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Oltre il giardino. L'Italia degli scrittori nativi americani da Ralph Salisbury a Scott Momaday

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Academic year: 2021

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21 July 2021

AperTO - Archivio Istituzionale Open Access dell'Università di Torino

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Oltre il giardino. L'Italia degli scrittori nativi americani da Ralph Salisbury a Scott Momaday

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Alessandria: Edizioni Dell'Orso.

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OLTRE IL GIARDINO.

L’ITALIA DEGLI SCRITTORI NATIVI, DA RALPH SALISBURY A SCOTT MOMADAY. Fedora Giordano

La letteratura nativa americana, in particolare dagli anni attorno al quinto centenario della scoperta, ha inserito l’Italia in un discorso postcoloniale. Racconti, saggi, poesie e romanzi hanno risposto a Colombo e al mito della ‘scoperta’con accuse di genocidio, riletture, rovesciamenti ironici,

invenzioni e ricostruzioni storiche1. Parallelamente a questo discorso, l’esperienza del viaggio in Italia di tanti scrittori ed artisti indiani per motivi di studio, per partecipare a mostre2 o a tenere conferenze in occasione della traduzione delle loro opere3 ha suscitato in molti un interesse

variegato e scevro da pregiudizi per la cultura italiana ed il paesaggio. Ne risulta un’apertura a una posizione cosmopolita che anziché obliterare il discorso nativo (come temuto da alcuni nazionalisti nativi, nel timore che un’apertura eccessiva verso la cultura dei colonizzatori possa cancellare le rivendicazioni di autonomia tribale4) lo ampia ad una sorta di nuova scoperta, che esplorando la religione, i miti, l’arte, la storia e la natura più che le città, porta alla ricerca di una consonanza o di nuove “zone di contatto” (Pratt), bene espressa da Leslie Marmon Silko in un’intervista del 1998: “I believe that the Pueblo people, the indigenous people of the Americas, we're not only Indian nations and sovereign nations and people, but we are citizens of the world.” (Silko in Arnold 5-6)

1. Ralph Salisbury, un Cherokee a Venezia e in Sicilia.

Ralph Salisbury, poeta e narratore di discendenza irlandese e cherokee, è stato invitato più volte in Europa. Nella sua raffinata poesia (reduce della seconda guerra mondiale poté iscriversi

all’Università dell’Iowa dove fu allievo di Robert Lowell) convive il senso vivo di appartenenza tribale e la critica alla società europea con un’apertura cosmopolita (Krupat 2009). Il ricordo del suo primo viaggio in Italia ispira la sottile ironia della poesia “A Descendant of ‘Savage’

Nature-Worshiping Cherokees Visits Christian Venice” (1985), in cui dà voce in prima persona allo stupore nello scoprire quanta barbarie si celi dietro gli splendori della civiltà. Dinanzi alla bellezza di

Venezia il poeta è subito turbato dalla sua ricchezza, dall’uso esagerato dell’oro “so damned much gold” che la poesia espande dai mosaici e dalle cupole a coprire tutti gli edifici; così come il profilo maestoso del Palazzo Ducale gli appare “monstruous”. Questo rovesciamento di prospettiva dinanzi alla supposta superiorità occidentale raggiunge il culmine quando si sofferma sulla piazza San

1Citeremo almeno l’ironica ‘appropriazione’ dell’Europa di Carter Revard (1983), l’accusa di Jimmie Durham (Columbus Day 1983), il romanzo di Louise Erdrich e Michael Dorris (The Crown of Columbus 1991), la distopia di Leslie Silko (Almanac of the Dead 1991), la messa in burletta degli esploratori riproposti nelle modalità del trickster (Gerald Vizenor Heirs of Columbus 1991, Thomas King Coyote Columbus 1992), la riflessione teorica e alla condanna del colonialismo e dell’imperialismo di Jack Forbes (Columbus and other Cannibals 1992), la rivisitazione storica di William Least Heat Moon (Columbus in the Americas 2002), le poesie di Scott Momaday (di cui ci si è già occupati1), Lance Henson, Diane Glancy, Duane Niatum, George Tinker, Armand Garnett Ruffo, Arnette Arkeketa, Joy Harjo, Louis Owens, Leslie Silko, Sherman Alexie.

2

Cfr. sugli artisti indiani alla Biennale di Venezia il saggio di Nancy Mithlo in questo volume. 3

Sulle traduzioni italiane cfr. Giordano 1994 e Mariani 2007 4

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2

Marco a leggere la guida della città: il resoconto degli orrori e delle torture nella storia della cosiddetta culla della civiltà, che le opere d’arte tramandano, immagina un rovesciamento reale della cattedrale nel Canal Grande perché le sue pietre e l’oro tornino allo stato naturale e la religione torni alle sue – meno barbare - origini sciamaniche:

that gold-domed wigwam so damned big to turn it again to innocent stones emerging from ocean bottom and circling the sun's own gold- er than gold center and to turn religion again into

the love, fear and awe it was born from would take more life than all

my "primitive" ancestors'

descendants have. (Salisbury 1985: )

Per il suo sguardo disincantato gli aspetti grandiosi della civiltà non coprono quelli bui, come la Seconda guerra mondiale, su cui Salisbury torna spesso in poesie e racconti5. Nella recente “For Robert Wessels” la storia porta all’ Italia dei ricordi del fratellastro, catturato dai Tedeschi in Tunisia e portato in un campo di prigionia in Sicilia. Riuscito a fuggire, l’uomo trova rifugio presso contadini che lo ospitano in cambio d’aiuto – i loro figli sono a loro volta prigionieri. La natura e il lavoro dei campi offrono così uno spazio salvifico di fratellanza umana in un mondo impazzito:

Escaped, he worked on farms, for a hiding place and food,

while Italian sons were U.S. prisoners of war. Pick grapes, scythe wheat–

make wine, bake bread, a little sanity

among millions of the mad. (Salisbury 2007: 97)

2. Lance Henson e Jim Barnes: un paesaggio pieno di storie.

Lance Henson, poeta tsistsistas (Southern Cheyenne) dell’ Oklahoma, è uno dei poeti nativi americani più noti e tradotti in Europa6, dove è spesso invitato a leggere le sue poesie. Il suo discorso poetico, a un tempo tribale e cosmopolita, mostra consapevolezza della storia europea e dà

5

Cfr. di chi scrive “Ralph Salisbury’s Red Badges of Courage” e la homepage http://www.ralphsalisbury.com/ 6

Cfr. la bibliografia delle traduzioni italiane sul sito della Casa della poesia http://www.casadellapoesia.org/poeti/henson-lance/bibliografia

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3

voce all’ umanità sofferente, con un senso di fratellanza globale che abbraccia la Bosnia, il massacro di Lakota e Cheyenne a Sand Creek, quello di Wounded Knee, il Sud Africa, l’Amazzonia, le navi cariche di albanesi che approdano sulle coste italiane, le vittime delle guerre europee, le rivolte del Chiapas. Nel suo discorso nomade, da espatriato (da una ventina d’anni vive più in Europa che negli USA), si evidenzia la ricerca di un collegamento tra l’io legato al passato in un altrove lontano e quello presente che si colloca in un paesaggio nuovo, con una particolare consapevolezza della natura. Così attraversando il fiume Vltava a Praga sente nel vento le parole dell’uomo sacro Little Wolf (“crossing the vtalva river” Riem: 102); a Zurigo l’incubo notturno del “dog soldier in exile” viene scacciato dalla pioggia e dal vento che muove le foglie all’alba, e a Bologna lo accompagnano il dolore e la nostalgia struggente per la madre “i have carried the pain of my belongings/ towards this farther shore” (“it was dawn in winter far from here” in Riem 110). Lo sguardo di Henson sull’Italia non dimentica il colonialismo: “i remember that in websters dictionary the/ word genoa is just above genocide” (“columbus day october 12 1988” Henson 1991), ma è consapevole della storia più recente, della guerra partigiana sull’Appennino come del dramma dei nuovi migranti. Il paesaggio italiano, in particolare quello tra Liguria e Toscana, pieno di storia, suscita immagini di giardini segreti “here emerge secret gardens from the dusklight”. La consonanza intima con l’aura del Mediterraneo si esprime in immagini di pace, come nel risveglio accarezzato dalla brezza marina: “i have awakened/ there is a small sea wind touching the/ petals of a blue flower” (“here” in Riem 104). Il paesaggio dell’appennino toscano suscita talvolta un perfetto haiku:

walking into cloud for a mile

the quiet settles to stillness and woodsmoke. ("in the mountains above viareggio" Henson 1993)

Uno stesso spirito di partecipazione intima nel paesaggio anima le immagini di un mattino d’inverno sul Golfo del Tigullio, a Riva Trigoso, dipinto in poche essenziali pennellate: a cold dove walks on the tiled roof

across the strada

the balcony is a small garden of chilled flowers

(“two poems from riva trigoso” Henson 1993)

Così anche il paesaggio immobile e solatìo dell’Elba è colto nella sinestesia di in un silenzio sospeso:

arriving in late afternoon

silence hanging from the fishing nets (“the elba texts” 1)

Ma l’immagine dell’Italia come giardino non può cancellare la realtà storica, e a contrasto con il silenzio immoto del paesaggio nella poesia precedente rievoca momenti drammatici di vita contemporanea, le attese inquiete di poveri migranti stipati nelle navi, sotto la pioggia:

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4 i remember a hard rain falling on the futureless harbor a ship filled

with insinuating eyes and tired languages. (“the elba texts” 2 7)

Il sentimento di un paesaggio pieno di storia si coglie anche nelle cinque lunghe poesie dall’Italia di Jim Barnes, di discendenza choctaw e gallese, che ha insegnato in Germania, Francia e Svizzera ed è stato ospite con Salisbury del Rockefeller Center a Villa Serbelloni a Bellagio nel 1990. Voce ad un tempo tribale e cosmopolita, traduttore di poesia dal tedesco, è stato nominato poeta laureato dell’Oklahoma per il 2009-10. Le poesie sull’Italia sono esplorazioni poetiche del paesaggio e della storia che gli si palesa in lunghe escursioni sulle colline e nei paesi sul lago di Como. Con una vena pittorica coglie la sorpresa alla novità di un colle che di lontano appare solitario e d’improvviso si rivela punteggiato di paesi, antiche case e chiese di pietra, in versi dalla qualità pittorica:

As the path narrows through high grass, There is suddenly a stone house And another,

A village

That we never saw from across The lake. We expected thick moss And castle walls

And olives,

Not a town behind the tower Nor the echoing bells counting our Ascent for

Miles around. (“Castello di Vezio, above Varenna” 87)

Villa Serbelloni a Bellagio è costruita sulle rovine di una villa di Plinio, e la percezione della dimensione storica dà il senso della piccolezza della vita individuale: “Too many ends of things/ on this hill: Pliny’s villa god knows where, the dog/ the princess loved, maybe even Dante’s ghost/ from limbo as guide. No cantos are large enough/ to hold the spirit of this place.” (“Above Bellagio, looking North to Varenna” 90). Alla storia antica si aggiunge la scoperta della storia recente, il ricordo ancora vivo della fuga di Mussolini, di cui i turisti ignoranti (“back home we know nothing”) non vogliono sentire:

Two miles away, west in Tremezzo, they shot Il Duce before the partisans trucked him south Like beef to hang upside down in Milano. Postcards Never show the land behind the landscape. Rocks drop Daily. Boats skirt the cliff where graves slid down into

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5 The lake. No tourist ever asks about the war

And the days worth remembering. Here none forget. (…)

(“Above Bellagio, Looking North to Varenna” 89)

Il viaggio in Italia diviene così un viaggio di conoscenza che porta ad una nuova inaspettata consapevolezza: “we came here wanting/ nothing and found our eyes” (ivi). D’altro canto l’atmosfera talvolta opprimente del passato più antico, come durante la visita alla cripta e alla cappella medievale dei Frati sotto Villa Serbelloni e alle mura millenarie in rovina, un’antichità gravata dalla presenza di tombe antiche, sembra esorcizzata dal suono improvviso dalla villa, dell’oboe di un musicista americano:

…Above in white quiet

Peter Platt, full of song lines, changes a dull reed, then strokes his oboe into music for God, long absent from this empty house. The chapel quivers with chords bounding off its rejuvenated walls….

(“The Frati: Crypt and Chapel” 113)

3. Duane Niatum: la mimosa e la Musa.

Un caso singolare è quello del poeta Duane Niatum, membro dei S’ klallam dello stato di Washington, che con la sua discendenza italiana dal lato paterno sembrerebbe personificare la possibilità di un discorso dialogico tra le due culture; ma in realtà Niatum, allevato in modo

tradizionale dal nonno materno, ha conosciuto poco il padre, e ha compiuto il primo viaggio in Italia nel 1992, quando è stato invitato per un giro di conferenze. La sua è una poesia di sentimenti, dell’amore, del rapporto con le tradizioni e con la natura, come si evidenzia nella poesia “Storm Shapes of Tomorrow’s Words” scritta durante il viaggio che lo ha portato a Roma, Firenze,

Bologna, Padova e Venezia. La dolorosa ricerca d’identità e di una difficile consonanza con l’Italia viene lenita dalla sorpresa gioiosa dei colori di una natura amica:

On a road that started with rain, a road accidentally taken, exposed petroglyphs from Italy’s delusive heart promise a lyric of happiness

in the absence of belief and the presence of fertility in the yellow eyes

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6 reflect a window into one’s own

ability to accept surprises.

L’accoglienza italiana gli offre il calore di nuove amicizie, la bellezza delle città e dell’arte hanno un potere salvifico sul suo animo tormentato “each park’s sculpture from the cities’/ pantheon presented the imagination an option/ from jumping into the Po or Arno rivers.” Il contatto con la lingua italiana, che rimane limitato alla percezione della sua musicalità, gli evoca immagini di Pan e della Musa che lenisce il dolore di un’identità incerta:

Imagination plucks the consonants and vowels from the nights like Pan grapes, from the vine on the train from Florence to Perugia, brings me almost face to face with the Muse, her fresco of my stories’ carnival of bones.

Alla fine del viaggio i colori del tramonto sembrano dipingere una nuova via, indorata dalla luce, per la sua identità mista; le profondità dell’animo dolente vengono addolcite da una vena poetica che sembra in consonanza con le antiche divinità mediterranee:

The Umbrian sunset paints a grey-blue path on to my Coast Salish blanket and staff, recycling itself into yellow and red-ocher mosaics. Apollo and Artemis’ laurel grotto that inspires the dead

to act upon the mirror of the visible reverses my novella’s ocean-bottom fathom figures whispering for a last

Aeolian harp's breath.

4. Louis Owens e il ramo d’oro.

Louis Owens, di discendenza choctaw, cherokee, francese e irlandese trascorse due mesi a Roma nell’autunno 1980, prima di andare ad insegnare come Fulbright all’Università di Pisa per sei mesi, ricordati nel saggio autobiografico “Roma Fervor or Travels in Hypercarnevale” (Owens 2001). L’esperienza di gioventù (forse la più lunga in Italia tra gli scrittori nativi) è rivisitata con autoironia ed ironia, in un diario dei ricordi di una Roma amatissima vissuta talvolta come attraverso il filtro di Vacanze romane, con la vita spensierata e squattrinata a Trastevere, la presenza

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severa e protettrice delle suore di un pensionato, la bellezza delle donne italiane, la scoperta dell’arte, ma anche il confronto con gli stereotipi sugli Indiani (sono tutti biondi come lui? Gli Apache sono ancora pericolosi?). Nella percezione del paesaggio e dell’ambiente sottolinea il degrado ambientale, l’Arno a Pisa inquinato dalle concerie, Roma avvolta in una nube di gas di scarico8, così come è consapevole di un lato oscuro nella società - la droga, il terrorismo (la strage dell’Italicus l’anno prima). Nel suo discorso prevale la distanza spettatoriale, e l’immagine dell’Italia come teatro (comune a tanti stranieri) gli si palesa nell’allegra confusione del carnevale di Pisa, che utilizza come risposta a Umberto Eco e alla sua non condivisa teoria dell’iperrealta’ americana:

The Italy I found in 1980 was and remains similarly my own Italy, a fresh Old World encountered with new and untrained eyes that naively embraced signs and wonders. My wife and I found an Italy of furious subtextuality, where signs were indeed signs and sometimes did not lie but rather fell away into ludic abyss or carnevale.” (p. 119)

In un’intervista Owens accenna all’importanza di vedere da vicino l’arte dei grandi maestri e afferma che in generale l’esperienza italiana “opened my eyes, clouded as they were by an utterly rural upbringing.” (Lee 46) Sulla città di Roma, abbozzò un racconto poi distrutto, ma la suggestione dei miti classici rappresentati nell’arte, nei templi romani, nei luoghi sacri nella campagna romana penetra il suo immaginario. Forse da una visita al vicino lago di Nemi circondato dal bosco dove sorgeva il tempio di Diana derivano le allusioni ai miti di Attis, Adone, Diana e Cibele che formano un inatteso sottesto di The Sharpest Sight, un noir ambientato tra California e Mississippi che vede come protagonisti dei nativi e uomini di discendenza mista. In questo romanzo, che attinge a nomi e vicende famigliari, Owens ha operato un sincretismo tra miti classici e storie orali della tradizione cherokee materna e di quella choctaw paterna. La protagonista femminile è Diana Nemi. Il reduce del VietNam fidanzato e assassino di Jenna Nemi, sorella di Diana si chiama Attis Mc Curtain. La trama viene costruita attorno alla figura di un detective messicano sanguemisto, Mundo Morales, e di Cole Mc Curtain, di discendenza choctaw, cherokee e irlandese, che debbono risolvere il mistero della morte di Attis. La scelta dei nomi di Attis e Diana, i cui miti compaiono in diverse varianti nell’antichità classica e che qui si fondono con quelli di Adone e Cibele, indica il loro destino. Attis, reso impotente dalla guerra dei bianchi, richiama il mito di Attis frigio che impazzisce nel bosco di Cibele e si autoevira in sacrificio; Diana Nemi (che vive ai margini di un bosco e indossa una gonna su cui è raffigurato un bosco) bruja e donna fatale, è una figura della dea della caccia, prende la forma di un puma a caccia dello spirito di Attis nella palude del Mississippi, e mette in atto un rito cruento che bilancia violenza con violenza uccidendo Attis per vendicare la morte della sorella. Margaret Dwyer ha per prima messo a fuoco, sulla scorta di testi etnologici e del

8

Cfr anche l’intervista di A. Robert Lee “Outside Shadow: A conversation with Louis Owens”, in Jacquelyn Kilpatrick 2004.

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8

Ramo d’oro di Frazer, tutti i riferimenti alle tradizioni choctaw e al mondo classico che s’intrecciano e si contaminano nel romanzo dandogli una dimensione transculturale. Il viaggio in Italia ha arricchito la cultura di Owens aprendo una dimensione cosmopolita per la sua identità complessa.9

Leslie Marmon Silko e il sacro bosco.

Più vasto l’interesse per la dimensione mitico-religiosa di Leslie Silko, famosa scrittrice di origini pueblo e messicane, che in racconti, romanzi e saggi mette in luce la capacità nativa di sopravvivenza attraverso un rapporto religioso con la terra mentre denuncia aspramente le conseguenze nefaste del colonialismo. Invitata in Italia alla fine degli anni Novanta, porta questi punti di vista nell’analisi delle antiche religioni dell’Europa, come in queste osservazioni sulle colonie feline che popolano amate e protette le rovine di fori e templi romani, in cui coglie acutamente tracce dell’ antico culto mediterraneo: “When I went to Rome” spiegava in un’intervista del 1998 “I saw the old cat cult. The old Mediterranean cat cult never died out. It’s there in Rome and all these old ladies and old men feed cats, and the cats look at you, and you look at the cats, and the cats say, this is all ours.” (Arnold 6). In Europa percepisce il permanere di un forte legame con la terra e la natura:

As hard as Christianity tried to wipe it out, and tried to break that connection between the Europeans and the earth, and the plants and the animals – even though they’ve been broken from it longer than the indigenous people of the Americas or Africa – that connection won’t break completely.”(Ivi)

Gardens in the Dunes approfondisce questo discorso e pone l’Italia del 1900, la Lucchesia in particolare, come spazio privilegiato per un rapporto profondo ed equilibrato con la natura e con le antiche radici culturali mediterranee. Difficile estrapolare il discorso sull’Italia senza dar conto almeno sommariamente di questo denso romanzo, che spazia dall’Arizona alla California all’Amazzonia, a New York, Long Island e all’Europa (con allusioni all’Africa e all’Asia), intorno al quale si è intrecciata una vivace discussione critica che lo ha letto, tra l’altro, anche come risposta nativa al romanzo inglese e americano di formazione attraverso il Grand Tour, al romanzo di frontiera e alle captivity narratives (Huhndorf, Martinez). L’espediente narrativo è il viaggio involontario in Inghilterra, in Italia e in Corsica, della piccola Indigo della tribù dei Sand Lizard10 con l’intellettuale Hattie, sua protettrice, e suo marito, il freddo e attempato botanico Edward, in cerca di piante da commerciare (illegalmente, si scoprirà poi) in America. Ambizioso scopo di Silko è un discorso transatlantico e postcoloniale che abbraccia imperialismo, schiavitù e

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Allusioni ironiche agli Italiani, o meglio agli Italoamericani, compaiono nel romanzo Dark River (1999) col

personaggio di uno storyteller Apache, Shorty Luke, che ripete continuamente frasi siciliane imparate a Hollywood da Sal Mineo, indiano in Cheyenne Autumn.

10

Tribù immaginaria basata su culture storiche del fiume Colorado (Arnold), il nome è una fusione di quello dei Sand Papago e dell’antico clan Lizard del pueblo di Laguna, cui appartiene Silko (Ruoff).

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acculturazione forzata, etnie, genere, commercializzazione e ibridazione di piante, ecocritica, storia, mitologie, sincretismo religioso e psicologia del profondo. Il viaggio non tocca i luoghi deputati del Grand Tour come Londra, Venezia, Firenze, Roma o Napoli, ma Bath con le rovine romane e celtiche, la Lucchesia e la Corsica. Attraverso orti, giardini e siti archeologici, i protagonisti scoprono la preistoria dell’Europa e i culti della Grande Dea. Fungono da guida due donne: a Bath Bronwyn, zia di Hattie, che vive in simbiosi con animali e vegetazione, coltiva un orto di piante medicinali e fiori dai quattro continenti ed è attiva nella protezione del patrimonio archeologico e folklorico celtico di cui spiega storia e simboli. In Italia, a Lucca, la sua amica Laura, proprietaria di una villa con un grande parco in cui espone la sua collezione di sculture del quarto millennio a.C. e su cui ci soffermeremo più a lungo. Esempi della possibilità di dialogo transculturale e cooperazione tra donne (Magoulick 30), Indigo nel deserto dell’Arizona, la zia Bronwyn a Bath, Laura in Lucchesia, sono solidamente radicate in un mondo naturale che curano e che in cambio offre armonia, nutrimento e bellezza. In questo rapporto primario con la terra madre, esse proteggono scavi e reperti archeologici e recuperano una spiritualità matriarcale legata alla terra (Porter 59). Un secondo discorso che a questo s’intreccia nel romanzo è quello del sincretismo religioso: la fusione di elementi cristiani nella religione messianica nativa della Ghost Dance11, il permanere dei culti celtici attraverso l’impero romano e il cristianesimo, e la religione della Grande Dea che emerge nello Gnosticismo e nel Cristianesimo popolare mediterraneo. Da questa contiguità di persone, piante, pietre e religioni, emerge un terzo discorso sull’ibridazione delle piante e sul contatto tra etnie e culture in opposizione all’imposizione violenta del colonialismo.

Il viaggio ha luogo nel 1900, nell’Italia impegnata nelle imprese coloniali, nei giorni successivi all’assassinio di Umberto I e all’elezione al trono di Vittorio Emanuele III. Silko situa storicamente la piccola Indigo nel momento culminante della repressione delle popolazioni native americane private delle loro terre e delle loro tradizioni12. D’altro canto la sua protettrice Hattie è vittima del tardo vittorianesimo puritano repressivo e maschilista e si sente estranea al capitalismo rampante americano13. Ma il fil rouge che attraversa il romanzo è l’attenzione alla storia delle trasformazioni delle religioni e alle dinamiche del colonialismo. Indigo anticipa il Mediterraneo

11

Questo nuovo movimento religioso, originato dalle visioni di un Paiute del Nevada prometteva il ritorno dell’America allo stato precedente alla colonizzazione e il ritorno di Cristo attraverso la ripetizione comune di danze estatiche. Cfr. anche Comba 2001.

12

Scene di repressione armata delle cerimonie della Ghost Dance aprono e chiudono il romanzo; Indigo è strappata alla sua minuscola comunità e rinchiusa in un collegio; la costruzione di una diga sul Colorado sconvolge il territorio e le comunità native.

13

Harvard ha bocciato il progetto di Hattie di una tesi sul ruolo femminile nel cristianesimo delle origini, la madre e la sorella di Edward parlano incessantemente di denaro, Hattie ed Edward sono legati in un matrimonio in bianco, sullo sfondo lo scandalo del femminismo di Margaret Fuller, Mary Baker Eddy e i tentativi di sondare la psiche profonda.

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come un approssimarsi della Terrasanta, perché la zia di Hattie a Bath le ha spiegato che l’Italia è il luogo dove più frequenti sono le apparizioni del Cristo e della Madonna (Silko 279), la cui venuta durante la cerimonia della Ghost Dance in Arizona era stata impedita dall’interruzione dei militari. Come ha osservato David Moore “Indigo’s involuntary travels across Europe are animated by her love of the Ghost Dance Messiah, as she follows in his peripathetic footsteps” (Moore 94). Il viaggio porta Hattie a scoprire le religioni dell’Europa antica, e a riconoscerne tracce nel Cristianesimo. La Lucchesia è vista come giardino e spazio del materno, a contrasto con Genova e Livorno, i porti di sbarco e imbarco, che offrono immagini di confusione e inquinamento: “Genoa was a port and industrial city similar to Bristol in its congested streets and sweltering bad air, although its dust and soot could not conceal the bright sun or deep blue sky beyond the smoke.” (278) La piccola Indigo porta con sé una struggente nostalgia per la sua famiglia e la sua terra, sicché la novità delle fasce bianche e nere della facciata della cattedrale di San Lorenzo le richiama le strisce sulla coda del serpente a sonagli (Silko Gardens 278). Hattie è subito colpita dalla qualità della luce: “amazing Mediterranean light- the moist atmosphere filtered the light so it was luminous but not burning, as the sun’s rays were in Riverside.” (279) e i colori affascinano entrambe:

The vibrant colors of the buildings delighted Hattie and Indigo, who made a game of the colors: umber, sienna, ocher, eggshell, sage, tea, mint-they made up names for the amazing new colors they saw. They saw gardens of every sort, even wild gardens of calla lilies and overgrown grapevines in vacant lots along the streets. (279)

Poche e appena schizzate le figure di Italiani, occupa un ruolo centrale la professoressa Laura14, immagine di donna indipendente, separata dal marito, legata alla zia di Hattie dalla comune passione per l’ archeologia, vive un rapporto d’armonia col suo grande giardino senza costrizioni di aiole, in cui sperimenta ibridazioni di gladioli ed espone nella bella stagione la sua preziosa collezione archeologica. Con la sua villa Silko crea una sorta di compendio artistico delle splendide ville della Lucchesia, ricche di affreschi ed eleganti arredi, giardini terrazzati con fontane, statue, ninfei, ruscelli, giochi d’acqua, querce, tigli, platani, bouganvillee, piante di limoni, rose antiche e piante d’ogni tipo. La continuità tra la villa e la natura è sottolineata da affreschi di fiori e uccelli e da un prezioso centrotavola e segnaposti di cigni in porcellana; ovunque dominano la luce e il colore, che metaforicamente Laura offre a Indigo donandole una scatola di matite colorate (Coltelli 2007: 195). Il parco rappresenta un nucleo simbolico denso di significati. Due colonne antiche ricoperte di licheni segnano l’ingresso in un boschetto lasciato crescere semi-selvatico, un sacro bosco (significativamente in italiano nel testo) con riproduzioni settecentesche di statue classiche semisepolte, immagini di un femminile ctonio: una gran testa di una serena Medusa, una donna

14

Un chiaro riferimento a Laura Coltelli dell’Università di Pisa, studiosa di Silko, traduttrice di Storyteller, curatrice della 2° ed. it. di Cerimonia per Quattroventi, ringraziata nella prefazione al romanzo “for the gardens and all the postcards”, di cui è stata ospite nella sua casa di Lucca.

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centauro, e in una grotta nascosta un satiro in groppa ad una tartaruga. Spazio iniziatico separato, foresta dei simboli nell’accezione di Victor Turner, il bosco è luogo di iniziazione e trasformazione. Tutte le sculture, seminascoste nella vegetazione, in nicchie o grotte, appaiono improvvisamente ai visitatori, con l’effetto di una rivelazione misterica. Silko rivisita il senso antichissimo del bosco come luogo di culto e il sincretismo del Rinascimento, che lo rilesse ponendo nei parchi tempietti, ninfei e statue dai significati nascosti - il più noto è il sacro bosco della villa cinquecentesca di Vicino Orsini a Bomarzo, un “santuario neoplatonico” che propone un percorso misterico di rigenerazione spirituale (Zolla 1985: 37-49). La fabula pone Laura nel ruolo di psicopompo, accompagnatrice delle anime in un percorso puntuale attraverso gli archetipi del femminile e della sessualità creatrice al centro dei culti dell’ Europa preistorica rappresentati nelle sue sculture15

. La prima immagine nel sacro bosco rivela in una grotta il principio della vita: un grande uovo di pietra solcato da linee curve, che da vicino si rivela una vulva. Hattie ne è profondamente turbata, al punto di dover interrompere la visita, ma Laura gliene illustra serenamente il simbolismo:

The wavy lines symbolized rain; Vs and zigzag and chevrons symbolized river meanders as well as snakes and flocks of waterbirds. The concentric circles were the all-seeing eyes of the Great Goddess; and the big triangles represented the pubic triangle, another emblem of the Great Goddess. (293)

Dopo un pranzo e il vino che portano Hattie ed Edward verso un’intimità sessuale nuova ma non completa, il percorso prosegue attraverso una soglia ulteriore, un portale di pietra nel bosco, in una radura dove compaiono migliaia di gladioli neri screziati di rosa e rosso. L’iniziazione porta al confronto con l’Ombra, spazio di contenuti repressi e limen con l’inconscio collettivo e i suoi archetipi. Laura spiega con serenità che il nero è il colore della Grande Madre e simbolo di fertilità, rappresentata nelle sculture di esseri metà umani e metà animali che via via i visitatori scoprono in grotte e nicchie: una madre orsa amorosamente abbracciata al suo cucciolo, una madre serpente dipinta a strisce di bianco e nero, una donna uccello-serpente con una maschera di uccello che abbraccia un bimbo anch’esso mascherato da uccello, conchiglie, sculture di donne col seno nudo con grandi bacili per la pioggia - che nutre la terra come il latte materno i bambini - un’immagine accovacciata con grossi seni, ventre e glutei, la statua di un fallo eretto, vasi con serpenti dipinti o incisi e gocce d’acqua, infine una terracotta che rappresenta un serpente arrotolato in un corno di ariete, inciso di gocce d’acqua16

. Ogni personaggio reagisce diversamente a queste epifanie degli archetipi. Per Hattie questi simboli del

15

Marjia Gimbutas ha messo in rilievo la civiltà matrilineare, diffusa tra il settimo e il quinto millennio a.C. tra il Mediterraneo centro-meridionale e il Mar Nero, che venerava la Grande Dea, incarnazione del principio creativo come fonte di vita, mentre l’elemento maschile era visto come stimolo alla generazione della vita (Gimbutas 9).

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Per queste sculture si vedano le illustrazioni al testo di Gimbutas, in particolare nei capp. 4 “The Mask” e 7 “Mistresses of Waters: the Bird and Snake Goddess”, oltre al classico studio di Erich Neumann, The Great Mother.

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materno hanno valore probletico17 in un vero processo di individuazione che per ora le rivela la sessualità matura e un istinto materno che ha finora repressi, e la validità delle sue contestate ricerche sul ruolo femminile nella religione come emerge dai testi gnostici. La Madonna su un crescente di luna che calpesta un serpente le si palesa ora come una trasformazione della Grande Dea:

Hattie drifted off to sleep recalling the pictures and statues of the Blessed Virgin Mary standing on a snake. Catechism classes taught Mary was killing the snake, but after seeing the figures in the rain garden, she thought perhaps the Virgin with the snake was based on a figure from earlier times. (306)

Edward invece rifiuta ogni coinvolgimento trincerandosi dietro uno scarso interesse estetico e un’attenzione per la sola conservazione dei reperti, nel timore di un abbassamento dello status della cultura euroamericana, soprattutto agli occhi di Indigo, al livello di “adoratori di serpenti come gli Africani o gli Indiani” (304); la sua chiusura a vantaggio di interessi meramente commerciali lo porterà alla separazione da Hattie e alla distruzione. La piccola Indigo, ancora in età prepuberale, vede nelle sculture il ruolo femminile che la aspetta, è toccata dalle espressioni di amore materno e ritrova nelle immagini del serpente affinità con la sua tradizione tribale ed i racconti della nonna. In un sogno prima della partenza dall’Italia Indigo va alla sorgente nel deserto in cerca della madre e della sorella e il serpente le chiede di onorarlo: “She went to find Mama and Sister Salt at the spring but she found the big rattlesnake instead. “Where’s my corn pollen?” Snake asked, and Indigo woke up” (306).

Il viaggio nel Mediterraneo termina in Corsica, dove Edward va in cerca di cedri citrus medica, mentre Hattie ed Indigo assistono alle apparizioni luminose che si manifestano sul muro della scuola di un villaggio, in cui la devozione popolare, fortemente contrastata dai religiosi locali, vede la Madonna. La Grande Dea che si è manifestata nelle sue forme più antiche nel giardino di Laura prende ora la forma datale dal Cristianesimo. Lo sguardo innocente di Indigo coglie affinità transatlantiche tra queste immagini miracolose e le visioni di quando con la madre, la sorella e la nonna aveva partecipato alla Ghost Dance: “As the light changed, Indigo began to see tiny reflections glitter on the surface of the whitewashed plaster that she recognized as the flakes of snow that swirled around the dancers the last night when the Messiah appeared with his family.” (Silko 321) La misteriosa luce bianca che ha guidato i sogni di Hattie sin dal suo arrivo a Bath, dove ha scoperto una tradizione celtica ancora vivente (322), si manifesta ora agli occhi di tutti sul muro della scuola. Il confronto con gli archetipi del femminile opera una trasformazione nella psiche di Hattie, che troverà la forza di separarsi dall’uomo che l’ha sposata solo per interesse. L’incontro con i simboli della religione della Grande Dea la fa identificare con una

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“il simbolo probletico incrina l’equilibrio raggiunto, creando quella tensione, quel ‘dislivello energetico’ su cui il primo Jung tanto insisteva come causa profonda del divenire della personalità” Trevi p.21

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forza spirituale femminile eterna di cui parlavano i manoscritti gnostici dei suoi studi universitari, ben più vasta di quella rappresentata dalle statue della Madonna col Bambino che osserva al suo ritorno in America:

How false they seemed after the terra-cotta madonnas in Laura’s black garden. My Mother,

my Spirit – words form the old Gnostic gospels sprang into her mind. She who is before all things, Grace, Mother of Mythic Eternal Silence – after months in the oblivion of its shallow

grave, her thesis spoke to her. Incorruptible Wisdom, Sophia, the material world and the

flesh are only temporary – there are no sins of the flesh, spirit is everything! (Silko 452)

La trasformazione finale, che nel percorso d’individuazione porta alla morte del vecchio io, avviene dopo l’incontro con la morte in Arizona, dove ha ricondotto Indigo. Vittima d’ inaudita violenza razzista per la sua amicizia con le donne indiane, Hattie viene salvata da Indigo, che con la sorella e altre donne native celebra una cerimonia di Ghost Dance che la porta alla guarigione. Al termine della cerimonia la luce che nei sogni ha accompagnato Hattie attraverso la spiritualità europea si palesa nell’apparizione in cielo della stella del mattino. Dopo questa rinascita il nuovo io la porta ad abbandonare i genitori e la società americana e a tornare dalla zia a Bath, alle sue ritrovate radici celtiche. Indigo ha appreso in Europa le dinamiche del colonialismo che hanno segnato il suo destino (Huhndorf 191) e torna alla sua terra e alla sorella tanto desiderate condividendo la sua esperienza con la minuscola comunità nativa del deserto. Il lato positivo della sua esperienza si manifesta quando dai semi e dai bulbi di gladioli portati dall’Italia nascono piante e fiori che sono ad un tempo ornamento e cibo.

Silko è anche pittrice, e i suoi dipinti coloratissimi di una cavalletta del tipo chapulin18 sono parte del discorso del suo rapporto con l’aspra natura del deserto dell’Arizona ai margini del quale vive da due decenni, e che forma il discorso di sabbia, pietre, turchesi, cactus, serpenti, uccelli del memoir The Turquoise Trail (2011). Invitata in Italia nell’estate 2011 per un giro di conferenze, Silko è stata ancora ospite a Lucca nella villa dell’amica Laura Coltelli, dove ha dipinto un grande affresco che sembra riprendere e concludere il discorso sull’Italia di Gardens in the Dunes19. L’affresco a colori vivaci (che spiace dover riprodurre qui solo in bianco e nero) di S. Maria del Giudice iscrive una traccia, un discorso simbolico del rapporto nativo con il cosmo, che dipinto sulla parete esterna della casa apre un dialogo con la natura italiana. Leggendo l’affresco, che ha uno sfondo che sfuma dal lilla al violetto all’indaco, da sinistra a destra troviamo accanto ad una pianta di mais verde brillante su cui vola un uccello l’immagine antropomorfica di Sun God rappresentato secondo l’iconografia tradizionale dei Pueblos, il corpo nero che emerge da una

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In un suo mural a Tucson ora cancellato rappresentò il corpo di un grande serpente pieno di teschi, che continua il discorso drammatico di Almanac of the Dead. Ne rimane una fotografia nella raccolta di saggi Yellow Woman and a Beauty of the Spirit. Per le riproduzioni di Lord Chapulin cfr. The Kenyon Review.

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gonna marrone incoronato di piume, con una collana e bracciali di turchesi, i piedi calzati di bianco posano su una valle tra due montagne color lilla, la mano sinistra sembra reggere la testa di un grosso serpente di un bianco azzurrino che gli fa da cornice. Accanto a lui un insetto-persona, il corpo verde con un gonnellino color terra di Siena, spalanca le braccia, alla sua destra un cespuglio verdissimo su cui è posato un uccello grigio azzurro; anche questa seconda metà del dipinto è incorniciata da un grosso serpente di un bianco azzurrino. Silko iscrive il mondo nativo in quello italiano, riportando nel giardino della Lucchesia il serpente che abbiamo visto accomunare i culti nativi americani ed europei in un dialogo transatlantico. Della Lucca reale e del borgo di Santa Maria del Giudice dove è la villa di Laura ha anche tracciato un garbato schizzo apparso su The Daily Beast in Newsweek, in cui ricorda le lodi di Henry James dell’incanto dell’appennino, la storia di guerre medievali immortalata ne La battaglia di San Romano di Paolo Uccello e si mostra intrigata nelle sue esplorazioni dalla storia che resta nelle bellissime mura che cingono Lucca.

Joy Harjo e il Campo dei miracoli.

Joy Harjo, poetessa e musicista di origini muskogee, impegnata in un discorso ad un tempo tribale, postcoloniale e cosmopolita, è stata invitata diverse volte in Italia per performances musicali e poetiche e in occasione delle pubblicazioni delle sue opere20. La sua poesia, tra discorso orale e scrittura, parla spesso di confini, culturali, spaziali e temporali (Coltelli 2005), argomenti che si ritrovano nelle sue poesie ispirate al viaggio in Italia. Pubblicata nel 1990 “The Field of Miracles” prende il titolo dal Campo dei miracoli di Pisa, ma spazia nella memoria tra l’Italia e New York seguendo il flusso dei pensieri evocati da una foglia rossa che la riporta a Brooklyn e ad una storia d’amore interrotta “In Pisa, Italy, it all came back to me: the leaf a codex for a season of memory.” (55) Così la torre pendente che nella notte si staglia al chiaro di luna è una inattesa epifania, un simbolo liminare, con la sua mole marmorea sospesa nella storia come la mente della poetessa, nella “spiral of memory” che la situa in un tempo in cui il passato è anche presente:

Nothing prepares you for the Leaning Tower in the moonlight and it will always be the unanswered question in the field of miracles. The field of miracles is a question, as all the stunning marble beckons you toward history, the tower caught on the edge of some unseen

2020

Con furia d’amore e in guerra (Urbino: Quattroventi 1996), Segreti dal Centro del mondo (Urbino: Quattroventi 1992), Lei aveva dei cavalli (Roma: Sciascia 2001) sono state tradotte da Laura Coltelli, che ha curato le interviste con Harjo in Winged Words e The Spiral of Memory . Piste perdute, piste ritrovate a c. di Franco Meli (Milano: Jaca Book 1996) e Un cielo di mica a c. di I. Tattoni e trad. it di A. Franceschi (Viterbo: Fuoricentro, 2009) è la traduzione di due racconti.

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15 boundary between then and now.” (Harjo 55).

Altra esperienza italiana inattesa, non visiva ma acustica, è il suono delle campane pressocché scomparso in America “The mystery of bells startling me throughout Italy” (56). La vicinanza di Genova è una sorta di fantasma impressionante “Genova staggered north of there”, punto di partenza per un viaggio verso l’ignoto, ai confini del mondo, che riporta al discorso della colonizzazione delle Americhe: “Did Columbus say good-bye as he set off to test the limits of the edge of the world? What did he expect to find?” (56) e una comune cifra interpretativa lega l’unicità della torre di Pisa e l’impresa del navigatore: “I could see Columbus and his teetering ships setting off with such/ bravado, the same bravado that created the Leaning Tower” (56). Infine il ricordo della musica di una banda d’Indiani boliviani ascoltati a Brooklyn oblitera i confini e tutto si fonde: Pisa, Genova, Venezia, New York, Colombo, la colonizzazione:

I heard them first, in

that park in Brooklyn as we picked up the leaf, from the Bridge of Sighs, and then here at the edge of the world the place Columbus brought with him, pulled behind him, the Leaning Tower caught on the undertow. (56)

finchè alla fine della poesia “field of miracles” diventa la vita stessa “the field of miracles, where we are living and dying, making love/ and killing each other.” (57) Un senso di confini obliterati permea anche “Witness” (Harjo 1994) ispirata a Lucca, significativamente identificata solo alla fine della poesia, che si apre: “I walk the streets of a town in Italy”, lasciando al lettore di riconoscerla attraverso cenni ad una piazza, a una torre, alle mura. Questa indeterminatezza crea la possibilità di muoversi tra mondi diversi, quello della realtà di una passeggiata notturna in una città storica e quello dei ricordi personali in una realtà lontana, che emergono dal passato in New Mexico. Anche qui la voce poetica si situa in uno spazio liminare e notturno in cui storia e storie, passato, presente e mito si giustappongono:

We could walk through walls eventually by faith and could all along, As misty forms passing through myths no one would believe:

Rivive la storia dell’ anfiteatro romano su cui è costruita la piazza omonima “At night the walls of the amphitheater flutter with shadows of lions and Christians.” (41) ma la realtà intorno trasforma la storia in vita quotidiana “the tragic heroine becomes the trickster caught in the circle of obscenity” quando vede in una stradina una donna

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alla finestra che raccoglie il bucato aggiustandosi la spallina del reggiseno, in un presente in cui tutto convive; il rumore delle stoviglie nelle strade con le affissioni di annunci funebri che fanno sentire il sussurrare dei morti nel vento, tutto coesiste nell’immaginario e nel testo poetico:

every street leads to the center of town which is an imaginary house with a table set for fools. The newly dead lean at the win- dows, caught by the clatter of knives and forks;

La passeggiata porta alla torre dei Guinigi sovrastata da querce che ne segnano il destino:

We approached the tower sheltered by perpetual oaks: the Guinigi family will disappear if the magic isn’t watered, so the roots are soaked and water makes a pool at my feet.

Poi la notte, il vento, le stelle portano al New Mexico e al ricordo di una donna indiana trovata assassinata dieci anni prima, il vento di Lucca è quello di allora, le stelle sono le stesse che scortarono la donna verso un'altra vita:

I taste the same wind. The stars were witness, I have seen them above us as sisters, her escort to another life, though tragedy would place them behind an eclipsed moon, searching the alleys for scraps of food (Harjo 41)

I profumi della notte di primavera fanno pensare alla rinascita della natura dalla morte: “I can smell spring everywhere as it erupts in the bowels of death” e tornano altri ricordi notturni, di un incidente d’auto che uccise una persona amata nel Sud Ovest “a night like this one when you can put your arms over the shoulders of the closest stars and laugh together”(Harjo 42), alleviato dal racconto di una notte in auto, tra amiche, ad Albuquerque e di una burla all’ottusa e razzista polizia locale. Infine la poesia torna alla realtà di Lucca, nominandola per la prima e unica volta, chiudendosi con l’apparizione surreale di un vecchio burattinaio:

Around midnight the puppet-maker appears exactly in time, in a Room of white washed adobe, the only light on in Lucca. (Harjo 42)

Sospeso tra Lucca e il New Mexico cui richiama l’adobe, l’uomo danza ogni notte con la marionetta che raffigura la sua antica amata, in una scena da libretto d’opera “An Italian libretto provides the curve” (qui si evoca il lucchese Puccini), piangendo e ridendo mentre il tempo si dilata e le mura diventano erba “The walls constructed for defense around the town turn to grass.” (Harjo 43). “Witness” si conclude, come spesso le poesie di Harjo, con una “coda” in cui riprende la storia della colonizzazione delle Americhe: “The Indian wars never ended in this country. We

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could date them as/ beginning with contact by Columbus, an Italian hired by the Spanish/ court to find the land of spice and gold.” Poi ripercorre la storia dell’oppressione dei Nativi fino al movimento per i diritti civili quando l’odio dell’Altro internalizzato dai colonizzati si trasformò nella consapevolezza della “beauty in our difference”, e il discorso si chiude con il ricordo dell’impegno degli Indiani per ricostruire un senso di comunità e di appartenenza alla terra, nel senso della speranza “the thick of plans for the new world” (43).

5. Diane Glancy, cartoline dall’Italia e un Cristo nomade.

Di discendenza tedesca e cherokee, cristiana evangelica, Diane Glancy ha sperimentato vari generi letterari, poesia, racconto, saggio, autobiografia, romanzo storico, teatro. Voce dal margine della sua incerta identità,21 ha molto viaggiato per insegnare scrittura creativa e tenere conferenze, sia negli Stati Uniti che all’estero (Europa, Egitto, Siria), aprendosi a una dimensione di nomadismo, di migrazione, in cui ha trovato il suo spazio, come ha spiegato in un’intervista:

“There is something about being on the road by myself….It’s in the process of moving over the land that I find place…. In a sense of travel, in a sense of migration, in a sense of movement over the land, is where there is a solid place.” (McKay 175).

I suoi racconti migrano “between connectives and disconnectives.” (Preface Glancy 1999 vii) con una frammentarietà stilistica che vuole riflettere il contesto frammentario della vita nativa. Il nomadismo come particolare angolazione dello sguardo nativo si coglie nei suoi racconti di argomento italiano, che mettono a fuoco in modo assolutamente originale le città d’arte e soprattutto l’arte a soggetto religioso e il cattolicesimo. Un accenno a Tintoretto è nel racconto “Animal (Trans)formation” (Glancy 1993), una riflessione sul rapporto tra persone e animali che prende inizio dalla curiosa somiglianza con un profilo da lama - occhi enormi in una testa lanosa - di una giovane soldatessa della base militare aeronautica di Oklahoma City. La sera nel parco, guardando il cielo, la soldatessa Frieda scambia i suoi racconti con l’amica che è la narratrice; parla dei suoi viaggi e di spedizioni spaziali, vede gli animali nelle costellazioni, l’altra parla del mito nativo americano secondo cui le stelle caddero dal cielo roccioso di cui erano parte e dove vivevano gli animali, poi il topo muschiato si tuffò negli abissi della acque primordiali per

riportarne una manciata di terra dalla quale ebbero origine il mondo e gli uomini. Dalla cosmogonia nativa il racconto passa poi a quella cristiana come rappresentata da Tintoretto ne “La creazione degli animali” alle Gallerie dell’Accademia, in una cartolina che la soldatessa ha inviato all’amica. Lo sguardo sullo spettacolare dipinto è descritto con cura nel dialogo, in cui la donna mette in risalto la luce che emana dall’immagine di Dio e si sofferma a commentare le particolari raffigurazioni degli animali a lei familiari, avvicinandolo con semplicità al suo mondo:

In Tintoretto’s painting God is barefooted, in an ankle-length dress and a shawl glowing like light. Creating the beasts. You know I’m not the first to say this. Even a dog lapping the ocean. You think we could drink it once? A rabbit with longer legs than the rabbit in my backyard has now. Another animal or mammal. A mananimal. Or womananimal. With

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Il nonno cherokee lasciò la tribù ed il padre non fece mai cenno della sua discendenza nativa, recuperata dalla poetessa in età adulta; cfr. sul senso di marginalità e di in-betweenness le sue poesie “Iron Woman” e “Hides”

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ears like two eagle feathers. Maybe God was still trying to decide you know. Still trying things out. And he took the ear feathers off the rabbit and made an eagle to put them on. Who knows. All that light in his way. His bare feet not even touching the ground. The tire-lipped fish in the ocean. The birds flying over the water, the turkeys, and other large-bodied birds. Like those cars of the fifties with their fins…(“Animal (Trans)formation” 137)

L’altra le parla della sua esperienza militare in Kuwait e degli animali dello zoo feriti o uccisi durante l’invasione. Così dal Kuwait, a contrasto con l’orrore della guerra, aveva inviato all’amica la cartolina con il dipinto di Tintoretto, immagine di un mondo delle origini in cui gli animali si preparavano ad accogliere gli umani, e da cui essi si sono invece drammaticamente allontanati. Il viaggio di Glancy in Italia nel 1995 per leggere sue poesie e racconti è stato molto breve, ma ha lasciato traccia in due interessanti racconti, “Badlands” e “There He is Again. Un’immagine surreale di Venezia non legata all’arte, ma straordinaria città sulla laguna, è al centro del racconto “Badlands”, in cui un’insegnante prepara gli studenti indiani di una scuola della riserva lakota di Pine Ridge, South Dakota, per una gara di oratoria con gli studenti bianchi di un liceo lontano. Per settimane ragazzi e ragazze si cimentano con il tema, le Badlands e Venezia. I ragazzi, che non hanno mai visitato le Badlands, ne studiano ed espongono la geologia, i fossili, le tipiche formazioni rocciose a denti di sega derivate dall’erosione dei venti e delle acque, che per una studentessa

ricordano i segni dei morsi di un cane su un osso. Finché al torneo, preparati come ad una battaglia contro il nemico colonizzatore, una ragazza dà voce alla storia che hanno messo insieme, “Maka Sicha. The Badlands”: le Badlands sono soprattutto una terra senza storie, arida perché nessuno le ricorda. Con la loro storia i ragazzi ora compiono una cerimonia che dà vita e voce a quelle terre desolate, ed inaspettatamente l’immagine di Venezia e delle sue acque e canali viene sovrapposta al paesaggio delle Badlands in una fusione visionaria che gli dà nuova vita:

“But when the sun comes through the dust, just before dark, there’s a haze. You can see the ghost dance of gondolas with their flags rippling the wind. You can see the streets of water in the Badlands. Only those who remember their stories can see….our words fill the gullies and valleys with water. Our words are the boats that float there.”(Badlands (Glancy 1999:14)

“There He Is Again” mette in scena una coppia di turisti indiani americani che commentano il loro viaggio a Roma, Firenze e Venezia. Scritto dopo il viaggio in Italia, il racconto offre uno sguardo inatteso sull’arte italiana e i suoi soggetti religiosi. L’incipit del racconto porta subito nella dimensione della contemplazione religiosa, alle cellette del Convento di San Marco a Firenze affrescato dal Beato Angelico; poi lo sguardo è preso dalla suggestione delle immagini di Cristo che sembrano onnipresenti nel suo viaggio in Italia (“eccolo di nuovo” del titolo), sino a vedere un Cristo nomade, in giro per l’Italia:

There were the monks’ cells at San Marco in Florence I would remember I said. The rooms cold and drafty in the north of Italy. The walls austere but for the frescoes by Fra Angelico. About the Man who tours Italy. On a donkey. With His Mother. On the Cross. He shows up every town. Lifting His arms. Standing on His toes for as long as He can. The red holes in His hands. The blood-drops on His side.

Everywhere. Him Born. Crucified. (“There He Is Again” 83)

La realtà dei luoghi ben identificati - il museo di San Marco, il Lungarno, Ponte Vecchio, il ristorante Pentola dell’oro e il suo menu, il nome delle strade (via dei Georgofili e un cenno alla strage), i dipinti di Giovanni da Bologna e di Michele Giambono a Venezia, la Cappella Sistina – è

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solo una delle dimensioni in cui la donna si percepisce; l’altra, quella interiore, è risvegliata da una particolare percezione della vicinanza del sacro attraverso i soggetti religiosi che si ripetono nei dipinti: “The whole landscape of the Bible we carry in our imagination is painted here in Italy.” (85) In particolare le immagini di Cristo che vedono ovunque, creano una suggestione che gliele fa sovrapporre alla vita italiana nella sua quotidianità, in immagini di grande originalità ed ironia: Christ in Rome. Venice. Florence.

Christ on his motorcycle.

Christ dragging the heavy cross behind Him. Christ hydroplaning.

Wearing Italian leather. Christ in the Holy Rubble. (84)

E’ una suggestione che suscita nella donna il bisogno di avvicinarsi di più al Cristo e man mano la allontana dal marito, che mantiene uno sguardo distaccato, da turista, e ricorda per contro la

resistenza di tanti Indiani all’opera dei missionari. Il viaggio in Italia che le ha fatto vedere in Cristo “The Man Whose Name Was Travel” diviene per la donna la scoperta della necessità di una fede più profonda cui aggrapparsi.

L’Umbria di Luci Tapahonso, un’aura familiare.

L’attenzione al paesaggio umbro nasce dai seminari estivi a Spello cui Gaetano Prampolini dell’Università di Firenze ha invitato diversi poeti nativi. Le colline disseminate di ulivi e coltivi, le cittadine medievali, il cibo genuino, hanno ispirato la poetessa Diné (navajo) Luci Tapahonso a comporre una lunga poesia su “The Festival of the Onion” pubblicata in una raccolta del 1998. Come è caratteristica di Tapahonso, la poesia ha il tono del racconto orale, della conversazione. Si apre con la luce velata del mattino autunnale, il canto dei galli che risveglia echi familiari, e la gioia di bere un buon caffè italiano

Fall mornings in Umbria are veiled with dew.

Roosters awaken the dawn. I hadn’t heard that wake-up call since childhood.

La natura sembra avere un carattere familiare tale che la poetessa si sente come a casa “I breathe the crisp air and thank the Holy Ones.” Anche la cittadina, con le antiche vie strette tra le mura dei palazzi e le case avite in cui si succedono le generazioni, dà il senso familiare di una comunità legata alle tradizioni, che da secoli vive in armonia con la terra:

Walls are worn smooth from the handiwork of families over the ages. The round corners and the slight indentations convey

The tenderness of home and long-ago grandparents.

La poetessa, originaria dell’Arizona, riconosce la stessa atmosfera di allegra confusione delle feste navajo nella sagra della comunità di Camerino che assapora le cipolle nuove: “It was like a

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tavolata e della cena succulenta, con l’aneddoto del poeta Scott Momaday che col suo ritardo genera un momento di panico nell’ospite, conclude la poesia.

N. Scott Momaday, aure umbre.

Al paesaggio umbro è dedicata anche la poesia di Scott Momaday “Of Morning in Spello”, pubblicata nel 2011. Il famosissimo scrittore kiowa ha viaggiato molto in Europa ed è stato ospite del suo traduttore Gaetano Prampolini, che a Spello vive nella casa avita. La poesia ricorda il risveglio da un sonno pesante e senza sogni, con la luce brillante del mattino che gli rivela cipressi, uliveti e campi coltivati in cui la pietra delle costruzioni s’inserisce naturalmente. In questa armonia tra uomo e natura il poeta non è più uno straniero, sente il suo spirito entrare in sintonia e illuminarsi della luce del sole fino a divenire parte della luce stessa e del verde delle piante

I am myself an essence, A green splinter of the sun.

In questa partecipazione nel paesaggio anche il semplice atto di mangiare un frutto maturo o di passare davanti a una casa con un annuncio funebre acquistano una dimensione cosmica, il poeta non è più spettatore ma è tutt’uno con l’ aria e nella luce:

I shall be glad to inhabit The thin invisible air,

The bright prism of summer. (p. 104) Simon Ortiz

Un discorso postcoloniale è al centro di otto poesie raccolte sotto il titolo “What Indians?” di Simon Ortiz. Poeta pueblo di Acoma particolarmente impegnato in un discorso postcoloniale che da sempre rivendica la capacità dei Nativi di trasformare lingua e cultura imposte in qualcosa di proprio e di nuovo22, Ortiz le ha recitate durante la manifestazione “Ceremonial” alla Biennale di Venezia del 1999, che ha visto la partecipazione sua e degli artisti nativi Harry Fonseca, Bob Haozous, Frank LaPena, Jaune Quick-To-See Smith, Kay WalkingStick, e Richard Ray Whitman23. Queste poesie non sono di argomento italiano, ma danno voce a un discorso dall’Italia, indirizzato all’Italia e allo spazio globale rappresentato dalla Biennale. Insieme costituiscono una sorta di manifesto che demistifica con durezza ma anche con umorismo il discorso euroamericano sugli Indiani. Ortiz accomuna tutte le popolazioni indigene che con la colonizzazione hanno subito ”the loss of a sense of a centered human self and the weakening and loss of Indigenous cultural identity” (“What Indians?” 45) e demistifica il nome inventato, che assieme agli stereotipi

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Cfr. di chi scrive “Speaking for the Generations: lingua delle origini e poesia native americana” 23

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immaginari dei film western ha cancellato le differenze tribali e nascosto la realtà della vita nativa, asserendo con ripetizioni martellanti

There are no Indians. there are no real Indians. There were never any Indians.

There were never any Indians.” (“Greatest Believers Greatest Disbelievers” 48)

L’imposizione ha portato all’introiezione di tale discorso da parte degli stessi nativi americani (“Even ‘the Indians’ Believed”: 51); è necessaria ora l’affermazione di un’uguaglianza umana che cancelli un’invenzione e riconosca le persone: “we/they are people just like you just like me” (“Always just Like You just Like Me” 54).

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