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La funzione del giudice nel processo per legis actiones e nel processo formulare

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Academic year: 2021

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INDICE GENERALE

CAPITOLO 1

IL GIUDICE PRIVATO NEL PROCESSO PER LEGIS ACTIONES E NEL PROCESSO FORMULARE

§ 1.1 Il giudice privato nel processo per legis actiones………1

§ 1.2 Il giudice privato nel processo formulare………12

§ 1.3 La decisione del giudice : la sentenza……….24

§ 1.4 Il giudice privato ed il pretore……….26

§ 1.5 La scelta del giudice privato nel processo formulare alla luce della Lex Irnitana……….27

§ 1.6 Chi poteva assumere l’incarico di giudice privato?...40

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CAPITOLO 2

ONERE DELLA PROVA E LA FACOLTA’ DEL GIUDICE DI

“IURARE REM SIBI NON LIQUERE”

§2.1 Premessa………...70 § 2.2 L’onere della prova nella fase apud iudicem del processo formulare………. .72 § 2.3 I mezzi di prova……….………. 75 § 2.4 La facoltà del giudice di iurare rem sibi non liquere alla luce dell’opera di Aulo Gellio………. 83 § 2.5 … Sulla base delle dichiarazioni Seneca e Cicerone...…….. .90

Indice delle fonti……….………..95

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CAPITOLO 1

IL GIUDICE PRIVATO NEL PROCESSO PER LEGIS ACTIONES E NEL PROCESSO FORMULARE.

§ 1.1 - Il giudice privato nel processo per legis actiones

La più antica forma di processo è il processo per legis actiones il quale trova una sua sistemazione legislativa nelle XII Tavole e rimane vitale fino agli inizi del II sec. a.C. Le legis actiones vengono divise in dichiarative (o di cognizione) ed esecutive: alle prime appartengono la legis actio sacramento (in rem ed in personam), la legis actio per iudicis arbitrive postulationem, che si riscontra per la prima volta nelle XII Tavole, e la legis actio per condictionem, introdotta nel III sec. a.C. Le azioni esecutive sono la legis actio per manus iniectionem e la legis actio per pignoris capionem, quest’ultima d’importanza molto ridotta. Le legis actiones risalgono forse alle comunità pre-civiche: noi le conosciamo soprattutto attraverso la descrizione fatta da Gaio nel quarto libro delle Istitutiones:

Gai. Inst. 4,12: “Lege autem agebatur modis quinque:sacramento,per iudicis postulationem, per condictionem, per manus iniectionem,per pignoris capionem” (Secondo legge si agiva in cinque modi, attraverso il

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sacramentum,per richiesta del giudice, per intimazione, mettendo la mano addosso, attraverso la presa di pegno).

Tale descrizione si riferisce al regime di tale processo come elaborato dai pontifices e dalla prima giurisprudenza laica sulla base della disciplina contenuta nelle XII Tavole e nella legislazione posteriore1. A partire dalle XII Tavole il processo di cognizione sulla base delle legis actiones dichiarative prevede una bipartizione della procedura nella fase in iure ed apud iudicem. La fase in iure si svolge dinnanzi ad un organo della comunità, il re od il magistrato, la fase apud iudicem dinanzi ad un giudice che,soprattutto a partire dall’epoca medio-repubblicana, è un privato cittadino scelto d’accordo tra le parti col consenso del magistrato, ma che può essere anche un collegio giudicante. La fase in iure serve ad impostare la controversia che doveva poi essere decisa dal giudice privato, e fissa dunque il thema decidendum, che quest’ultimo doveva affrontare. Le parti assumevano reciprocamente posizione sull’oggetto della controversia attraverso i formulari delle legis actiones. La più antica fra le legis actiones dichiarative è l’agere sacramento. Inoltre fra l’agere in rem e l’agere in personam si ritiene con tutta probabilità più risalente il primo. Il sacramentum è ai tempi di Gaio una somma di denaro, oggetto di una scommessa tra le parti. L’ammontare dello stesso è di 50 assi, se il valore

1 Actio indica, nel sintagma legis actio,i certa verba attraverso i quali si esprime l’attività

processuale della parte. Alla specificazione legis già i romani davano due diverse spiegazioni: in un primo senso, il richiamo alla lex indicherebbe che, almeno a partire dalle XII Tavole, le legis actiones, avevano tutte un fondamento legislativo; nel secondo,

lex avrebbe il significato di formula solenne: legis actio indicherebbe che l’agere

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della causa non supera i 1000 assi e negli altri casi 500 assi: le parti si impegnano a pagare, in caso di soccombenza, tale somma all’aerarium, la cassa dello stato. Le due specie della legis actio sacramento (in rem ed in personam) si differenziano nella prima parte del formulario, quella rivolta a fissare la reciproca posizione processuale delle parti. A sua volta l’agere in rem, che difende la proprietà, ha uno svolgimento diverso a seconda che si tratti di cose mobili od immobili. Nel sistema descritto da Gaio la differenza consiste nella circostanza che la cosa mobile, oggetto della controversia, doveva essere presente in iure, mentre delle cose immobili- o delle cose mobili di difficile trasporto- bastava fosse presente,come simbolo,una parte pur piccola della cosa stessa:

Gai. Inst. 4,17: Si qua res talis erat, ut sine incommodo non posset in ius adferri vel adduci, verbigratia si columna aut navis aut grex alicuius pecoris esset, pars aliqua inde sumebatur eaque in ius adferebatur, deinde in eam partem quasi in totam rem praesentem fiebat vindicatio…velut ex fundo gleba sumebatur et ex aedibus tegula, et si de hereditate controversia erat, aeque res vel rei pars aliqua inde sumebatur.

Una volta che i contendenti sono in iure, con la cosa oggetto della controversia o col suo simbolo, si svolge la recita delle actiones. Il prior vindicans, come viene chiamato da Gaio chi parla per primo, pronuncia una formula:

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Gai. Inst. 4,16: Hunc ego hominem ex iure Quiritium meum esse aio secundum suam causam, sicut dixi, ecce tibi vindictam imposui.

In accordo con questa parte del formulario il vindicans toccava lo schiavo con una festuca, cioè un bastone od una verga che simboleggiava la lancia, simbolo a sua volta del dominium ex iure Quiritium. Dopo l’actio del prior vindicans ne seguiva una identica dell’altra parte e cioè l’adversarius, come lo chiama Gaio, al termine della quale il pretore ordinava alle parti di abbandonare lo schiavo. Segue un’ulteriore fase del formulario, che resta però d’oscuro significato: il prior vindicans chiede all’ adversarius di indicare in base a quale causa abbia effettuato la vindicatio a cui l’adversarius risponde in modo elusivo. Si passa dunque alla provocatio sacramento dove il prior vindicans afferma:

Gai. Inst. 4,16: quando tu iniura vindicavisti, D aeris sacramento te provoco.

“dacché tu hai proceduto alla vindicatio non secondo il diritto, io ti sfido con sacramentum di 500 assi”al che l’adversarius rispondeva: et ego te (“ed io faccio lo stesso con te”). Meno complessa è la procedura della legis actio sacramento in personam. Qui si distingue fin dalle origini l’attore, che afferma il diritto,dal convenuto, che lo nega. A differenza che nell’agere in rem, dove la vindicatio aveva sempre la stessa struttura

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esistevano qui diverse actiones. Ad esempio l’attore si rivolgeva al convenuto affermando:

Gai. Inst. 4,17: aio te mihi sestertium decem milia dare oportere: id postulo aias an neges (“affermo che tu mi devi 10.000 sesterzi, e ti chiedo di ammetterlo o negarlo”).

Se alla domanda il convenuto rispondeva aio, il processo si era concluso perché la confessio così fatta apriva all’azione esecutiva. Se, come accadeva normalmente, il convenuto rispondeva nego, l’attore procedeva con i verba che introducevano il modus agendi: quando tu negas, te sacramento quingenario provoco (“dacché tu neghi,io ti sfido con un sacramentum di 500 assi”), a cui il convenuto rispondeva, come nell’agere in rem, et ego te. Nelle XII Tavole vi è poi la legis actio per iudicis arbitrive postulationem. Si tratta di una legis actio specialis, attraverso Gaio ne conosciamo l’utilizzo in tre casi: la divisione dell’hereditas fra i coeredi, la divisione della cosa comune tra i condomini ; nel terzo caso si applica all’agere ex sponsione, per far valere cioè un credito nascente da una verborum obligatio. Anche in questa legis actio il formulario si distingue nelle due parti già viste per la legis actio sacramento: per quanto concerne l’actio in senso stretto, Gai 4.17 riporta quella dell’agere ex sponsione, che coincide sostanzialmente con l’actio dell’agere sacramento in personam, con un’unica differenza: in questo caso è sicuro che si specifichi il negozio, qui la sponsio, da cui nasce l’obbligazione ( ex

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sponsione te mihi decem milia sestertiorum dare oportere aio: id postulo aias an neges) : alla risposta nego del convenuto, l’attore proseguiva con la parte del formulario che introduceva il modus agendi, e che consisteva nella richiesta di un giudice rivolta al magistrato: quando tu negas, te praetorem postulo iudicem uti des (“dacché tu [convenuto] neghi, io ti richiedo, pretore, di dare un giudice”) : mentre nelle azioni divisorie anziché il iudex si chiedeva un arbiter. Fra le legis actiones dichiarative l’ultima ad essere introdotta è quella per condictionem: si tratta di una legis actio specialis che può utilizzarsi solo per le obbligazioni di dare una quantità determinata di denaro (certa pecunia) od una determinata cosa (certa res) ; in questa actio non è necessario indicare da quale atto giuridico nasca l’obligatio. Si tratta di uno schema simile a quello usato nell’agere sacramento ma in questo modus agendi non viene specificato il fatto costitutivo dell’oportere. Alla risposta nego del convenuto l’attore risponde: quando tu negas, in diem tricensimum tibi iudicis capiendi causa condico (“dacché tu neghi, io ti convoco qui fra trenta giorni per prendere il giudice”). Riguardo invece le legis actiones esecutive Gai 4.11-29 tratta della legis actio per manus iniectionem, si tratta di un’azione esecutiva che si coordina al processo di cognizione, svoltosi nelle forme delle legis actiones dichiarative, e presuppone una sentenza di condanna. Essa fa valere la responsabilità personale del debitore, in quanto serve ad infliggere una sanzione essenzialmente afflittiva della persona. Nella configurazione che risulta da Gai 4.21-24, la manus iniectio iudicati presuppone l’emanazione di una sentenza di condanna al pagamento di

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una somma di denaro. Dopo i triginta dies iusti che le XII Tavole concedevano al debitore condannato, l’attore poteva afferrarlo,ovunque lo trovasse ( ma non nel suo domicilio che rimaneva inviolabile) e costringerlo a seguirlo in ius ossia dinnanzi al tribunale del magistrato. Qui egli pronunciava l’actio:

Gai. Inst. 4,21: quod tu mihi iudicatus es sestertium decem milia, quandoc non solvisti, ob eam rem ego tibi sestertium decem milia iudicati manum inicio ( “poiché tu sei stato condannato a pagarmi la somma di 10.000 sesterzi, e poiché non li hai ancora pagati, per tale motivo io esercito su di te la manus iniectio per 10.000 sesterzi sulla base del giudicato”).

Nella manus iniectio iudicati il debitore non poteva difendersi personalmente contestando le affermazioni dell’attore ma doveva far intervenire un terzo detto vindex che ne assumeva la difesa; se egli non trovava nessuno disposto ad accollarsi la relativa responsabilità, la procedura esecutiva aveva il suo corso ed il magistrato procedeva all’addictio. In seguito alla presentazione del vindex il debitore veniva estromesso dalla lite ed era il vindex stesso che assumeva su di lui l’onere di un processo di cognizione nei confronti del creditore procedente, in cui si doveva accertare la fondatezza o meno dell’esecuzione iniziata dall’attore. Nel caso in cui il vindex riuscisse vittorioso, risultava accertato che la manus iniectio originariamente esperita era priva di

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fondamento; ove invece soccombesse il vindex stesso veniva condannato a favore del creditore al pagamento di una somma doppia di quella dovuta dal debitore originario. In seguito all’addictio il debitore si viene a trovare nella condizione di addictus: egli non perde comunque né lo status libertatis né lo status civitatis. La sua libertà viene limitata in funzione del processo. Il creditore procedente ha il diritto di tenerlo presso di sé e di legarlo (nelle XII Tavole si fissava il peso massimo delle catene), ed ha l’obbligo di prestargli un nutrimento di sussistenza (una libbra di farro al giorno), a meno che il debitore stesso non voglia nutrirsi con propri mezzi o con quanto gli forniscono familiari ed amici. Prima di procedere oltre, il creditore è tenuto ad osservare un termine dilatorio di 60 giorni, che aveva lo scopo di permettere una pactio che evitasse l’inflizione della sanzione definitiva: a tal fine il debitore doveva essere esposto per tre mercati consecutivi nel foro con l’indicazione della somma per la quale era stato condannato. Trascorsi 60 giorni e passato il terzo mercato, il debitore poteva essere messo a morte o venduto al di là del Tevere e cioè in territorio straniero. La manus iniectio scompare poi definitivamente nel 17 a.C. con l’abolizione della procedura delle legis actiones2

. Nel sistema delle legis actiones esiste un’altra azione esecutiva,quella per pignoris capionem, che presenta caratteristiche particolari. La pignoris capio

2 Secondo quanto afferma M. Talamanca, Istituzioni di diritto romano, Milano,1990, p.

295; V. Arangio- Ruiz, Istituzioni di diritto romano, Napoli, 1974, p. 58, 112, 113 ss ; P. Voci, Manuale di diritto romano, Milano, 1984, p. 429; C. Sanfilippo, Istituzioni di

diritto romano, Catanzaro, 2002, p. 119, 120; A. Lovato, S. Puliatti, L. Solidoro Maruotti, Diritto privato romano, Torino, 2014, p. 50, 51; Università di Catania, pubblicazioni

della facoltà di giurisprudenza Studi per Giovanni Nicosia, Milano, 2007, p. 244 e ss.

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consiste nell’impossessamento da parte del creditore di cose, sembra solo mobili, appartenenti al debitore, tale atto doveva essere accompagnato dalla pronuncia di certa verba. Secondo quanto riporta Gaio le fattispecie in cui era prevista la pignoris capio erano state introdotte o lege o moribus.

Gai. Inst. 4,26 : per pignoris capionem lege agebatur de quibusdam rebus moribus, de quibusdam rebus lege.

Le XII Tavole davano ad esempio questa azione a colui che avesse venduto un animale per un sacrificio quando il prezzo non fosse stato pagato, mentre i mores permettevano di pignus capere per l’aes militare, al soldato che non ricevesse il suo stipendium, nei confronti del tribunus aerarius, che, incaricato del pagamento non lo avesse effettuato. La pignoris capio era poi concessa al publicanus, l’esattore delle imposte, che rispondeva nei confronti dell’ aerarium anche per i tributi non riscossi contro il contribuente che non avesse pagato. Il processo delle legis actiones è diviso in due parti: “in iure” e “apud iudicem”3. Come in ogni processo privato l’iniziativa doveva essere presa dall’attore il quale doveva convocare la controparte. Elemento fondamentale dello stadio

3 Talamanca, Istituzioni, cit., p. 284; Voci, Manuale, cit., p. 418 e ss.; Arangio- Ruiz

Istituzioni, cit., p. 112 e ss; L. Garofalo, Il giudice privato nel processo civile romano, omaggio ad Alberto Burdese (tomo primo), Padova, 2012, p. 43,44; Lovato, Puliatti,

Solidoro Maruotti, Diritto, cit., p. 38,39; G. Franciosi, Corso storico istituzionale di

diritto romano, Torino, 2014, p. 286, 287; M. Talamanca Elementi di diritto privato romano, Milano,2013, p. 140,141; C. Cascione, Manuale breve di diritto romano,

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processuale in iure è dunque lo scambio di dichiarazioni solenni tra le parti, dichiarazioni contrapposte e incompatibili tra loro, perché una nega esplicitamente o implicitamente ciò che dice l’altra. Il processo in iure non può svolgersi senza la presenza e la partecipazione di ambedue le parti. L’attore deve assicurarsi la presenza del convenuto e per ottenere questo risultato ha il potere di convocare l’avversario davanti al magistrato e di condurlo anche con la forza se non accetta. L’istituto è detto in ius vocatio 4. Il convenuto una volta che sia presente in iure deve accettare la sua parte di convenuto che l’attore gli attribuisce, cioè deve difendersi negando ciò che l’attore afferma. Le dichiarazioni sono pronunciate dinnanzi ai testimoni appositamente intervenuti. Tali dichiarazioni costituiscono la litis contestatio. Lis vale come controversia giudiziaria mentre contestatio vale come dichiarazione davanti ai testimoni: litis contestatio è dunque la duplice dichiarazione che davanti ai testimoni descrive i termini della controversia esistenti tra le parti. La litis contestatio ha due funzioni. La prima è quella di determinare con le parole delle parti l’oggetto del processo e in questo caso la determinazione è importante perché da essa il giudice apprende su qual punto si deve pronunciare. La seconda è quella di impegnare le parti alla soluzione della lite mediante una sentenza. Con le loro dichiarazioni esse hanno costituito un processo e devono attenderne la fine. Esaurita la fase in iure si apre la

4 L’istituto è regolato dalle XII Tavole, 1,1-3. Non si hanno invece notizie su cosa

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fase apud iudicem 5.Nella fase apud iudicem la comparizione dinnanzi al giudice privato doveva avvenire il secondo giorno successivo alla conclusione della fase in iure. In questa fase la parte assente perdeva la lite dopo che il giudice avesse aspettato fino al calar del sole. Ora infatti non è più necessaria la presenza di tutte e due le parti:dopo che esse hanno contribuito alla costituzione del processo è affar loro intervenirvi o no, la sentenza si avrà comunque ma in assenza di una parte sarà sfavorevole per lei. Secondo quanto riporta il P. Voci nel ‘Manuale di diritto romano’, l’ufficio di giudice può essere di una persona sola o di un collegio. Il giudice unico è un istituto tipico del processo romano ed era già conosciuto al tempo delle XII Tavole. Tale giudice unico è nominato dal magistrato e allo stesso modo sono nominati i recuperatores, collegio di 3 o 5 membri competente in una serie limitata di materie. Collegi con attività permanente sono quelli dei decemviri e dei centumviri. Dei decemviri litibus iudicandis si sa che erano competenti nei processi di libertà6. Dei centumviri si sa che erano competenti in materia di proprietà

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Secondo F. Arcaria, O. Licandro, Diritto romano I, la storia costituzionale di Roma, Torino, 2014, p. 34 “La bipartizione del processo in due stadi non è originaria: in origine il processo cominciava e finiva presso lo stesso organo. L’origine della bipartizione non è nota ma la leggenda, attraverso Dionigi di Alicarnasso, la attribuisce al re Servio Tullio il quale effettuò una sorta di riforma giudiziaria ‘ante litteram’ disponendo la bipartizione del processo nella fase ‘ in iure’ e ‘apud iudicem’: Dion. Hal. 4,25,2: “In effetti i re che

lo avevano preceduto avevano ritenuto opportuno condurre personalmente i processi e giudicare secondo modalità proprie le cause, sia private che pubbliche, mentre Servio Tullio separò le cause pubbliche da quelle private, emanava personalmente le sentenze per gli illeciti attinenti all’interesse pubblico, mentre per gli illeciti privati dispose che vi fossero dei giudici privati, stabilendo per questi come limiti e norme le leggi che egli stesso aveva redatto”.

6Cic., p. Caec. 33,97: Re quaesita et deliberata sacramentum nostrum iustum

iudicaverunt, cuius causa erat melior iusto sacramento contendere dicebatur, eiusque sacramentum iustum, adversarii iniustum iudicabant iudice.; pro Dom. 29,78

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e di eredità7; essi non giudicavano tutti insieme, ma erano divisi in sezioni (consilia). Giudice (iudex) è un privato scelto di comune accordo fra le parti; ma sembra che già in quell’epoca vi fosse nel tribunale un albo di giudici e che quando i contendenti non avessero già pronto altro nome, il magistrato li invitasse a scegliere nell’albo, e in caso di disaccordo curasse l’estrazione a sorte8

. Non si tratta di necessità di un conoscitore del diritto in quanto si può far assistere da un consilium. Il giudice fonda le sue decisioni su ciò che le parti asseriscono di dati fatti sulle prove che forniscono; pesano sulla decisione le dichiarazioni iniziali, in base a ciò che le parti hanno provato il giudice pronuncia la sua sentenza dando ragione all’una o all’altra parte.

§ 1.2 - Il giudice privato nel processo formulare

Il processo formulare nasce invece nel IV sec. a.C e diviene processo civile ordinario nel 17 a.C; con la Lex Iulia iudiciorum privatorum diviene il sistema processuale principale fino al III sec. d.C e viene abolito nel 342

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Gai. Inst. 4, 31: Tantum ex duabus causis permissum est [id legis actionem facere] lege

agere, damni infecti et si centumvirale iudicium futurum est; sane cum ad centumuiros itur, ante lege agitur sacramento apud praetorem urbanum vel peregrinum; damni vero infecti nemo vult lege agere, sed potius stipulatione, quae in edicto proposita est, obligat adversarium suum, idque et commodius ius et plenius est. Per pignoris capionem…

8 Arangio-Ruiz, Istituzioni cit., p.112 ; Garofalo, Il giudice privato (tomo secondo) cit., p.

320, dove si dice che una possibile procedura di nomina del giudice era la sortitio, la quale si svolgeva mediante estrazione dei nomi dall’albo e con un limitato diritto di ricusazione ad opera delle parti. Questo metodo di scelta del giudice era però del tutto eccezionale anche secondo quanto afferma V.G.I Luzzatto Procedura civile romana, Bologna, 1950, p. 226 e ss; Franciosi, Corso, cit., p. 115; Talamanca, Elementi, cit., p. 167.

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d.C 9. Gaio riferisce del passaggio dal sistema delle legis actiones a quello del processo formulare ricordando la lex Aebutia del II sec. a.C. e due leggi Giulie e soprattutto la lex Iulia iudiciorum privatorum del 17 a.C. che segnarono il passaggio ad un diverso tipo di processo, nel quale alle parole solenni previste dalla legge, si sostituirono i concepta verba (in altre parole, l’azione veniva proposta davanti ad un magistrato pronunciando ed esponendo liberamente la propria pretesa, che era poi il magistrato a dover incanalare in uno schema processuale, in una formula).

Gai. Inst. 4,30: sed istae omnes legis actiones paulatim in odium venerunt. Namque ex nimia subtilitate veterum, qui tunc iura condiderunt, eo res perducta est, ut vel qui minimum errasset, litem perderet: itaque per legem Aebutiam et duas Iulias sublatae sunt istae legis actiones, effectumque est, ut per concepta uerba, id est per formulas, litigaremus.

Le origini del processo formulare dipendono dall’esigenza di approntare una difesa giudiziaria ed una protezione per gli stranieri a Roma (iurisdictio peregrina), infatti vediamo che il processo delle legis actiones era il processo dei cives romani e poteva aver luogo solo se entrambe le parti avevano la cittadinanza romana; poi a cavallo fra il IV e il III sec. a.C. il pretore che si occupava della iurisdictio urbana cominciò ad

9 Talamanca, Istituzioni, cit., p.281; Arangio- Ruiz, Istituzioni, cit., p. 123; Voci,

Manuale, cit., p. 431; Talamanca, Elementi, cit., p. 29; Lovato, Puliatti, Solidoro

Maruotti, Diritto, cit., p. 123; G. Valditara, Diritto pubblico romano, Torino, 2013, p. 196; Sanfilippo, Istituzioni, cit., p. 132; L. De Giovanni, Istituzioni scienza giuridica

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esercitare anche nella iurisdictio peregrina dove una delle parti fosse straniera. Nel 242 a.C. si duplicò la carica di pretore ed il secondo pretore venne detto praetor peregrinus, anche nella iurisdictio peregrina il pretore affidava al giudice, scelto dalle parti, il compito di risolvere la controversia dinnanzi a lui impostata; al giudice il pretore fissava, con un programma scritto, i criteri in base ai quali risolvere la controversia, da qui la “formula”del processo romano dell’epoca classica.

Dopo il 242 a.C. , anno in cui fu creato il praetor peregrinus, si accelerò lo sviluppo del processo formulare10. Agli inizi le istruzioni da dare agli arbitri o ai giudici venivano di volta in volta stilate dal pretore, il che lasciava adito a divergenze sostanziali o formali in casi analoghi fra loro; ben presto però si invidiarono tipi di istruzioni che venivano adoperati come schemi nei casi analoghi, prefigurando ormai le formulae del processo classico. Si viene così a creare un patrimonio di schemi che si tramanda da pretore a pretore. All’interno delle nuove forme processuali si introduce l’utilizzazione dello ius edicendi : il pretore peregrinio all’entrata in carica emanava un editto nel quale indicava i criteri sulla base dei quali avrebbe esercitato la iurisdictio nel corso dell’anno11. Secondo gli studi di Wlassak in un primo momento vi era una tendenza da

10 Secondo quanto riporta Talamanca, Istutuzioni, cit., p.300; Voci, Manuale, cit., p.

38,39; L. Fascione, Storia del diritto privato romano, Torino, 2012, p.180; C. Russo Ruggeri, Studi in onore di Antonino Metro (tomo primo), Milano, 2009, p. 195; A. Petrucci, Lezioni di diritto privato romano, Torino, 2015, p. 387; G. Valditara, Diritto

pubblico romano, Torino, 2013, p. 54.

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M. Talamanca, Istituzioni di diritto romano p. 301; Talamanca, Elementi, cit., p. 12; Valditara, Diritto, cit., p. 133; Lovato, Puliatti, Solidoro Maruotti, Diritto, cit., p.58,59; Fascione, Storia, cit., p. 187,188 e ss.; R.G. Pothier, Le pandette di Giustiniano ( volume

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parte dei pretori di evitare l’organizzazione di processi tra cives; vediamo infatti che in quel periodo (inizi del II sec a.C.) vengono votate leges rivolte a migliorare il sistema delle legis actiones come ad esempio la lex Silia e la lex Calpurnia. La prima si riferisce ad una legis actio specialis che può utilizzarsi solo per le obbligazioni di dare una quantità determinata di denaro (certa pecunia) e con tutta probabilità risale alla fine del III secolo a.C. , la seconda si riferisce ad una legis actio specialis che può essere utilizzata per le obbligazioni di dare una cosa determinata (certa res) e risale all’inizio del II secolo a.C.12. Di queste due leggi tratta anche Gaio:

Gai. Inst. 4,19: haec autem legis actio constituta est per legem Siliam et Calpurniam, lege quidem Silia cartae pecuniae, lege vero Calpurnia de omni certa re.

Da qualche decennio però si è ipotizzata un’evoluzione del processo formulare all’interno del sistema delle legis actiones o di porre sullo stesso piano la iurisdictio urbana a quella peregrina. Non ci sono però fonti a

12 Secondo quanto riporta Talamanca nelle Istituzioni, cit., p. 290; Arangio-Ruiz,

Istituzioni, cit., p. 199; Voci, Manuale, cit., p. 423; A. A. Schiller, Roman law, mechanisms of development, New York, 1978, p. 201,202,203; W. H. Buckler, B.A,

LL.B., The origin and history of contract in roman law down to the end of the republic

period, Londra, 1895, p. 101; A. Berger, Encyclopedic dictionary of roman law, Clark,

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16 sostegno dell’una o dell’altra tesi13

. Notevoli erano comunque le spinte verso la sostituzione delle legis actiones con il processo formulare, vediamo lo stesso Gaio che sottolinea la rigidità ed il formalismo delle legis actiones tanto che ben presto risultarono invise all’opinione pubblica:

Gai. Inst. 4,30: paulatim in odium venerunt.

Questa sostituzione iniziò con la lex Aebutia, di data incerta, ma comunque nella seconda metà del II sec. a.C. La portata di tale legge è discussa in dottrina. Lorenzo Franchini ad esempio nella “Desuetudine delle XII Tavole nell’età arcaica”14

afferma che si hanno notizie su tale legge grazie a Gellio e a Gaio ( Gai. 4.30) :

Gell. Noct. Att. 16,10,8: Se enim cum proletarii et adsidui et sanate set vades et subvades et viginti quinque asse set taliones furtorumque quaestio cum lance et licio evanuerint, omnisque illa duodecim tabularum antiquitas nisi in legis actionibus centumviralium causarum lege Aebutia lata consopita sit, studium scientiamque ego praestare debeo iuris et legum vocumque earum, quibus utimur.

13 M. Talamanca, Istituzioni, cit., p. 302. 14

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Secondo Gellio l’autorità delle XII Tavole venne a diminuire a seguito dell’ emanazione della lex Aebutia, anche secondo Gaio tutte le legis actiones a poco a poco vennero in odio. Secondo Franchini è noto come il passo gelliano rappresenti insieme a quello di Gaio l’unica fonte attraverso cui sappiamo della lex Aebutia ed è anzi spesso invocato da coloro che inclinano ad attribuire alla legge una portata riformatrice di carattere generale, anziché di carattere parziale, come invece sostengono altri studiosi15. Tuttavia lo stesso Franchini afferma che è ben difficile che l’autorità delle XII Tavole sia in gran parte cessata a seguito dell’entrata in vigore di una legge processuale, qualunque fosse il contenuto di questa; è invece probabile che la lex Aebutia, incidendo sulla tutela giurisdizionale di alcuni degli istituti menzionati, ne abbia in qualche modo accelerato la caduta in desuetudine. È sicuro che tale lex Aebutia attribuì efficacia sul piano del ius civile al processo formulare, ma senza abolire però le legis actiones che furono invece definitivamente accantonate dalla lex Iulia del 17 a.C. Vi è parte della dottrina che sostiene che la lex Aebutia abbia abolito definitivamente una soltanto delle legis actiones e precisamente quella per condictionem, introducendo al suo posto, con effetti civili, la condictio formulare. Dopo la lex Aebutia e nel corso del I sec. a.C. l’editto del pretore assunse la sua definitiva struttura. Con l’estensione della procedura formulare alle fattispecie tutelate dal ius civile, il pretore dovette ricomprendere nell’editto anche le formulae per le azioni civili,

15M. Wlassak nell’opera Romische Prozessgesetze,Lipsia, 1888, p. 128; Luzzato,

Procedura, cit., p.97; M. Kaser, Die lex Aebutia, in Studi Albertario,I, Milano 1953, p.

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mentre nel periodo pre-ebuzio vi erano contenute soltanto le formulae relative alle fattispecie di diritto onorario. L’importanza dell’editto pretorio si manifesta nella lex Cornelia del 67 a.C. che obbligava i pretori ad esercitare la giurisdizione sulla base del proprio editto. Dopo la lex Aebutia quindi le legis actiones persero la loro vitalità e nel 17 a.C. esse furono definitivamente abolite dalla lex Iulia iudiciorum privatorum, che fece del processo formulare il processo ordinario per le controversie private riguardanti le fattispecie tutelate dal ius civile. A tal proposito Gaio ricorda come le legis actiones sopravvissero solo in due casi:

Gai. Inst. 4,31: Tantum ex duabus causis permissum est [id legis actionem facere] lege agere,damni infecti et si centumuirale iudicium futurum est…

La formula è ovviamente il momento centrale del processo ed ha la funzione di indicare al giudice privato i criteri in base ai quali deve procedere alla soluzione della controversia. A partire da Gaio si possono contrapporre, secondo il Talamanca “Istituzioni di diritto romano”, la rigidità dei certa verba che le parti dovevano adoperare nelle legis actiones per esprimere in iure le proprie pretese, alla flessibilità della formula e dei concepta verba. Una volta fissata, la formula rappresentava il fondamento esclusivo e il limite invalicabile dei poteri del giudice privato il quale doveva fare tutto quello che gli era imposto dalla formula e non poteva fare alcunché a cui non fosse da essa autorizzato. Ecco perché i giuristi romani erano così attenti ai problemi della costruzione

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delle formule- tipo proposte nell’editto e del loro adattamento al caso concreto. Riguardo alla struttura della formula vediamo che questa si presenta così:

se a, allora x; se non a,allora y (cioè se si può accogliere la domanda dell’attore, tu giudice condanna; se non si può accogliere allora assolvi). Le formule, inserite in un apposito albo, erano costruite sulla base di determinate partes formularum. Gaio enumera queste partes in numero di quattro : la demonstratio, l’intentio, l’adiudicatio e la condemnatio:

Gai. Inst. 4,39: Partes autem formularum hae sunt: demonstratio, intentio, adiudicatio, condemnatio.

Secondo Gaio la demonstratio è quella parte della formula che viene inserita all’inizio affinché sia indicato l’oggetto della controversia:

Gai. Inst. 4,40: Demonstratio est ea pars formulae, quae principio ideo inseritur, ut demonstretur res, de qua agitur, uelut haec pars formulae: Quod Aulus Agerius Numerio Negidio hominem vendidit, item haec: Quod A.Agerius apud N. Negidium hominem deposuit. (poiché Aulo Agerio ha venduto a Numerio Negidio uno schiavo, oppure poiché Aulo Agerio ha depositato uno schiavo presso Numerio Negidio).

Gaio prosegue poi parlando dell’intentio che è quella parte della formula con la quale l’attore precisa la sua pretesa:

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Gai. Inst. 4,41: Intentio est ea pars formulae, qua actor desiderium suum concludit, velut haec pars formulae: si paret N. Negidium A. Agerio sestertium X milia dare oportere; item haec: quidquid paret N. Negidium A. Agerio dare facere oportere; item haec: si paret hominem ex iure quiritium auli agerii esse.

Gaio parla poi della adiudicatio la quale si trova solo nei giudizi divisori dove i contitolari di una cosa o di un’eredità chiedono lo scioglimento della comunione ed ottengono, così, in luogo della titolarità per quota quella esclusiva di parti della cosa comune o di singole cose comuni:

Gai. Inst. 4,42: Adiudicatio est ea pars formulae, qua permittitur iudici rem alicui ex litigatoribus adiudicare, uelut si inter coheredes familiae erciscundae agatur aut inter socios communi diuidundo aut inter uicinos finium regundorum. Nam illic ita est: quantum adiudicari oportet, iudex, Titio adiudicato.

Dopo l’adiudicatio Gaio tratta della condemnatio che è secondo l’autore quella parte della formula nella quale si da al giudice il potere di condannare o di assolvere:

Gai. Inst. 4,43: Condemnatio est ea pars formulae, qua iudici condemnandi absolvendive potestas permittitur ; velut haec pars formulae

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: iudex, numerium negidium Aulo Agerio sestertium X milia condemna. Si non paret, absolve.

La condemnatio può essere certa o incerta a seconda che sia fissata, già nei concepta verba, la somma di denaro per cui può avvenire la condanna, o si lasci al giudice di procedere alla valutazione nell’interesse dell’attore (di procedere cioè alla litis aestimatio) . La condemnatio sia certa che incerta può essere ulteriormente delimitata da una taxatio che fissa il limite massimo dentro cui il giudice può determinare in concreto l’ ammontare della condanna stessa:

Gai. Inst. 4,43: item haec: iudex, N. Negidium A. Agerio dumtaxat decem milia condemnato. Si non paret, absolvito; item haec: iudex, N. Negidium A. Agerio condemnato et reliqua, ut non adiciatur dumtaxat.

Anche il processo formulare si divide in due stadi: lo stadio in iure si svolge davanti al pretore; la competenza del pretore non ha limiti né in materia né per territorio. Lo stadio apud iudicem è presieduto dal giudice che è un privato che esercita una funzione pubblica (per la nomina del giudice vedi paragrafo successivo). Come il processo per legis actiones anche quello formulare sorge solo per la volontà di tutte e due le parti. Esse devono essere presenti in iure e perciò chi vuole agire deve assicurarsi che compaia con lui, davanti al magistrato, chi assumerà la qualità di convenuto. Serve quindi l’istituto della in ius vocatio. Chi vuole

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agire deve indicare al suo avversario di quale azione intenda servirsi e su quali argomenti fondi la sua richiesta: cosa che lo obbliga a mostrare i documenti che ritiene provino il suo diritto. Tutto questo è detto editio actionis. Senza editio actionis è legittimo il rifiuto di comparire in tribunale. Se entrambe le parti sono presenti dinnanzi al magistrato si inizia lo stadio in iure. Chi vuole iniziare il processo chiede al magistrato di potere agire indicando di quale azione e quindi di quale formula intende servirsi ed esponendo sommariamente i fatti che motivano l’azione: ciò si dice postulare actionem. L’avversario replica, a meno che non confessi, e la sua difesa può consistere o nella negazione totale del diritto dell’attore o nella opposizione di una eccezione. L’attività delle parti, diretta dal magistrato, finisce con l’accordo sullo schema della formula, che stabilisce il tema del processo. Si giunge così alla litis contestatio. Qui non ci sono più le dichiarazioni contrapposte delle parti, proprie delle legis actiones e perciò la forma della litis contestatio muta: l’attore legge al convenuto il testo della formula; il convenuto ascolta; e ognuna delle parti, finita la lettura si rivolge ai testimoni chiedendo loro di testimoniare. La funzione della litis contestatio è quella di stabilire ufficialmente che il processo si è costituito per la partecipazione di tutti e due i soggetti e con l’oggetto che risulta dalla formula. Il magistrato ascolta le parti per decidere sulle loro richieste. Il punto fondamentale che deve accertare è se il fatto esposto dall’attore abbia riconoscimento giuridico: cioè se l’attore abbia,a sua tutela, un’azione cui nell’editto corrisponda la formula relativa. Per fare ciò il magistrato deve cercare la definizione giuridica

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della situazione espostagli. Però il magistrato deve stare a quello che gli dice l’attore e non accerta se le cose espostagli siano vere o no; sul fondamento effettivo della richiesta dell’attore si pronuncerà solo il giudice. Quando il magistrato rileva che la richiesta dell’attore deve essere accolta autorizza l’azione. Questa attività si indica con dare actionem16 (o più spesso dare iudicium17). Il magistrato fa questo con un suo provvedimento che consta di due parti. In primo luogo egli nomina formalmente il giudice, in secondo luogo ordina al giudice di decidere la controversia che è descritta nella formula. La formula è appunto l’atto con cui il magistrato ordina al giudice di giudicare. Anche nel processo formulare come in quello per legis actiones vi è la necessità della defensio da parte del convenuto. Lo stadio processuale apud iudicem non prevede per forza di cose la presenza di tutte e due le parti, se una è assente il processo si chiude egualmente con sentenza pronunciata in favore di chi è presente (la norma era già presente nel processo per legis actiones). Ciò che è scritto nella formula fissa in modo immutabile la posizione di ciascuno, se dalla formula risulta che N.N deve ad A.A il fondo a titolo di vendita, A.A non può mutare la sua domanda e affermare che il fondo gli è dovuto per esempio a titolo di stipulatio18. Ognuno deve provare la verità

16 Voci, Manuale, cit., p. 465; secondo il Berger, Encyclopedic, cit., p. 424: “Dare

actionem is to grant an action. The praetor “gives an action” in cases where the ius civile refused it. In a larger sense dare actionem (or iudicium) is the praetor’s approval of the formula agreed upon by the parties.

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Nel senso di permettere che il giudizio si svolga secondo quanto riporta Wlassak, Die

klassische prozessformel, Vienna, 1924, p. 147 e ss.

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di ciò che ha fatto inserire nella formula: dunque l’attore deve provare il fondamento dell’intentio; il convenuto deve provare il fondamento dell’eccezione. Riguardo l’attività del giudice, sono da notare alcune caratteristiche. Il giudice deve obbedire alla legge e alla formula. Alla legge perché deve applicare il diritto, alla formula perché deve accettare per tema della controversia quello che in essa è descritto e deve attenersi alle istruzioni specifiche che la formula gli dà. Se ad esempio la formula dice che egli non può, nella condanna, superare una certa somma,egli deve obbedirle. Il giudice che non segue la formula è perseguibile, con apposita azione, dalla parte che ha ricevuto danno19.

§ 1.3 - La decisione del giudice: la sentenza

Dopo aver valutato la validità delle prove, il giudice pronuncia la sentenza. Al giudice è lasciata anche la facoltà di non pronunciarsi se ritiene che i fatti a lui sottoposti non siano tali da giustificare una sentenza e allora pronuncia che la questione non gli è chiara ( rem sibi non liquere )

19 L’obbligo per il giudice di attenersi a ciò che gli prescrive la formula è messo in rilievo

con enfasi da Cicerone, Cic., Verr. 2, 2,12,31: Si vero illud quoque accedit, ut praetor in

ea verba iudicium det ut vel L. Octavius Balbus iudex, homo et iuris et offici peritissimus, non possit aliter iudicare,- si iudicium sit eius modi: L. OCTAVIUS IUDEX ESTO. SI PARET FUNDUM CAPENATEM, QUO DE AGITUR, EX IURE QUIRITUM P. SERVILI ESSE, NEQUE IS FUNDUS Q. CATULO RESTITUETUR,non necesse erit L. Octavio iudici cogere P. Servilium Q. Catulo fundum restituire, aut condemnare eum quem non oporteat? Eius modi totum ius praetorium, omnis res iudiciaria fuit in Sicilia per triennium Verre praetore. Decreta eius modi, SI NON ACCIPIT QUOD TE DEBERE DICIS, ACCUSES; SI PETIT, DUCAS: C. Fuficium duci iussit petitorem, L. Suettium, L. Racilium. Iudicia eius modi: qui cives Romani erant [iudicabant] si Siculi essent, cum Siculos eorum legibus dari oporteret, qui Siculi, si cives Romani essent.

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e conferma la sua dichiarazione con un giuramento20. Il processo è interamente orale e perfino la sentenza non era scritta21; le parti parlano direttamente al giudice e solo a lui22. La sentenza emessa dal giudice decide definitivamente la controversia, non esiste possibilità di appello contro di essa, perché non esistono giudici superiori e inferiori; la sentenza è priva di motivazione e ciò impediva alle parti di venire a conoscenza delle ragioni che avevano portato il giudice a quella decisione. Il giudice che tergiversasse senza una giustificazione nell’emanazione della decisione era soggetto a misure coercitive previste dal pretore. Il processo è irripetibile: destinato a procurare certezza sopra una questione controversa, pertanto la stessa azione non può essere esperita più di una volta: bis de eadem re ne sit actio23. Il processo non può durare a lungo; la Lex Iulia iudiciaria prevede una durata massima di 18 mesi, dopodiché si estingue. Tale legge è richiamata da Gaio, il quale distingue i processi a seconda che abbiano il loro fondamento nella legge o nell’imperium del magistrato: si hanno quindi i iudicia legitima e iudicia quae imperio

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Voci, Manuale, cit., p. 470; B. Biondi, Il giuramento decisorio nel processo civile

romano, Palermo, 1913, p. 120; Garofalo, Il giudice privato, cit., p. 490 e ss., afferma

che il giuramento, nel mondo romano arcaico, era considerato il più sacro di tutti i vincoli, tanto negli affari privati quanto negli affari pubblici. In particolare il giuramento in ambito processuale ha permesso l’evoluzione delle modalità di ricerca della verità processuale.

21 Voci, Manuale, cit., p. 470 nota 60; Arangio-Ruiz, Istituzioni, cit., p. 139;

22 Voci, Manuale, cit., p. 470, 471 afferma che l’esame dei fatti da parte del giudice è

immediato e personale e non c’è atto di istruzione che non sia compiuto da chi

pronuncerà la sentenza, quindi non sono ammesse certezze acquisite mediante cognizione altrui. La sentenza emessa dal giudice decide definitivamente la controversia: non esiste possibilità di appello contro di essa.

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Quint., Inst. Or. 7,6,4: Solete et illud quaeri, quo referatur quod scriptum est: “bis de

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continentur. Iudicia legitima sono quelli riconosciuti dalle disposizioni che hanno legalizzato il processo formulare, come appunto la lex Iulia iudiciaria e la lex Aebutia, si devono svolgere a Roma e devono avere come attore e convenuto persone che siano cittadini romani ; la decisione deve essere affidata ad un giudice unico. Judicia, quae imperio continentur, sono quei processi che manchino di uno dei sudetti requisiti e fondino la loro giustificazione solo sull’autorità del magistrato che li ha autorizzati.

§ 1.4 - Il giudice privato ed il pretore

Il giudice privato non solo può astenersi dal giudicare ma deve senz’altro ‘condannare’ o ‘assolvere’ attraverso l’emissione di un ‘parere’. ‘Parere’ significa essere chiaro e ben si addice alla posizione intellettiva del giudice che deve formarsi un convincimento sulla base delle prove addotte dalle parti ed altrettanto ben si conface alla sua condizione di soggetto privato che è chiamato a fungere da giudice dalla concorde volontà delle parti e investito di tale funzione dal pretore. Il giudice nonostante la funzione assegnatagli dal pretore, rimase sempre un soggetto non professionale chiamato per qualche giorno ad abbandonare la propria occupazione quotidiana per conoscere e giudicare gratuitamente controversie sorte tra concittadini. Il iudex unus era scelto tra persone che non necessariamente avevano una preparazione nel campo del diritto (a tal proposito vedi capitolo seguente). È importante approfondire il rapporto intercorrente tra il pretore e il giudice; notiamo come nella dialettica tra il

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pretore e il giudice e in conseguenza tra formula e sentenza la corrispondenza fosse quella tra l’imperativo formulare e il mihi liquet ossia il ‘mi è chiaro’ nel momento in cui il giudice si fosse formato un convincimento , sui fatti di causa e potesse perciò emanare la sentenza, sia essa di condanna o di assoluzione, mentre, ove mancasse il raggiungimento di tale convincimento si sarebbe aperta la via del “iurare rem sibi non liquere”. Possiamo quindi dire che il giudice privato è si legato all’ordine del pretore ma solo nell’assumere le prove e seguire la formula impartita da quest’ultimo mentre la decisione in ordine alla condanna o assoluzione del convenuto non riposa sul comando del pretore ma si fonda sull’autonomia decisionale del giudice stesso in relazione al suo libero convincimento24. L’emanazione della sentenza dunque non può essere un dovere che deriva al giudice dall’ordine del pretore ma discende solamente dalla soggettività della decisione. Il rapporto che si instaura tra il pretore e il giudice non è di ordine-subordinazione bensì di interrogazione-risposta25.

§ 1.5 - La scelta del giudice privato nel processo formulare alla luce della Lex Irnitana.

24 Garofalo, Il giudice privato, cit., p. 546; Lovato, Puliatti, Solidoro Maruotti, Diritto,

cit., p. 91; G. Franciosi, Corso storico istituzionale di diritto romano, Torino, 2014, p. 303.

25 Garofalo, Il giudice privato, cit., p. 545-546-547 puntualizza che l’obbligo del giudice

consiste nello svolgimento della attività di accertamento e non nella emanazione sempre e comunque di una sentenza.

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Nel processo formulare particolare importanza riveste la scelta del giudice privato facendo riferimento alla Lex Irnitiana (91 a.C) ; tale ampio documento epigrafico fa più volte riferimento alla precedente Lex Iulia iudiciorum privatorum. Si tratta di sei tavole di bronzo, più alcuni frammenti contenenti un’estesa iscrizione su tre colonne, casualmente rinvenute nel 1981 a el Saucejo, nei pressi di Siviglia; è ciò che resta delle dieci tavole che erano presumibilmente esposte nel senato del municipio Flavium Irnitanum, in quanto contenenti lo statuto di esso. Alla fine dell’ultima delle tavolette si trova la data alla quale si può far risalire l’emanazione di questa lex, il 91 a.C. La dottrina è concorde in merito all’esistenza,in epoca imperiale,di una lista di persone aventi dati requisiti,dalla quale venivano tratti i giudici sia per i processi penali pubblici sia per quelli privati26. Anche in epoca repubblicana vi era un album iudicum27. Il munus iudicandi era inizialmente riservato ai senatori per la garanzia di imparzialità che pareva fornire la loro posizione sociale. Nel 122 a.C Caio Gracco attribuì il monopolio di giudicare ai cavalieri o forse introducendo 600 o 300 cavalieri accanto ai senatori28. Silla con la Lex Cornelia dell’81 a.C restaurò l’ordine tradizionale che sopravvisse solo una decina d’anni finchè la Lex Aurelia istituì un sistema di

26 Crf. E. Costa,Profilo storico del processo civile romano, Roma, 1918, p.68, nt.1; J.

Mazeaud, La nomination du ‘judex unus’ sous la procédure formulaire à Rome, Paris,1933, p.7 ss.; L.Wenger, Istituzioni di procedura civile romana, trad. it., Milano,1938, p.132.

27Sulle liste di giudici v. T. Mommsen, Romisches Staatsrecht,III, Lipsia,1887, p.535; F.

Girard, Histoire de l’organisation judiciaire des romains, Paris,1901, p. 120.

28 Opinione sostenuta da J. Carcopino, Autour des Gracques, Paris,1921, p. 200 e da

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compromesso disponendo la redazione annuale,per opera del pretore,di una lista composta da tre decurie,ciascuna di 300 giudici scelti tra senatori,cavalieri e tribuni aerarii (cioè che possedevano più di 300.000 sesterzi); tali tribuni furono esclusi da Cesare a favore dei cavalieri o senatori ma furono reintrodotti da Augusto il quale creò il sistema definitivo portando a 1000 il numero dei giudici componenti ciascuna delle tre decurie originarie e aggiungendone una quarta costituita da ducenarii cioè cittadini che possedevano metà del censo equestre. Il Pugliese 29sottolinea come le liste ufficiali dovevano servire solo per quei processi che si svolgevano secondo i riti delle legis actiones e per quelli formulari, per le controversie che trovavano soluzione al di fuori di questo campo doveva essere il magistrato competente a delimitare l’ambito entro il quale veniva scelto il giudice , finchè non si arrivò, forse prima di Augusto, alla redazione unitaria dell’albo generale30. Per poter essere iscritti all’album iudicum, oltre alle differenti condizioni sociali e politiche richieste nei vari periodi e alla cittadinanza romana,erano necessari alcuni requisiti di capacità; era inoltre necessario aver raggiunto una determinata età tra i 24,25,30 anni31, risiedere in Italia e non essere muniti di imperium pari o superiore a quello del magistrato che autorizzava il iudicium.

29 Cfr. G. Pugliese, Il processo civile romano (tomo secondo), Milano, 1963, p. 223. 30

Cfr. Pugliese, Il processo, cit., p. 220; Talamanca Elementi, cit., p. 166.

31 Sulla questione v. F Bertoldi, La ‘lex Iulia iudociorum privatorum’,Torino, 2003, p.

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D. 5,1,58: Iudicium solvitus…etiam si ipse iudex eiusdem imperii esse coeperit, cuius erat qui iudicare iussit.

La Lex Irnitana esentava dall’incarico di giudice chi avesse 3 figli o nipoti anche se morti in guerra, altre cause di esenzione erano l’età avanzata ossia superiore a 65 anni di età, il ricoprire uffici pubblici quali di edile o di questore, l’assenza giustificata per motivi di interesse comune allo stato o al municipio e l’assenza non dolosa per motivi personali,la malattia e il sacerdozio.

Riguardo la formazione delle tre decurie la lista deve essere esposta in iure per ogni giorno durante tutto l’anno32. I giudici devono essere indicati col nome romanorum completo (prenome, nomen, praenomem paterno, tribus33 e cognomen).

Riguardo alla possibilità di una delle parti di accordarsi sul nome di una persona di loro gradimento34,anche se non compresa nell’album iudicum,la

32Anche nella Tabula Heracleensis, 14ss. ,si esige che la lista sia pubblicata cottidie

maiorem partem dei; secondo F. Grelle, Diritto e società nel mondo romano, Roma,

2005, p. 338, alla formazione delle decurie dei giudici fa riferimento Plinio nella

Naturalis Historia, configurando una disciplina che discrimina i cittadini di origine

provinciale nella loro attività pubblica e ne connota negativamente la condizione personale. Plin. Nat. 33,30: “divo Augusto decurias ordinante maior pars iudicum in

ferreo anulo fuit iique non equites, sed iudices vocabantur. Equitum nomen subsistebat in turmis equorum publicorum. Iudicum quoque non nisi quattuor decuriae fuere primo, vixque singula milia in decuriis inventa sunt, nondum provinciis ad hoc munus admissis, servatumque in hodiernum est, ne quis e novis civibus in iis iudicaret”.

33 G. Luraschi, Sulla ‘Lex Irnitana’,in SDHI. 55, 1989,cit. p.359 e 364, nt.37, i tria

nomina e l’appartenenza alle tribù costituisce probabilmente “…uno dei tanti inserti (o

relitti) non adeguatamente ripensati ed aggiornati dalla cancelleria romana…”

34Possibilità che, per L. Gagliardi, La figura del giudice privato del processo civile

romano. Per un’analisi storico-sociologica sulla base delle fonti letterarie, in Diritto e teatro in Grecia e a Roma antica, Milano, 2007, p.215,“rappresentava una buona

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maggioranza degli autori è da tempo concorde. Le testimonianze infatti sono varie: Cicerone che attribuisce importanza essenziale alla volontà delle parti nella scelta del giudice affermando:

Cic. Cluent. 120: “…neminem voluerunt maiores nostri non modo de existimatione cuiusdam,sed ne pecuniaria quidem de re minima esse iudicem,nisi qui inter adversarios convenisset”.

Gaio afferma che poteva essere iudex anche un peregrino35 mentre le liste comprendevano solo cittadini romani;oppure alcuni passi del Digesto o un brano tratto dal “Liber secundus ad Sabinum”di Pomponio36 tratta del possibile errore delle parti sul nomen o praenomen del giudice. Venne poi ritrovata una tavoletta pompeiana attestante una “conventio de iudice addicendo” con la quale le parti si accordavano affinché tutte le loro future controversie fossero decise dalla persona ivi indicata.

La persona designata dai litiganti doveva avere certi requisiti anche se meno rigorosi di quelli richiesti per l’iscrizione nell’albo:libertà, sesso

senso che-in un sistema ove esisteva un solo grado di giudizio-le parti non si sarebbero poi potute lamentare dell’ignorantia iuris di un giudice che esse stesse avevano scelto liberamente”

35 Gai. Inst. 4,105: Imperio vero continentur recuperatoria et quae sub uno iudice

accipiuntur interveniente peregrini persona iudicis aut litigatoris.

36Pomp.2 ad Sab. D, 5,1,80: si in iudicis nomine praenomine erratum est, Servius

respondit, si ex conventione litigatorum is iudex addictus esset,eum esse iudicem,de quo litigatores sensissent.

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maschile,sanità di mente37,una determinata età38. La possibilità di libera scelta trova sicura conferma nella Lex Irnitana che così si esprime al capitolo 87 lin. 43-45:

“si de aliquo municipe, qui propositus non sit neque Ilvir aut aedilis aut quaestor,inter eos convenit,ut eum iudicem arbitrumve habeant…eum inter eos in eamque rem iudicem arbitrumve dato addicto iudicare iubeto”:

le parti possono previamente accordarsi sul nome di una persona di loro gradimento e attribuirle l’incarico di porre fine alla loro lis controuversiaue;si capisce quindi che la scelta si doveva effettuare su persone non ricomprese nel locale album iudicum.

Di diversa opinione è il Birks39 che pensa ad una dimenticanza del copista e ritiene implicita la possibilità dell’accordo su di un giudice della lista.

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Crf. Paul.17 ad ed. D,5,1,12,2: Non autem omnes iudices dari possunt ab his qui

iudicis dandi ius habent : quidam enim lege impediuntur ne iudices sint,quidam natura,quidam moribus. natura,ut urdu mutus:et perpetuo furiosus et impubes, quia iudicio carent.lege impeditur, qui senatu motus est. moribus feminae et servi, non quia non habent iudicium, sed quia receptum est, ut civilibus officiis non fungantur.

38 Sul punto i testi conservati sono discordanti: Callistr.1 ed. mon. D. 4,8,41. fissa il limite

a vent’anni, Ulp. 2 disp. D, 42,1,57 a diciotto e Paul. 17ad ed. D, 5,1,12,2 addirittura al raggiungimento della pubertà. Secondo R. Cardilli, Designazione e scelta del iudex unus

alla luce della lex Irnitana, Roma, 1992, p.69 “il riferimento a diverse età minime

deve…essere inquadrato nell’ampia gamma di possibilità che le parti avevano nel designare il giudice fuori dalla lista proposta dal magistrato”, nel senso che il giudice scelto al di fuori delle liste può avere anche un’età inferiore ai 25 anni , ma in tal caso potrebbe chiedere di essere esentato”.

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P. Birks, New Light on the Roman Legal System: the Appointment of Judges , Cambridge, 1988, p. 40 e ss.

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Se però andiamo ad analizzare le prime linee del capitolo vediamo che non si specifica la necessità di dover indicare per forza un giudice estraneo alla lista:

“si inter duos quos inter de re priuata lis controversia rit et de qua iudicem arbitrumve dari hac lege oportebit ,non conveniet quem iudicem arbitrumuve habeant”.

Se l’accordo cadeva su soggetti selezionati dal duoviro non era necessario un ulteriore esame dei requisiti richiesti per poter adempiere alla funzione, mentre questo era indispensabile quando fosse eletta una persona estranea all’albo,la legge nelle righe da 41 a 48 si occupa di queste condizioni. Si doveva trattare innanzitutto di un abitante ab origine del municipio, sembrano quindi esclusi gli incolae cioè coloro che avevano assunto il loro domicilium nel municipio ma erano originari di un altro luogo, non poteva esercitare durante l’anno in corso la carica di duoviro,edile o questore, non doveva essere affetto da morbus che gli impedisse di giudicare né doveva avere più di 65 anni. Nel caso in cui le parti non si fossero previamente accordate sul nome di un giudice estraneo all’album e non riuscissero neppure a trovare un accordo tra i nomi in esso compresi si ipotizzava due possibili procedure: la prima era desunta dalla spiegazione della parola “procum” offerta dal “De verborum significazione” di Festo:

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34

Fest. De verb. sign. 290, 23 : Est enim procare poscere, ut cum dicitur in iudice conlocando: “si alium procas”, “nive eum procas”, hoc est poscis.

Dai termini arcaici utilizzati si pensa che si faccia riferimento al processo per legis actiones ma si ritiene che lo stesso sistema valesse anche per il processo formulare. L’attore poteva proporre un giudice della lista e se il convenuto lo rifiutava, l’attore ne proponeva un altro finché ne veniva accettato uno. Tale procedura la ritroviamo in un brano di Cicerone che narra l’episodio in cui Scipione Nasica rifiutò Publio Mucio come iudex a lui proposto da M. Flacco. L’accettazione, da parte del convenuto, del giudice proposto è indicata con termini variabili: comprobare, capere, convenire. Il rifiuto invece è espresso col verbo eierare che sembrerebbe richiedere un giuramento a sostegno dei motivi della ricusazione; Cicerone ricorda in tal senso l’episodio risalente alla seconda metà del II sec. a.C. in cui Scipione Nasica rifiutò Publio Mucio come iudex a lui proposto da M. Flacco:

Cic. De or. 2,70,285: Placet mihi illud etiam Scipionis illius, qui Ti. Gracchum perculit. Quom ei M. Flaccus multis probis obiectis P. Mucium iudicem tulisset: “Eiero- inquit- iniquus est”. Cum esset admurmuratum: “A - inquit- P.C., non ego mihi [illum] iniquom eiero verum omnibus”.

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È dubbio se esistessero mezzi coercitivi per indurre la controparte a collaborare alla scelta. Alcuni40 ipotizzano che se il convenuto rifiutava di scegliere qualunque giudice, sarebbe stato considerato indefensus. Altri 41 ritengono che di fronte all’atteggiamento ostruzionistico di una delle parti si potesse ugualmente procedere al iudicium affidandolo ad un giudice scelto dallo stesso magistrato. Congettura alternativa al “procare” è quella che vede utilizzato il sistema della “sortitio” cioè l’estrazione dei nomi dall’albo e con un limitato diritto di ricusazione delle parti. La Lex Irnitiana tratta poi di una seconda procedura nel caso in cui non vi fosse accordo tra le parti. Il magistrato giusdicente doveva presentare alle parti la lista divisa in tre decurie invitandole a ricusare una decuria ciascuno. Ne rimaneva una sola dalla quale si proseguiva con la ricusazione dei singoli giudici secondo la descrizione delle righe 33-41 della legge:

is qui aget petetue aut,si uterque aget petetue,uter de maiiore re aget maioremue rem petet,prior ex imparibus isque quocum agetur aut a quo petetur aut,si uterque aget petetue ,qui de minore re aget minoremue rem petet,ex paribus prior reiciat…

40

J. Mazeaud,La nomination,cit.,nt.1; G.I Luzzato,Procedura (tomo secondo), cit., p. 227.

41

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in base a questo brano si sono realizzate varie interpretazioni: il d’Ors42

ad esempio affermava che ogni nome della lista fosse numerato e che l’attore potesse ricusare solo i numeri dispari mentre il convenuto solo i pari. Il significato più probabile da attribuire al testo è quello dato dal Birks43 per il quale se la lista ha un numero dispari di giudici sarà l’attore il primo a ricusare, mentre nel caso di lista con un numero pari sarà il convenuto a ricusare. Poteva poi accadere che uno dei litiganti non intendesse né accordarsi con l’altra parte su un nome né collaborare alla procedura di ricusazione, in questo caso la Lex Irnitana permetteva la scelta unilaterale da parte dell’avversario e non la sanzione dell’indefensio che era applicata in base al diritto dell’Urbe. La scelta unilaterale però può riguardare solo i nomi compresi nell’ album iudicum:

Lex Irnitana, R.87 [49] 11,41-43: … aut, si uter eorum reicere decurias iudicesve nollet, quem adversarius eius ex propositus iudicibus iudicem arbitrumve habere volet […] eum inter eos in eamque rem iudicem arbitrumve dato addicito iudicare iubeto.

La lex Irnitana riconosce il potere di formazione dell’album iudicium all’organo giurisdizionale del municipio, i duoviri, congiuntamente o da

42A. D’Ors, La ley Flavia Municipal, Città del Vaticano, 1986, p.175

43Crf. P. Birks, New Light, cit. p.43,seguito anche da W.Simshauser, La jurisdiction

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soli44, entro cinque giorni dall’assunzione del loro officium municipale. La previsione che ai magistrati municipali spettasse la lectio iudicum è coerente secondo il Cardilli45, con il regime operante nella civitas, almeno dopo il 70 a.C., anno d’emanzione della lex Aurelia, con cui si stabiliva che la composizione dell’albo fosse effettuata dai pretores urbani:

Cic. Cluent. 43,121: Praetores urbani, qui iurati debent ut optimum quemque in selectos iudices referre.

Particolare è poi il richiamo all’obbligo di addivenire alla lectio in diebus quinque proximis all’esercizio annuale della iurisdictio. Tale inciso conferma infatti l’ipotesi di Behrends46

sul concentrarsi della formazione delle liste giudicanti all’inizio di ogni anno, il che corrispondeva con l’esercizio annuale della iurisdictio. Il rifiuto di una parte di decurias iudicesve reicere, legittima l’altra a fissare unilateralmente il nominativo del giudice. È interessante notare, secondo il Cardilli47 , come in questa regola si possa cogliere un tentativo di superare la paralisi processuale, eventualmente causata da un comportamento ostruzionistico di una delle parti. Anche Quintiliano parla di questa optio iudicis unilaterale:

44 Per il Birks, il secondo era il caso più frequente, New light, cit., p. 46. 45 R. Cardilli, Designazione, cit., p.45

46 O. Behrends, Die romische Geschworenenverfassung, Gottingen, 1970, p. 52-53; p.

58-61; p. 78-85.

47

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Quint. Inst. 5,6,6: Sed nobis adulescentibus seniores in agendo facti praecipere solebant ne umquam ius iurandum deferremus,sicut neque optio iudicis adversario esset permittenda nec ex advocatis partis adversae iudex eligendus. Nam si dicere contraria turpe advocato videretur, certe turpius habendum facere quod noceat.

Dal quale si deduce che una parte poteva concedere al convenuto la possibilità di designare autonomamente il giudice. Una volta terminata la fase di nomina del giudice, la Lex Irnitana menziona l’obbligo per i soggetti scelti di fare un giuramento:

Lex Irnitana, R.86[49] 11,2-4 …quos maxime idoneos arbitrabitur legique iudices pro re communi municipium eius municipi esse iuraverit coram decurionibus conscriptisve non paucioribus quam decem.

Il giuramento pro re communi municipium, effettuato di fronte a non meno di 10 decurioni e coscritti, impegna il giudice ad un comportamento, nella esplicazione del munus iudicandi, pro re communi. Il giudice doveva impegnarsi al fedele adempimento dei doveri inerenti alla sua funzione; di ciò parla lo stesso Cicerone:

Cic. De Off. 3,10, 43-44: neque rem publicam neque contra iusiurandum ac fidem amici causa vir bonus faciet ne si iudex quidem erit de ipso amico; ponit enim personam amici cum induit iudici.

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