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Il percorso storico della polizia in Italia. Dal periodo fascista alla legge 121/1981

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INTRODUZIONE

Il presente elaborato ha il fine di analizzare la storia della Polizia di Stato dagli albori alla legge di riforma del 1981, con particolare riferimento al periodo fascista e all’istituzione del Corpo della Polizia dell’Africa Italiana (PAI), destinato ad operare nelle colonie.

Il percorso, non privo di ostacoli, ebbe inizio nel 1848 con l’istituzione, nel Regno di Sardegna, dell’Amministrazione della pubblica sicurezza prima e successivamente, nel 1852, del Corpo delle Guardie di pubblica sicurezza, di cui la Polizia di Stato è erede naturale.

Si è trattato di un percorso caratterizzato da un continuo rinnovamento morale e istituzionale, nel corso del quale la polizia ha più volte modificato la propria denominazione, fino ad arrivare alla Polizia di Stato come la conosciamo noi oggi.

Sulla storia della polizia le fonti sono alquanto limitate e spesso lacunose ragione per cui la scelta bibliografica è ricaduta su alcuni testi, ritenuti significativi per lo scopo.

L’elaborato è stato suddiviso in quattro capitoli. Il primo capitolo affronta il tema «polizia» nel periodo preunitario allorquando le politiche di sicurezza si caratterizzavano per la forte limitazione della libertà personale attuata senza processi e condanne1. Questa situazione, che si protrasse sino all’ultimo decennio del XIX secolo, incoraggiò l’uso della forza durante gli scioperi e le manifestazioni. La condotta illiberale degli apparati di polizia e «l’immagine dello sbirro legata alle sue attività segrete e all’uso di confidenti»2

, incrinarono irrimediabilmente il rapporto tra le istituzioni e la società civile, per cui anche quando, alla fine del XIX secolo, fu avviato un processo di cambiamento sia nella gestione della sicurezza pubblica, privilegiando il ricorso al dialogo prima di autorizzare l’uso della forza nelle manifestazioni, sia nell’organizzazione interna della polizia, che arrivò anche ad applicare «metodologie scientifiche» per combattere il crimine3, i rapporti tra polizia e cittadino rimasero sempre critici.

D’altra parte la legislazione sulla sicurezza era espressione di un apparato di polizia repressivo che utilizzava l’ammonizione e il confino per colpire quanti, oziosi e vagabondi, vivevano ai margini della società e la «famigerata legge Pica»4, che era stata varata per fronteggiare il brigantaggio nel meridione, fece della repressione «la regola sanzionata dal diritto»5. Intanto con legge n. 7321 del

1

M. BONINO, La polizia italiana nella secondo metà dell’Ottocento, Roma, Laurus Robuffo, 2005, p. 52.

2 J. D

UNNAGE, Problematiche nella gestione della pubblica sicurezza a fine Ottocento e inizio Novecento nella

provincia di Bologna, in L. ANTONELLI - C. DONATI (a cura di), Corpi armati e ordine pubblico in Italia (XVI-XIX

sec.), seminario di studi, Castello Visconti di San Vito Somma Lombardo, 10-11 novembre 2000, Soveria Mannelli,

Rubbettino, 2003, pag. 269

3 Ivi, p. 269-270

4 http://www.sba.unifi.it/CMpro-v-p-567.html «Legge 15 agosto 1863 n. 1409 colla quale sono date disposizioni dirette

alla repressione del brigantaggio». (visto il 5.07.2014)

5 R. C

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2

21 dicembre 1890 il Corpo delle Guardie di P.S. assunse la denominazione di Corpo delle Guardie di Città, mantenendo gli stessi compiti nelle città e lo stesso personale6, sempre alle dipendenze dello Stato centrale7.

Il secondo capitolo, dal titolo «La Polizia durante il fascismo», affronta il tema dell’evoluzione della polizia durante il periodo indicato. Terminato il primo conflitto mondiale, la necessità di fronteggiare le turbolenze sociali e il timore del bolscevismo spinse Francesco Saverio Nitti, che non voleva affidare in esclusiva ai Carabinieri la gestione dell’ordine pubblico, a dotare il Ministero dell’Interno di un corpo di polizia efficiente8

: la Regia Guardia della pubblica sicurezza (1919-1922) a ordinamento militare, preposta per lo più al contenimento dell’ordine pubblico e il Corpo degli Agenti di investigazione (1919-1922) destinati «al servizio della prevenzione e della repressione dei reati e per la ricerca dei delinquenti»9 nonché ad ulteriori servizi tecnici. La particolare attenzione riposta dal Governo verso la Regia guardia, presentata agli occhi delle masse come un corpo di polizia più efficiente e per la quale non badò a spese, suscitò il malumore tra quanti appartenevano agli altri corpi e, più in genere, agli esponenti degli ambienti conservatori italiani10. Non ebbe sorte migliore neppure tra i fascisti che riversarono il loro disprezzo sulla Guardia Regia, rea di essersi opposta con fermezza ai disordini accaduti a Sarzana e a Modena, allorché aveva fatto uso delle armi nel corso delle manifestazioni di fascisti11. Così con decreto del 31 dicembre 1922 n. 1680 furono soppressi la Regia Guardia e il Corpo degli Agenti di Investigazione e furono licenziati quanti non trovarono posto nel ruolo specializzato dei Carabinieri Reali, istituiti con decreto ministeriale del 23 marzo 1923, divenuti l’unica forza armata di pubblica sicurezza12, pur rimanendo la direzione dei servizi di O.P. nelle mani del Ministro dell’interno. Ma anche questo ruolo ebbe una breve esistenza, tanto è vero che fu sciolto nel 192513, allorché, venne ricostituito il Corpo degli Agenti di pubblica sicurezza (1925-1944), a status civile ma

6

L. DONATI, La guardia regia, in “Storia contemporanea” rivista trimestrale anno VIII n. 3 – settembre 1997 Il Mulino Bologna, pp. 442-443

7

F. CARRER, La Polizia di Stato a trent’anni dalla legge di riforma, Milano, FrancoAngeli, 2014, p. 12. L’Autore sostiene che «con tale legge si tentò di unificare in un unico corpo le guardie di P.S. e le guardie comunali allo scopo di evitare lo spreco e la dispersione connesse alla presenza di due diversi corpi nella città. I Comuni, però, avvertendo la legge come un attentato alla loro autonomia, la osteggiarono fortemente, così che di essa non rimase che l’articolo 19, “per il quale il ministro dell’Interno, per gravi motivi di ordine pubblico, avrebbe potuto sopprimere in un Comune la guardia comunale, affidandone le funzioni alle guardie di città».

8

L. DONATI, op. cit., pp. 445-447.

9 http://www.poliziadistato.it/articolo/1459-Dal_1919_al_1925/ (visto il 25.07.2014). 10

L. DONATI, op. cit., p. 455.

11

Ivi, pp. 468-470.

12 Gli ufficiali che vi transitarono persero l’anzianità di servizio accumulata durante gli anni prestati nella Regia guardia, ivi, pp. 480-481.

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3

organizzato militarmente, con funzioni di investigazione politica e con la possibilità di assoldare confidenti e di piazzare infiltrati prezzolati nei gruppi di opposizione14.

L’ascesa al potere di Mussolini fu accompagnata dalla presenza di una polizia segreta, di partito, denominata Ceka, con lo scopo di garantire la sicurezza del regime ma destinata a venir meno con l’assassinio di Matteotti.

Lo scioglimento del Corpo della Regia Guardia favorì la nascita della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale (MVSN), creata con regio decreto n. 31 del 14 gennaio 192315.

I quattro attentati ai quali era sfuggito Mussolini gli suggerirono di nominare Capo della Polizia, Arturo Bocchini, che ricoprì quell’incarico per 14 anni, 2 mesi e 7 giorni16

, rivelandosi «un perfetto servitore del regime che lo aveva portato all’alta carica»17

. Sul finire del 1927, Bocchini creò nell’ambito della polizia la prima cellula dell’OVRA: un «Ispettorato speciale di polizia» formato da funzionari e agenti abili nell’investigazione. Il significato del termine OVRA, tuttora nebuloso, ebbe come effetto quello di circondarlo di un alone di mistero, intimorendo i cittadini e sortendo l’effetto sperato da Mussolini che così si esprimeva «…Lasciamoli arzigogolare, concediamo loro il privilegio di interpretare come meglio credono queste quattro lettere, evitiamo di appagare la loro curiosità e otterremo il risultato di incutere in ognuno una sacrosanta paura. E più avranno paura, più se ne resteranno tranquilli»18.

Questo organismo, finalizzato al controllo degli antifascisti in Italia e all’estero, godette della collaborazione non solo di tutti gli uffici politici delle questure e degli uffici di P.S. delle frontiere ma anche della milizia e dei militari.

Basata su confidenze private, questa struttura avvelenò ancor di più la vita politica diffondendo il sospetto e la diffidenza19.

Con il 1931 «la serie dei successi dell’OVRA si esaurì per mancanza di materia prima»: il regime si era ormai affermato e l’antifascismo, esule all’estero, era controllato dagli infiltrati20. L’OVRA venne meno con la caduta del fascismo il 25 luglio 194321.

Con il terzo capitolo, dal titolo «La Polizia dell’Africa Italiana», l’attenzione si sposta su questo Corpo di polizia coloniale nato per garantire, con la nascita dell’Africa Orientale Italiana, la

14 F. C

ARRER, op. cit., p. 14 e http://www.poliziadistato.it/articolo/1459-Dal_1919_al_1925/ (visto il 25.07.2014) e M. FRANZINELLI, I tentacoli dell’OVRA, 2000, Torino, Bollati Boringhieri, p. 22.

15 www.regioesercito.it/milizia/mvsnrd1.htm visto il 25.08.2014. 16

Dal 13 settembre 1926 al 20 novembre 1940 in http://www.poliziadistato.it/articolo/1484-Arturo_Bocchini/ (visto il 13.09.2014).

17 R. C

ANOSA, op. cit., p. 78

18 F. F

UCCI, Le polizie di Mussolini. La repressione dell’antifascismo nel «ventennio», Milano, Mursia , 2001, p. 132.

19

R. CANOSA, op. cit., p. 83. M. FRANZINELLI, op. cit., XIII Introduzione dice che gli informatori potevano denunciare

impunemente chiunque poiché rispondevano di quanto riferito solo per dichiarazioni false rese in mala fede. Gli italiani si trovavano così ad essere controllati da individui «ricattati» e «prezzolati».

20 F. F

UCCI, op. cit., p. 173. 21

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convivenza di quanti, terminata la guerra e smessa la divisa, avevano deciso di stabilirsi in quei luoghi e integrarsi con la popolazione locale. La PAI era un corpo civile, organizzato militarmente, annoverato tra le forze armate e dipendente dal Ministero dell’Africa Italiana22

. Aveva come compiti quelli di sovrintendere all’integrità dei confini; di garantire l’osservanza delle leggi, dei regolamenti, delle ordinanze; di assicurare il rispetto delle religioni e dei costumi; la tutela del lavoro e della proprietà; la sicurezza e l’incolumità pubblica e comunque qualsiasi altra funzione demandata dal Ministero dell’Africa Italiana23

.

Il reclutamento avveniva di regola tramite concorso. Della PAI facevano parte anche gli Ascari e le Guardie libiche. Per fronteggiare talune necessità di ordine pubblico la PAI si avvaleva delle Bande. Questo Corpo si distinse da tutti gli altri non solo per l’elevata preparazione culturale, tecnica e professionale, ma anche per la logistica, l’equipaggiamento, l’armamento e il vestiario.

Caduto il fascismo i battaglioni della PAI furono richiamati a Roma dove svolsero compiti di ordine pubblico e di difesa degli obiettivi sensibili24, intervenendo in più occasioni per reprimere i saccheggi, le rapine e il mercato nero25. Molto limitata fu la partecipazione della PAI alla lotta contro i partigiani, mentre si può ritenere corretto sottolineare il contributo di questi militari alla lotta della Resistenza26. Con decreto del 15 febbraio 1945, la PAI fu sciolta.

Il quarto capitolo affronta l’ultimo stadio dell’evoluzione della polizia. Militarizzata da Badoglio con regio decreto legge 31 luglio 1943 n. 687, la polizia, pur rimanendo alle dipendenze del Ministero dell’Interno, fu integrata tra le forze armate.

Con la caduta del fascismo e la ricostituzione dei partiti e dei sindacati, la piazza tornò ad animarsi. Gli anni successivi, dal 1948 al 1951, furono caratterizzati dalle «cariche indiscriminate contro cortei, arresti in massa», quando non addirittura dall’uso delle armi da parte delle forze dell’ordine per contenere le manifestazioni di braccianti, contadini e operai.

La militarizzazione attuata da Badoglio garantì, in un momento di «conflittualità permanente» una forza da utilizzare contro le masse popolari in piazza e nelle fabbriche27.

Dal febbraio 1947 al luglio 1953, Scelba fu di nuovo ministro dell’Interno e utilizzò la polizia in chiave antidemocratica. La «sua» polizia si caratterizzò per la durezza con cui venne represso il dissenso arrivando persino a far uso delle armi contro la folla inerme28.

22 Art. 2 r.d. 10 giugno 1937 n. 1211. R. G

IRLANDO, PAI Polizia Africa Italiana 1936-1945 Storia-Uomini-Gesta, Foggia, Italia Editrice, 2013, p.12.

23 R.G

IRLANDO, op. cit., pp. 39-41.

24 P. C

ROCIANI, La polizia dell’Africa Italiana (1937-1945), Roma, Laurus Robuffo, 2009, p. 176.

25 Ivi, p. 196. 26

La scarcerazione dal carcere di «Regina Coeli» dei due futuri Presidenti della Repubblica Giuseppe Saragat e Sandro Pertini, attraverso falsi documenti, poté concretizzarsi solo grazie alla telefonata fatta alla Casa Circondariale da un Ufficiale della PAI che garantì la genuinità di quell’ordine di scarcerazione. Ivi, pp. 201, 202.

27

A. BERNARDI, La Riforma della Polizia. Smilitarizzazione e sindacato, Torino, Einaudi, 1979, p. 8

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Gli anni della contestazione studentesca e delle manifestazioni operaie videro la polizia far ricorso ai manganelli per sgomberare le facoltà occupate, e degli idranti per liberare le piazza.

Tra il 1969 e il 1981 nella polizia regnava dunque un ampio malessere. Prese piede e si diffuse a macchia d’olio un Movimento il cui obiettivo era realizzare la smilitarizzazione della polizia e la creazione di un sindacato che desse voce a chi fino a quel momento era rimasto ai margini di una società che considerava il poliziotto come un corpo estraneo, mostrandosi insensibile a suoi problemi di lavoratore29. I «carbonari», come solevano definirsi i primi aderenti al Movimento, si riunivano nottetempo, decidendo l’incontro all’ultimo momento, proprio per evitare possibili «soffiate». La clandestinità garantì la sicurezza agli affiliati30. Con il 1974 si aprì una stagione di incontri tenuti nelle fabbriche e nelle scuole a cui parteciparono gli esponenti del Movimento che, per la prima volta, si presentarono davanti a studenti e lavoratori «senza scudo, senza manganello, senza lacrimogeni»31. Cominciava così a incrinarsi il divario tra poliziotti e lavoratori.

Il successo maggiore si ebbe il 21 dicembre 1974 allorché a seguito della riunione tenutasi presso un albergo romano, ove confluirono duemila partecipanti venuti da ogni parte d’Italia, fu nominato un comitato nazionale di coordinamento dei comitati di base che si costituirono nelle varie città. Il tema della riforma era ormai di dominio pubblico32. Il Movimento uscì dalla clandestinità33.

Nell’ottobre del 1979 iniziò la discussione sui dieci progetti di legge presentati dal governo e dalle varie forze politiche finché il 25 marzo 1981 fu approvato il testo definitivo della legge di riforma34 a seguito della quale il Corpo delle Guardie di P.S., denominazione questa assunta dalla polizia nel 1944, venne soppresso e il personale poté transitare nella Polizia di Stato.

Il 1 aprile 1981, la legge n. 121 sul Nuovo ordinamento dell’Amministrazione della pubblica sicurezza, pubblicata sulla gazzetta ufficiale del 10 aprile 1981 n. 100, diventava legge dello Stato35.

29 Ivi., pp. 64, 65 30 A. S

ANNINO, Le forze di polizia nel dopoguerra, Milano, Mursia, 2004, p. 189.

31

Ivi, p. 199

32 Ivi,, pp. 207, 212 33 A.B

ERNARDI, op. cit., p. 80

34 F.C

ARRER, op. cit., p. 33

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CAPITOLO 1

La Polizia di Stato dalla nascita (1852) a fine 800

1. La sicurezza nella penisola preunitaria.

Nel periodo preunitario non esistevano ancora veri e propri corpi di polizia nell’accezione che gli attribuiamo nella contemporaneità36. All’inizio dell’Ottocento «facevano parte della forza pubblica: Carabinieri Reali, Guardie di Città, Guardie forestali, Guardie di Finanza, Guardie carcerarie, Guardie campestri, daziarie, boschive e altre dei Comuni»37.

Le funzioni di polizia venivano esercitate da amministratori civili, mentre l’esercito veniva impiegato non solo in guerra, ma anche per sedare possibili sommosse e, quindi, per assicurare l’ordine pubblico38

. Nei diversi Stati della penisola italiana del primo Ottocento, i vari corpi di polizia esistenti erano strutturati sulla falsa riga della gendarmeria francese. Così, ad esempio, i Carabinieri Reali, istituiti il 14 luglio 1814 da Vittorio Emanuele I Re di Sardegna, con il compito di «vigilare sulla pubblica sicurezza» e per «la conservazione dell’ordine e l’esecuzione delle leggi»; la gendarmeria del Regno di Napoli e del Lombardo-Veneto, la gendarmeria e poi i Carabinieri del Granducato di Toscana e, ancora, la Gendarmeria Reale del Regno delle Due Sicilie39.

Gli apparati di polizia non brillavano certo per garantismo. Le politiche di sicurezza, che evidenziavano elementi di continuità con il periodo assolutistico per la forte limitazione della libertà personale attuata senza processi e condanne40, erano di stampo repressivo e rispecchiavano lo schema organizzativo francese di una «polizia ramificata sul territorio ma centralizzata in un’apposita amministrazione e professionale, almeno negli intenti»41

. La legislazione di polizia risentiva della dominazione napoleonica: «nello Stato assoluto l’apparato di polizia era il principale strumento di autoconservazione del potere e operava in un sistema poggiato sull’arbitrium principis piuttosto che sul rispetto dei più banali diritti umani»42.

I compiti della polizia erano di vigilare affinché la religione non fosse oltraggiata, né impedite le funzioni; vigilare sugli oziosi, sui vagabondi, sui mendicanti e sui forestieri in genere; censire gli

36 F. C

ARRER, La Polizia di Stato a trent’anni dalla legge di riforma, Milano, FrancoAngeli, 2014, p. 9.

37 Ivi, p.10. 38

Ivi, pp. 9,10.

39 Ibidem. 40 M. B

ONINO La polizia italiana nella secondo metà dell’Ottocento, Roma, Laurus Robuffo, 2005, p. 52.

41 Ibidem. 42

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abitanti stilando annualmente un elenco in cui comparissero le generalità complete, la professione e i mezzi di sussistenza43.

La violenza era il filo conduttore che legava le polizie degli Stati preunitari44.

Nel Lombardo-Veneto le confessioni venivano estorte con la violenza, e lo spionaggio era largamente diffuso; le persone venivano schedate e non c’era rispetto per la segretezza della corrispondenza45.

La situazione era poi critica nel Regno di Napoli, sia durante il regno di Giuseppe Bonaparte (1806-1808) allorché la polizia addirittura fomentava le congiure arrivando a contraffare lettere sia sotto Gioacchino Murat (1767 – 1815), la cui sconfitta favorì il ritorno dei Borboni e con essi una rispettiva restaurazione politica e poliziesca46. Sotto Francesco I le agitazioni popolari furono soffocate nel sangue: la brutalità, la frusta e la tortura erano all’ordine del giorno. La polizia, che spesso liberava quanti erano stati condannati e manteneva in carcere i prosciolti dai tribunali, «era la maggiore e più potente istituzione del regno»47.

43 R. C

ANOSA La polizia in Italia dal 1945 a oggi, Bologna, il Mulino, 1976, p. 8.

44 In epoche precedenti all’illuminismo, il diritto penale risentiva dei precetti religiosi. La carcerazione era poco usata mentre era diffusa la pena di morte, che avveniva in pubblico: un monito per chi avesse osato sfidare l’autorità del sovrano. La pena capitale era poi preceduta e accompagnata dalla tortura, la cui atrocità era modulata in base alla violazione commessa. Le mutilazioni erano le pene più inflitte. Insomma il diritto penale, come diceva Voltaire, sembrava «pianificato per rovinare i cittadini», era «la traduzione giuridica dei poteri dispotici dell’assolutismo monarchico, della Chiesa e dell’aristocrazia, era la negazione dei diritti dell’individuo». La situazione cambiò con l’illuminismo, portatrice del principio di libertà e uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. Esponente del nuovo pensiero fu Cesare Bonecana, marchese di Beccaria (1738-1794) che, nel saggio «Dei delitti e delle pene», rifacendosi al contratto sociale sosteneva che gli uomini, «stanchi di vivere in un continuo stato di guerra e di godere una libertà resa inutile dall’incertezza di conservarla» decisero di vivere in una società e, proprio per questo, decisero di sacrificarne «una parte per goderne il restante con sicurezza e tranquillità». Contrario alla pena di morte e alla tortura, sosteneva che la pena doveva essere proporzionale alla violazione commessa e che le fattispecie di reato dovevano espressamente previste dalla legge stessa. Lo scopo della pena era impedire che il colpevole commettesse nuovamente un delitto. La certezza della pena sarebbe stata un deterrente maggiore rispetto all’atrocità sella stessa perché il colpevole, per evitare quel supplizio, avrebbe commesso «più delitti, per fuggir la pena di un solo». Il pensiero di Beccaria ben si riassume con le parole a chiusura del saggio «ogni pena non sia una violenza di uno o di molti contro un privato cittadino, dev’essere essenzialmente pubblica, pronta, necessaria, la minima delle possibili nelle date circostanze, proporzionata a’ delitti, dettata dalle leggi». La proporzionalità fu coniugata in una varietà di pene corrispondenti a fattispecie diverse di reati. «L'Illuminismo si pose come primo obiettivo quello di rinnegare totalmente i tormenti che erano soliti accompagnare le esecuzioni capitali. In secondo luogo, propugnò l'esclusione della pena di morte per alcuni crimini sino ad allora considerati di estrema gravità morale come la magia o l'eresia. Infine, si batté perché non ne fossero passibili - come all'epoca frequentemente accadeva - reati di media o lieve entità, quali ad esempio il furto o la rapina». «Il terzo carattere» fu quello di finalizzare la pena alla prevenzione e all’emenda del reo. Beccaria sosteneva che il fine della pena era di impedire al colpevole di procurare altri danni e non di tormentarlo. Il «quarto carattere» infine fu la difesa della legalità e l’affermazione della certezza del diritto. Poche e chiare norme avrebbero garantito i cittadini dai poteri discrezionali dei giudici. Si sostenne l’irretroattività delle leggi penali e il divieto dell’analogia. Fu comunque merito dell'Illuminismo l'avere introdotto tre concetti fondamentali, «la giuridica determinazione di ciò che sia reato» , «che la legge, dopo aver statuito quali azioni od omissioni costituiscano reato, deve anche fissarne la corrispondente pena, conferendo al giudice la sola facoltà di spaziare, a tenore delle circostanze, nei limiti della misura legale» e che «nessuno può subire una condanna senza un regolare giudizio». http://www.altrodiritto.unifi.it/ricerche/asylum/buracchi/cap4.htm (visitato il 15.11.2014).

45 R. C

ANOSA, op. cit., p. 9. 46 Ivi, pp. 9-10.

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Ancora più critica era poi la situazione nello stato pontificio dove, come riporta Canosa citando un opuscolo del 1846, la polizia poteva:

arrestare un uomo, esiliarlo, sorvegliarlo, rifiutargli il passaporto, confinarlo in un distretto, privarlo dei diritti civili, togliergli l’impiego, proibirgli di portare armi o di uscire dalla propria casa di notte. Apre le lettere alla posta e non si cura di farlo nascostamente. Può invadere le case e sequestrare le carte, può far chiudere botteghe, caffè e osterie e multare a suo piacimento48.

Polizia e religione lavoravano all’unisono, completandosi a vicenda. L’Ufficio della Santa Inquisizione veniva utilizzato a fini polizieschi: si utilizzava lo strumento della confessione per spingere chi aveva informazioni a denunciare49.

In Toscana, con Ferdinando III, fu reintrodotta la legislazione leopoldina50. Pietro Leopoldo di Lorena (1765-1790), durante il suo regno cercò di abbattere i privilegi personali e locali. Abolì il diritto di asilo nei luoghi sacri e autorizzò l’arresto dei rei qualora vi si rifugiassero. Cercò di porre un freno agli abusi della forza pubblica: vietò «di cercare armi nelle case dei privati, essendo un reato solo portarle in pubblico senza la prescritta licenza» e impose la licenza di perquisizione da richiedere al giudice51. Nei primi anni del principato leopoldino «l’Auditore fiscale di Firenze era al vertice dell’apparato repressivo del Granducato». Insieme al tribunale degli Otto, esercitava le funzioni giudiziarie e di polizia52. Per quel che concerne il foro vescovile, con le Istruzioni segrete Pietro Leopoldo lo ridusse alle sole «cause spirituali», trasferendo i reati ex-ecclesiastici al ministro di polizia Giuseppe Giusti53. Bisogna tuttavia tener conto che, sebbene il codice leopoldino tentasse di frenare la sommarietà delle pratiche di polizia e il potere del foro vescovile, lo stesso ministro Giusti cercò subito di riesumare i compiti e le procedure della polizia ecclesiastica54

Ma anche durante il regno di Ferdinando III la polizia rimase «vigile e destrissima, chiamata per ironia buon governo, vi finì per avvelenare la pubblica coscienza, insidiandone tutti i pensieri»55 Arbitrio e violenza furono una costante anche nello Stato Sabaudo56. Vittorio Emanuele I, re di Sardegna, rientrato a Torino il 20.05.1814 dopo la caduta di Napoleone Bonaparte, con regie patenti del 13 luglio 1814, creò un corpo militare, i Carabinieri Reali, il cui ordinamento era ricalcato su quello della gendarmeria francese, per «invigilare sulla pubblica sicurezza, per assicurare all’interno dello Stato e in campo, presso le regie armate, la conservazione dell’ordine e l’esecuzione delle

48 Ivi, p. 11. 49 Ibidem. 50

R. CANOSA op. cit., p. 12.

51 C. M

ANGIO, La polizia toscana. Organizzazione e criteri d’intervento (1765-1808), Milano, Giuffré, 1988, pp. 22-23.

52 Ivi, p. 15. 53 E. B

RAMBILLA La polizia dei tribunali ecclesiastici e le riforme della giustizia penale, in L. ANTONELLI- C. DONATI (a cura di) Corpi armati e ordine pubblico in Italia (XVI-XIX sec.) seminario di studi, Castello Visconti di San Vito Somma Lombardo, 10-11 novembre 2000, Soveria Mannelli, Rubbettino , 2003, p. 101.

54 C. M

ANGIO op. cit. pp. 69 e sgg, 72, 74 e 75. 55 R. C

ANOSA op. cit., p. 12.

56

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leggi»57. Le competenze di polizia, nell’antico regime affidate a Governatori militari, furono attribuite alla Direzione Generale di Buon Governo finché, a seguito della sua soppressione avvenuta il 18.01.1815, le funzioni di Buon Governo furono interamente affidate ai Carabinieri58. Con regie patenti del 15 ottobre 1816 fu istituito il Ministero di polizia, detto del “buon governo”, poi abolito nel 182159. Con le Regie Patenti del 30 ottobre 1821 «le attribuzioni in materia di Pubblica Sicurezza» furono assegnate alla Regia Segreteria di Stato per gli Affari Interni60.

Con Regio Decreto 30 settembre 1848 Carlo Alberto di Savoia istituì l’Amministrazione della Pubblica Sicurezza alle dipendenze del Ministero dell’Interno (Ministro Segretario di Stato per gli Affari Interni), con il compito di «vegliare e provvedere preventivamente all’ordine e all’osservanza delle leggi nell’interesse sì pubblico che privato»61

.

2. L’Amministrazione della Pubblica Sicurezza. Il Corpo delle Guardie di P.S. (1852).

Il nome di «pubblica sicurezza» fu voluto, come scrive Astengo, «a giusta soddisfazione dell’opinione pubblica, cui suonava ingrato l’antico nome di polizia, e con l’intendimento di rendere meno palesi i nuovi più vasti e più nobili compiti di questo istituto che veniva innalzato a vera e propria amministrazione»62.

Le funzioni di polizia venivano svolte da funzionari civili. La struttura era gerarchizzata: in ogni Divisione amministrativa – unità che indicava un determinato gruppo di province - l’Intendente Generale era preposto alla sicurezza pubblica; in ogni provincia, c’era un Intendente; nei Mandamenti un Delegato e, infine, il Sindaco nei Comuni63.

I funzionari potevano avvalersi dei Carabinieri Reali, dei Carabinieri Veterani, degli Apparitori di Pubblica Sicurezza, della Guardia Nazionale (istituita da Carlo Alberto il 4 marzo 1848 e poi sciolta nel 1870) e infine della truppa regolare64.

Con legge del 11 luglio 1852, n. 1404, fu istituito il Corpo delle Guardie di Pubblica Sicurezza65, destinato più volte a mutare denominazione e struttura. Diverrà «Corpo delle Guardie di Città dal 1890 al 1919 e Regia Guardia per la pubblica sicurezza (con stato militare) dal 1919 al 1922 e

57 R. C

ANOSA, op. cit., p. 19.

58 http://archiviodistatotorino.beniculturali.it/work/elemdett.php?uid=270677&pd=AS (visto il 3.7.2014). 59 F. C

ARRER, op. cit., p. 10.

60

M. BONINO, op. cit., p. 35.

61 Legge 30 settembre 1848 n. 798 tratto da http://dircost.di.unito.it/root_subalp/docs/1848/1848-798.pdf (visto il

3.7.2014).

62 R. C

AMPOSANO, Patria e Stato. La polizia prima e dopo l’unità d’Italia, in «Polizia Moderna», (marzo 2011) http://www.poliziamoderna.it/articolo.php?cod_art=2233 (visto il 3.7.2014)

63 Legge 30 settembre 1848 n. 798 tratto da http://dircost.di.unito.it/root_subalp/docs/1848/1848-798.pdf (visto il

3.7.2014)

64 M. B

ONINO, op. cit., p. 36.

65

(10)

10

infine ruolo dei Carabinieri specializzati dal 1923 al 1925»66 . Il Corpo delle Guardie di P.S. era un corpo a ordinamento militare destinato a svolgere le funzioni in precedenza svolte dagli Apparitori che implicò la soppressione dei Carabinieri veterani (art. 5). I compiti erano ripartiti tra personale attivo (Questori, Assessori, Applicati, Delegati di 1ᵃ, 2ᵃ, 3ᵃ o 4ᵃ classe, Guardie) e personale amministrativo (segretari di Questura, sottosegretari, scrivani, uscieri e altri). Si stabiliva che l’Amministrazione della Pubblica Sicurezza era alle dipendenze del Ministero dell’interno e che era affidata agli Intendenti Generali, nelle Divisioni amministrative; agli Intendenti, nelle province; e infine ai Sindaci, nei Comuni (art. 1).

Nei capoluoghi di provincia le funzioni di pubblica sicurezza erano esercitate dai Delegati (art. 2) ad eccezione delle città di Torino e Genova, sedi delle compagnie, dove c’erano i Questori e gli Assessori, coadiuvati dagli Applicati (art. 1).

L’organico iniziale, pari a 300 uomini circa era diviso tra le Compagnie di Torino, Genova e altre stazioni.

La creazione del Corpo fu giustificata dalle accresciute esigenze di assicurare l’ordine pubblico, divenute sempre più impegnative dopo le disastrose conseguenze della Prima Guerra d’Indipendenza, e per la necessità di garantire la sicurezza pubblica ai cittadini del Regno67

.

Con legge del 21 settembre 1854, n. 197, il Corpo delle Guardie di P.S. vide il suo primo regolamento. I 68 articoli che lo compongono riguardano il reclutamento, le promozioni, i servizi d’istituto, le pensioni, le retribuzioni e i gradi; l’età, che doveva essere compresa tra 24 e 32 anni, la statura pari ad almeno 1 metro e 63 centimetri, nonché saper leggere e scrivere e una condotta buona e onesta68.

Detto regolamento precisava che nel caso in cui i Reali Carabinieri e le Guardie di P.S. si fossero trovati a svolgere contemporaneamente un servizio, i primi avrebbero avuto il comando anche a parità di grado, disposizione che fu poi modificata con la legge 121/1981 di riforma del Corpo delle Guardie di P.S. (ora Polizia di Stato) a favore di quest’ultimo69

. Il saggio di Bonino giustifica la scelta della preminenza dell’Arma dei Reali Carabinieri sul Corpo delle Guardie di P.S. dicendo che «evidentemente o non ci si fidava troppo del nuovo Corpo o si intendeva così rimarcare la lealtà fin lì dimostrata dai Carabinieri»70.

66

R. CANOSA op. cit., pg. 24

67 R. C

AMPOSANO, op.cit.

68 M. B

ONINO, op. cit., p. 40.

69 Ivi, p. 41. 70

(11)

11

A seguito dell’annessione al Regno Sabaudo di nuovi territori, fu ad essi estesa la legge 13 novembre 1859 n. 372071 (Regio decreto contenente l’ordinamento dell’Amministrazione di Pubblica Sicurezza, e attribuzioni degli Ufficiali e Agenti). In Lombardia, dove c’era un elevato numero di poliziotti asburgici italiani, arruolatisi per lo più volontariamente, per non discriminarli si consentì loro un arruolamento volontario e furono costituite le divisioni di Milano, Como, Brescia, Pavia e Cremona72. Nell’ex Regno delle Due Sicilie le strutture della pubblica sicurezza si caratterizzarono per il mancato assorbimento dei poliziotti borbonici, ancora legati a Francesco II. Bonino osserva che «dei 7000 uomini presenti nelle province napoletane, ad esempio, solo 301 furono reimpiegati». In Sicilia poi, nel maggio del 1860 quando si era insediato un governo garibaldino, era stato costituito un Corpo di Carabinieri. Tuttavia il governo piemontese non volle inizialmente incorporarli nella struttura nazionale, lasciandoli convivere con i Carabinieri Reali73. L’Amministrazione della P.S. faceva sempre capo al Ministero dell’Interno. Le sue funzioni venivano svolte dai Governatori, dagli Intendenti, dai Questori, dagli Ispettori, dai Delegati, dagli Applicati e, se necessario, dai Sindaci74. Furono istituiti i Questori nei capoluoghi di provincia con almeno 60.000 abitanti.

Nel 1860 il filosofo Silvio Spaventa venne nominato Segretario Generale degli Affari Interni. Costui riteneva che i poliziotti fossero «la più bassa categoria dei servitori dello Stato al quale dovevano dedizione illimitata». Impose il celibato.

Dal 1861 l’Amministrazione della Pubblica Sicurezza cambiò denominazione più volte: Divisione di P.S. prima, Direzione Generale della P.S. poi, Direzione Superiore della Sicurezza pubblica nel 1866 per tornare al rango di Divisione nel 1868 finché nel 1887 nacque la Direzione Generale della Pubblica Sicurezza75.

Trasferita nel 1865 la capitale da Torino a Firenze, il governo, per attuare l’unificazione amministrativa, varò la legge n. 2248 del 20 marzo 1865, comprensiva di diverse norme dirette a disciplinare i seguenti settori: l’amministrazione comunale e provinciale; la sicurezza pubblica; la sanità pubblica; l’istituzione del Consiglio di Stato; il contenzioso amministrativo e le opere pubbliche legislativa76. Di fatto furono estesi al regno d’Italia77 gli ordinamenti del Regno Sabaudo78. L’Amministrazione della P.S. era affidata al Ministro dell’Interno e a livello periferico

71

Legge 13 novembre 1859 n. 3720 tratta da http://www.dircost.unito.it/root_subalp/docs/1859/1859-3720.pdf (visto il 3.7.2014).

72 M. B

ONINO op. cit., p. 48.

73 Ivi, p. 49. 74

Ivi, p. 57.

75 Ivi, p. 65.

76 http://www.sba.unifi.it/CMpro-v-p-569.html (visto il 3.7.2014). 77 Erano esclusi il Veneto (1866) e il Lazio (1870).

78

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12

ai prefetti (nelle province) e ai sottoprefetti (nei circondari). Le Questure erano direttamente subordinate alle Prefetture, e il questore esercitava i poteri di sottoprefetto nel proprio circondario79. La legge attribuiva agli Ufficiali e agli Agenti di P.S. il compito di «vegliare all’osservanza delle leggi e al mantenimento dell’ordine pubblico, … “di prevenire i reati, … di comporre pubblici e privati dissidi...»80.

Con la successiva legge 21 dicembre 1890, n. 7321 fu istituito, in ogni capoluogo di provincia e di circondario, rispettivamente alle dipendenze del prefetto e del sottoprefetto, un ufficio provinciale/circondariale di pubblica sicurezza. Nelle città capoluogo di provincia con più di 100.000 abitanti, all'ufficio provinciale poteva essere preposto un questore81.

Con la formazione del regno d’Italia erano entrati a far parte dei Carabinieri Reali tutti i corpi militari deputati alla pubblica sicurezza nelle varie province82.

Altro organismo militare presente, a base popolare, che però ebbe vita breve, fu la Guardia Nazionale, istituita nel 1848 e poi abolita con legge del 30 giugno 187683. Pur non trattandosi di una forza di polizia in senso stretto (gli appartenenti non avevano la qualifica di agenti di p.s.)84, poteva intervenire in ausilio alla forza pubblica per la tutela dell’ordine e la difesa dello Stato.

Dopo l’unità d’Italia, il Corpo delle Guardie di P.S. mantenne detta denominazione fino al 21 dicembre 1890, data in cui con legge n. 7321 assunse quella di Corpo delle Guardie di Città, pur mantenendo la dipendenza dallo Stato centrale.85

Nell’ultimo decennio del XIX secolo la questione della sicurezza pubblica assunse i tratti di una vera emergenza: la polizia, i cui membri erano mal retribuiti e mal pagati, non godeva in alcun modo del favore dei cittadini, e ciò non solo per i poteri di cui disponeva ma anche per «l’immagine dello sbirro legata alle sue attività segrete e all’uso di confidenti»86. La concezione dell’ordine pubblico che lo Stato unitario aveva ereditato dagli antichi regimi assolutisti si fondava sul concetto della pericolosità delle masse, incoraggiando l’uso della forza durante gli scioperi e le manifestazioni quale strumento per fronteggiare i manifestanti. Solo nel passaggio di secolo fu

79 http://www.lombardiabeniculturali.it/archivi/profili-istituzionali/MIDL0002D2/ (visto il 3.7.2014).

80 Legge13 novembre 1859 n. 3720 tratta da http://www.dircost.unito.it/root_subalp/docs/1859/1859-3720.pdf (visto il

3.7.2014).

81

http://www.lombardiabeniculturali.it/archivi/profili-istituzionali/MIDL0002D2/ (visto il 3.7.2014).

82 R. C

ANOSA op. cit., p. 21.

83 Ivi, pp. 23, 24. 84 R. C

AMPOSANO, op.cit.

85

F. CARRER, op. cit., pg. 12. L’Autore sostiene che «con tale legge si tentò di unificare in un unico corpo le guardie di P.S. e le guardie comunali allo scopo di evitare lo spreco e la dispersione connesse alla presenza di due diversi corpi nella città. I Comuni, però, avvertendo la legge come un attentato alla loro autonomia, la osteggiarono fortemente, così che di essa non rimase che l’articolo 19, “per il quale il ministro dell’Interno, per gravi motivi di ordine pubblico, avrebbe potuto sopprimere in un Comune la guardia comunale, affidandone le funzioni alle guardie di città».

86 J. D

UNNAGE, Problematiche nella gestione della pubblica sicurezza a fine Ottocento e inizio Novecento nella

provincia di Bologna, in L. ANTONELLI- C. DONATI (a cura di), Corpi armati e ordine pubblico in Italia (XVI-XIX sec.), seminario di studi, Castello Visconti di San Vito Somma Lombardo, 10-11 novembre 2000, Soveria Mannelli, Rubbettino,2003, pag. 269.

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13

avviato un processo di cambiamento sia nella gestione della sicurezza pubblica privilegiando la possibilità di ricorrere al dialogo prima di autorizzare l’uso della forza nelle manifestazioni, sia nell’organizzazione interna della polizia che arrivò anche ad applicare «metodologie scientifiche» per combattere il crimine, senza tralasciare lo studio delle «motivazioni sociali, psicologiche, antropologiche che inducono al crimine»87. Si intervenne inoltre attraverso l’introduzione di politiche sociali a scopo preventivo.

Tutto ciò non migliorò i rapporti tra cittadini e polizia.

J. Dunnage, analizzando gli scioperi agrari indetti nel 1898 nella provincia di Bologna, conferma la tendenza riscontrata da parte di militari e carabinieri ad appoggiare i datori di lavoro, ricorrendo con facilità alla carcerazione sulla base di un’arbitraria interpretazione delle leggi e che, peraltro, non trovava riscontro nel convincimento del magistrato, come provano le successive assoluzioni88. Questi comportamenti, dettati da scelte politiche, sono speso stati interpretati come le scomposte reazioni di un sistema pubblico in preda al panico e del tutto inadeguato alla gestione dei nuovi fenomeni sociali. Lo storico americano Richard Jensen, nel corso di uno studio sulle politiche poliziesche condotte nell’Italia di fine Ottocento, sostenne che la consapevolezza di avere un apparato di polizia inadeguato spinse i governi Crispi e Di Rudinì alla dura reazione degli anni ’9089

.

Prima ancora che salisse al governo Giolitti, ci furono dei cambiamenti nella politica della sicurezza pubblica: si limitarono gli arresti ai soli casi provati; per evitare disordini, si consentirono riunioni e manifestazioni in forma privata e che venivano vietate solo in presenza di reale pericolo per la sicurezza pubblica. Si ricorse agli aiuti economici per contenere i disordini: si favorì l’occupazione anche attraverso l’attuazione di opere di bonifica. La mediazione fu la strategia alla quale si fece ricorso prima di fare uso della forza90.

Con il governo Zanardelli – Giolitti, nel 1901, si attuò una politica di prevenzione sociale e si cercò di coinvolgere la popolazione nello sviluppo nazionale. Fu aumentato l’organico delle guardie e dei carabinieri, gli stipendi e le opportunità di carriera. Il cambio di rotta nelle “strategie poliziesche” non sortì tuttavia gli effetti sperati: riducendo i poteri di controllo delle forze dell’ordine, che non potevano più dar corso agli arresti di massa, si affermò tra le loro fila un sentimento di insicurezza che produsse la messa in atto di azioni arbitrarie quali, ad esempio, il ricorso alle armi durante le manifestazioni. La mancanza di regolamenti univoci, e le strategie poliziesche diverse da luogo a luogo, furono influenzate dalle diverse coalizioni politiche succedutesi nel tempo. Questo fece sì

87 J. D

UNNAGE op. cit., p. 269-270.

88 Ivi, p. 271. 89 Ibidem. 90

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14

che venisse lasciata ai prefetti e ai commissari di pubblica sicurezza la discrezionalità di «decidere se uno sciopero fosse lecito, pacifico, se intervenire con la repressione o meno». Ciò nonostante, i prefetti e i questori - che condivisero l’idea dell’ordine pubblico concepita da Giolitti, basata sull’intervento sociale come misura per arginare il crimine attraverso l’opera di mediazione - cercarono di contenere i conflitti, limitandone le conseguenze attraverso sussidi di disoccupazione a favore delle masse, aprendo così a un nuovo modo di fare sicurezza91.

3. La legislazione della polizia.

Nell’Ottocento la legislazione italiana relativa alla polizia risentiva dell’influenza francese: l’apparato di polizia rappresentava la longa manu del potere politico, la cui influenza in campo penale era particolarmente forte. La polizia svolgeva un’opera di “chirurgia sociale” adottando una distinzione tra “classi pericolose” e “classi non pericolose” e procedendo in una pedissequa schedatura dei rispettivi membri92.

Significative, in tema di limitazione della libertà personale, le leggi 26 febbraio 1852 n. 133993 sui provvedimenti di sicurezza contro gli oziosi e i vagabondi e 8 luglio 1854 n. 694 disposizioni e norme per tutelare la pubblica sicurezza. Dette norme sono rivolte a soggetti ritenuti socialmente pericolosi come gli “oziosi”, i vagabondi e quanti vivevano ai margini della società, nei confronti dei quali poteva disporsi l’ammonizione. La legge n. 6 del 1854 impose l’obbligo per il datore di lavoro di fornire alla polizia l’elenco dei dipendenti95

.

La legge 13 novembre 1859 n. 372096 prevedeva all’art. 28 l’obbligo per «coloro che prestano la loro opera con mercede» di possedere un libretto dove veniva annotato il cambio di mestiere. Nessuno poteva intraprendere un viaggio senza il visto dell’ufficio di Pubblica Sicurezza del luogo di partenza e doveva notificare l’arrivo all’Autorità del luogo entro ventiquattr’ore.

Altra legge significativa è la n. 2248 del 20 marzo 1865, al cui all. B si includeva nella categoria dei delinquenti quanti pretendevano denaro sui guadagni di altri, con l’intenzione di colpire «quella piaga conosciuta col nome di camorra»97. Fu introdotto il confino di polizia, applicato anche agli oziosi e vagabondi già oggetto di ammonizione98.

91

Ivi, pp. 274-278.

92 M. B

ONINO op. cit., p. 52.

93 Legge 26 febbraio 1852 n. 1339 tratta da http://www.dircost.unito.it/root_subalp/docs/1852/1852-1339.pdf (visto il

6.7.2014).

94

Legge 8 luglio 1854 n. 6 tratta da http://www.dircost.unito.it/root_subalp/docs/1854/1854-6.pdf (visto il 6.7.2014).

95 M. B

ONINO op. cit., p. 54.

96 http://www.dircost.unito.it/root_subalp/docs/1859/1859-3720.pdf (visto il 3.7.2014). 97 M. B

ONINO op. cit., p. 57.

98

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15

Unificata l’Italia, tra il 1863 e il 1865, il governo varò, nelle regioni meridionali, una serie di leggi eccezionali allo scopo di debellare attraverso la forza militare il brigantaggio e l’opposizione antiunitaria99. Il fenomeno del brigantaggio affondava le sue radici «nella situazione di abbandono in cui versavano territori e popolazioni nell’Italia meridionale»100

. La commissione parlamentare, che nel 1863 aveva studiato il fenomeno, individuando le cause economiche e sociali nella arretratezza, nella situazione disperata dei contadini nonché nella sfiducia verso le leggi e la giustizia, aveva suggerito una giustizia penale meno opprimente101.

Per tutta risposta il governo presentò la «famigerata legge Pica»102 che fece della repressione «la regola sanzionata dal diritto»103. Fu prevista la fucilazione o i lavori forzati a vita per quanti opponessero resistenza con le armi alla forza pubblica (art. 2). Si consentì al governo di applicare il domicilio coatto fino a un anno «agli oziosi, vagabondi, alle persone sospette, secondo la designazione del Codice penale, non che ai camorristi e sospetti manutengoli» (art. 5). La legge, che sarebbe dovuta restare in vigore solo fino al 31 dicembre di quell’anno (art. 1), ma prorogata poi a

99 R. C

ANOSA, op. cit., p. 29 100

Ivi, p... 27. Con l’unificazione d’Italia si aprì un dibattito sulla «questione meridionale». Al sud la proprietà era nelle mani di grandi proprietari terrieri che vivevano di rendita. La gran massa di contadini viveva in una condizione di miseria sempre crescente alla quale si aggiungeva la mancata ripartizione sperata con la conquista garibaldina. L’imposizione fiscale, la leva obbligatoria e la legislazione protezionistica, adottata dalla Sinistra storica, al governo dal 1876, per tutelare gli industriali al nord e i grandi proprietari terrieri al sud dalla concorrenza straniera, resero la situazione esplosiva. Il brigantaggio fu dunque la risposta a questa situazione. La questione meridionale non era legata solo a problemi economici ma aveva anche risvolti politico-sociali. La classe dirigente del Sud, in cambio del sostegno ai governi, aveva salvaguardato i propri interessi. Si ricordano, in estrema sintesi e per completezza, i principali protagonisti del dibattito che si svolse in quegli anni. Leopoldo Franchetti (1847-1917) sottolineò come la mafia e il banditismo fossero le conseguenze naturali di un ambiente sociale in cui la forza privata prevaleva sull’autorità pubblica. Pasquale Villari (1826-1917) osservò che i problemi dovevano essere risolti con le riforme e non attuando la repressione. Denunciò l’inerzia dello Stato che a fronte dell’unificazione non si era fatto carico delle condizioni di vita delle masse contadine mantenendo inalterati i modi di vita feudali. Sidney Sonnino (1847-1922) sostenne che una soluzione al problema poteva essere quella di incentivare la mezzadria, che aveva avuto successo in Toscana. Ma i grandi latifondisti, protetti dai governi, ai quali offrivano sostegno elettorale non consentirono alcuna riforma. I contadini restavano «perpetui debitori» dei proprietari terrieri ai quali dovevano la loro sopravvivenza. Giustino Fortunato (1848-1932) affermò che il meridione versava in uno stato di inferiorità rispetto al nord a causa della aridità delle terre e nel comportamento dei proprietari terrieri capaci solo di sfruttare i contadini. Secondo lui lo Stato avrebbe dovuto favorire lo sviluppo economico attraverso un’oculata politica creditizia e fiscale.

Francesco Saverio Nitti (1868-1953) sostenne che per risolvere l’arretratezza del sud occorreva distribuire la ricchezza: tutto il Paese doveva beneficiarne. Il problema del sud non doveva essere confinato al meridione, ma era un problema nazionale. Ciò che mancava al meridione era l’educazione politica, la coscienza collettiva. L’antisocialità era la conseguenza della miseria, e l’immobilismo dello Stato aveva portato le persone ad emigrare. Gaetano Salvemini (1873-1957) era convinto che i contadini meridionali e gli operai settentrionali avrebbero dovuto fare fronte compatto contro il potere degli industriali e dei latifondisti. Per sconfiggerli occorreva un radicale decentramento amministrativo; una politica economica liberista; l’allargamento del suffragio universale.

Antonio Gramsci (1891-1937), propose che gli operai e i contadini devono allearsi per il «blocco di potere agrario-industriale». Definì il meridione «una grande disgregazione sociale» in quanto i contadini, pur costituendo la maggioranza della popolazione, non sono uniti. Gli intellettuali meridionali, liberandosi della vecchia subalternità ai latifondisti, avrebbero dovuto dare il proprio indispensabile contributo alla nascita di una nuova cultura, organica al progetto di rinnovamento della società.

101 Ivi, p. 28.

102http://www.sba.unifi.it/CMpro-v-p-567.html «Legge 15 agosto 1863 n. 1409 colla quale sono date disposizioni

dirette alla repressione del brigantaggio». (visto il 5.07.2014).

103

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più riprese fino al 31.12.1865104, prevedeva che nelle province riconosciute come «infestate dal brigantaggio»105 (R.D. 1414 del 20.08.1863 articolo unico) fossero i Tribunali militari, secondo quanto disposto dal codice penale militare, a giudicare quei gruppi che, composti da più di tre persone, si rendevano responsabili, attraverso scorribande nelle campagne e in città, di crimini, nonché quanti si rendevano loro complici106.

Si apriva così una triste stagione costruita sul disprezzo nei confronti delle popolazioni meridionali, di fucilazioni sommarie verso chi sobillava le masse all’insurrezione ma anche verso chi avesse insultato lo stemma di Savoia e la bandiera nazionale. I villaggi degli insorti venivano dati alle fiamme mentre le forze dell’ordine procedevano agli arresti; alle fucilazioni sommarie e ai saccheggi107. Si avviava così un percorso costellato di provvedimenti straordinari in materia di pubblica sicurezza.

La legge 6 luglio 1871 n. 294 estese l’ammonimento a tutti i colpevoli di delitti contro le persone e la proprietà108. A metà degli Anni Settanta dell’Ottocento, il ministro dell’Interno Nicotera introdusse un ulteriore giro di vite: furono proibite le riunioni pubbliche e si fece uso del domicilio coatto. L’impronta autoritaria seguì poi con Francesco Crispi, nominato ministro dell’Interno nel 1877 dal governo Depretis109.

Il primo gennaio 1890 entrava in vigore il codice penale Zanardelli, rafforzato dalla applicazione di una nuova legge di pubblica sicurezza che, oltre a mantenere il domicilio coatto, prevedeva per la libertà di riunione l’obbligo di dare preavviso ventiquattro ore prima all’autorità, delegandole la potestà di vietarla110.

Il 3 gennaio 1894, Crispi proclamò lo stato d’assedio in Sicilia in risposta ai moti dei Fasci siciliani. L’intervento repressivo causò 92 morti, lo scioglimento dei Fasci e di tutte le organizzazioni dei lavoratori, duemila arresti e molti furono avviati al domicilio coatto111. Le repressioni spietate alimentarono il sostegno della necessità di leggi eccezionali112, benché - riprendendo Canosa - «gli strumenti messi a disposizione della classe dirigente dal complesso di norme per così dire «ordinarie», fossero tutt’altro che blandi od incompleti»113

. Ciò nonostante il governo non si faceva

104 http://www.sba.unifi.it/CMpro-v-p-567.html (visto il 3.7.2014). 105 Regio Decreto 20.08.1863 n. 1414 del tratto da

http://www.sba.unifi.it/upload/scienzesociali/mostre/costruire_italia/province_infette.pdf (visto il 3.7.2014).

106 http://www.sba.unifi.it/CMpro-v-p-567.html (visto il 3.7.2014) e R. C

ANOSA op. cit., p. 28.

107 R. C

ANOSA op. cit., pp. 28-29.

108 M. B

ONINO op. cit., p. 59.

109

Ivi, p. 29.

110 R. C

ANOSA op. cit., p. 32.

111 Ivi, p. 32. 112 Ivi, p. 33. 113

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17

scrupolo a ricorrere allo stato di assedio tutte le volte che si trovava di fronte a manifestazioni popolari di una certa importanza, anche se in assenza di alcun elemento di natura insurrezionale114

4. La figura dello sbirro nell’Ottocento.

Verso la metà del secolo il sentimento dell’opinione pubblica verso lo «sbirro» era di sfiducia e di disprezzo, un soggetto dipinto come «culturalmente rozzo, scelto a caso, […] svincolato di fatto dall’obbligo di rispettare la legge, insensibile al rispetto dei più elementari diritti di coloro che sono oggetto delle sue attenzioni»115.

Racconti e immagini spaventose ritraevano i birri e i ministri di polizia. Ne era un esempio il ministro della polizia napoletano Francesco Saverio Del Carretto, espulso nel 1848, descritto come un mostro infernale. Nello stesso periodo gli scontri con la polizia erano contrassegnati da immagini e minacce scritte sui muri di Milano116. Persino la stampa ritraeva il poliziotto «come un tacchino scioccamente orgoglioso della sua divisa». A questa violenta e mostruosa immagine veniva spesso affiancata la denuncia di una totale incapacità nel difendere il cittadino117.

I motivi per cui lo «sbirro»118 non riuscì a farsi accettare dalla popolazione, risalgono al periodo pre-unitario.

Espressione della logica dispotica del potere, gli sbirri erano il «braccio operativo» delle alte magistrature a cui erano affidati i compiti di polizia119. Il loro potere era di conseguenza enorme se si considera che i vari settori della società erano sotto il controllo dell’autorità e che era all’ordine del giorno la violazione della corrispondenza, la tortura, la «tradotta dei prigionieri in catene», il pignoramento dei beni. Se poi si pensa che «dal nobile al parroco, dal delinquente comune ai poeti dilettanti, tutti erano sul libro paga degli sbirri e tutti potevano essere incarcerati o limitati nelle loro libertà da un semplice pettegolezzo»120 si comprende il perché erano invisi alla popolazione, che li giudicava «ignoranti, vili, superbi, voraci, avari, pertinaci, protervi e arroganti, bugiardi, avidi e fraudolenti»121. 114 Ivi, p. 41. 115 R. C AMPOSANO, op.cit. 116E. F

RANCIA, Polizia e ordine pubblico nel Quarantotto italiano in L. ANTONELLI (a cura di), La polizia in Italia e In

Europa: punto sugli studio e prospettive di ricerca, Somma Lombardo, 29-30 novembre 2002, Soveria Mannelli,

Rubbettino, 2006, p. 144. 117

Ivi, p. 145. 118

M. BONINO op. cit., p. 17 «Il termine «sbirro» indicava «gli esecutori di giustizia» in generale, vale a dire quella molteplicità di figure che, nei vari Stati Italiani, erano incaricate di compiti poggi assimilabili a quelli della polizia».

119 Ibidem, p. 17. 120 Ivi, p. 18. 121

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18

Relegata a soggetti di «basso livello morale e intellettuale», la professione di sbirro era ambita per quanti fossero stati rifiutati dall’esercito oltre che ai malviventi122 e che, grazie «a leggi premiali», potevano chiudere i loro conti con la giustizia in cambio dell’arruolamento. Diffuso era il convincimento che «gli individui più abietti entravano a far parte della categoria degli sbirri» e dunque «le parole birro e bargello suscitavano ripugnanza, per non dire orrore e vergogna». Il distacco sociale in cui erano relegati gli «sbirri», da parte di una società che aveva nei loro confronti un’atavica repulsione, comportò che gli stessi alloggiassero solo nei quartieri-ghetto, tenuti a distanza persino dalle prostitute123.

La loro impopolarità trova voce negli scritti di Silvio Pellico che, recluso, si distraeva comunicando a gesti con un piccolo orfano sordo muto, che sostava all’esterno delle grate, riproponendosi, una volta libero, di ricambiare quelle attenzioni inserendo il piccolo in un collegio in modo da «aprirgli così la via ad una fortuna più bella che d’esser sbirro»124

. Alessandro Manzoni, nella sua celeberrima opera I Promessi Sposi, non diede un giudizio migliore con riferimento agli esecutori di giustizia: il notaio che aveva ordinato l’arresto di Renzo pur rimproverando i due birri di non stringergli troppo ai polsi i «manichini», allorché il ragazzo si era dato alla fuga inseguito dalle guardie, si era fatto « piccino, piccino (…) per isgusciar fuor della folla»125.

Sul fatto che la polizia reclutasse i propri uomini anche tra i malviventi, Bernardi riporta:

Arrivava al punto da costringere persino i mafiosi recalcitranti a farsi uomini d’onore…I delitti commessi dagli agenti di pubblica sicurezza erano tanti, che persino il procuratore generale di Palermo…li denunciava pubblicamente. […] Crudeltà, falsità, stupidità, ignoranza, disonestà sono le cellule di quel corpo malato che è la polizia italiana vent’anni dopo l’unificazione. […] C’era nella polizia, alla fine del secolo, un tale stato di disordine che rendeva impossibile un’efficiente lotta contro i cosiddetti delinquenti […]126

Questa contrapposizione tra sbirri e ceti emarginati, che abbiamo visto risalire a tempi lontani, fu espressione del rapporto tra una monarchia autoritaria, impegnata a salvaguardare i propri privilegi, e i sudditi, privi di ogni diritto. In questo quadro la polizia assunse la funzione di tutelare il re da qualsiasi forma di ribellione da parte del popolo127. Con l’unità d’Italia, le forze di polizia verranno centralizzate al servizio del re, «creando così le premesse della contrapposizione tra potere e popolo

122 M. B

ONINO op. cit., p. 19 «i briganti avevano una sorta di titolo preferenziale nell’arruolamento grazie alla loro abilità nell’uso delle armi».

123 Ibidem. 124 Ibidem. 125 M. B

ONINO op. cit., p. 22.

126

A. BERNARDI , La Riforma della Polizia. Smilitarizzazione e sindacato, Torino, Einaudi, 1979, pp. 6, 7.

127 Ivi, p. 5. Esplicativa è la formula di giuramento dei carabinieri «Giuro solennemente di essere fedele a Dio e alla

Maestà del Re Carlo Felice, nostro Signore, e ai di lui successori legittimi; di sacrificare anche i miei beni e la mia vita per la difesa della Sua Real Persona e pel sostegno della Sua Corona e della Piena Sua Autorità Sovrana, anche contro i Suoi sudditi che tentassero di sovvertire l’ordine…»

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che caratterizzerà la storia della polizia» anche quando, pur cambiando gli eventi storici, la polizia sarà espressione del potere contro le rivendicazioni popolari128.

128

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CAPITOLO 2

La Polizia durante il fascismo 1. I primi vent’anni del XX secolo: uno sguardo storico.

Il XX secolo si apre con l’uccisione del re Umberto I avvenuta a Monza il 29 luglio 1900 ad opera dell’anarchico Gaetano Bresci. L’attentatore aveva così inteso vendicare i morti dei moti di Milano del 1898 per i quali il Generale Fiorenzo Bava Beccaris, che aveva ordinato di sparare sulla folla, era stato insignito dal re con un riconoscimento129.

Dal 1901 al 1913, Giovanni Giolitti130 assunse un ruolo importante al governo del paese. Sostenitore dell’idea che lo Stato dovesse restare neutrale nelle lotte sociali, specie nei conflitti di lavoro, al fine di consentire la piena integrazione delle masse nello Stato131, si fece portavoce di interventi di politica sociale quali: l’assicurazione obbligatoria per gli infortuni sul lavoro; la creazione dell’Ufficio per il Lavoro presso il Ministero dell’Agricoltura, Industria e Commercio, per facilitare i rapporti di lavoro. Pose inoltre dei limiti all’impiego delle donne nelle fabbriche e intervenne sul lavoro dei bambini; sostenne infine la necessità che servizi di pubblica utilità, quali le forniture di gas, elettricità, trasporti, fossero municipalizzati132.

Nel periodo in cui svolse l’incarico di Ministro dell’Interno133, Giolitti si oppose all’intervento della forza pubblica contro i dimostranti, contadini o operai che fossero. La neutralità dello Stato nei conflitti di lavoro determinò un incremento esponenziale degli stessi sia nel settore agricolo, sia in quello industriale134. Le aziende agrarie della pianura padana, produttrici di grano e riso, beneficiando della protezione doganale, incrementarono la produttività grazie all’uso di innovazioni

129 A. M. B

ANTI, L’età contemporanea. Dalle rivoluzioni settecentesche all’imperialismo, Bari, Laterza, 2010, p. 522.

130 Giovanni Giolitti (1841 – 1928) fu uno dei protagonisti della storia politica italiana di quegli anni. Fu deputato

(1882, 1924), ministro del Tesoro (1889-90) e degli Interni (1901-03), presidente del Consiglio (1892-93, a più riprese fino al 1914, 1920-21). Dette un'impronta liberale alle linee di governo, specie rispetto ai conflitti dei lavoratori cercando di porre lo stato in una posizione neutrale o intermedia nei conflitti di lavoro. Gli oppositori di sinistra gli rimproverarono la politica meridionale (il protezionismo sul grano sosteneva di fatto il latifondo) e la spregiudicata prassi elettoralistica (in un celebre pamphlet del 1909, G. Salvemini lo bollò come "il ministro della mala vita"), da altri l'abbandono del liberismo sul terreno della politica economica e da settori industriali l'acquiescenza nei confronti delle rivendicazioni sindacali. Nel 1913 strinse un accordo elettorale con i cattolici (patto Gentiloni) senza tuttavia riuscire a governare. Nel marzo 1914 si dimise. Neutralista, nel giugno 1920 fu chiamato a costituire il suo quinto ministero, in una situazione in cui il durissimo conflitto politico e sociale. Nel giugno 1921 rassegnò le dimissioni ponendo termine alla carriera di statista. Come deputato liberale, dal 1924 fu all'opposizione del governo Mussolini.

131 A. M. B

ANTI, op. cit., p. 523.

132 Ivi, p. 525.

133 Giovanni Giolitti fu Ministro dell’Interno dal 15 maggio 1892 al 28 novembre 1893; dal 15 febbraio 1901 al 20

giugno 1903; dal 3 novembre 1903 al 15 marzo 1905; dal 30 maggio 1906 al 10 dicembre 1909 - dal 30 marzo 1911 al

20 marzo 1914; dal 15 giugno 1920 al 4 luglio 1921

http://www.interno.gov.it/mininterno/export/sites/default/it/sezioni/ministero/storia/scheda_16565.html (visto il 28.09.2014).

134

(21)

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tecnologiche, di fertilizzanti e nuovi macchinari, accelerando la diminuzione della domanda di manodopera con conseguente incremento della disoccupazione135.

Al decollo industriale del Nord si contrappose una crescita economica molto lenta al Sud136, dovuta non solo alla mancanza di infrastrutture (strade, acquedotti) e di competenze, ma anche ai gruppi della criminalità organizzata137, che imposero, durante le consultazioni elettorali, il loro sostegno a favore dei candidati attraverso l’intimidazione degli elettori o pretesero di imporre la loro protezione ai commercianti e proprietari terrieri con la conseguenza di rendere meno competitive e redditizie le attività imprenditoriali138.

Le forze di polizia sostennero la maggioranza al governo durante le elezioni.

Negli scritti di Gaetano Salvemini139 si parla di oppositori «impediti di parlare in pubblico, minacciati, randellati, assediati in casa o messi senz’altro in prigione fino a dopo le elezioni». Nel meridione si ricorse all’impiego delle forze di polizia anche nei conflitti di lavoro, con alcuni episodi di sparatorie contro i lavoratori che, tra il 1901 e il 1904, portarono a 242 vittime tra morti e feriti140, oltre ad un assai elevato numero di arrestati. L’ «Avanti» del 1° maggio 1920 riportò che tra l’aprile del 1919 e quello del 1920 vi erano stati addirittura 145 morti e 444 feriti141

. Questo impiego repressivo delle forze dell’ordine non fu sconfessato dalle autorità preposte, che si limitarono a indicare il ricorso all’uso delle armi solo in casi eccezionali142

.

In questo scenario, nel 1907 fu introdotto il nuovo Testo Unico degli Ufficiali e Agenti di pubblica sicurezza, approvato con R.D. 31 agosto 1907 n. 690, nel quale si riaffermava la dipendenza delle forze di polizia dal potere politico.

135 A. M. B

ANTI, op. cit., pp. 523.

136 «Non che l’economia meridionale non abbia settori dinamici o floridi. Alcuni importanti distretti industriali (intorno

a Napoli e nel Salernitano) continuano ancora a prosperare. Nel settore agricolo alcuni ambiti produttivi attraversano egualmente una fase positiva: si tratta soprattutto delle aree nelle quali si producono beni destinati all’esportazione – dal Marsala alle mandorle, agli agrumi, all’olio, alla frutta da tavola. Tuttavia le produzioni industriali non decollano mentre l’attività agricola principale, la produzione del grano, coltivato nelle aziende latifondistiche delle zone interne del Mezzogiorno, ha un andamento alterno e solo verso la fine del primo decennio del XX secolo si comincia a registrare qualche significativo incremento di produttività». A. M. Banti, op. cit., pg. 525.

137 Ovvero della mafia in Sicilia, della camorra a Napoli, e dell’organizzazione della Sacra corona unita in Puglia. 138 A. M. B

ANTI, op. cit., p. 526.

139

Gaetano Salvemini (1873-1957) fu, da storico, professore alle Università di Messina, Pisa e Firenze. Scrisse sulla questione sociale e sul malgoverno di Giolitti a cui imputò di non aver fatto nulla per eliminare la criminalità nel Mezzogiorno e di aver tollerato che politici del suo schieramento si fossero serviti di malviventi per spingere gli elettori a votare nella «giusta maniera», attribuendogli così l’epiteto di «ministro della malavita». Uscito dal PSI fondò una rivista di cultura e attualità,«L’Unità». Per la sua opposizione al fascismo lasciò l’Italia nel 1925. Insegnò Storia della civiltà italiana all’Università di Harvard e nel 1949 fece rientro in Italia. A. M. BANTI, op. cit., p.527.

140 R. C

ANOSA, op. cit., pp. 58-60.

141 Ivi, p. 60. 142

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