d’archivio. Al contrario, entram-bi cercavano modi che consentissero di esprimere compiutamente tutti gli aspetti della realtà stori-ca, fino a travalicare la forma del saggio. Capasso con la topografia storica, Melis con le grandi mo-stre storico-documentarie.

Attraverso l’esempio di questi storici si configura così implicitamente un ideale di studio-so. Lo storico non è chi sia capace di far risorgere il passato come romantica evocazione di un’epoca scomparsa, bensì chi è in grado di penetrarne la complessità in maniera superiore a quella dei con-temporanei. Riuscendo a collocarne il senso in una durata secolare, valorizzando le strutture profonde che animano il corso storico, facendole emergere attraverso raffinati strumenti d’indagine. Pure, a ben riflettere, questa concezione della ricerca sto-rica non è in contraddizione con l’approccio

etico-politico (e per capirlo basta leggere il saggio su

La Memoria lacerata che il fiumano Del Treppo ha

dedicato alle vicende della sua città di origine) ma ne presenta soltanto una versione più ascetica ed austera.

Maurizio Griffo

Gianni La Bella (a cura di),

Pedro Arrupe. Un uomo

per gli altri,

Bologna, Il Mulino, 2007, pp. 1084.

Il ponderoso volume, introdotto dal profilo bio-grafico redatto dal curatore del padre Arrupe, 28° successore di Sant’Ignazio di Loyola, è nel contem-po una riflessione storiografica sul suo generalato (1965-1983) e una fonte storica di notevole impor-tanza per la sua biografia. Gli autori dei saggi ivi contenuti, se si escludono lo stesso La Bella, pro-fessore di storia contemporanea all’Università di Modena, e Jean Delumeau, professore d Storia Mo-derna al Collège de France di Parigi, appartengono alla Compagnia di Gesù e insegnano nelle diverse università sparse nel mondo; la maggior parte di essi ebbe rapporti personali con Arrupe. Si tratta, quindi, di una testimonianza diretta sulla straor-dinaria figura di Pedro Arrupe e sui molteplici e drammatici problemi affrontati dalla Compagnia di Gesù nelle diverse province in un periodo storico, quello del secondo Novecento, caratterizzato da un lato dal neocolonialismo e dall’altro dall’espansio-ne del comunismo e dell’ateismo.

La vita di padre Arrupe fu segnata da due avvenimenti distanti nel tempo, che furono forse decisivi nella sua formazione psicologica ancor pri-ma che culturale, e nella sua attività di religioso, di generale e di presidente (dal 1967) dell’Unione dei Superiori Generali: la scoperta della povertà, lui proveniente da una benestante famiglia originaria dei Paesi Baschi, dove era nato nel 1907, quando ancora adolescente si trovava in seminario nella Spagna franchista; e, negli anni della maturità, lo scoppio della bomba a Hiroshima il 6 agosto 1945, quando ricopriva la carica di provinciale della Compagnia in Giappone e risiedeva in una locali-tà poco distante dalla citlocali-tà distrutta dall’atomica.

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I due episodi, che si ricollegavano l’uno all’altro nel comune denominatore della sofferenza umana, avevano acuito in lui, temperamento mite e tol-lerante, il fuoco sacro della giustizia sociale. Essa non era mai disgiunta dalla fede religiosa, ed anzi ne costituiva una componente essenziale. Tale as-sioma fu recepito dalla 31a e dalla 32a

Congregazio-ne GeCongregazio-nerale della Compagnia di Gesù (1964-1966 e 1973-1975). Il nuovo corso avviato da queste due congregazioni suscitò diffidenze nella parte tra-dizionalista della stessa Compagnia, soprattutto in Spagna, dove una minoranza di gesuiti, legati al regime di Franco, tentò una secessione con la fondazione della «vera Compagnia». Il Vaticano a sua volta temette che questo nuovo corso si tra-ducesse in un aperto appoggio alle cause rivolu-zionarie, in particolare in Africa e in America La-tina (sono gli anni della Teología de la liberación). Sembrò agli osservatori esterni o superficiali, che avevano valutato in un primo momento la nomina di un basco a capo della Compagnia di Gesù come un giro di vite in senso conservatore, una deriva in senso marxista e rivoluzionario che avrebbe acuito il processo di secolarizzazione e la crisi che investiva da tempo la Compagnia. Ma in verità si trattò di un ritorno alle origini sotto nuove for-me, a quello spirito di Ignazio di Loyola che aveva voluto l’Ordine da lui fondato fedele alla Chiesa di Roma intesa quale sindacato dell’umanità. Non mancarono, tuttavia, incomprensioni con i tre papi che attraversarono il generalato di Arrupe, i quali temevano fughe in avanti della Compagnia che avrebbero potuto causare delle derive discipli-nari e compromettere lo stesso Vaticano sotto il profilo diplomatico.

Pedro Arrupe fu davvero un uomo per gli

altri, come recita il sottotitolo di questo volume. Il

senso del suo generalato (testimoniato dall’elenco dei martiri gesuiti apposto in fondo al volume) e della sua stessa vita di sacerdote e di cristiano si possono compendiare con le parole che pronun-ciò il 20 dicembre 1974 in una seduta della 32a

Congregazione Generale della Compagnia di Gesù: «Il carattere sacerdotale, che conduce alla totale identificazione con Cristo, ci porterà a proclamare la giustizia evangelica con la croce e a partire dalla croce. Per cui, se vogliamo lavorare seriamente e fino all’ultima conseguenza (ciò che chiede la ra-dicalità evangelica e ignaziana), apparirà subito la

croce, e non raramente avvolta in acerbo dolore» (p. 285). In ciò egli fu sempre coerente durante il suo cammino, fino agli ultimi anni, quando accettò con serenità la malattia (nel 1981 fu colpito da un ictus che lo paralizzò in gran parte del corpo, facendogli perdere l’uso della parola) che lo doveva consumare e porre termine alla sua vita la sera del 5 febbraio 1991.

Carlo M. Fiorentino

Maurizio Riotto,

Storia della Corea dalle

origini ai giorni nostri,

Milano, Bompiani, 2005, pp. 408. Oramai da decenni la Cina e il Giappone furoreggia-no sulla scena occidentale negli ambiti più dispa-rati. La loro tradizione gastronomica, la loro lette-ratura, la loro musica, le loro arti, i loro prodotti tecnologici e, in qualche caso, anche i loro «falsi d’autore» hanno conquistato numerosi adepti an-che nel nostro paese. Lo stesso purtroppo non può essere detto a proposito della penisola coreana, che risulta schiacciata dalle due superpotenze orientali, un «vaso di coccio tra vasi di ferro» come si sostiene in questo volume. L’«anonimato» della Corea è probabilmente frutto anche del suo lungo isolamento, che come sostiene l’autore impedì che in Occidente si formassero quegli altri luoghi co-muni, tanto banali quanto utili a stimolare la fan-tasia collettiva, che si crearono invece a proposito della Cina e del Giappone. Ancora oggi il comune uomo della strada pensa alla Cina e gli vengono in mente le porcellane, la Grande Muraglia e il

kung-fu, pensa al Giappone e gli vengono in mente le geisha, i samurai e la cerimonia del tè, pensa alla

Corea e non gli viene in mente assolutamente nul-la se non, forse, il ricordo confuso di un lontano conflitto e di una divisione (p. 178).

Anche per questo motivo un volume sulla storia della Corea risulta estremamente gradito nel panorama degli studi sull’Asia orientale in Italia.

Maurizio Riotto, d’altro canto, è uno dei massimi esperti di Corea a livello internaziona-le; docente di lingua e letteratura coreana pres-so l’Università Orientale di Napoli, egli ha scritto estensivamente sulla Corea, toccando ambiti tra

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loro molto diversi, come la grammatica, la lette-ratura, l’archeologia, le traduzioni di numerosi romanzi di autori coreani. Ha infine deciso di ci-mentarsi, probabilmente in una sorta di «quadra-tura del cerchio», con l’analisi e la narrazione delle complesse vicende del paese, tornando in tal modo alle sue origini di storico e archeologo.

Il volume prende in analisi un arco tem-porale estremamente ampio, dalle «origini ai gior-ni nostri». Ne esce di conseguenza una ampia ed esauriente panoramica della storia della Corea. Dopo aver tracciato brevemente le linee guida re-lativamente al territorio, alla popolazione ed alla lingua coreana, l’autore si concentra sul periodo preistorico e protostorico del paese, riportando con dovizia anche molti passaggi di antichi testi cine-si (ovviamente in traduzione) che contribuiscono a fornire nuovi ed inediti particolari riguardo alla lingua, alla cultura, agli usi ed ai costumi degli abitanti del territorio coreano. Il volume si con-centra di seguito sull’«entrata nella storia» della Corea, vale a dire sul periodo dei Tre Regni (V se-colo), e sulla successiva unificazione del paese da parte del regno di Silla (VII-X sec.). È estremamen-te importanestremamen-te notare come Riotto, oltre a fornire una descrizione accurata dei fatti, inframmezzi la narrazione con continui estratti da opere antiche o componimenti di monaci buddhisti che ci danno un’idea anche della cospicua e per nulla secondaria produzione letteraria dell’epoca.

Il cosiddetto «Medioevo coreano» – vale a dire il periodo Koryc (918-1392) – e il «Rina-scimento coreano» – vale a dire il periodo Chosŏn (1392-1910) – occupano la parte centrale del volu-me. In essi, l’autore ci mostra l’evoluzione storica, politica, sociale ed economica del paese, passando attraverso la fatidica apertura delle frontiere ed il definitivo tramonto della Corea classica, sino a giungere all’esordio della tragica dominazione co-loniale nipponica.

L’ultimo capitolo del volume fa il punto sulla Corea contemporanea. In questo capitolo, che forse avrebbe potuto essere un po’ ampliato, vengono passati in rassegna i drammatici avveni-menti che hanno segnato la storia della penisola negli ultimi cento anni. Si comincia con l’analisi della occupazione nipponica (1910-1945), di cui Riotto argutamente analizza anche le pesanti ri-cadute – economiche e culturali – sulla società

coreana, anche qui con un occhio di riguardo alla produzione letteraria dell’epoca. L’autore poi esa-mina con dovizia di particolari i prodromi della guerra «fratricida» e la spaccatura della penisola in due paesi distinti e lontanissimi dal punto di vista ideologico. Proprio nell’analisi dei fatti legati alla guerra di Corea ed ai motivi dello scoppio di questo conflitto Riotto non sposa l’impostazione storiografica mainstream di ispirazione sudcoreana e statunitense. La Corea del Nord non viene quin-di aprioristicamente accusata quin-di essere l’unico re-sponsabile della tragica condizione della penisola coreana; la guerra di Corea «presenta ancora molti punti oscuri» sostiene giustamente Riotto. Dalle parole dell’autore, quindi, nessuna condanna, ma piuttosto la rabbia per un paese tuttora diviso e condannato, anche per colpe non sue, a soffrire enormi pene. L’unica pecca del capitolo è costituita dalla brevità della trattazione della Repubblica De-mocratica Popolare di Corea, peraltro forzata dalle scarse notizie sicure rintracciabili a proposito di questa particolarissima realtà.

Il volume si chiude con una serie di appen-dici e cartine che facilitano sicuramente il compito del lettore poco edotto sulla storia di questo paese. Una sconfinata bibliografia di riferimento di opere in lingue occidentali e in coreano è disponibile in calce.

In definitiva, questa è un’opera di indub-bio valore per tutti quelli – esperti e non – che vogliano documentarsi su un paese asiatico che non ha nulla da invidiare a quelli maggiormente «di moda» o ritenuti più o meno arbitrariamente «importanti».

Antonio Fiori

Hongda Harry Wu,

Laogai. I gulag cinesi,

Napoli, L’Ancora del Mediterraneo, 2006, pp. 166.

È grazie soprattutto a lavori come questo che negli ultimi anni il termine laogai – o laodong gaizao nella sua forma completa, traducibile letteral-mente come «correzione attraverso il lavoro» – ha goduto di un sostanziale sdoganamento che lo ha reso noto a un pubblico più vasto rispetto a quello

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composto dai soli attivisti per i diritti civili. Quan-do si parla di laogai ci si riferisce fondamentalmen-te ai campi di rieducazione istituiti ufficialmenfondamentalmen-te nella Repubblica Popolare Cinese alla metà degli anni Cinquanta, ma con tutta probabilità attivi già in precedenza. Per lunghissimo tempo si sono avute soltanto notizie estremamente frammentarie riguardo ai laogai, considerata anche la riluttanza degli ex detenuti nel fornire qualunque tipo di te-stimonianza per paura di poter essere ricondotti in questi veri e propri «campi di concentramento».

L’autore di questo libro, Harry Wu, è so-pravvissuto a quasi vent’anni di prigionia in un

laogai. Wu era studente all’Istituto di geologia

dell’Università di Pechino allorché i sovietici in-tervennero a domare la rivoluzione ungherese. La condanna pubblica dell’intervento sovietico valse a Wu l’apertura di un’indagine sul suo conto e la successiva incriminazione. Erano quelli gli anni della «Campagna dei Cento Fiori», lanciata da Mao al fine di ricomporre la frattura tra il partito e gli intellettuali, ma che si risolse in una persecuzione serrata di chiunque si arrischiasse a esprimere del-le critiche nei confronti dell’ideologia socialista, di Mao Zedong, del partito. In quest’ottica Wu fu quindi prelevato e imprigionato per i successivi di-ciannove anni per essere «rieducato». Dopo essere stato liberato, nel 1979, decise di lasciare il suo paese ed emigrare negli Stati Uniti, dove ha dato vita alla Laogai Research Foundation, una organiz-zazione impegnata nella diffusione di informazioni e testimonianze sui campi di rieducazione cinesi.

Il merito più grande del libro di Wu è quel-lo di illustrare in maniera estremamente articolata la complessa organizzazione del sistema del

lao-gai. Questo sistema si esplica infatti su tre livelli

principali, caratterizzati al loro interno da ulterio-ri gradi di repressione e controllo. Il pulterio-rimo livello è quello dei campi di riforma attraverso il lavoro (laogai), il secondo livello è quello dei campi di rieducazione attraverso il lavoro (laojiao), il ter-zo quello dei campi di destinazione professionale obbligatoria (jiuye). L’organizzazione del sistema si basa su alcune disposizioni di legge approvate e promulgate tra il 1954 e il 1957; a queste fu-rono apportate delle modifiche dopo l’avvento di Deng Xiaoping, ma l’organizzazione del sistema ri-mase sostanzialmente immutata. Come scrive Wu: «il laogai rappresenta l’asse portante del sistema.

Il laojiao viene per lo più considerato una misu-ra supplementare. Il jiuye non è che una semplice derivazione» (p. 65). Il laogai, quindi, deve inten-dersi come la condanna più dura in assoluto. In linea di principio, dovrebbe essere riservata a chi è riconosciuto dalla legge come criminale; in realtà la tipologia di reati per cui si viene condannati alla «riforma attraverso il lavoro» è divenuta nel tempo molto ampia, applicandosi anche ai crimi-nali comuni piuttosto che ai controrivoluzionari in senso stretto. Il laojiao è una condanna riservata a coloro che si sono macchiati di reati minori: si tratta di uno strumento di estrema snellezza visto che le amministrazioni e le polizie locali possono procedere alla reclusione dei colpevoli senza alcu-na forma processuale. Il sistema del jiuye, infine, costituisce una «estensione» dei primi due: di nor-ma, dopo aver scontato la pena in un laogai o in un laojiao, un detenuto continua – spesso in modo coatto – a prestare la sua opera nella struttura carceraria in cambio di un modesto salario e della possibilità di brevi visite alla famiglia. In questa maniera la manodopera a bassissimo costo da sacri-ficare alla crescita economica nazionale è assicura-ta. Esemplificativo è il detto popolare riportato da Wu, secondo il quale: «il laogai finisce, il jiuye è per sempre» (p. 32).

Dopo aver compiutamente descritto il siste-ma laodong gaizao, nell’ultimo capitolo Wu prende in analisi il periodo immediatamente successivo all’ascesa di Deng Xiaoping. Il sistema del laogaidui non ha subito alcuna modernizzazione o riforma come conseguenza della conclusione dell’esperien-za maoista, rimanendo sostanzialmente immutato. L’unica differenza reale rispetto all’epoca prece-dente è costituita dalla volontà di incrementare l’efficienza della produzione attraverso criteri di gestione manageriale delle strutture.

Il libro ha ricevuto molte critiche, soprat-tutto per la presunta scarsa accuratezza delle sti-me relative ai campi esistenti in Cina – un migliaio sarebbero quelli «censiti» da Wu – o al numero di persone arrestate e condannate in quarant’anni – tra i trenta e i quaranta milioni. Da rivedere, nella presente edizione, anche qualche errore di stampa (come Deng che diventa spesso Den). Tali critiche non possono però offuscare la validità di tale te-sto, che costituisce tuttora un validissimo punto di riferimento per tutti coloro che desiderano

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guarda-re con chiaguarda-rezza al sistema di lavoro corguarda-rezionale della Repubblica Popolare Cinese. I lavori sul mede-simo argomento che sono venuti successivamente – ricordiamo che l’edizione statunitense del lavoro

di Wu è del 1992 – in qualche modo gli devono molto.

Antonio Fiori

Europa

Dimitrina Aslanian,

Storia della Bulgaria

dall’antichità ai giorni

nostri,

Milano, La Casa di Matriona, 2007, pp. 512.

Il libro di Dimitrina Aslanian sopperisce ad una mancanza rilevante nel panorama editoriale e ac-cademico italiano. L’intento iniziale dell’autrice, una fisica bulgara, è quello di far conoscere alla Francia, suo paese d’adozione dove è uscita la pri-ma edizione del libro, la storia della Bulgaria. Il libro è suddiviso in dodici capitoli, due indici, una bibliografia, una cronologia, e un breve elenco di autori bulgari tradotti in italiano. I buoni propo-siti di questa Storia della Bulgaria sono apprezza-bili; soprattutto, però, deve essere preso in esame il contributo dal punto di vista scientifico. Ad un primo sguardo d’insieme, emerge che la traduzione dall’originale francese non sempre è curata come avrebbe dovuto essere e la traslitterazione dei termini dal cirillico non segue una regola unifor-me, sebbene vi sia nelle prime pagine una nota su ortografia e pronuncia. In secondo luogo, la bi-bliografia al termine del libro è eccezionalmente carente di una serie di studi condotti anche negli ultimi anni e che hanno tentato con successo di liberarsi dalla retorica di regime. Inoltre in tutto il testo è presente una discrepanza tra due livelli di scrittura. Del contesto storico-geografico euro-peo l’autrice riesce a dare un quadro sintetico e abbastanza chiaro; invece, nella stragrande mag-gioranza del libro, quindi sulla storia bulgara, la Aslanian rimane legata ad una storiografia che oramai si pensava avesse compiuto la propria pa-rabola temporale e metodologica. Un primo esem-pio di quest’approccio è dato a pag. 138 dove si parla della Istorija Slavenobolgarskaija (1762) del

monaco atonita Paisij Hilendarski. Essa costitui-rebbe «il primo programma nazionale dell’oppresso popolo, in cui la concezione dello Stato-nazione, la sua salvaguardia e la sua liberazione dal potere straniero, formavano le idee fondamentali». A pag. 140 si legge che Sofronij Vraŏanski «si legò rapida-mente al movimento nazionale iniziato da Paisij». Questi due esempi dimostrano quanto l’autrice sia legata alla storiografia che vedeva in Paisij l’inizio sia del movimento di liberazione sia di una nuova riflessione sullo stato bulgaro. È bene chiarire che il movimento di liberazione dalla sudditanza otto-mana sarebbe lentamente iniziato solo nei primi decenni dell’Ottocento, e che Paisij pensava sì allo Stato, ma aveva in mente quello di tipo medievale e probabilmente anche quello bizantino. Sebbene la prima parte del libro, dedicata al periodo antico e medievale, sia apprezzabile e chiara, man mano che si arriva all’epoca moderna e contemporanea lo stile della scrittura fa emergere l’uso di certe espressioni, quali «spirito popolare» e «epopea», con cui si cerca in qualche modo di enfatizzare la storia dei bulgari facendone un popolo fiero e co-raggioso. Tuttavia, in un libro di storia dovrebbero essere presenti altri aspetti. La glorificazione delle gesta risorgimentali, per esempio, non si confronta mai con l’effettiva ricezione popolare di idee e pro-grammi dei vari protagonisti del Risorgimento (e non Rinascimento come invece si legge) che avreb-bero organizzato, nella seconda metà dell’Ottocen-to, comitati rivoluzionari. Inoltre, per arrivare al Novecento, e in particolare alle pagine dedicate ai governi agrari di Stambolijski, non si capisce bene in che modo (pag. 301) «I modi brutali della sua Guardia Arancione provocarono la caduta del governo e il suo assassinio». Altri sono i fattori che contribuiscono al colpo di stato del 9 giugno 1923. Le pagine dedicate al periodo interbellico e a quello del regime comunista sono più scorrevoli e

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chiare, benché scritte con una non sempre celata e discutibile vena ideologica. Malgrado tutto, il libro della Aslanian, ventotto anni dopo la Storia della

Bulgaria edita da Bulzoni, non è un tentativo

fal-lito, pur essendo passibile di un miglioramento so-stanziale. L’augurio è che, in un futuro non troppo lontano, anche in Italia possa essere pubblicato da uno storico uno studio metodologicamente nuovo sulla storia bulgara.

Giacomo Brucciani

Anna Bosco, Leonardo

Mor-lino (a cura di),

Party Change in Southern

Europe,

London, Routledge, 2007, pp. 254.

Jocelyn Evans (a cura di),

The South European Right

in the 21st Century. Italy,

France and Spain,

London, Routledge, 2008, pp. 200. I due volumi qui analizzati si possono molto pro-ficuamente leggere in parallelo. Entrambi derivano da due numeri speciali della rivista «South Euro-pean Society and Politics», usciti rispettivamente nel 2006 e nel 2005. Entrambi hanno una prospet-tiva comparata, anche se declinata diversamente sia per quanto riguarda i paesi coperti, sia per il tipo di focus sui partiti. Bosco e Morlino, nel primo capitolo del loro volume, presentano la scelta dei casi e dei paesi, interpretando anche in maniera puntuale e dettagliata le evidenze che emergono dai successivi 11 capitoli. Vengono analizzati i due maggiori partiti di ciascun sistema politico: oltre a Italia e Spagna – presenti anche nel secondo vo-lume, assieme alla Francia, qui invece assente – si trattano Portogallo, Grecia, Turchia e Cipro (solo per quest’ultimo paese con un solo capitolo). Per quanto riguarda la prospettiva temporale, il volu-me ha uno specifico focus sul decennio 1996-2005, senza tuttavia trascurare la fondamentale con-testualizzazione storica, che in molti casi risale all’indietro fino all’avvento della democrazia. Le dimensioni analitiche su cui rilevare il cambiamen-to dei partiti sono le seguenti: «organizzazione,

valori e programmi, strategie competitive e cam-pagne politiche» (p. 2).

La ricerca comparata si è mossa, negli ulti-mi anni partendo da uno studio che proponeva uno schema di analisi dei partiti a «tre facce»: quella nelle istituzioni pubbliche (party in public office), quella organizzativa (party in central office) e quel-la del partito nel territorio (party on the ground). Importanti trasformazioni economiche, politiche e sociali avrebbero rafforzato, negli ultimi 30 anni, la prima faccia, cioè quella dei partiti nello stato, a scapito delle altre due. I partiti si rafforzano, a fronte di una loro crisi di legittimazione e identifi-cazione da parte degli elettori, nella loro capacità di occupazione delle risorse statali: è la tesi del

cartel party.

Cosa ci dice questa ricerca a proposito? In sostanza ci conferma molte critiche che sono state avanzate a questa interpretazione. Occorre subito dire che i paesi analizzati, su molti indicatori, mo-strano tendenze non sempre uniformi, quindi diffi-cilmente riassumibili in forma di generalizzazione empirica. In ogni caso, sulla base delle analisi dei diversi capitoli – che hanno il merito di seguire le linee guida prima viste in maniera scrupolosa – i curatori mostrano che, in primo luogo, in que-sti paesi non c’è stato il crollo di iscritti che ha coinvolto il resto d’Europa. Anzi, la membership è aumentata sensibilmente tra la metà degli anni settanta e la metà degli anni novanta, e in seguito rimasta sostanzialmente stabile. Anche su un altro punto vi sono dati in controtendenza: gli iscritti non sono marginalizzati, come altrove è avvenuto attraverso procedure di elezione diretta dei leader solo formalmente più gratificanti, ma di fatto con-trollate dall’alto, ma si offrono invece loro nuove forme di aggregazione, come la figura del simpatiz-zante che non paga quote d’iscrizione.

Sempre sulla dimensione organizzativa, è interessante notare un altro aspetto: se per molte democrazie si è parlato di un forte rafforzamento dei poteri dei leader (recentemente riassunto, non senza una certa dose di semplificazione e impreci-sione, nell’etichetta di «presidenzializzazione»), la situazione del sud Europa è più ambigua. Certo, i leader hanno un fortissimo rilievo in molti partiti, alcuni dei quali sono definiti «personali» (Forza Italia, entrambi i maggiori partiti turchi, i conser-vatori nord-ciprioti). Ma i curatori notano:

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«sem-bra che la personalizzazione che ha caratterizzato molti di questi paesi negli anni settanta e ottanta sia il risultato dei primi anni della transizione, in-stallazione e consolidamento (del nuovo regime) piuttosto che legata a caratteristiche strutturali» (p. 11). Inoltre, non si riscontra un indebolimento dell’apparato organizzativo a scapito del partito nelle istituzioni: ad esempio, i gruppi parlamentari non si mostrano in grado di agire con significativi margini di manovra rispetto all’apparato centrale e/o al leader del partito.

È sul terreno delle strategie politiche che si trovano le maggiori analogie tra un paese e l’al-tro: l’ondata di consulenti politici e spin doctors ha iniziato ad approdare anche sulle coste del me-diterraneo. Infine, sul versante ideologico, è ine-vitabile riscontrare una certa eterogeneità, da pa-ese a papa-ese, in un contesto generale nel quale vi è una tendenza alla depolarizzazione, ma convivono strategie di centralizzazione (Grecia, Italia e Porto-gallo) e spinte più contrastanti negli altri paesi. Se a sinistra la terza via sembra condizionare tutti i partiti di ispirazione socialista (ma non i comunisti ciprioti), a destra il quadro è molto più variegato.

Su questo tema si innesta il secondo volu-me, originariamente concepito nel 2003, quando partiti di destra erano al potere in tutti e tre i paesi scelti. La selezione più ridotta dei casi non si accompagna automaticamente a una più agevole strategia di comparazione. Infatti i popolari spa-gnoli, in grado di monopolizzare lo schieramento di destra del loro paese, il fossato tra destra re-pubblicana (e centro giscardiano) da una parte e Fronte Nazionale dall’altra in Francia, la complessa architettura coalizionale del centro-destra italiano sotto la leadership di Berlusconi in Italia mostra-no, ancor prima dell’analisi dei singoli profili ide-ologici, delle strutture organizzative e del quadro istituzionale in cui si collocano i partiti, un quadro alquanto eterogeneo. Per affrontarlo, il volume è diviso in quattro parti: presentazione generale di cosa è la mainstream right, la destra al potere, la destra e l’Europa, l’estrema destra.

I singoli capitoli presentano molte infor-mazioni e analisi quasi sempre puntuali e incisi-ve. L’aspetto che invece appare più carente, ma ciò è almeno in parte dovuto alle difficoltà della comparazione, è quello del quadro interpretativo generale. In altre parole: perché queste grandi

dif-ferenze tra un paese e l’altro? I capitoli della prima parte aiutano a comprendere le origini e il con-testo generale, pur con informazioni non sempre omogenee su storia, elettorato e profilo ideologico. Anche nella seconda parte si segue solo in parte uno schema analitico comune. Se per l’Italia ci si sofferma (fin troppo) sulle anomalie del leader del-la coalizione (spesso a scapito delle informazioni sulle scelte politiche del primo triennio di gover-no), sul caso francese si propone il sostanziale fal-limento della leadership di Jean-Pierre Raffarin nel periodo 2002-2004, su quello spagnolo si sceglie una pur cruciale, ma inevitabilmente limitata, pro-spettiva: quella del raccordo tra il governo centrale del partito popolare e le comunità autonome.

Perché innestare a questo punto l’analisi sul rapporto con l’Europa? L’introduzione non lo spie-ga adeguatamente. Così, la lettura dei pur infor-mati e dettagliati capitoli sugli atteggiamenti dei leader (e, in parte, degli elettori, verso l’Ue), viene penalizzata da una carente contestualizzazione della centralità della dimensione comunitaria nei rispettivi sistemi politici. I due capitoli dell’ultima parte, scritti dai migliori esperti dell’estrema de-stra, completano il volume con interessanti analisi sull’evoluzione di questo settore dello schieramen-to, rispetto al quale le trasformazioni italiane si scontrano con l’immobilità del contesto francese.

La sensazione complessiva che deriva dalla lettura del volume è quella di un quadro informa-tivo dettagliato e esauriente, ma meno soddisfa-cente di quello che ci si poteva attendere, proba-bilmente a causa della mancanza di un disegno di ricerca argomentato e dettagliato come quello del primo volume.

Gianfranco Baldini

Alfonso Botti,

La questione basca,

Milano, Bruno Mondadori, 2003, pp. 248.

Il libro di Alfonso Botti si propone di offrire una sintesi della questione basca. Alla sua fine, tutta-via, viene da chiedersi se è chiaro cosa s’intenda per «questione basca». Per quanto mi riguarda, ritengo che questo lavoro, come molti altri sullo

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stesso tema, non riesca a chiarirlo, dato che la per-cezione del problema è cambiata nel tempo e non tutti sono d’accordo sulla sua definizione.

La prima interpretazione che possiamo dare alla questione basca rinvia all’inserimento dei baschi nel progetto liberale di stato spagnolo fin dalle sue origini all’inizio dell’età contemporanea. A questo problema l’opera dedica poca attenzione, per cui intuiamo che Botti propenda per ritene-re elemento fondamentale della questione basca l’inserimento del nazionalismo basco nel progetto politico spagnolo. Si comprende così che la mag-gior parte dell’opera sia dedicata ad analizzare la nascita e l’evoluzione di questo movimento poli-tico dalla fine dell’Ottocento fino ad oggi. Questa parte, il nucleo centrale dell’opera, è una buona sintesi sul nazionalismo basco. L’autore dimostra una buona conoscenza della bibliografia sull’argo-mento e riesce, in non troppe pagine, ad offrire un valido panorama della questione. Sempre questa parte comprende una buona sintesi sulla nascita e la storia dell’organizzazione terroristica ETA. Il che ci conduce a una terza interpretazione della questione basca, ossia quella di intenderla come la soluzione al problema della violenza terrorista. La questione del terrorismo ci porterebbe a sua volta ad un’altra interpretazione, a mio giudizio poco sviluppata in questo lavoro, che è quella della mancanza di libertà nei Paesi Baschi. Il problema basco, cioè, sarebbe quello dell’oppressione e della violenza del terrorismo dell’ETA, sostenuto dal na-zionalismo basco radicale, contro tutte le opzioni politiche non nazionaliste, i rappresentanti dello Stato legati alla lotta contro il terrorismo (polizia, giudici, funzionari delle carceri), gli

opinion-ma-kers (giornalisti e intellettuali non nazionalisti),

insomma, contro chiunque si opponga al suo pro-getto nazionalista ed essenzialmente totalitario.

Arriviamo così all’ultima parte dell’opera, dove l’Autore ci avverte trattarsi di «un terreno che fuoriesce appena dalla cronaca, per il quale le uniche fonti disponibili sono rappresentante dalla stampa quotidiana» (p. 143). In essa pre-senta i fatti degli ultimi anni offrendone una versione che si presta al dibattito. A proposito dell’analisi di quest’epoca, non c’è consenso sulle ragioni che hanno indotto le diverse forze politi-che a sostenere le loro posizioni. Perciò la ver-sione offertaci dall’Autore può essere condivisa

o rifiutata a seconda dell’ottica in cui ci si pone. Ritengo difficile, insomma, adottare una posizio-ne obiettiva sulla sua analisi. Penso, tuttavia, che pur offrendo talune importanti chiavi di lettura di quest’epoca, egli non dia sufficiente impor-tanza al terrorismo di bassa intensità praticato dall’ETA in questo periodo, cioè agli attentati contro persone, imprese, partiti o istituzioni che non causano morti, ma le consentono di esten-dere il terrore nella società.

Durante il periodo di tregua dichiarato nel 1999 dall’organizzazione terroristica ETA non vi furono assassini, ma oltre trecento azioni terrori-stiche di bassa intensità contro imprese, istituzio-ni statali o contro persone opposte al progetto del nazionalismo radicale. La posizione del naziona-lismo democratico, che condannava quelle azioni pur mantenendo i suoi accordi col nazionalismo ra-dicale che appoggiava quegli attentati, furono una causa importante del deteriorarsi dei rapporti tra i partiti nazionalisti da una parte e il PP e il PSOE dall’altra. Un esempio di quelle posizioni furono le dichiarazioni del portavoce del PNV, la forza poli-tica più importante del nazionalismo basco, in cui affermava di avere più paura dello Stato che non dell’ETA.

Un altro elemento di cui questa sezione del libro non dà eco, ma importante per comprendere la dinamica politica di quest’epoca, è la posizione del governo basco dinanzi alla rottura della tre-gua da parte dell’ETA. Nonostante il suo primo as-sassinio, infatti, esso mantenne la collaborazione parlamentare col braccio politico dei terroristi e solo dopo l’uccisione di altre due persone la rup-pe formalmente. Benché il presidente basco fos-se stato eletto con i voti di quel gruppo politico, quando li perse non chiese alla Camera un voto di fiducia, come pure sarebbe stato normale nella pratica parlamentare. Non a caso il presidente del governo basco è, tra quelli dei governi autonomi spagnoli, quello che meno affronta la sua Camera. In quanto alla sua proposta di pace, il cosiddetto Plan Ibarretxe, non si spiega il fatto che preveda un referendum tra i cittadini baschi ma non neces-sariamente tra quelli spagnoli, i quali dovrebbero dunque accettare il modello deciso dai baschi sul loro rapporto col resto della Spagna. Vale a dire che quel piano riconoscerebbe non solo il diritto di secessione di un determinato territorio, ma anche

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quello di stabilire un modello di associazione non negoziato ma imposto da una delle parti.

A proposito della decisione di mettere fuori legge Harri Batasuna, il libro non ricorda che oltre duecento dei suoi eletti sono stati condannati per collaborazione con l’ETA e che il suo attuale rap-presentante al Parlamento europeo è sottoposto a un’investigazione perché sospettato di finanziare attività legate al mondo dell’ETA. Infine, l’Autore parla in questo capitolo della posizione dell’ETA sull’indipendenza, ma dimentica di dire che nell’itetico Stato basco indipendente non vi sarebbe po-sto per coloro che non ne condividessero la propo-sta, dato il carattere totalitario dell’organizzazione. In conclusione, direi che queste osserva-zioni sono probabilmente inevitabili, dal momento che un’analisi adeguata di quest’ultima epoca è complessa, non foss’altro perché manca la necessa-ria prospettiva temporale. E d’altronde taluni degli elementi segnalati perché assenti risultano difficili da valutare se non si segue direttamente la quoti-dianità basca, dato che i mezzi di comunicazione non ne parlano in modo esteso e chiaro. Nonostan-te ciò riNonostan-tengo che quest’opera sia di indubbio in-teresse nei suoi primi capitoli, mentre le difficoltà dei due ultimi ne renderebbero necessario un ag-giornamento negli anni a venire affinché l’analisi storica possa sostituire la cronaca giornalistica.

Mikel Urquijo

Antonin Cohen, Antoine

Vauchez (a cura di),

La Constitution

européen-ne. Élites, mobilisations,

votes,

Bruxelles, Éditions de l’Université

de Bruxelles, 2007, pp. 298. Il periodo costituente dell’Unione europea, duran-te il quale la Convenzione ha elaborato il Trattato costituzionale, ha marcato un allargamento senza precedenti dei settori della società civile interessa-ti all’Europa. Raramente l’UE aveva richiamato una tale attenzione da parte dei cittadini europei, che si sono cimentati per la prima volta in discussioni sui diritti, i principi, i valori e un destino comune. Per questo il periodo 2000-2005 segna per gli

au-tori del volume una cesura di straordinaria rilevan-za nella storia dell’Unione europea, ritenendo che l’esperienza costituzionale della Convenzione abbia radicalmente cambiato il rapporto tra l’Unione e i cittadini europei. Non si tratterebbe, dunque, come molti analisti hanno sostenuto, dell’ultima di una lunga serie di crisi che hanno afflitto l’UE, bensì di un momento costituzionale in cui, per la prima volta, una vasta gamma di attori e di gruppi hanno discusso attivamente del proprio destino colletti-vo. Cohen e Vauchez sostengono che nell’analisi ex

post del trattato costituzionale e della sua

boccia-tura nei referendum francese e olandese, la gran parte degli osservatori abbia voluto semplicemente rafforzare l’idea preconcetta di un deficit democra-tico che, per dirla con Majone, nasce da un metodo comunitario fondato sulla necessità economica più che sulla legittimità democratica e con un’opinio-ne pubblica poco interessata e coinvolta. Invece gli autori ritengono che leggere il momento costi-tuente alla luce dei suoi sviluppi, per altro anco-ra incerti, sia un’opeanco-razione vana, inutile e anche controproducente. Vana perché l’analisi del voto non è affatto univoca come spesso viene descritta e, più che segnare una battuta d’arresto nel pro-cesso di integrazione, potrebbe indicare una nuova modalità di partecipazione dei gruppi sociali inte-ressati al dibattito europeo, come testimoniano sia il dibattito molto acceso innestato dalla costituzio-ne, sia la campagna referendaria, che ha visto una forte mobilitazione, sia un tasso di partecipazione inusualmente elevato. Controproducente, perché l’analisi della costruzione europea come flusso di eventi positivi e di battute di arresto contribuisce alla teleologia europea, in cui la storia di carattere prescrittivo gioca un ruolo essenziale. Le cerimonie di apertura e di chiusura dei lavori costituzionali non hanno mancato di ricordare il carattere storico di tale evento e la responsabilità degli attori della convenzione davanti alla storia, sulla quale ha a più riprese insistito lo stesso Giscard d’Estaing. Si è così teso a fare un uso fortemente strumentale della storia nella ricerca dei precedenti; il risul-tato doveva portare alla legittimazione dell’intero processo, mettendo nella giusta evidenza il tratta-to costituzionale, nonché la sua «necessità stratta-tori- stori-ca». Invece, il volume non è stato concepito come l’ennesima lezione sulla costituzione, bensì come tentativo di definire il momento costituente come

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l’inizio di una nuova metodologia nelle relazioni tra UE e società civile, attraverso l’analisi delle trasformazioni in corso nella costruzione europea e delle dinamiche transnazionali che ne sono alla base. In particolare, gli autori hanno tentato di superare la tradizionale lettura istituzionalista del momento costituzionale, perché narrare gli avve-nimenti come una successione di eventi politici e istituzionali che rispondono gli uni agli altri la-scia presupporre l’esistenza di uno spazio pubblico europeo unificato e indifferenziato. I singoli con-tributi del volume mostrano invece che l’Europa non ha un continuum sociale, bensì un mosaico di spazi sociali, sicuramente interdipendenti, ma lar-gamente autonomi gli uni dagli altri. Questa rete transnazionale non testimonia tanto, o soltanto, dell’emergere di uno spazio pubblico europeo e della tendenza ad unificarsi delle società europee, quanto di un ampliamento dei circuiti nazionali che fanno degli investimenti nella sfera istituzio-nale internazioistituzio-nale un modo legittimo di perse-guire risultati sul piano interno. D’altra parte, il semplice fatto che una parte preponderante della legislazione nazionale sia prodotta dalla trasposi-zione delle direttive dell’UE indica che la distin-zione tra livello nazionale ed europeo di governo sia ampiamente superata. Gli interessi nazionali non possono essere totalmente distinti da quel-li europei, come, secondo i curatori del volume, tenta inutilmente di fare Moravcsik, considerando che le principali preoccupazioni dei cittadini eu-ropei sono di carattere nazionale (disoccupazione, insicurezza, salute). Ma sicuramente è attraverso le conseguenze nazionali delle politiche pubbliche europee che i cittadini percepiscono la costruzione europea; attraverso, cioè, i suoi effetti più locali.

Giuliana Laschi

György Dalos,

Ungheria, 1956,

Roma, Donzelli, 2006, pp. 226.

André Farkas,

Budapest 1956. La

tragédie telle que je l’ai

vue et vécue,

Paris, Tallandier, 2006, pp. 288.

Santi Fedele, Pasquale

For-naro (a cura di),

L’autunno del comunismo.

Riflessioni sulla

rivoluzio-ne ungherese del 1956,

Messina, Istituto di Studi Storici Gaetano Salvemini, 2007, pp. 268. I tre volumi rappresentano altrettante legittime prospettive nell’affrontare un evento come la ri- nell’affrontare un evento come la ri-voluzione del 1956 che, per la sua complessità e contraddittorietà, rappresenta tuttora un nodo storico dibattuto. Ad accomunarli è il fatto che si rivolgono a un pubblico di lettori non unghere-si – rispettivamente di lingua tedesca, francese e italiana – e quindi poco familiari con le vicende storiche ungheresi dell’ultimo secolo. Soprattutto nel caso di Dalos e Farkas, testimoni oculari del-la rivolta, l’Ungheria degli anni Cinquanta appare come un mondo impenetrabile al lettore non un-gherese: da qui la necessità di una mediazione cul-turale. Il testo più significativo, concettualmente più denso, è senz’altro quello di György Dalos, oggi un intellettuale di spicco dell’Ungheria post-comunista ma al tempo «un ragazzino magro, af-famato di buon cibo e romanzi francesi, diligente quanto basta», le cui preoccupazioni il giorno 23 ottobre 1956 sono principalmente rivolte «all’ora di geografia» (pp. 12-13). Dalos vive in un am-biente familiare povero e dignitoso, tipico dell’Un-gheria rákosciana, allevato dalla madre costretta dalle circostanze a impiegarsi come custode presso un’impresa edile. Grazie alla profonda conoscenza della vasta letteratura specialistica sull’argomento, che evita a Dalos imprecisioni e ingenuità tipiche del filone memorialistico, il suo libro diventa una cronaca appassionata ma nello stile estremamente controllata, lucida, «antieroica», nella quale il vis-suto personale si intreccia efficacemente all’analisi storiografica. Il filo conduttore è costituito dalla trascrizione di brani radiofonici: notiziari, piccoli annunci, appelli. Per tutti gli ungheresi era la ra-dio (anzi le rara-dio, dato il ruolo assunto nei giorni dell’insurrezione da Radio Europa Libera e da altre emittenti «libere» semi-amatoriali che trasmette-vano dall’interno dell’Ungheria) a trasmettere in diretta il senso della tragedia, informando (spesso, volontariamente o involontariamente, disinforman-do) i propri ascoltarori. Eccellente è il IV capitolo

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(pp. 67-81), nel quale l’autore traccia un profilo socio-antropologico di quei personaggi apparente-mente ordinari, dei combattenti «senza nome» che animano la rivolta e ne diventano in pochi giorni – in assenza di veri leader politici – i protagonisti as-soluti: József Dudás, István Angyal, János Szabó, Gergely Pongrácz. Dalos coglie perfettamente il profondo coagulo di motivazioni e slanci umorali che spinsero un numero impressionante di comu-ni cittadicomu-ni della capitale ungherese a imbracciare le armi pur nella consapevolezza dell’impossibilità di resistere alla preponderanza militare sovietica. Dallo spaccato sociale del «ventre», dei quartieri semiperiferici di Buda e Pest, emergono bambini di 12-14 anni, veterani della seconda guerra mon-diale, piccolo-borghesi immiseriti dal comunismo, operai disillusi. Sono loro, non la classe politica ungherese in costante ritardo nella comprensio-ne della dinamica degli eventi, il cuore pulsante della rivolta e, nel periodo successivo alla secon-da invasione sovietica del 4 novembre, sarà la loro punizione esemplare o la loro fuga dall’Ungheria a segnare l’implosione delle basi sociali della resi-stenza civile al nuovo regime di János Kádár.

Uno sguardo più personale, una rappresen-tazione meno controllata e più enfatica troviamo invece nel volume di memorie di André (András) Farkas, nato a Debrecen nel 1931 da padre giorna-lista ed egli stesso all’epoca giovane giornagiorna-lista del quotidiano «Esti Hírlap». Farkas si presenta per ciò che è: una figura integrata nel sistema, un uomo entrato nel PCU con dispensa speciale a 16 anni nel 1947. A differenza del ragazzino Dalos, Farkas vive il 1956 da uomo adulto, nella posizione di comuni-sta riformicomuni-sta influenzato dai personaggi di spicco dell’intellettualità ungherese vicini a Imre Nagy e particolarmente numerosi nel mondo della stampa. Fra gli spunti più interessanti di un volume a volte appesantito dalla doppia funzione di memoria per-sonale e ricostruzione storica rivolta a un lettore straniero, spicca il racconto del colloquio avuto il 27 ottobre con il giornalista del «Daily Worker» Pe-ter Fryer (pp. 101-104), uno degli antesignani della profonda crisi politica e di coscienza che portarono lui e numerosi intellettuali occidentali a rivedere le proprie posizioni sul comunismo e sull’Unione Sovietica. Non privi di interesse, infine, gli ultimi capitoli dedicati al processo di instaurazione del terrore, a partire dal dicembre 1956. Proprio il

cli-ma da resa dei conti che si instaura a cavallo del 1957 spinge il giovane Farkas, che pur non avendo preso attivamente parte alla rivoluzione poteva sperare, in caso di abiura, in un rapido reintegro nell’apparato culturale del regime, a scegliere la strada dell’esilio politico.

Un approccio più tradizionalmente «sto-riografico» caratterizza invece gli atti del conve-gno organizzato dall’Università di Messina curati da Santi Fedele e Pasquale Fornaro. Tra i contri-buti presentati spiccano per originalità quello del giovane studioso ungherese Gábor Andreidesz, che analizza l’evoluzione dei rapporti diplomati-ci, culturali ed economici fra l’Italia e l’Ungheria che si riannodano una volta passata la crisi del 1956 e dalla metà degli anni Sessanta conoscono una fioritura che culmina con la visita a Roma di János Kádár nel giugno 1977. Per chiarezza argo-mentativa e finezza analitica si distinguono i saggi di Victor Zazlavsky, centrato sul processo decisio-nale sovietico nelle settimane della crisi, e quello di Vladislav M. Zubok, dal quale emerge l’impatto dirompente del disgelo kruscioviano sulla società sovietica. Secondo Zubok tale fermento culturale creò una sorta di «1956 sovietico», che precedette o meglio corse parallelo – senza però incontrarla – alle esperienze polacca e ungherese. Stimolati dagli eventi polacchi, studenti e intellettuali re-sidenti non solo a Mosca e Leningrado, ma anche in provincia, avanzarono richieste concrete legate ai curricula di studio, ma anche critiche alla classe politica, espresse attraverso la pubblicazione di ri-viste e fogli fatti circolare semi-clandestinamente (pp. 156-157). I fattori-chiave per la diffusione del dissenso appaiono all’autore la confusione e il disarmo ideologico seguiti al XX congresso: una volta avviata, la destalinizzazione procede spon-taneamente dal basso e gli apparati ideologici non possiedono più gli strumenti per arrestarla. Stan-do alla Stan-documentazione presentatata da Zukov, il movimento di contestazione entra tuttavia in crisi all’indomani del 4 novembre, quando i destaliniz-zatori si ritrovano a fronteggiare un paese che ha ritrovato compattezza nell’appoggio patriottico alla proprie truppe, impegnate all’estero (p. 162). Il «disgelo» non viene completamente soffocato ma le sue dinamiche distorte, attutite, i suoi effet-ti sulla società sovieeffet-tica bloccaeffet-ti o ritardaeffet-ti. Come testimoniano i volumi qui brevemente presentati,

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resta ancora molto da narrare, discutere e scoprire della rivoluzione ungherese del 1956.

Stefano Bottoni

Emmanuel de Waresquiel,

Un groupe d’hommes

considérables. Les pairs

de France et la Chambre

des pairs héréditaire de la

Restauration 1814-1831,

Paris, Fayard, 2006, pp. 502. Questo libro non è il primo di Emmanuel de Ware-squiel sul periodo della Restaurazione francese. Pri-ma di esso ha pubblicato, nel 1990, una biografia del duca di Richelieu, nel 1996, insieme con Benoît Yvert, una Histoire de la Restauration 1814-1830, e nel 2003 (seconda edizione 2006) una biografia di Talleyrand.

La camera alta della Restaurazione ha solo raramente attirato l’interesse degli studiosi, proba-bilmente perché è giudicata un elemento anacro-nistico e retrogrado rispetto ad altri elementi del compromesso costituzionale del 1814. L’abolizione dell’eredità della dignità di pari in seguito alla ri-voluzione di luglio sembra una chiara conferma di questo giudizio.

L’opera di de Waresquiel inizia con un’ana-lisi del dibattito sul bicameralismo e sulla costi-tuzione inglese che si è svolto in Francia sin dal periodo della crisi dell’antico regime. L’autore ri-leva giustamente la distinzione tra il progetto di una camera alta, proposto, tra l’altro, da Calonne e Loménie de Brienne, che avrebbe conservato, entro certi limiti, i privilegi dell’aristocrazia, ed il proget-to presentaproget-to nell’estate del 1789 dai monarchiens intorno a Mounier e Lally-Tollendal che si sareb-be basato sulla volontà nazionale e sul principio dell’uguaglianza dei diritti. In seguito, l’autore ri-corda che con la costituzione del 1795 vide la luce il primo sistema bicamerale nella storia francese. Tra gli argomenti a favore di una camera alta in una repubblica sono citati, tra l’altro, Madame de Staël che chiedeva un’«aristocrazia naturale» della «proprietà» e dei «lumi», e Boissy d’Anglas per cui il Conseil des Anciens nella costituzione del 1795 si basava sul principio del «governo dei migliori» (pp.

54-55). Nelle costituzioni di Napoleone Bonaparte il bicameralismo fu mantenuto, mentre nel 1814 il ruolo assunto dal Senato conservatore napoleonico nell’instaurazione del regime borbonico condusse alla sua trasformazione in camera dei pari nella

charte constitutionnelle di Luigi XVIII.

Seguono, nell’opera di de Waresquiel, l’analisi della posizione della nuova camera alta nel sistema costituzionale secondo la charte e uno sguardo sulla sua composizione che ne fece l’isti-tuzione chiave per la fusione delle classi superiori antiche e nuove (p. 92), fusione senza la quale il progetto di Restaurazione non poteva riuscire. Solo dopo la seconda Restaurazione fu accordata a tutti i pari l’eredità. Allo stesso tempo, una ventina di pari fu esclusa dalla camera alta per aver servito Napoleone durante il periodo dei cento giorni. In loro vece novantaquattro nuovi pari furono creati, senza però che l’equilibrio tra i due gruppi storici fosse conservato. Da allora in poi la composizione della camera alta fu piuttosto eterogenea e ras-somigliò ad «un monumento costruito in tutte le epoche da architetti diversi», come disse un osser-vatore contemporaneo (p. 125).

Nel periodo che va dal 1815 al 1819 de Wa-resquiel presenta la camera alta come un «potere conservatore», nel senso che cercò di mantenere inalterato il sistema della charte. Nel 1816, anno in cui la camera dei deputati fu dominata dagli ultra, i pari difesero la prerogativa del re e la car-ta costituzionale contro le aspirazioni reazionarie della maggioranza dei deputati. Dall’altro canto, il varco della legge elettorale Lainé (1817) e in particolare quello della legge sul reclutamento mi-litare Gouvion Saint-Cyr (1818), condusse ad un avvicinamento del centro-destra, rappresentante di gran parte della nobiltà di corte, alla destra estrema, con la pretesa di difendere la preroga-tiva monarchica dai suoi stessi ministri, giudicati troppo liberali. Un progetto di riforma elettorale in senso reazionario, introdotto alla camera alta da Barthélemy, indusse il ministro Decazes nel marzo 1819 alla nomina di 61 nuovi pari, di cui la gran maggioranza si era distinta sotto l’Impero. Questa infornata è considerata dall’autore come il primo grave attentato all’integrità della camera alta (p. 158).

Per il periodo che va dal 1819 al 1827 de Waresquiel presenta la camera dei pari come un

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«potere moderatore». In quegli anni essa dimo-strava ancora più spiccatamente che negli anni precedenti un atteggiamento d’indipendenza nei confronti sia del governo sia della camera dei deputati. Più volte i pari respinsero progetti di legge del governo ultra presieduto da Villèle, tra i quali due progetti sulla stampa del 1822, giudica-ti illiberali. De Waresquiel dimostra che il mogiudica-tivo fondamentale delle opposizioni della camera alta era anche in questo caso la conservazione del-le istituzioni, vadel-le a dire della monarchia e della costituzione. Questa politica di fermezza indusse Villèle a definire democratica la camera alta, men-tre la popolarità dei pari presso il pubblico toccò il culmine proprio in quegli anni. Nel 1827, la Ca-mera alta respinse un progetto di legge sulla cen-sura dopo che la camera bassa lo aveva approvato. Per vincere l’opposizione al suo corso reaziona-rio Villèle operò, nel novembre 1827, una nuova infornata di settantasei pari, provenienti quasi tutti dalla nobiltà d’antico regime, soprattutto di provincia. La manovra fu severamente criticata da più membri della camera alta: Chateaubriand la chiamò un crimine politico, per Montalembert significò la fine delle libertà parlamentari, per Ca-stellane annunciò il crollo della monarchia stessa (pp. 198-199).

A questo punto l’autore ha inserito un ca-pitolo sul profilo economico e sociale dei membri della camera alta. Dalla sua analisi risulta, tra l’al-tro, che le loro proprietà erano molto diseguali, che molti pari di estrazione nobiliare d’antico regi-me erano grandi proprietari terrieri, ma all’interno di questo gruppo sociale non erano sempre i più importanti nelle loro province rispettive. Dal punto di vista sociale, la camera dei pari appare anacro-nistica in quanto non comprendeva o quasi, al di fuori della proprietà terriera, cittadini che si erano distinti nella finanza, nel commercio, nell’industria oppure nella scienza e nel mondo artistico. L’infor-nata del 1827 fortificò ancora una volta l’elemento agrario nel seno dell’assemblea.

La rivoluzione di luglio comportò l’aboli-zione dell’eredità. Mentre non mancarono gli argo-menti di carattere politico-costituzionale a favore della sua conservazione, il ruolo passivo ed equivo-co che aveva assunto la camera alta durante la crisi del regime nel 1830 e la sua composizione sociale che corrispondeva sempre meno allo sviluppo reale

della società contemporanea, contribuirono a que-sto risultato.

Emmanuel de Waresquiel non presenta questo destino come inevitabile. Dimostra, invece, come per molto tempo la camera alta rappresentas-se la fusione delle classi dominanti antiche e nuo-ve, e come, fino al 1827, assumesse spesso il ruolo di garante e difensore della carta costituzionale e delle istituzioni. La perdita della sua indipendenza e del suo peso politico dopo il 1830 si rivela per-ciò più che altro la conseguenza di una politica sbagliata, simboleggiata soprattutto dall’infornata imprudente del 1827 per opera di Villèle.

Il libro di de Waresquiel si basa, oltre che sui resoconti delle sedute della camera alta, sul materiale conservato nelle Archives nationales di Parigi e in vari archivi dipartimentali e privati. Inoltre si basa sugli scritti e corrispondenze dei protagonisti, soprattutto sul gran numero delle loro memorie, sui giornali e sulla ricca pubblici-stica dell’epoca. Il libro contiene le riproduzioni di una galleria (incompleta) di ritratti di 241 pari, disegnati dal conte di Noé e pubblicati qui per la prima volta. Nell’appendice si trova, oltre ad una scelta di documenti, un dizionario biografico dei pari di Francia.

Per la sua originalità, per l’importanza dei problemi trattati, per l’ampiezza delle fonti con-sultate e per la maturità del giudizio, il libro di Emmanuel de Waresquiel è un contributo di primo ordine alla conoscenza ed alla comprensione del periodo della Restaurazione in Francia.

Volker Sellin

Roberto Ducci,

Le Speranze d’Europa –

carte sparse 1943-1985,

Soveria Mannelli, Rubbettino, 2007, pp. 418.

Il volume raccoglie le testimonianze, le riflessioni e gli accorati obiettivi europeistici dell’ambascia-tore Roberto Ducci, che è stato uno dei principali artefici dei negoziati italiani al processo di inte-grazione europea nella sua fase costitutiva. Il bel libro, pubblicato nella collana di studi diplomatici della Rubbettino, curato dall’ambasciatore Guido

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