§ 2.1 - Premessa
Lo stadio processuale apud iudicem è da studiare sotto l’aspetto dell’attività delle parti e del giudice. Non è stato oggetto di particolari studi dei giuristi. Ha attirato l’attenzione dei retori perché il giurista aveva svolto tutta la sua attività nella fase più strettamente legata al diritto, la fase della creazione della formula. Nella preparazione del documento che segnava i limiti e i confini dentro i quali può e deve agire il giudice. Non è richiesta la presenza di entrambe le parti; se una è assente il processo si chiude egualmente con sentenza pronunciata in favore di chi è presente. Ciò che è riportato nella formula fissa in modo immutabile la posizione di ciascuno. Ognuna delle parti deve provare la fondatezza delle affermazioni che ha fatto inserire nella formula. Dunque l’attore deve provare il fondamento dell’intentio e il convenuto il fondamento dell’eccezione. Il giudice da parte sua deve obbedire alla legge e alla formula, alla legge perché deve applicare il diritto e alla formula in quanto deve accettare per tema della controversia quello che in essa è descritto e deve attenersi alle istruzioni che la formula gli dà. Il giudice deve accertare l’esistenza dei fatti cui le parti si richiamano per giustificare le loro affermazioni. Questo accertamento è un controllo sulla validità delle prove di cui le parti si servono. Vige il principio della libertà della prova nel senso che ogni
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prova è permessa e tutte le prove hanno eguale dignità. Quindi dopo aver valutato ciò che le parti gli hanno fornito, il giudice, pronuncia la sentenza. L’esame dei fatti e delle prove fornite è, da parte del giudice, immediato e personale. Il processo è interamente orale e le parti o i loro difensori parlano direttamente al giudice. La sentenza decide definitivamente la controversia e non c’è possibilità di appello contro di essa perché non esistono giudici superiori e inferiori. Da un’analisi del processo formulare non sono rintracciabili regole giurisprudenziali che sanciscano l’obbligo del’onere della prova a carico di coloro che producevano affermazioni; potrebbero individuarsi solo suggerimenti inviati al giudice che il iudex privatus seguiva79. Una sorta di principio dell’onere della prova sarebbe sorto soltanto nel periodo postclassico. Anche in base alla dottrina tedesca80 non è ipotizzabile fino all’inizio del IV secolo d.C. l’esistenza né di un principio dell’onere della prova né tantomeno di regole o direttive che indicassero nei singoli casi chi fosse chiamato a provare qualcosa davanti al giudice. Secondo il Levy81 il giudice aveva un’ampia libertà anche di richiedere la prova ad una qualunque delle parti, nonché di esigere poi la prova contraria dall’altra,
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L. De Sarlo,’Ei incumbit probatio qui dicit, non qui negat’, in AG, 114, 1935, p.8; G. Pugliese, Scritti giuridici scelti, I, Napoli, 1985, p. 178 e ss.; L. Vacca, Diritto romano,
tradizione romanistica e formazione del diritto europeo, giornate di studio in ricordo di Giovanni Pugliese, Milano, 2008, p. 82; S. di Salvo, Dal diritto romano, percorsi e questioni Torino, 2013, p.61,62;
80M. Kaser, Beweislast und Vermutung im romischen Formularproze in ZSS, 71, 1954. 81
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senza che tali risultanze probatorie costituissero un vincolo per la sua decisione.
§ 2.2 - L’onore della prova nella fase apud iudicem del processo formulare.
Il nucleo essenziale della fase apud iudicem era costituito dall’assunzione della prova e discussione delle prove mediante le quali le parti dovevano certificare quello che sino a quel momento avevano semplicemente asserito. Non si sa molto circa il modo in cui avvenisse ma l’importante era convincere poiché il giudice seguiva liberamente il suo convincimento prestando ascolto a qualsiasi tipo di prova che le parti utilizzavano salvo il limite della falsità provata in un giudizio penale. Chi aveva l’onere della prova? Ben presto la giurisprudenza enucleò il principio che l’onere della prova della situazione pretesa spettasse all’attore;mentre il convenuto doveva dimostrare i fatti che asseriva impedissero, o avessero estinto, la pretesa avversaria; oppure che, posti a base di una exceptio, impedissero che l’azione risultasse validamente spesa. Lo afferma Paolo:
D. 22, 3, 2 ( Paul. 69 ad ed.): Ei incumbit probatio qui dicit, non qui negat.
Il principio valido ancora nel diritto attuale è che colui che asserisce qualcosa lo deve provare, sia egli attore ovvero convenuto. Quindi se il convenuto solleva un’eccezione diviene attore, cioè si assume l’onere di
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provare la propria asserzione. La giurisprudenza romana82 distingueva le eccezioni, a seconda che esse fossero dilatorie (dilatoriae, dette anche temporales) o perentorie, cioè ‘mortifere’ (peremptoriae, dette anche perpetuae). Queste ultime si qualificavano ‘perpetue’ o ‘mortifere’ in quanto corrispondevano a una circostanza che il convenuto poteva sempre, in ogni situazione e in ogni tempo, opporre all’attore, ottenendo l’assoluzione; tra di esse si annoveravano le exceptio doli ed exceptio pacti de non petendo. ‘Temporali’ o dilatorie erano invece le eccezioni che potevano essere efficacemente sollevate soltanto in dati periodi di tempo, oppure nei confronti di persone determinate. Secondo Gaio la distinzione aveva portata pratica:
Gai. Inst. 4,123: Observandum est autem ei, cui dilatoria obicitur exceptio, ut differat actionem; alioquin si obiecta exceptione egerit, rem perdit; non enim post illud tempus, quo integra re eam evitare poterat, adhuc ei potestas agendi superest re in iudicium deducta et per exceptionem perempta.
Infatti l’attore, essendo a conoscenza delle circostanze che il convenuto avrebbe potuto dedurre in eccezione, doveva evitare del tutto di promuovere l’azione nei confronti del convenuto ( dal momento che costui
82 Lovato, Puliatti, Solidoro Maruotti, Diritto,cit., p. 83; ; G. Voet, Commento alle
Pandette vol. 5, Venezia, 1839, p. 841; secondo R.G. Pothier, Le Pandette vol. 5, Prato,
1835, p. 824 “le eccezioni sono o perpetue o perentorie, o temporarie o dilatorie. Sono perpetue e perentorie quelle che hanno sempre luogo, e non si possono evitare. Le temporarie e dilatorie sono quelle che non sempre hanno luogo, ma si possono evitare”.
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avrebbe potuto paralizzarla mediante exceptio in qualunque momento e in ogni caso), se l’eccezione a disposizione del convenuto era di tipo perentorio ( perpetuo), mentre avrebbe potuto con successo esperire l’azione avendo cura di scegliere il momento giusto se l’eccezione era dilatoria (‘temporale’), evitando di proporre l’azione nel periodo di tempo in cui tale eccezione sarebbe stata opponibile. Qualora l’attore avesse invece esperito l’azione nel periodo sbagliato, di fronte all’eccezione opposta dal convenuto gli sarebbe convenuto desistere, senza giungere a litis contestatio : questa avrebbe infatti dato luogo a consumazione processuale, precludendogli la possibilità di proporre nuovamente l’azione, con successo, al ‘momento giusto’. Se poi il processo fosse proseguito fino alla sentenza del giudice, l’assoluzione del convenuto sarebbe stata definitiva. Tuttavia anche in favore dell’attore era prevista dall’editto pretorio una parte accessoria della formula: si trattava della replicatio (‘replica’) detta anche duplicatio, con cui l’attore poteva ribattere al convenuto circa i contenuti dell’ exceptio da quest’ultimo sollevata: pur non negando l’esistenza o la veridicità delle circostanze affermate dal convenuto con l’exceptio, la parte attrice poteva paralizzarne l’efficacia83
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83 Lovato, Puliatti, Solidoro Maruotti, Diritto, cit., p. 84; G. Papa, La replicatio. Profili
processuali e diritto sostanziale, Napoli, 2009, p. 22 e ss.
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§ 2.3 - I mezzi di prova.
Per arrivare alla sentenza è importante arrivare alla certezza dei fatti mediante le prove ottenute, la prova si ottiene riunendo alcuni dati, di cui si sa che sono veri, e mettendoli in rapporto con altri dati, di cui si vuole accertare la verità. Il rapporto che si intende stabilire è in genere quello di causalità. Portiamo l’esempio formulato dal Voci84: la casa di A si è abbattuta su quella di B, che è crollata. Si vuole stabilire il rapporto tra i due dati. Si trova che la casa di A era in cattive condizioni e prossima al crollo; che la casa di B era integra. Si induce che la rovina della casa di B è dovuta alle cattive condizioni della casa di A: tra i due fatti esiste rapporto di causa ad effetto. La causa del crollo della casa di B è razionalmente provata. Da qui capiamo che il procedimento probatorio consta di due momenti, che possiamo chiamare “ostensivo” e “induttivo”. Il momento ostensivo raccoglie i dati , li accerta, li descrive: il momento induttivo li mette in relazione, giungendo alla conclusione.
Quint. Inst. Or. 5,1,11 : Ac prima quidem illa partitio ab Aristotele tradita consensum fare omnium meruit, alias esse probationes quas extra dicendi rationem acciperet orator, alias quas ex causa traheret ipse et quodam modo gigneret; ideoque illas id est inartificiales, has
id est artificiales, vocaverunt.
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Quintiliano elenca praeiudicia, cioè sentenze precedentemente pronunciate in cause aventi contenuti analoghi:
Quint. Inst. Or. 5,2,1: Iam praeiudiciorum vis omnis tribus in generibus versatur: rebus, quae aliquando ex paribus causis sunt iudicatae, quae exempla rectius dicuntur, ut de rescissis patrum testamentis vel contra filios confirmatis; iudiciis ad ipsam causam pertinentibus, unde etiam nomen dictum est, qualia in Oppianicum facta dicuntur et a senatu adversus Milonem; aut cum de eadem causa pronuntiatum est, ut in reis deportatis et assertione secunda et partibus centumviralium, quae in duas hastas divisae sunt.
Fama atque rumores cioè fama e voce pubblica circa un determinato fatto:
Quint. Inst. Or. 5,3,1: Famam atque rumores pars altera consensum civitatis et velut publicum testimonium vocat, altera sermonem sine ullo certo auctore dispersum, cui malignitas initium dederit, incrementum credulitas; quod nulli non etiam innocentissimo possit accidere fraude inimicorum falsa vulgantium. Exempla utrinque non deerunt.
Tormenta, cioè confessioni estorte con la tortura, che secondo Quintiliano vengono usate di frequente:
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Quint. Inst. Or. 5,3,1-2: Sicut in tormentis quoque, qui est locus frequentissimus, cum pars altera quaestionem vera fatendi necessitatem vocet, altera saepe etiam causam falsa dicendi, quod aliis patentia facile mendacium faciat, aliis infirmitas necessarium. Quid attinet de his plura? Plenae sunt orationes veterum ac novorum. [2] Quaedam tamen in hac parte erunt propria cuiusque litis. Nam sive de habenda quaestione agetur, plurimum intererit, quis et quem postulet aut offerat et in quem et ex qua causa; sive iam erit habita, quis ei praefuerit, quis et quomodo sit tortus, incredibilia dixerit an inter se constantia, perseveraverit in eo quod coeperat, an aliquid dolore mutarit, prima parte quaestionis an procedente cruciatu. Quae utrinque tam infinita sunt quam ipsa rerum varietas.
Iusiurandum, cioè il giuramento:
Quint. Inst. Or. 5,6,1: Iusiurandum litigatores aut offerunt suum aut non recipiunt oblatum, aut ab adversario exigunt aut recusant, cum ab ipsis exigatur. Offerre sum sine illa condicione, ut vel adversarius iuret, fare improbum est.
Tabulae, cioè documenti scritti:
Quint. Inst. Or. 5,5,1-2: Contra tabulas quoque saepe dicendum est, cum eas non solum refelli sed etiam accusari sciamus esse usitatum. Cum sit
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autem in his aut scelus signatorum aut ignorantia, tutius ac facilius id, quod secundo loco diximus, tractatur, quod pauciores rei fiunt. [2] Sed hoc ipsum argumenta ex causa trahit, si forte aut incredibile est id actum esse, quod tabulae continent, aut, ut frequentius evenit, aliis prabationibus aeque inartificialibus solvitur; si aut is in quem signatum est, aut aliquis signator dicitur afuisse vel prius esse defunctus; si tempora non congruent; si vel antecedentia vel insequentia tabulis repugnant. Inspectio etiam ipsa saepe falsum deprehendit.
Come si deduce dallo scritto di Quintiliano i documenti venivano visti con diffidenza per il timore delle falsificazioni. Si usavano allora sigilli apposti sulla parte posteriore delle tavolette dai testimoni; oppure una legatura fatta passare attraverso apposite asole e tenuta ferma coi sigilli dei testimoni. La legislazione di Silla sul falso, ripresa dai senatoconsulti e editti imperiali nel corso del I secolo d.C., prevedeva pene severe contro i falsificatori di documenti. E se si fosse dimostrato che il processo era stato perso a causa di un documento falsificato, si poteva ottenere dal pretore la restituito in integrum, per la ripetizione del giudizio depurato delle falsità accertate. Quindi si finiva per preferire la testimonianza:
Quint. Inst. Or. 5,7,1: Maximus tamen patronis circa testimonia sudor est. Ea dicuntur aut per tabulas aut a praesentibus. Semplicior contra tabulas pugna. Nam et minus obstitisse videtur pudor inter paucos signatores, et
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pro diffidentia premitur absentia. Si reprehensionem non capit ipsa persona, infamare signatores licet.
Le testimonianze si distinguono tra quelle date per iscritto (per tabulas) e date in modo diretto. L’uso delle testimonianze scritte era piuttosto diffuso; quelle orali erano facilmente contestabili dagli avvocati nel momento stesso in cui venivano rese; la prova testimoniale non era vista con favore per la sfiducia che in genere si aveva nei testimoni. Di grande importanza il frammento del Digesto:
D. 22,5,3 : “I testi sono uomini, soggetti ad errori e ad influenze di ogni genere, per cui le loro dichiarazioni dovranno essere, di volta in volta, seriamente vagliate dal giudice, il quale terrà conto, al fine di valutarne la credibilità, delle loro condizioni sociali ed economiche, del loro modo di vivere, delle loro relazioni con la parte e così via”.
Si attribuisce valore alla testimonianza degli honestiores, non a quella degli humiliores. Le testimonianze orali erano infatti assunte apud iudicem ed il testimone era attaccato e difeso a seconda delle parti. La diffidenza per la credibilità dei testi si estende alla prova documentale, stante il pericolo che il documento prodotto dalla parte a sostegno delle proprie affermazioni possa essere falso. Di qui la necessità della impositio fidei, cioè di un meccanismo che si mette in moto su iniziativa della parte che contesta l’autenticità di un documento probatorio. Vige il principio
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della libertà della prova: ogni specie di prova è ammessa, e tutte le prove hanno eguale dignità, è però necessario stabilire se la prova sia tale che dimostri l’esistenza del fatto secondo argomenti accettabili dalla ragione. Le prove si discutono nel processo e sono necessari tre requisiti:
(a) La necessità della prova. L’attore deve provare la verità dei fatti che giustificano la sua azione se vuole vincere la causa. Al convenuto non si richiede di provare nulla, finché nega il diritto dell’attore,ma se oppone un’eccezione ha l’onere di provare i fatti che ne stanno a fondamento. Possiamo quindi dire che ognuno deve provare le sue affermazioni, solo a queste condizioni il giudice può tenerne conto.
(b) La libertà privata della prova. Le parti possono usare i mezzi di prova che ritengono più opportuni tra quelli ammessi dalla legge. Nessuno meglio dell’interessato può valutare quali prove gli possano giovare e il giudice non va oltre ciò che gli è fornito dalle parti, salvi i casi in cui abbia il potere di chiedere una prova particolare come ad esempio il giuramento.
(c) Il libero convincimento del giudice. La legge non stabilisce una graduatoria per cui un prova valga più dell’altra ma tutte sono uguali. Sta al giudice stabilire quanta sia la forza persuasiva della prova ed in questa valutazione egli è libero.
Attraverso alcuni passi di giuristi possiamo comprendere l’esercizio dell’onere della prova:
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D.22,3,6 (Scaev.2 respons.): Patronum manifeste docere debere libertum in fraudem suamaliquid dedisse, ut partem eius quod in fraudem datum esset, posset avocare: “ il patrono deve provare in modo evidente che il liberto ha trasferito fraudolentemente un bene affinchè lo possa recuperare”
D. 22,3,8 (Paul. 18 ad Plaut.): Si filius in potestate patris esse neget, praetor conoscit, ut prior doceat filius, quia et pro pietate quam patri debet praestare hoc statuendum est et quia se liberum esse quodammodo contendit: ideo enim et qui ad libertatem proclamat, prior docere iubetur: “ Se il filius nega di essere sottoposto alla potestà del padre, il pretore stabilisce che il primo a provare sia il figlio, poiché ciò deve essere fatto sia per la pietas che per mostrare verso il padre sia perché afferma di essere libero: perciò dunque chi afferma la propria libertà deve per primo darne prova.
D. 22,3,17 (Cels. 6 digest.): Cum de lege Falcidia quaeritur, heredis probatio est locum habere legem Falcidiam: quod dum probare non potest, merito condemnabitur. “Poiché si chiede della legge Falcidia, sull’erede incombe la prova che la legge Falcidia ha luogo: se ciò non si può fare, si condannerà meritatamente.
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D. 22,3,18, 1 (Ulp. 6 disp.): Qui dolo dicit factum aliquid, licet in exceptione, docere dolum admissum debet. “Chi afferma che un qualche fatto sia compiuto con dolo, sebbene sia affermato con un’eccezione, deve provare che il dolo sia stato commesso”.
D. 22,3,19 (Ulp.7 disp.): In exceptionibus dicendum est reum partibus actoris fungi oportere ipsumque exceptionem velut intentionem implore: ut puta si pacti conventi exceptione utatur, docere debet pactum conventum factum esse. “Si deve affermare che il convenuto deve svolgere le parti di attore nell’opporre l’eccezione come una pretesa : se per esempio oppone l’eccezione di patto convenuto, deve dare prova che il patto sia stato fatto”.
Tali enunciazioni rinviano tutte al principio secondo cui colui che afferma è chiamato a provare l’oggetto della propria affermazione, che sia un fatto o un diritto; e ciò sia che si tratti dell’attore, sia che si tratti del convenuto. Questo principio è enunciato espressamente in forma di regola in un frammento di Paolo:
D.22,3,2 (Paul.69 ad ed.): Ei incumbit probatio qui dicit non qui negat. “ La prova incombe su colui che afferma e non su colui che nega.”
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§ 2.4 - La facoltà del giudice di iurare rem sibi non liquere alla luce dell’opera di Aulo Gellio.
Nell’ambito della decisione abbiamo notizia da Aulo Gellio nella sua opera Noctes Atticae, della facoltà del giudice di “iurare rem sibi non liquere” cioè di giurare che la questione sottopostagli non gli risultava chiara; Aulo Gellio infatti racconta di essere stato nominato giudice in un processo e di aver deciso, dilaniato dai dubbi, di iurare rem sibi non liquere:
Gell. Noct. Att. 14,2: Quem in modum disseruerit Favorinus consultus a me super officio iudicis.
Gell. Noct. Att. 14,2,25: Sed maius ego altiusque id esse existimavi, quam quod meae aetati et mediocritati conveniret, ut cognovisse et condemnasse de moribus, non de probationibus rei gestae viderer; ut absolverem tamen, inducere in animum non quivi et propterea iuravi mihi non liquere atque ita iudicatu illo solutus sum.
Si trattava,in particolare,di rendere la sentenza in una actio certae creditae pecuniae nella quale un uomo probo asseriva, non riuscendo tuttavia a darne la prova,di avere prestato del denaro al convenuto,un uomo di
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pessima fama,il quale,supportato dai suoi molti patroni85, insisteva per una pronuncia di assoluzione proprio in conseguenza della assenza di prove portate dall’attore a supporto della domanda. In tale contesto in effetti l’assoluzione del convenuto sembrava l’unica soluzione plausibile; ma questa conclusione ripugnava a Gellio che era intimamente convinto della veridicità delle asserzioni attoree, inoltre non gli pareva convincente neppure la soluzione propostagli dal filosofo Favorino, il quale gli aveva riferito che, stando ad una affermazione di Catone (che in un’orazione86 aveva asserito di aver appreso dagli avi la regola per la quale quod inter duos actum est,neque tabulis neque testibus planum fieri possit, tum apud iudicem, qui de ea re cognosceret, uter ex his vir melior esset, quaereretur et, si pares essent seu boni pariter seu mali, tum illi, unde petitur, crederetur ac secundum eum iudicaretur) , pure nel processo civile,e non solo nei procedimenti dinnanzi ai censori, il giudice aveva la facoltà di valutare la personalità dei contendenti e gli aveva perciò suggerito,vista la pessima fama del convenuto e di converso, l’ottima reputazione dell’attore,di accogliere la domanda di questo e di emettere senza timore una sentenza di condanna del primo87. Una simile scelta,benché operata
85 È interessante notare come i canoni della deontologia forense e giudiziaria abbiano
risalenti radici storiche, per le quali si rimanda a P.Cerami , ‘Honeste et libere difendere’.
I canoni della deontologia forense secondo Marco Tullio Cicerone,in Iura,49,1998,p. 1