Scuola di Medicina
Corso di Laurea Magistrale in Medicina e Chirurgia
Tesi di Laurea Magistrale
Ruolo di P-selectina come marcatore prognostico nella polmonite
COVID-19 correlata
Relatore:
Alessandro Celi
Candidata:
Clotilde Ghio
Anno Accademico 2019-2020
2
Indice
1. Introduzione 4
1.1 Coronavirus 4
1.2. Stato infiammatorio nella COVID-19 13
1.3. P-selectina 17
1.4. Scopo della ricerca 22
2. Metodi 23
2.1. Disegno sperimentale e partecipanti 23
2.2. Procedura 23 2.3. Analisi statistica 24 3. Risultati 27 4. Discussione 32 5. Conclusione 36 Bibliografia 37
3
Indice delle abbreviazioni
Abbreviazioni Spiegazioni
ACE2 Angiotensin Converting Enzyme 2
ALI Acute Lung Injury
ARDS Acute repiratory distress syndrome BPCO Broncopneumopatia cronica ostruttiva CD Cluster of Differentiation
COVID-19 Coronavirus Desease 2019
CPK Creatina fosfochinasi
DNA DeoxyriboNucleic Acid
ECMO ExtraCorporeal Membrane Oxigenation EGF Epidermal Growth Factor
FiO2 Frazione di ossigeno somministrata
FANS Farmaci Anti-infiammatori Non Steroidei ICAM Molecola di Adesione Cellulare Intercellulare
ICU Intensive Cure Unit
IL Interleuchina
INF Interferone
IOT Intubazione orotracheale
LDH Lattico deidrogenasi
MERS-CoV Middle East Respiratory Syndrome - Coronavirus
mRNA RNA messaggero
PADGEM Platelet Activation-Dependent Granule to External Membrane Protein
PCR Proteina Reattiva C
PSGL-1 P-Selectin Glycoprotein Ligand-1
RAGE Receptor for Advanced Glycation End-Products
Real Time PCR Real Time Reverse Transcriptase-polymerase Chain Reaction
RNA RiboNucleic Acid
ROS Reactive Oxygen Species
SAA Amiloide sierica A
SARS COV 2 Severe Acute Respiratory Syndrome coronavirus 2 SARS-CoV Severe Acute Respiratory Syndrome coronavirus
TC Computed Tomography
TNF Tumor Necrosing Factor
4 1. Introduzione
1.1 Coronavirus
I coronavirus sono una famiglia di virus a RNA positivo (1,2). Essi presentano una struttura composta da un nucleocapside costituito da un filamento di RNA di una lunghezza variabile da 27 a 32 kb associato alla proteina N (proteina del nucleocapside) che riveste un ruolo nella regolazione della sintesi dell’RNA (3,4) e da un pericapside costituito da un doppio strato fosfolipidico attraversato dalle proteine strutturali del virus. Le proteine strutturali del virus sono: (i) la proteina E, la cui funzione specifica non è nota ma è necessaria per l’assemblaggio del virus (5); (ii) la proteina M che svolge un ruolo importante nella formazione del virus (3,5); (iii) la proteina S che si proietta al di fuori del capside e dà al virus la tipica immagine “a corona” identificabile al microscopio elettronico e da cui deriva il nome di questa famiglia di virus. La proteina S permette il legame con il recettore e media l’adesione e la fusione del virus con la cellula ospite (6). La maggior parte dei linfociti citotossici e degli anticorpi che si sviluppano in seguito alle infezioni da coronavirus sono diretti contro porzioni della proteina S.
I coronavirus sono estremamente diffusi nel regno animale, in particolare tra gli uccelli e i mammiferi. Sono classificati in 4 generi (alfa, beta, gamma e delta-coronavirus) e, fino alla fine del 2019, erano conosciuti 6 sierotipi associati a malattia nell’uomo: HCoV-229E, HCoV-NL63, HCoV-OC43, HCoV-HKU1, SARS-CoV e MERS-CoV (7,8). Verso la fine del 2019 l’evidenza di un cluster di polmoniti nella città di Wuhan in Cina ha portato all’identificazione e all’isolamento di un nuovo sierotipo di coronavirus. Nel febbraio del 2019 la World Health Organization (WHO) ha denominato la malattia causata da questo coronavirus coronavirus disease 2019 (COVID-19) e ha denominato il nuovo sierotipo identificato severe acute respiratory syndrome coronavirus 2 (SARS-CoV-2) (9). L’epidemia, nei primi mesi del 2019, si è rapidamente diffusa al di fuori della Cina diventando una pandemia che ha progressivamente coinvolto tutti i continenti. Il sequenziamento del genoma ha portato a classificare SARS-CoV-2 nel genere dei beta-coronavirus (10). Nell’ambito di tutti i beta-coronavirus si è visto che il genotipo più simile al nuovo coronavirus è quello di due coronavirus che colpiscono i pipistrelli. Questo ha fatto ipotizzare che questi animali possano essere la sorgente primaria da cui si è poi sviluppato un ceppo virale capace di infettare l’uomo. Non è ancora chiaro se il passaggio sia stato diretto o abbia coinvolto un ospite intermedio (11).
5 Patogenesi
SARS-CoV-2 entra in contatto con le cellule umane legandosi con la proteina S transmembrana al recettore ACE2 (Angiotensin Converting Enzyme 2) presente sulla membrana della cellula ospite. Successivamente, tramite la proteina S, il doppio strato lipidico della membrana virale si fonde con quello della membrana ospite e il nucleoside virale viene liberato all’interno della cellula (12). Una volta all’interno della cellula l’RNA del virus viene immediatamente tradotto in una poliproteina che darà origine sia alle proteine strutturali sia alle proteine necessarie alla replicazione del genoma e all’assemblaggio del virus. I virioni verranno poi rilasciati causando, nella maggior parte dei casi, la lisi della cellula ospite. Il danno all’organismo ospite è quindi mediato da un’azione diretta citolitica a cui si somma il danno legato al meccanismo immunitario. Al fine di controllare la risposta virale, infatti, l’organismo infettato mette in atto una risposta immunitaria innata e adattativa. Da un lato osserviamo l’attivazione delle cellule dendritiche residenti a livello polmonare che presentano l’antigene innescando il processo che porterà alla formazione di cellule T effettrici. Una volta attivate e migrate nel sito di infezione queste cellule producono citochine, molecole citotossiche e chemochine contribuendo così direttamente a limitare l’azione virale e stimolando l’ulteriore reclutamento di altre cellule immunitarie. Dall’altra parte assistiamo all’attivazione dei mastociti che tramite l’espressione di TLR (Toll-like Receptors) identificano i virus e si attivano partecipando alla produzione citochinica e di chemochine. Nella COVID-19 molti studi riportano un’aumentata risposta immunitaria caratterizzata da un aumento del numero di neutrofili, un’iperattivazione dei macrofagi, eosinopenia e linfopenia con una grave riduzione del numero di cellule T CD4+ e CD8+, delle cellule B e delle cellule natural killer (NK) che correla con un maggior livello di gravità clinica della malattia. Il nuovo virus sembra capace di indurre apoptosi delle cellule T e una sovraespressione di citochine e mediatori dell’infiammazione alterando così l’equilibrio necessario per ottenere una risposta immunitaria efficace senza produrre un danno d’organo ad essa associato (13).
Analogamente a quanto accade in altre infezioni virali, il virus può accumulare, durante le replicazioni, un numero variabile di mutazioni. Esse sono legate principalmente ad errori di trascrizione e sotto una qualsiasi pressione selettiva possono far nascere dei ceppi virali con caratteristiche patogenetiche diverse i quali, se dotati di un vantaggio replicativo, si possono diffondere.
6 Attualmente si registrano circa 150 milioni di casi confermati al mondo, di cui approssimativamente 52 milioni verificatesi in Europa e circa 4 milioni in Italia.
La trasmissione diretta per via respiratoria è la principale via di trasmissione del virus. Si pensa che questa avvenga principalmente attraverso il contatto tra i droplets, contenenti particelle virali, emessi respirando, parlando, tossendo o starnutendo da una persona infetta e la mucosa di un’altra persona. I droplets hanno un diametro maggiore di 5 micron e tendono quindi a precipitare entro distanze relativamente brevi. Per questo motivo la trasmissione attraverso droplets richiede generalmente un contatto a distanze ravvicinate (entro 2 metri circa) (14). Il tempo di esposizione aumenta la probabilità di contagio. L’infezione si può trasmettere anche se superfici contaminate (ad esempio le mani) vengono direttamente in contatto con le superfici mucose. L’infezione può però avvenire anche a distanze maggiori in particolari situazioni. L’RNA virale è stato anche isolato in particelle aeree più piccole dei droplets, come quelle che costituiscono l’aerosol che possono restare sospese per tempi più lunghi e percorrere distanze maggiori. Alcuni lavori evidenziano, infatti, la possibilità di trasmissione su lunghe distanze, in particolare in spazi chiusi e poco ventilati. Questa modalità di trasmissione non è considerata comunque la modalità principale di diffusione (15–21).
L’RNA virale è stato anche identificato in campioni di sangue, feci, secrezioni oculari e sperma ma attualmente non c’è evidenza di trasmissione oro-fecale, né della possibilità di trasmissione sessuale o ematica o attraverso qualunque contatto di superfici non mucose (14). Sono stati anche identificati degli animali (principalmente cani, felini e visoni) con infezione da SARS-CoV-2 e dei sospetti casi di trasmissione dal visone all’uomo, ma il loro ruolo nell’eventuale diffusione del virus non è ancora chiarito (22,23).
Si può concludere, quindi, che la trasmissione del nuovo coronavirus sembra dipendente dalle modalità di esposizione, dalla distanza, dalla durata e dalla concentrazione del virus nelle secrezioni. In generale, ambienti chiusi e affollati con tempi di contatto prolungati tra le persone sembrano essere le situazioni a maggior rischio di trasmissione e le principali responsabili della formazione dei grandi focolai di infezione (24). Le caratteristiche individuali svolgono poi un ruolo nella probabilità di infezione, attualmente non del tutto chiarito. Alcuni individui non sembrano capaci di trasmettere il virus, mentre altri si comportano come “super diffusori” generando un alto numero di infezioni secondarie (25–27). È ampiamente documentato infine che i soggetti
7 asintomatici possono trasmettere il virus, seppur con un indice di contagio inferiore rispetto ai soggetti sintomatici (28,29).
L’infezione da SARS-CoV-2 causa, nella maggior parte dei casi, la formazione di anticorpi specifici diretti verso il dominio della proteina spike che lega il recettore cellulare. La quantità di anticorpi generati ha una variabilità importante tra le persone, dipendente da vari fattori, tra i quali ritroviamo l’intensità dell’infezione (30,31). Solitamente questi anticorpi sono riscontrabili nel plasma dei pazienti per alcuni mesi e sembra possano mantenere la loro funzione protettiva mediamente per 6-8 mesi (32–34). Sono stati identificati anche specifici linfociti CD4 e CD8 positivi nei pazienti dopo infezione da SARS-CoV-2, che potrebbero svolgere un ruolo nell’immunità a lungo termine, ma ovviamente i dati per valutare questo aspetto non sono ancora disponibili (35).
L’immunità sviluppata dopo COVID-19 sembra quindi protettiva nei confronti del virus e il rischio di una reinfezione, per lo meno nel breve periodo, è basso come sembrano dimostrare le analisi epidemiologiche effettuate durante le successive ondate di infezione e studi su animali (36,37). Uno studio osservazionale danese ha evidenziato che solo lo 0.65% dei pazienti che avevano contratto il COVID-19 durante la prima ondata è risultato positivo alla ricerca dell’RNA virale con reazione a catena della polimerasi durante la seconda ondata, contro il 3,27% dei controlli. Questo risultato porta a pensare che l’effetto protettivo dell’infezione sia dell’80%, anche se la positività alla ricerca dell’RNA virale non necessariamente è un indice di reinfezione dal momento che una quota di persone possono presentare tracce di RNA nelle mucose a distanza di tempo dalla malattia senza che questo abbia un significato clinico (37).
Il rischio di infezione e di reinfezione dipende comunque da molte variabili, tra queste la presenza di varianti del virus sembra avere una certa rilevanza. Nel corso della pandemia sono state identificate e sequenziate molte varianti caratterizzate da mutazioni specifiche. Nella maggior parte dei casi queste mutazioni non modificano le caratteristiche del virus e non hanno, di conseguenza, nessun significato clinico. Sono state però identificate alcune varianti caratterizzate da mutazioni della proteina spike che modificano la capacità infettiva del virus e le cui caratteristiche rendono ragione di una particolare attenzione epidemiologica. Queste varianti sono:
- la variante B.1.1.7: variante inglese. È caratterizzata da un’aumentata trasmissibilità (di circa il 50%) e verosimilmente una maggiore gravità della
8 malattia, ma non sembra ci siano differenze sulla risposta alle terapie anticorpali (38–40).
- la variante P.1: variante brasiliana. Ha caratteristiche cliniche simili alla variante classica, ma sembra meno sensibile alla terapia con anticorpi monoclonali e siero (41).
- la variante B.1.351: variante sudafricana. È caratterizzata da un’aumentata trasmissibilità (di circa il 50%) e una minore suscettibilità alla terapia con anticorpi monoclonali e siero (42).
- Le varianti B.1.427 e B.1.429: varianti californiane. Caratterizzate da un’aumentata trasmissibilità (di circa il 20%) e una minore suscettibilità alla terapia con anticorpi monoclonali e siero (43).
Clinica
L’infezione da SARS-CoV-2 si può presentare con un ampio spettro di sintomi, le cui caratteristiche e il cui trattamento sono ancora oggetto di studio.
Si stima che circa il 40% delle infezioni sia asintomatico e la percentuale di pazienti che non sviluppa sintomi aumenta considerevolmente con il diminuire dell’età. Tra i bambini è relativamente poco frequente che l’infezione si presenti in forma sintomatica (44). Ad esempio, in uno studio che ha analizzato una coorte di 1271 pazienti di età media di 27 anni positivi per SARS-CoV-2 ha evidenziato che solo il 22% è risultato sintomatico (45). Pur non avendo sintomi, una discreta percentuale di pazienti positivi asintomatici presenta delle anomalie evidenziabili agli esami strumentali. Alcuni studi, seppur caratterizzati da una numerosità limitata, hanno evidenziato che in circa il 50% dei pazienti asintomatici sono riscontrabili alterazioni polmonari a vetro smerigliato alla TC (46,47). Questo porterebbe a pensare che l’assenza di sintomi non esclude la possibilità di danno d’organo.
Tra i pazienti che presentano sintomi, la COVID-19 si può manifestare con un ampio spettro di quadri clinici, principalmente respiratori. Approssimativamente l’80% dei casi l’infezione si presenta in forma lieve definita come assenza o presenza di polmonite lieve. In circa il 14% dei casi si presenta invece con una forma severa, definita come presenza di dispnea, desaturazione e polmonite che coinvolge > 50% dei polmoni. Infine, in circa il 5% dei casi c’è evidenza di malattia critica con presenza di shock o insufficienza respiratoria.
9 In generale il tasso di mortalità è stimato attorno al 2-3% (48). La mortalità aumenta sensibilmente all’aumentare della severità del quadro clinico e in presenza di fattori di rischio. I dati riportati in letteratura evidenziano una mortalità variabile tra l’8% e il 21% in pazienti ospedalizzati e tra il 16% e il 78% in pazienti che necessitano di terapia intensiva (49–52).
Sono stati identificati alcuni fattori di rischio capaci di predire il grado di severità della malattia e il rischio di mortalità. Molti report sono concordi a individuare l’età come uno dei fattori di rischio principali, predittivo di morbilità e mortalità. La probabilità di ospedalizzazione è dell’1% nei pazienti tra i 20 e i 29 anni e sale al 20% nei pazienti con più di 80 anni. Si è osservato che anche la mortalità aumenta con l’aumentare dell’età (53,54).
La presenza di comorbidità è un altro fattore fortemente associato alla gravità della presentazione clinica e alla mortalità. Le patologie identificate come fattori di rischio certi sono: le malattie cardiovascolari, il diabete, la BPCO e le altre malattie croniche polmonari, la presenza di carcinomi, l’insufficienza renale cronica, pregressi trapianti d’organo o di componenti ematiche, l’obesità e il fumo (55–57). Anche alcuni dati di laboratorio sono stati associati ad un aumento di rischio significativo di gravità di presentazione clinica e di mortalità. Tra questi troviamo: il D-dimero con un valore >1000 ng/mL, la PCR >100 mg/L, il valore di LDH >245 UI/L, la troponina > 2 volte il limite di normalità, la ferritina >500 µg/L e la CPK > 2 volte il limite di normalità (48,50,53,58– 60). Altri fattori come le caratteristiche genetiche del paziente, la concentrazione virale e il sesso sono stati indagati come possibili fattori di rischio. Per esempio, il gruppo sanguigno 0 è stato associato a un minor rischio di infezione e il sesso maschile associato a una maggiore severità clinica (61,62).
Successivamente all’esposizione c’è un periodo di incubazione di durata variabile, fino a 14 giorni con una media di circa 5 giorni (53). La malattia si presenta poi con una varietà di sintomi, prevalentemente respiratori, non specifici per COVID-19 anche se alcuni di essi come la perdita di gusto e olfatto sembrano essere maggiormente associati all’infezione da SARS CoV-2 rispetto ad altri virus.
I sintomi più frequenti sono: - tosse (50% dei casi circa) - febbre (45% dei casi circa)
10 - mialgie (35% dei casi circa)
- cefalea (35% dei casi circa) - dispnea (30% dei casi)
- perdita di gusto e olfatto (10 – 40% dei casi) - faringodinia (20% dei casi)
- diarrea (20% dei casi circa)
- nausea e vomito (10% dei casi circa) - rinorrea (meno del 10% dei casi)
La principale manifestazione clinica della malattia severa è la polmonite, anche se, come già riportato precedentemente, quadri compatibili con un coinvolgimento polmonare possono essere riscontrati anche in pazienti asintomatici o con malattia lieve. Una certa percentuale di pazienti con sintomi lievi progredisce infatti verso quadri clinici più severi e solitamente la polmonite e la dispnea si manifestano dopo una media di 5 giorni dalla comparsa dei sintomi (50). Tendenzialmente la polmonite presenta le caratteristiche cliniche e strumentali della polmonite interstiziale: di solito è bilaterale e coinvolge maggiormente le basi polmonari, anche se la percentuale di polmone coinvolto può essere maggiore del 50%. Il gold standard diagnostico è la TC del torace che evidenzia un’immagine caratteristica a vetro smerigliato che coinvolge entrambi i polmoni. In aggiunta o in seguito all’evoluzione della malattia sono state descritte diverse complicanze legate all’infezione da SARS-CoV-2 il cui meccanismo patogenetico è ancora oggetto di studio:
- insufficienza respiratoria acuta (acute respiratory distress syndrome, ARDS): è una delle complicanze più gravi associate all’infezione, spesso richiede l’utilizzo di ventilazione meccanica e intubazione orotracheale ed è la principale causa di mortalità COVID-19 relata; (50).
- complicanze cardiovascolari: sono stati descritti scompensi cardiaci, infarti, aritmie legate all’infezione; (63,64).
- eventi tromboembolici: l’infezione da SARS-CoV-2 è spesso caratterizzata da uno stato di ipercoagulabilità associata ad aumento di marker laboratoristici quali D-dimero o fibrinogeno. La condizione è particolarmente marcata nelle forme severe della malattia. Trombosi venosa profonda ed embolia polmonare sono significativamente aumentate in pazienti ricoverati in terapia intensiva con COVID-19 (65–67). Come revisionato da H. Asakura e H. Ogawa a questo si aggiunge la maggior frequenza di microtrombosi multiple a livello polmonare
11 verificata da indagini autoptiche in vasi di medie e piccole dimensioni sia di tipo arterioso che venoso. È interessante evidenziare che un confronto a livello dei capillari alveolari tra pazienti con ARDS causata da COVID-19 e da influenza ha riscontrato un grado di trombosi nove volte maggiore nei pazienti SARS-CoV-2 positivi. Inoltre, l’angiogenesi stimolata da questa condizione non solo era più cospicua nel caso dei pazienti affetti dalla COVID-19 ma era caratterizzata anche da vasi con alterate funzioni antitrombotiche (68);
- complicanze neurologiche: l’encefalopatia è la complicanza più frequente tra le complicanze neurologiche e colpisce prevalentemente pazienti gravemente compromessi. Sono stati associati anche eventi ischemici cerebrovascolari e eventi convulsivi (69);
- complicanze infiammatorie: in alcuni pazienti si riscontrano risposte infiammatorie particolarmente marcate, caratterizzate da valori molto elevati di markers infiammatori e citochine. Queste condizioni sono associate a un decorso più severo e ad un’aumentata mortalità. Sono anche state evidenziate in questi pazienti manifestazioni autoimmunitarie (70,71);
- infezioni secondarie: seppur non frequenti sono state riportate sovrainfezioni batteriche o fungine prevalentemente respiratorie in pazienti con ARDS COVID-19 relata.
Per quanto riguarda le complicanze a lungo termine non sono ancora disponibili dati sufficienti per trarre conclusioni definitive. Tuttavia, sono stati riportati da una discreta percentuale di pazienti persistenza di affaticabilità, dispnea, tosse, dolore toracico, deficit cognitivi, anche a distanza di tempo dall’infezione. Il danno d’organo legato alle manifestazioni severe potrebbe inoltre portare a un peggioramento permanente della funzionalità polmonare o cardiaca (72–74).
Diagnosi
La diagnosi di COVID-19 di solito è confermata con la ricerca dell’RNA virale tramite la reazione a catena della polimerasi. Il tampone nasofaringeo è il test più frequentemente utilizzato. Ha una sensibilità di circa il 70%, ma la sensibilità aumenta fino a circa il 95% se vengono ripetuti due tamponi. La probabilità che il tampone risulti positivo in un paziente affetto da COVID-19 è massima nel periodo immediatamente successivo alla comparsa dei sintomi. Uno dei test con la maggiore sensibilità è la ricerca su lavaggio broncoalveolare che ha una sensibilità maggiore del 90% e può risultare utile in quella
12 categoria di pazienti con manifestazioni tipiche della malattia (es., polmonite interstiziale) e tampone nasofaringeo negativo (75,76). È descritta la possibilità di persistenza di positività al tampone molecolare a distanza di tempo dall’infezione. Si ipotizza che la positività derivi dalla persistenza di frammenti di RNA virale nella mucosa respiratoria, ma che a questo non corrisponda replicazione virale, malattia attiva o contagiosità (77,78). Per questo motivo non vi è attualmente indicazione a isolamento dei pazienti con pregressa infezione, asintomatici da più di una settimana con tampone positivo a più di 21 giorni dall’inizio dei sintomi.
Trattamento
Vista la recente insorgenza e diffusione della malattia, i protocolli di trattamento sono in continua evoluzione, grazie alle sempre più numerose informazioni a disposizione sull’infezione che permettono di definire trattamenti più efficaci e più specifici per i numerosi quadri clinici con cui la COVID-19 si manifesta. Attualmente le raccomandazioni dipendono dal grado di severità dell’infezione e dei fattori di rischio legati al paziente.
La necessità di ossigenoterapia dipende dai parametri clinici. In caso di peggioramento della funzionalità polmonare può essere necessario ricorrere alla ventilazione non invasiva a pressione positiva e in caso di insufficienza respiratoria grave può essere necessaria l’intubazione orotracheale con ventilazione meccanica o l’utilizzo dell’ECMO (ExtraCorporeal Membrane Oxigenation).
I pazienti asintomatici o con forme lievi di malattia generalmente non richiedono l’utilizzo di farmaci specifici ad eccezione dei farmaci sintomatici (paracetamolo, FANS). Analogamente non ci sono indicazioni all’utilizzo di farmaci specifici nei pazienti ospedalizzati con malattia moderata che non richiedono supplementazione di ossigeno. Può essere indicato l’uso di anticorpi monoclonali contro la proteina Spike in pazienti non ospedalizzati con forme moderate ad alto rischio di progressione.
Nei pazienti ospedalizzati con malattia severa che richiedono supplementazione di ossigeno e nei pazienti con malattia critica che richiedono ricovero in terapia intensiva è generalmente indicato l’utilizzo di corticosteroidi (o, in alternativa, l’utilizzo di anticorpi monoclonali con effetto immunosoppressivo) più o meno associati a terapia antivirale (75,76).
13 1.2 Stato infiammatorio nella COVID-19
Tempesta citochinica
Come già sottolineato nel capitolo precedente, la malattia critica nella COVID-19 si può presentare associata a un quadro infiammatorio caratterizzato clinicamente da febbre persistente e, dal punto di vista laboratoristico, da un aumento di citochine e di proteine markers di infiammazione. Evidenze, che si sono stratificate all’aumentare dei dati a disposizione, hanno infatti messo in rilievo un quadro laboratoristico particolare denominato tempesta citochinica in una parte dei pazienti infettati da SARS-CoV-2. Questo termine fa riferimento a un quadro clinico e laboratoristico che, sebbene sia comunque meno grave, è simile a quello sviluppato nella sindrome da rilascio di citochine che insorge, nella maggior parte dei casi, a seguito della somministrazione di terapia immunomodulante. La sindrome da rilascio di citochine è clinicamente caratterizzata proprio da febbre e disfunzione multiorgano (79).
La COVID-19, per la somiglianza del profilo citochinico, è stata associata anche alla linfoistiocitosi emofagocitica secondaria, sindrome associata a uno stato di esagerata risposta infiammatoria con aumento delle citochine che può portare a insufficienza multiorgano e morte (80).
Fin dall’inizio della pandemia gli studi hanno sottolineato come alcune interleuchine quali IL-2, IL-6, IL-7, IL-10, TNFα fossero maggiormente aumentate nei pazienti ricoverati nell’unità di terapia intensiva rispetto a quelli che necessitavano di un minor livello di intensità di cure (58,81). In metanalisi più recenti, però, il dato maggiormente consolidato è stato l’aumento di IL-6, in particolare nei pazienti con forme cliniche gravi e nei non sopravvissuti. I risultati a proposito del TNFα invece risultano ancora contraddittori (82,83). Anche altri parametri infiammatori quali PCR, SAA, VES e il rapporto neutrofili/linfociti sono risultati aumentati nei pazienti più gravi rispetto a quelli con quadri clinici più lievi (84).
A differenza di quello che succede nei virus influenzali, Olbei et al. hanno evidenziato che nell’infezione da SARS-CoV-2 vi è una scarsa stimolazione e produzione di INF di tipo I. Questa risposta negli altri tipi di influenza permette di contrastare l’infezione adeguatamente stimolando la produzione di citochine appropriate. In tutti i β-coronavirus come SARS-CoV e MERS-CoV la produzione di interferone di tipo I è variabile ma per lo più presente, nel caso del SARS-CoV-2 invece sembra essere disregolata. La ridotta produzione comporta quindi una ridotta produzione delle citochine stimolate dall’INF di tipo I, come IL-4, IL-12, IL-2 e IL-10 e dell’INF di tipo II (85).
14 Questi indici continuano a esser indagati non solo per contribuire allo studio della patogenesi di questa patologia, ma anche perché di un certo interesse come markers utili nella guida al trattamento il più possibile precoce dei pazienti a maggior rischio.
ARDS
L’insufficienza respiratoria è una delle caratteristiche cliniche chiave nel paziente critico colpito dalla COVID-19 ed è il risultato del danno polmonare acuto che può insorgere in seguito all’infezione. Il danno polmonare acuto (il cui acronimo inglese è ALI, Acute Lung Injury) è un termine, ad oggi in parte caduto in disuso, utilizzato per indicare un quadro clinico legato a una grave ipossiemia ad insorgenza improvvisa e alla presenza di infiltrati polmonari bilaterali non associati a insufficienza cardiaca. Una manifestazione di danno polmonare acuto grave è la sindrome da distress respiratorio acuto (86).
La definizione su cui ancora oggi ci si basa per descrivere l’ARDS è quella stabilita alla consensus conference americano-europea nel 1994, revisionata nel 2012 a Berlino. La gravità di questa condizione patologica è stata stratificata in tre categorie reciprocamente esclusive basate sul grado di ipossiemia e sul parametro della PaO2/FiO2. Viene
considerata ARDS lieve con PaO2 = 200 mmHg e PaO2/FiO2 ≤300, moderata con PaO2 =
100 mmHg e PaO2/FiO2 ≤ 200, severa quando la PaO2/FiO2 è ≤100. Questa classificazione
dei pazienti correla con la mortalità e con la durata della ventilazione meccanica consentendo di stratificare i pazienti in categorie di rischio (87).
L’ARDS si può considerare una complicanza di numerose condizioni patologiche sia di natura sistemica sia riguardanti il distretto polmonare. Tra le cause principali riconosciamo: traumi meccanici (tra cui anche i traumi cranici), sepsi, pancreatiti o condizioni di danno diretto polmonare (come inalazione di agenti irritanti più frequentemente del contenuto gastrico), contusioni polmonari o infezioni polmonari diffuse(86).
È importante ricordare che non tutti i soggetti esposti a queste condizioni predisponenti sviluppano distress respiratorio, alcuni polimorfismi genetici sembrano esser associati a un maggior rischio di sviluppare questo quadro (88).
Dal punto di vista anatomopatologico, in fase acuta si riscontra un danno diffuso alla membrana alveolo-capillare associato a infiammazione, edema interstiziale e intralveolare e deposizione di fibrina. Quando l’essudato ricco di proteine e detriti cellulari si riassorbe, si evidenziano le caratteristiche membrane ialine che ricoprono la parete alveolare prima dell’eventuale fase di riorganizzazione e riparazione tissutale.
15 La componente alveolo-capillare normalmente costituisce la superficie di scambio tra gas alveolare e sangue capillare, la sua improvvisa riduzione associata alla mancata produzione di surfactante dovuta alla necrosi epiteliale conduce al quadro di grave ipossiemia refrattaria al trattamento con ossigeno tipica dell’ARDS (89).
Chemiotassi e reclutamento leucocitario
Dal punto di vista fisiopatologico, l’ARDS è caratterizzato da un processo di danno che tende a stimolare il processo infiammatorio in un circolo vizioso che ostacola la risoluzione del quadro. Alla base vi è un processo di attivazione endoteliale che può esser determinato da fattori proinfiammatori circolanti che ledono direttamente l’endotelio o, come nel caso delle citochine, che lo attivano stimolando l’esposizione di molecole di adesione. In alternativa il danno diretto agli pneumociti stimola gli pneumociti di tipo 2, macrofagi residenti a livello dell’alveolo, a secernere TNF mediando l’attivazione endoteliale.
L’inizio del processo infiammatorio acuto è di norma caratterizzato da un’alterazione sia del flusso sia della permeabilità vasale, al fine di facilitare la fuoriuscita delle cellule del sistema immunitario aspecifico dal circolo verso il tessuto danneggiato.
Alla base dell’aumento di permeabilità abbiamo principalmente tre elementi. Il primo, in ordine temporale, è legato a una reazione di contrazione delle cellule endoteliali di breve durata, questo determina un aumento dello spazio intercellulare. La necrosi e il conseguente distacco delle cellule endoteliali secondario a danno diretto o indiretto rappresenta il secondo elemento. Vi è infine un aumento della transcitosi con passaggio intracellulare di proteine a liquidi.
La riduzione della tensione della parete vascolare, dovuta sia alla variazione del calibro del letto arteriolare sia alla fuoriuscita di liquidi nel distretto extravascolare, determina un’alterazione delle dinamiche intravascolari e il rallentamento del flusso. Questo favorisce una diversa collocazione dei globuli bianchi, normalmente disposti al centro del flusso sanguigno, verso la parete del vaso. Questo fenomeno è definito marginazione. Il meccanismo che porta successivamente i leucociti ad attraversare la parete vascolare è una complessa concatenazione di stimoli tra endotelio, leucociti e piastrine supportato dai mediatori presenti nell’ambiente circostante.
La fase di rotolamento dei leucociti è infatti rappresentata da un numero limitato di interazioni iniziali tra le molecole di adesione P-selectina ed E-selectina, espresse
16 dall’endotelio attivato, e oligosaccaridi sialilati legati a uno scheletro di glicoproteine mucina-simili che funzionano da principale ligando all’apice dei microvilli della membrana leucocitaria. Viceversa, la L-selectina espressa dai leucociti trova il suo ligando a livello delle cellule endoteliali.
Questa interazione avviene principalmente a livello delle venule postcapillari, in cui l’esposizione delle molecole di adesione è stimolata soprattutto da TNF α, IL-1 e citochine chemotattiche secrete da macrofagi tissutali, mastociti e dalle cellule endoteliali stesse. Il legame formato è transitorio ed è caratterizzato da una bassa affinità. Questo permette che esso si rompa facilmente e si riformi innescando il movimento di rotolamento. Il rotolamento consente ai neutrofili di interagire con le chemochine prodotte a seguito dell’insulto nella sede del danno e solitamente legate ai proteoglicani dalle cellule endoteliali. Questo determina quindi l’attivazione dei neutrofili che si traduce in un cambio della conformazione delle integrine espresse sulla loro membrana cellulare.
La principale conseguenza è la formazione di legami ad alta affinità tra neutrofili ed endotelio che consente l’adesione dei neutrofili all’endotelio, il cambio della conformazione del loro citoscheletro e la successiva migrazione attraverso la parete del vaso. Inoltre, le piastrine attivate in questo contesto interagiscono con i neutrofili mentre aderiscono all’endotelio. I neutrofili attivati che da un lato legano le integrine endoteliali presentano infatti un’elevata concentrazione di PSGL-1 su un'altra porzione di membrana, esposta verso il circolo, che facilita il legame con le piastrine circolanti. Si aggiunge così una via di trasduzione del segnale mediata direttamente dal legame tra le selectine e il loro ligando che stimola un’attivazione di chinine e adattatori intracellulari. Questo determina un cambiamento nella conformazione delle integrine presenti sulla superficie del neutrofilo, a cui corrisponde uno stato di affinità intermedio che facilita ulteriormente il rallentamento di queste cellule.
Dall’interazione tra la P-selectina espressa sulla superficie delle piastrine attivate e i neutrofili, si è evidenziato in vitro l’innesco di vie di segnalazione che determinano un’ulteriore amplificazione del segnale che può incentivare nei neutrofili la formazione di trappole extracellulari e nei macrofagi l’espressione di fattore tissutale (86,90).
17 1.3 P-selectina
La P-selectina è una glicoproteina integrale di membrana contenuta all’interno dei granuli alfa presenti nelle piastrine e all’interno dei corpi di Weibel-Palade nel citoplasma delle cellule endoteliali. Il suo peso è pari a 140 kDA e si presenta sia legata alla membrana che in forma solubile all’interno del plasma umano normale (91).
Questa proteina fu scoperta a metà degli anni ’80 in modo indipendente da due gruppi di ricerca che, attraverso l’utilizzo di anticorpi monoclonali, identificarono una molecola espressa sulla superficie di piastrine andate incontro ad attivazione, da cui successivamente il prefisso P (platelets). Un gruppo la designò come PADGEM (Platelet Activation-Dependent Granule to external membrane protein) e l’altro come Granule Membrane Protein 140 per poi riconoscerla come la stessa proteina e denominarla P-selectin (92).
Solo successivamente fu scoperto che veniva espressa anche dalle cellule endoteliali (93). Struttura
Le selectine, di cui la P-selectina fa parte, sono un gruppo di proteine caratterizzate da una struttura comune formata da una porzione extracellulare contenente un dominio N-terminale omologo alla lectina di tipo C (calcio dipendenti), adiacente a un dominio simile al fattore di crescita epiteliale (EGF-like), seguito da un numero variabile di domini simil complemento-regolatori. A questo si aggiungono un breve tratto transmembrana e una coda citoplasmatica. Le molecole di adesione appartenenti a questo gruppo, oltre alla P-selectina, sono la E-selectina espressa dall’endotelio e la L-selectina espressa sulla superficie di linfociti, monociti e neutrofili (94). La principale differenza strutturale tra queste proteine è rappresentata proprio dal numero di
ripetizioni dei domini simil complemento-regolatori. Ligandi della P-selectina
La porzione determinante riconosciuta dal dominio lectinico calcio dipendente nelle tre selectine è il tetrasaccaride sialyl Lewis x (sLex) e la sua forma isomerica sialyl Lewis a. Il P selectin glycoprotein ligand-1 (PSGL-1), in cui è presente questa porzione, è il recettore per la P-selectina maggiormente studiato ed è stato ampiamente caratterizzato sia a livello molecolare che cellulare. Si lega a tutte le selectine ma con affinità molto differenti. Questo recettore è espresso dalle cellule della linea linfoide e mieloide, tra cui
18 piastrine e cellule T attivate (95). In fase infiammatoria viene espresso dai leucociti o anche da loro frammenti, in particolare dai neutrofili e dai monociti (96).
La P-selectina è in grado di legare anche una glicoproteina altamente glicosilata espressa sulla superficie cellulare, ossia l’antigene termostabile codificato come CD24. Questa glicoproteina è espressa sia sulla superficie leucocitaria che su alcune cellule tumorali (95).
Ruolo della P-selectina nei processi fisiologici e patologici
Le principali funzioni della P-selectina sono attribuite alla forma legata alla membrana citoplasmatica (97). La prima funzione individuata fu quella di mediatore dell’adesione tra piastrine o cellule endoteliali e leucociti. A seguito dell’attivazione piastrinica o di una lesione endoteliale la proteina viene traslocata sulla membrana esterna esponendosi verso il torrente vascolare (92). A livello endoteliale si raggiunge la massima espressione della proteina in circa 10-15 minuti e dopo 30-60 minuti viene completamente eliminata (95). È stato dimostrato che fattori come TNF, ROS, esteri del forbolo e trombina possono indurre in pochi minuti l’esposizione della P-selectina sulla superficie di queste cellule (91). In questo senso la P-selectina svolge una funzione fondamentale sia nel processo infiammatorio (intervenendo nelle prime fasi di rallentamento del rolling leucocitario) che in caso di lesione della parete vasale nel supportare il reclutamento dei leucociti (97). Occasionalmente, in uno studio che mirava a dimostrare la funzione di adesione della molecola su un modello animale a seguito del precedente riscontro in vitro, si evidenziò l’esistenza di una via della coagulazione dipendente dalla P-selectina. Confermato da esperimenti successivi, si è dimostrato che agonisti non ancora identificati sono in grado di stimolare i monociti a sintetizzare ed esprimere fattore tissutale. A seguito di questo evento un insieme di molecole, tra cui anche la P-selectina direttamente, segnalano a queste cellule di rilasciare microparticelle, ovvero vescicole che hanno origine direttamente dalla membrana cellulare, contenenti fattore tissutale e PSGL-1 espresso costitutivamente dai monociti. Queste microparticelle in caso di lesione della parete vasale costituiranno una fonte di fattore tissutale, cofattore fondamentale per la formazione del trombo piastrinico in via di sviluppo, proprio grazie al legame tra le piastrine attivate presenti nel sito di lesione esprimenti P-selectina e il recettore PSGL-1 presente sulla loro superficie (98). Si può quindi affermare un ruolo di questa molecola anche nell’emostasi e nel processo di formazione del trombo.
19 I monociti esprimono sulla loro membrana il ligando PSGL-1 sfruttando le selectine per fuoriuscire dal lume vascolare. Per questo motivo si è indagato il ruolo della P-selectina nella formazione della placca aterosclerotica, rilevando nel modello murino una riduzione del rolling e dell’adesione all’endotelio vascolare con riduzione delle lesioni aterosclerotiche in topi in cui era bloccata la proteina (96).
Forma solubile
È stato dimostrato che la P-selectina esiste anche come molecola circolante e viene sintetizzata in vivo (99) sia nel soggetto sano che in soggetti patologici (91). Dal punto di vista strutturale questa si presenta priva della porzione transmembrana e sono in campo due diverse ipotesi a proposito della sua formazione (97).
La prima ipotesi è che la forma solubile derivi dallo splicing alternativo dell’mRNA. È stato identificato infatti un DNA complementare a partire da RNA sia piastrinico che endoteliale privo dell’esone codificante proprio la porzione transmembrana (100). La seconda ipotesi è che invece derivi da un meccanismo proteolitico a seguito dell’attivazione piastrinica. In uno studio a proposito della clearance piastrinica, Berger evidenziò che le piastrine attivate dalla trombina perdevano dalla superficie rapidamente la P-selectina e che a questo fenomeno corrispondeva temporalmente la comparsa di un frammento di P-selectina di 100 kD nel plasma (101).
Il ruolo della P-selectina solubile ad oggi non è ancora stato chiarito, anche se la struttura della forma solubile consente teoricamente alla proteina di interagire con i substrati che esprimono il suo ligando. Essa, infatti, è dotata del dominio lectinico e di quello EGF-like uniche componenti necessarie per legarsi a PSGL-1 (102). André et al. in uno studio pubblicato nel 2000 evidenzia il ruolo procoagulante anche della forma solubile, confermando un aumento della capacità coagulativa in topi geneticamente modificati per esprimere esclusivamente la forma solubile della proteina e in topi wild type a cui era stata somministrata una proteina chimerica (Ig-P-sel). Revisionando studi precedenti, André et al. sottolinea che a partire da queste ipotesi è stata successivamente indagato il ruolo della P-selectina come indicatore di disturbi trombotici o come segnale indiretto di attivazione del tessuto endoteliale (97).
Alterazioni dei livelli di P-selectina solubile in associazione ad altri markers di attivazione endoteliale sono investigati oggi in un’ampia gamma di patologie infiammatorie e cardiovascolari. È importante sottolineare che uno studio pubblicato nel 2017 ha
20 dimostrato come il livello di P-selectina solubile sia aumentato nelle patologie cardiovascolari come conseguenza e non come causa della malattia (103).
Per queste ragioni recentemente questa proteina è stata valutata come marcatore per prevedere il rischio di tromboembolismo venoso in associazione ad altri markers (104) e nel paziente con sintomi iniziali di sindrome coronarica acuta sempre in associazione (105).
P-selectina e ARDS
Le molecole di adesione svolgono come già evidenziato un ruolo fondamentale nel reclutamento leucocitario nella fase infiammatoria e in particolare il ruolo della P-selectina è stato indagato nell’ARDS.
Alcune prove indirette danno indicazione di un ruolo specifico di questa molecola nella patologia. L’uso di anticorpi anti P-selectina o leganti una porzione del suo ligando in modelli di ARDS su topi ha evidenziato una riduzione del danno polmonare associata a una riduzione dell’accumulo di neutrofili a livello del distretto polmonare (106,107). Inoltre, il gene che codifica per il principale ligando della P-selectina è stato di recente individuato come gene associato a una maggiore suscettibilità per lo sviluppo dell’ARDS (108).
In uno studio che mirava alla valutazione della P-selectina solubile e al suo significato clinico è stata misurata la concentrazione di questa molecola all’ammissione e, in quattro soggetti, per la durata del ricovero in pazienti con danno polmonare acuto dovuto a cause differenti. Il livello di P-selectina medio nei soggetti andati incontro a morte (n=8) era significativamente più alto di quello dei sopravvissuti (n=11) (91).
P-selectina e COVID-19
Malgrado i numerosi sforzi di indagine che stanno coinvolgendo laboratori di ricerca in tutto il mondo, ancora non sembra esser chiarito quale sia il meccanismo patogenetico che porta alle manifestazioni cliniche dell’infezione da SARS-CoV-2.
Da esami autoptici eseguiti in soggetti andati incontro a insufficienza respiratoria e morte a seguito di infezione da SARS-CoV-2, si è dimostrata la presenza di elementi virali all’interno delle cellule endoteliali, un aumento delle cellule infiammatorie e la presenza di cellule endoteliali e infiammatorie apoptotiche. Questo ha portato a ipotizzare un ruolo diretto del virus nel determinare un quadro di endotelite non solo a livello polmonare,
21 dove notoriamente è espresso il recettore ACE2 sfruttato dal virus per infettare la cellula, ma anche a livello del letto vascolare di altri organi (109).
L’interazione tra piastrine ed endotelio è stata proposta tra gli elementi centrali nella patogenesi di questa patologia. A supporto di questa ipotesi sono stati pubblicati studi in cui, tra le altre molecole, viene presa in considerazione anche la P-selectina.
In primo luogo, consideriamo una serie di studi che miravano a valutare l’attivazione piastrinica nei soggetti con COVID-19, i quali hanno evidenziato un aumento dell’espressione di P-selectina sulla superficie delle piastrine nei soggetti SARS-CoV2 positivi rispetto ai controlli sani (110–112). Questo aumento di espressione è stato rilevato non solo nelle piastrine andate incontro ad attivazione, ma anche sorprendentemente in piastrine a riposo (110).
In secondo luogo, considerato il ruolo della P-selectina di membrana nella formazione di aggregati con le cellule immunitarie, oltre alla rilevazione dell’espressione superficiale, sono stati analizzati anche i livelli di aggregati piastrinici formati da piastrine-neutrofili, piastrine-monociti e piastrine-linfociti T. In uno studio pubblicato recentemente gli aggregati tra neutrofili e piastrine risultano significativamente aumentati nei malati rispetto ai sani, mentre quelli tra linfociti e piastrine sono maggiori nei pazienti ricoverati in terapia intensiva rispetto a quelli ricoverati in reparti ordinari (110,113). In un altro studio anche gli aggregati monociti-piastrine sono risultati elevati nei pazienti con malattia critica rispetto ai controlli sani o rispetto ai soggetti con malattia lieve. A partire da questo dato è stato suggerito un ruolo di questi aggregati nello stimolare l’espressione di fattore tissutale (113).
La forma solubile della P-selectina invece è stata presa in considerazione fino ad ora come possibile marcatore, insieme ad altri, di danno endoteliale e di attivazione piastrinica. Studiando marcatori di attivazione endoteliale e piastrinica (quali fattore di Von Willebrand, la trombomodulina solubile, il CD40 ligando solubile), fattori della coagulazione, gli anticoagulanti endogeni e gli enzimi fibrinolitici, Goshua et al. hanno evidenziato un’alterazione della funzionalità endoteliale correlata alla gravità del quadro clinico e alla sopravvivenza. La concentrazione di P-selectina e trombomodulina solubili, in particolare, risulta aumentata in correlazione con il fattore di Von Willebrand e la P-selectina solubile risulta aumentata in modo statisticamente significativo nei pazienti ricoverati in terapia intensiva (114).
22 Sono state pubblicate anche altre indagini che mettono a confronto la concentrazione di P-selectina solubile in gruppi di controllo con pazienti sani e pazienti ricoverati in regime ordinario o in terapia intensiva (115–117), con risultati paragonabili allo studio di Goshua et al. Nello studio di Vassilio et al. non si è rilevata differenza statistica tra pazienti ricoverati in terapia intensiva e pazienti in regime di ricovero ordinario, ma la molecola sembra correlare con la sopravvivenza nel gruppo di pazienti COVID-19 positivi ricoverati in terapia intensiva (118). Anche nello studio pubblicato dall’Istituto nazionale di malattie infettive Spallanzani di Roma non si è evidenziata differenza in relazione al regime di ricovero, ma soltanto tra pazienti ricoverati rispetto ai donatori sani usati come gruppo di controllo (119). Questa differenza tra soggetti sani, spesso utilizzati come gruppo di controllo, non è stata evidenziata però in altri studi (114,115).
Un confronto differente tra gruppi di pazienti ricoverati in terapia intensiva ma positivi vs. negativi al test per SARS-CoV-2 è stato proposto da Fraser et al. con l’evidenza di una differenza di concentrazione, maggiore nei COVID-19 positivi, di P-selectina solubile ma soltanto a partire dal terzo giorno di misurazione (120).
1.4 Scopo della ricerca
La COVID-19, al centro dell’indagine di molti ricercatori per l’urgenza di comprendere meglio la malattia e, grazie a questo, trovare strumenti sempre più efficaci per trattarla, sembra esser caratterizzata, nelle sue forme cliniche più gravi, da distress respiratorio acuto e stati di ipercoagulabilità.
La P-selectina è una molecola che svolge un ruolo, quando espressa sulla membrana piastrinica e sulle cellule endoteliali, nella fase iniziale del processo di reclutamento leucocitario nelle prime fasi infiammatorie o di lesione endoteliale. A questo si somma un ruolo procoagulante sia legato all’innesco di una via dipendente dalla P-selectina di membrana sia associato alla sua forma solubile.
Si è inoltre sottolineato come evidenze indirette segnalino un suo contributo nella patogenesi del distress respiratorio acuto.
In questo lavoro di ricerca ci si è chiesti quindi se la P-selectina solubile, la cui produzione dipende dall’attivazione delle cellule che la esprimono e dei processi in cui è implicata, potesse esser utilizzata come marker nei pazienti affetti da COVID-19.
A partire dalla raccolta dei dati di pazienti ricoverati presso l’ospedale universitario pisano, è stato condotto uno studio retrospettivo con l’obiettivo di indagare la P-selectina solubile come marker di malattia in relazione alla gravità del quadro clinico.
23 2. Metodi
2.1 Disegno sperimentale e partecipanti
È stato condotto uno studio osservazionale, retrospettivo e monocentrico. Sono stati reclutati pazienti ricoverati in differenti reparti presso l’azienda ospedaliera universitaria pisana a cui è stata diagnosticato un quadro di polmonite da COVID-19 verificata tramite test molecolare con metodo Real Time PCR per SARS-CoV-2 su tampone naso-faringeo. Tra questi, sono stati inclusi tutti i pazienti con età >18 anni la cui data d’ammissione ricade in un arco di tempo compreso tra il 7/03/2020 e il 28/04/2020. Si è scelto come criterio di inclusione la rilevazione di P-selectina effettuata in un campione conveniente. Di questi pazienti sono state registrate informazioni demografiche, le comorbidità, la ventilazione, la necessità di intubazione orotracheale, i valori dell’emogasanalisi e i risultati degli esami del sangue venoso periferico.
Sulla base dell’ipotesi che i valori di P-selectina potessero variare in base alla prognosi del paziente o entrare in relazione con la severità del quadro clinico e con alterazioni dello stato coagulativo, abbiamo effettuato delle analisi statistiche a partire delle seguenti variabili: lo stato vitale del paziente (sopravvissuto vs. deceduto), la necessità di intubazione orotracheale durante il ricovero, una variabile composita che riflette lo stato vitale e/o la necessità di intubazione, la severità del deficit degli scambi gassosi e l’andamento dei parametri coagulativi.
L’incapacità dell’organismo di mantenere l’omeostasi degli scambi gassosi è stata valutata utilizzando come parametro il rapporto tra la pressione parziale di ossigeno (PaO2) e la frazione di ossigeno inspirata (FiO2) registrato regolarmente. Sono stati
utilizzati i valori al nadir, ovvero il valore più basso registrato durante il ricovero del paziente, considerato indice dello stato di maggior severità del deficit respiratorio. Il campione è stato suddiviso in due gruppi sulla base del valore mediano di PaO2/FiO2 al
nadir (PaO2/FiO2nadir).
Per quanto riguarda l’andamento dei parametri coagulativi è stato preso in considerazione il D-dimero, misurato all’ammissione del paziente e poi durante il periodo del ricovero secondo le necessità cliniche.
2.2 Procedura
I parametri sugli scambi gassosi sono stati valutati a partire da un prelievo arterioso svolto secondo la procedura clinica standard.
24 Gli indicatori dello stato coagulativo sono invece stati raccolti con gli altri parametri di routine (conta leucocitaria, piastrine, indici di funzione epatica e renale, marker infiammatori proteina C reattiva e procalcitonina) effettuando un prelievo venoso entro 72 ore dal ricovero ed esaminato secondo le tecniche standard dal laboratorio dell’ospedale di Pisa.
La P-selectina solubile è stata misurata nel plasma conservato in aliquote nella biobanca della Azienda Ospedaliero-Universitaria Pisana a -80°C. Il dosaggio è stato effettuato presso i locali del Centro Dipartimentale di Biologia Cellulare Cardiorespiratoria dell’Università di Pisa utilizzando una tecnica ELISA diretta (Human sP-selectin ELISA Kit, Invitrogen, Waltham, MA USA) seguendo le istruzioni del produttore. In breve, un anticorpo monoclonale diretto contro la P-selectina è immobilizzato in pozzetti; successivamente viene versato il plasma in esame (diluito 1:10). Dopo adeguati lavaggi, la P-selectina catturata viene rilevata con un anticorpo anti-P-selectina diretto contro un epitopo differente da quello di cattura e legato a perossidasi. Dopo ulteriori lavaggi, la concentrazione di substrato cromogeno generato dalla perossidasi e rilevata da uno spettrofotometro a luce visibile (lunghezza d’onda 450 nm), proporzionale alla concentrazione di P-selectina immobilizzata nei pozzetti, è confrontata con una curva standard ottenuta con concentrazioni note della proteina per calcolare la concentrazione nel plasma in esame.
2.3 Analisi statistica
La misura descrittiva sintetica utilizzata per descrivere le variabili prese in esame è la mediana (eccetto quando diversamente specificato).
Per prima cosa si è testato se il valore di P-selectina differisce in modo significativo a seconda della prognosi del paziente: (A) sopravvivenza (sopravvissuto vs. deceduto) e (B) la necessità di intubazione orotracheale durante il ricovero. A questo scopo si è utilizzato il Mann-Whitney U test per campioni indipendenti (test a due code). L’utilizzo di questo test non parametrico è giustificato dal fatto che i valori di P-selectina non sono normalmente distribuiti (Figura 1).
25 Figura 1. QQ plot per i valori di P-selectina in relazione alla prognosi del paziente: (A) sopravvivenza (test di normalità Shapiro-Wilk, deceduti: W = 0.849, p = 0.092; sopravvissuti: W = 0.956, p = 0.049) e (B) necessità di intubazione orotracheale (IOT) (test di normalità Shapiro-Wilk IOT: W = 0.970, p = 0.879; non IOT: W = 0.921, p = 0.002).
Inoltre, si è utilizzato il Mann-Whitney t-test per valutare se il valore di P-selectina differisce in modo significativo tra i pazienti ricoverati in terapia intensiva e i pazienti in regime di ricovero ordinario.
Si è quindi esaminata la relazione tra il valore di P-selectina e PaO2/FiO2nadir suddividendo
il campione in due gruppi sulla base del valore mediano di PaO2/FiO2nadir e testando se ci
sia una differenza nel valore di P-selectina nei due gruppi tramite il Mann-Whitney U test per campioni indipendenti (test a due code). Inoltre, si è suddiviso il campione secondo livelli di severità clinica basati sulla definizione di ARDS dei criteri di Berlino, identificando quindi quattro gruppi: PaO2/FiO2nadir minore di 100, compreso tra 100 e 200,
compreso tra 201 e 300, e maggiore di 300. La differenza tra questi quattro gruppi è stata testata utilizzando il test di Kruskal Wallis. Infine, si è esaminata la correlazione lineare tra il valore di P-selectina e il parametro PaO2/FiO2nadir. Poiché, come per i valori di
P-selectina, anche i valori di PaO2/FiO2nadir non sono normalmente distribuiti (test
Shapiro-Wilk, W = 0.853, p < 0.0001), si è applicata una trasformazione logaritmica su entrambe le variabili in modo da poter valutare la loro correlazione applicando il coefficiente di correlazione r di Pearson.
Per indagare la probabilità che un paziente ha di subire intubazione orotracheale o di morire in relazione al valore di P-selectina si è condotta un’analisi di sopravvivenza con il metodo Kaplan-Meier, confrontando le curve ottenute con il log-rank test. Non avendo un valore di riferimento della P-selectina, il campione è stato suddiviso sulla base del valore mediano (= 82.78 ng/ml).
26 La correlazione lineare tra P-selectina e D-dimero è stata calcolata utilizzando i valori logaritmici dei due parametri e applicando il coefficiente di correlazione r di Pearson. In particolare, si sono considerati i valori di D-dimero misurati entro 24 ore (disponibili per 21 pazienti), 72 ore (disponibili per 51 pazienti) e 120 ore (disponibili per 57 pazienti) dall’ammissione. Si è testato, utilizzando il Mann-Whitney t-test, se si rileva una differenza tra i valori di D-dimero misurati entro 120 ore nei pazienti (A) sopravvissuti vs. deceduti, (B) intubati vs. non intubati, (C) ricoverati in terapia intensiva vs. in regime ordinario. Inoltre, si è valutato se i valori di D-dimero variano in quattro gruppi di pazienti classificati secondo livelli di severità clinica basati sulla definizione di ARDS utilizzando il test di Kruskal Wallis.
Per tutte le analisi, si è definito un valore soglia α = 0.05 per indicare il livello di significatività dei test statistici applicati. Le analisi e i grafici sono stati ottenuti utilizzando il software Prism® 9.1.0 (GraphPad, San Diego, CA, USA).
27 3. Risultati
Statistica descrittiva
Dei 251 pazienti ricoverati durante il periodo dello studio sono stati considerati i 63 pazienti, per i quali era disponibile il dosaggio di P-selectina. Di questi, 2 pazienti sono stati esclusi per mancanza dei dati relativi all’intubazione orotracheale e allo stato vitale. L’età dei partecipanti è compresa tra 24 e 89 anni (media 64.11 anni ± 13) e i maschi rappresentano il 69.4% del campione (44 maschi, 19 femmine). Le caratteristiche laboratoristiche del campione di partecipanti allo studio sono riassunte nella Tabella 1. L’87% (54 pazienti) ha ricevuto una terapia con ossigeno e di questi 14 sono stati intubati corrispondenti al 22.58% del totale. Alla fine dello studio sono stati registrati 8 decessi che corrispondono al 13.1%. Tra le comorbidità riscontrate con più frequenza troviamo l’ipertensione (42%), la malattia cardiovascolare (26%) e il diabete (18%).
Tabella 1. Caratteristiche laboratoristiche del campione di partecipanti allo studio Caratteristiche dei pazienti
PaO2/FiO2adm mmHg (mediana [min, max]) 290 [80-533]
PaO2/FiO2nadir mmHg (mediana [min, max]) 128 [41-443]
Globuli bianchi/μL (mediana [min, max]) 7.58 [2.25-17.14] Neutrofili/μL (mediana [min, max]) 5597 [1210-15640] Linfociti/μL (mediana [min, max]) 965 [180-2810] Proteina reattiva C mg/dL (mediana [min, max]) 9.395 [0.16-33.77] Procalcitonina ng/mL (mediana [min, max]) 0.13 [0.03-13.32] D-dimero entro 120 h mg/L (mediana [min, max]) 0.38 [0.03-7.79] P-selectina (mediana [min, max]) 82.78 [34.75-192.85] Outcome
sopravvissuti (numero di pazienti/totale) 53/61 IOT (numero di pazienti/totale) 14/61 ICU (numero di pazienti/totale) 22/61 Comorbidità
Malattia cardiovascolare 26%
Ipertensione 42%
Diabete 18%
Nota. PaO2/FiO2adm: pressione parziale di ossigeno in sangue arterioso su frazione di
ossigeno inspirata all’ammissione; PaO2/FiO2nadir: valore di P/F più basso registrato
durante il ricovero; IOT: intubazione orotracheale; ICU: pazienti ricoverati in terapia intensiva (intensive cure unit); BPCO broncopneumopatia cronica ostruttiva; DS: deviazione standard.
28 Statistica inferenziale
Per prima cosa, si è testato se il valore di P-selectina differisce in modo significativo a seconda della prognosi del paziente. La Figura 2A mostra che i valori di P-selectina nei pazienti deceduti (mediana = 73.04, n = 8) vs. sopravvissuti (mediana = 83.45, n = 53) non differiscono in modo significativo (Mann-Whitney U = 175, p = 0.443). Sebbene si evidenzi solo un trend (Mann-Whitney U = 229, p = 0.088), la Figura 2B mostra che i valori di P-selectina nei pazienti che hanno avuto necessità di intubazione endotracheale sono più alti (mediana = 115.50, n = 14) rispetto a quelli dei pazienti che non hanno avuto necessità di intubazione (mediana = 81.10, n = 47). Nella Figura 3C si osserva che i valori di P-selectina non variano in modo significativo (Mann-Whitney U = 365, p = 0.289) nel gruppo di pazienti ricoverati in terapia intensiva (mediana = 106.2, n = 23) rispetto a quelli ricoverati in regime ordinario (mediana = 81.94, n = 38).
Figura 2. Valori di P-selectina in relazione alla prognosi del paziente: (A) sopravvivenza, (B) necessità di intubazione orotracheale (IOT), (C) ricovero in terapia intensiva (intensive cure unit, ICU). ns = p > 0.05, Mann-Whitney U test.
Successivamente si è esaminata la relazione tra il valore di P-selectina e l’incapacità dell’organismo di mantenere l’omeostasi degli scambi gassosi valutata utilizzando come parametro PaO2/FiO2nadir.
La Figura 3A mostra una differenza non significativa del valore di P-selectina tra i due gruppi di pazienti individuati sulla base del valore mediano di PaO2/FiO2nadir
(Mann-Whitney U = 423, p = 0.552). Inoltre, non si è verificata nessuna differenza significativa tra i gruppi di pazienti suddivisi secondo livelli di severità clinica basati sulla definizione di ARDS dei criteri di Berlino (Kruskal-Wallis test, K-W = 4.467, p = 0.215, Figura 3B). L’analisi di correlazione (Figura 3C) mostra una debole correlazione lineare negativa tra
29 i valori (trasformati logaritmicamente) di P-selectina e il valore di PaO2/FiO2nadir, la quale
non risulta statisticamente significativa (r Pearson = -0.149, p = 0.251).
Figura 3. (A) Valori di P-selectina nei due gruppi di pazienti suddivisi sulla base del valore mediano di PaO2/FiO2nadir (mmHg), Mann-Whitney U test. (B) Valori di
P-selectina nei quattro gruppi di pazienti suddivisi sulla base di PaO2/FiO2nadir (mmHg)
secondo i criteri di gravità, Kruskal-Wallis test. (C) Correlazione lineare tra P-selectina e PaO2/FiO2nadir. ns= p > 0.05
La Figura 4 mostra le curve di sopravvivenza di Kaplan-Meier che illustrano la probabilità che un paziente ha di subire intubazione orotracheale o morire in relazione al valore di P-selectina. Confrontando le curve ottenute con il log-rank test non si riscontra una differenza statisticamente significativa (p = 0.730).
30 Figura 4. Curve di Kaplan-Meier per stimare la probabilità di un evento (intubazione orotracheale o morte) per pazienti con P-selectina <= valore mediana (linea continua, rosso) e > valore mediano (linea tratteggiata, verde).
L’analisi di correlazione del valore di (log) P-selectina con il valore di D-dimero misurato entro le 24 ore (n = 21) ha rivelato una correlazione debolmente positiva (r = 0.367), anche se non significativa (p = 0.102). Si è verificato un trend per la correlazione positiva (r = 0.241, p = 0.088) del valore della P-selectina con il valore di D-dimero misurato entro le 72 ore (n = 51). Un’ulteriore conferma della correlazione positiva di questi due valori, che raggiunge la significatività statistica (r = 0.311, p = 0.019), si è riscontrata considerando un campione più ampio di pazienti (n = 57), per i quali erano disponibili valori di D-dimero misurati entro 120 ore dall’ammissione (Figura 5).
Figura 5. Correlazione lineare tra i valori di (log) P-selectina e (log) D-dimero misurati entro 24 ore (n = 21), 72 ore (n = 51) e 120 ore (n = 57).
Si osservato, a livello descrittivo, che i valori di D-dimero misurati entro 120 ore è più basso nei pazienti sopravvissuti (mediana = 0.35, n = 50) rispetto a quelli deceduti (mediana = 0.64, n =7), anche se questa differenza risulta solo un trend (Mann-Whitney U = 97, p = 0.057; Figura 6A). I valori di D-dimero misurati entro le 120 ore risultano
31 significativamente più alti nei pazienti intubati (mediana = 0.86, n = 14) rispetto ai pazienti non intubati (mediana = 0.34, n = 43, Mann-Whitney U = 124, p = 0.0007; Figura 6B) e nei pazienti ricoverati in terapia intensiva (mediana = 0.59, n = 23) rispetto a quelli in regime ordinario (mediana = 0.27, n = 34, Mann-Whitney U = 228, p = 0.0074; Figura 6C). Inoltre, il test di Kruskal Wallis (K-W = 8.650, p = 0.034) rileva una differenza significativa a seconda del livello di severità clinica basati sulla definizione di ARDS (Figura 6D). I test di confronti multipli suggeriscono questo risultato dipende da una differenza (sebbene solo come trend) tra il gruppo di pazienti con PaO2/FiO2nadir compreso
tra 100 e 200 rispetto a quelli con PaO2/FiO2nadir compreso tra 200 e 300 (test di Dunn, p
= 0.056).
Figura 6. Valori di D-dimero in relazione in pazienti (A) deceduti vs. sopravvissuti, (B) pazienti con necessità di intubazione orotracheale (IOT), (C) pazienti ricoverati in terapia intensiva (intensive cure unit, ICU) vs. regime ordinario, Mann-Whitney U test. (D) Valori di D-dimero nei quattro gruppi di pazienti suddivisi sulla base di PaO2/FiO2nadir
32 4. Discussione
Questo studio prende in considerazione la P-selectina solubile in pazienti ricoverati in reparti ordinari e in terapia intensiva positivi al test per SARS-CoV-2. Il principale intento a partire dall’analisi del ruolo della P-selectina come molecola di adesione sia nel danno endoteliale sia nell’infiammazione, elementi ritenuti attualmente chiave nella patogenesi della COVID-19, è stato quello di indagare una correlazione tra questa molecola e la gravità di malattia.
Dai risultati ottenuti non vi è evidenza di differenza tra i valori di concentrazione di P-selectina tra deceduti e sopravvissuti, né tra soggetti con diversi livelli di gravità di malattia. Le analisi effettuate hanno tenuto conto dei diversi criteri che possono esser utilizzati per stratificare i pazienti confrontando i valori sia tra pazienti con diversi livelli di PaO2/FiO2nadir, sia valutando la differenza tra pazienti intubati e non, sia suddividendo
il campione in relazione alla necessità di intensità di cure. In tutti i casi non è stata rilevata una differenza statisticamente significativa del parametro preso in esame. Solo parzialmente questo risultato è in contrasto con la letteratura attuale.
Il primo studio che ha indagato questo marcatore è quello di Goshua et al. in cui si rileva una differenza statisticamente significativa tra i valori di P-selectina solubile nei pazienti ricoverati in terapia intensiva e quelli ricoverati in reparti ordinari ma non tra questi ultimi e gli asintomatici (114). La differenza, quindi, sembrerebbe esser rilevante solo in caso di pazienti sintomatici che richiedono assistenza ospedaliera.
Il dato è confermato anche da altri tre studi, ma almeno due presentano importanti limiti. In un caso la numerosità è molto limitata, vi sono infatti solo sei soggetti per gruppo di confronto (116) e nell’altro la modalità scelta per suddividere i pazienti sembra influenzare i risultati (117). Nello studio di Lopez-Castaneda et al., infatti, è stata riscontrata una differenza tra soggetti sani sommati a COVID-19 positivi sintomatici lievi (con necessità di ossigeno a basso flusso) e tutti gli altri pazienti reclutati con maggior gravità clinica, inclusi i non sopravvissuti. Sarebbe quindi interessante indagare se questa differenza persiste anche in un confronto tra gruppi suddivisi come negli altri studi, soprattutto considerando l’elevata numerosità del campione a disposizione.
In accordo con il nostro riscontro altri due lavori, invece, non hanno trovato differenze nei livelli di P-selectina solubile in relazione alla gravità intesa come necessità di ricovero in terapia intensiva (118,119).