• Non ci sono risultati.

Allargare il cerchio. Pratiche per una comune umanità

N/A
N/A
Protected

Academic year: 2021

Condividi "Allargare il cerchio. Pratiche per una comune umanità"

Copied!
220
0
0

Testo completo

(1)

MeTis

Mondi educativi. Temi, indagini, suggestioni Molding environments. Themes, inquiries, suggestions

Direttore scientifico

Isabella Loiodice (Università di Foggia) Comitato di direzione scientifica

Giuseppe Annacontini (Università del Salento) Daniela Dato (Università di Foggia) Barbara De Serio (Università di Foggia)

Rosa Gallelli (Università di Bari) Anna Grazia Lopez (Università di Foggia)

Berta Martini (Università di Urbino) Comitato scientifico

Mercedes Arriaga Flórez (Universidad de Sevilla); Massimo Baldacci (Università di Urbino); Federico Batini (Università di Perugia); Franco Bochicchio (Università di Genova); Luis Carro (Universidad de Valladolid); Enza Colicchi (Università di Messina); Mariagrazia Contini

(Università di Bologna); Patrizia De Mennato (Università di Firenze); Giuseppe Elia (Università di Bari); Loretta Fabbri (Università di Siena); Ilaria Filograsso (Università di Chieti-Pescara); Franco Frabboni (Università

di Bologna); Luca Gallo (Università di Bari); Jelmam Yassine (École Nationale d’Ingénieurs de Tunis); Pierpaolo Limone (Università di Foggia);

Antonella Lotti (Università di Genova); Alessandro Mariani (Università di Firenze); Joan Soler Mata (Universidad de Vic); Josip Milat (Sveučilište u Splitu); Riccardo Pagano (Università di Bari); Loredana Perla (Università

di Bari); Franca Pinto Minerva (Università di Foggia); Francesca Lucia Pulvirenti (Università di Catania); María Luisa Rodríguez Moreno (Universidad de Barcelona); Bruno Rossi (Università di Siena); Antonia Chiara Scardicchio (Università di Foggia); Giuseppe Spadafora (Università

della Calabria); Urszula Szuścik (Uniwersytet Śląski w Katowicach); Giancarlo Tanucci (Università di Bari); Simonetta Ulivieri (Università di Firenze); Angela Maria Volpicella (Università di Bari); Mateusz Warchał

(2)

Numeri precedenti:

Infanzie e servizi educativi a Milano

Percorsi di ricerca intervento con bambine, bambini e adulti per innovare il sistema 0-6 comunale

a cura di

Silvio Premoli e Francesca Linda Zaninelli Disponibile in libreria.

Attività motorie, processo educativo e stili di vita in età evolutiva Il programma SBAM! per la scuola primaria in Puglia

Risultati del monitoraggio nelle attività motorie Foggia – 3 maggio 2017

a cura di Dario Colella

Disponibile in libreria. Per un nuovo patto di solidarietà Il ruolo della pedagogia

nella costruzione di percorsi identitari, spazi di cittadinanza e dialoghi interculturali Seminario nazionale SIPED – Società Italiana di Pedagogia

Foggia, 31 marzo – 1 aprile 2016 a cura di

Isabella Loiodice e Simonetta Ulivieri Disponibile in libreria.

Mesce 2012

Mediterranean Society of Comparative Education Convegno internazionale

“Educazione e cambiamento sociale: verso un reale sviluppo umano” Hammamet, Tunisia, 1-3 ottobre 2012

Disponibile online. EDA nella contemporaneità

Gruppo di ricerca “Condizione adulta e processi formativi”

Convegno nazionale “L’educazione degli adulti nella contemporaneità. Teorie, contesti e pratiche in Italia”

Lecce, 13-14 maggio 2015 Disponibile online e in PDF.

(3)

a cura di

Maria Livia Alga e Rosanna Cima

Allargare il cerchio

Pratiche

per una comune umanità

Saggi di:

Maria Livia Alga, Nacyb Allouchi, Susanna Bissoli,

Houda Boukal, Alessandra Campani, Rosanna Cima, Giuditta Creazzo, Barbara Crescimanno, Antonia De Vita, Sandra Faith Erhabor, Mari Luz Esteban, Miren Guilló-Arakistain, Marta Luxán Serrano,

(4)

Progedit – Progetti editoriali srl Via De Cesare 15 – 70122 Bari www.progedit.com e-mail: info@progedit.com Tel. 0805230627 Fax 0805237648 ISSN MeTis 2240-9580 Pubblicazione periodica ISBN 978-88-6194-479-4 Proprietà letteraria

Progedit – Progetti editoriali srl, Bari Finito di stampare nel

presso Grafiche Deste srl Capurso (Bari)

per conto della

Progedit – Progetti editoriali srl Pubblicato con il contributo

del Dipartimento di Scienze Umane dell’Università degli Studi di Verona.

(5)

INDICE

Diventare donne d’azione

di Maria Livia Alga vii

La circolarità dei saperi

di Rosanna Cima xiii

PRATICHE POLITICHE 1

Quel cerchio luminoso.

Le case delle donne come contesti per una formazione a partire da sé

di Maria Livia Alga 3

La casa delle donne nei Paesi Baschi: dibattiti, processi e alleanze

di Miren Guilló-Arakistain, Mari Luz Esteban, Marta Luxán Serrano 25 I territori delle donne. Gli spazi dei legami

di Antonia De Vita 42

FORME DELL’INCONTRO 53

Cerchi di cura con le esperte d’esperienza

di Rosanna Cima, Sandra Faith Erhabor 55

Forza e fragilità del noi

di Elena Migliavacca, Houda Boukal 77 Il cerchio narrativo: da ricerca personale a pratica politica

di Susanna Bissoli 95

I luoghi dell’accoglienza. Un punto di vista privilegiato sulla violenza di Giuditta Creazzo, Alessandra Campani 118

(6)

La vie des groupements solidaires au Sénégal: au delà des intérêts économiques

di Dieynaba Gabrielle Ndiaye 151

Dar Rayhana: pratiques quotidiennes de femmes

di Nacyb Allouchi 163

Ninfe mediterranee. Dee/donne che (si) curano Memorie del corpo della voce e del ritmo

di Barbara Crescimanno 174

(7)

DIVENIRE DONNE D’AZIONE di Maria Livia Alga

Il racconto, infatti, accompagna sempre la ricerca.

Nora Giacobini

Qualche anno fa, su iniziativa di Susanna Bissoli, siamo andate, insie-me a un gruppo di insegnanti, alla casa-laboratorio Cenci per un percor-so sulla narrazione tenuto da Franco Lorenzoni e Roberta Paspercor-soni. Sulle soglie dell’autunno faceva freddo e, per tenere vivo il fuoco del camino durante la notte, chi lo aveva vegliato per un po’ svegliava una compagna perché continuasse. Prima di tornare a Verona, comprai un libro che sulla copertina di cartone riportava un disegno rosso e nero: al centro stavano quattro fuochi accesi secondo i quattro punti cardinali intorno a un grande albero popolato di uccelli e foglie.

Un cerchio di figure umane danzavano, abbracciando l’albero e i fuo-chi. Il libro si intitolava Allargare il cerchio ed era una raccolta di scritti di Nora Giacobini, a cura di Franco Lorenzoni.

Questa immagine e la forte bellezza del gesto condiviso di veglia di qualcosa di vivo e caldo sono riemerse a ispirarci quando, in cerca di un titolo per il primo convegno del Laboratorio Saperi Situati1, riflettevamo

su pratiche di apprendimento e cura comunitarie. Il Laboratorio riunisce ricercatrici e ricercatori nella vita, senza distinzione di statuto tra chi lavo-ra in realtà pubbliche, associative e del privato sociale, nelle università e nella comunità che abita. Il gruppo si è composto man mano, negli ultimi dieci anni, grazie a incontri in momenti e in luoghi diversi, in particolare a Verona, Palermo, Dakar, Mbacke Cadior, Valencia, Bergamo, Donostia, Santo Domingo. Ciò che tiene insieme le componenti del Laboratorio è la condivisione di alcune pratiche – pedagogiche, etnocliniche, artistiche, artigianali ed etnografiche – nella ricerca sui temi della coesione sociale, della cura e dell’ecologia, dei saperi di convivenza, sull’esperienza della maternità e dell’educazione in contesti transculturali.

1 Il gruppo di ricerca Laboratorio Saperi Situati è stato formalizzato nel 2018 presso

l’Università di Verona. Per approfondimenti: www.laboratoriosaperisituati.com; http:// www.dsu.univr.it/?ent=bibliocr&id=322& tipobc=4

(8)

Mentre pensavamo all’occasione dell’incontro annuale promosso dal Laboratorio, il discorso pubblico europeo era massicciamente occupato dal dibattito sui limiti e le forme di accoglienza, e in Italia era manipolato da una contrapposizione artificiale tra “buonisti” e securitari che acuiva il senso sociale di insicurezza e diffidenza, autorizzando l’espressione di sentimenti razzisti.

Per orientarci in questi conflitti sociali dagli effetti violentemente di-sgreganti e ritrovare forze a favore della collettività, il primo passo è sta-to volgersi a riconoscere valore alle modalità relazionali inventate negli spazi abitati politicamente dalle donne, spazi del quotidiano operare per molte di noi.

Se infatti i luoghi della politica delle donne sono stati in un primo mo-mento le piazze o le case private, il consolidamo-mento delle pratiche ha rive-lato l’esigenza di fondare dei luoghi pubblici e “stanziali”, come librerie o Case delle donne, centri interculturali, redazioni. La necessità di diffondere cultura femminista nel campo della salute – si pensi alla maternità e alla sessualità consapevole o alla lotta per la depenalizzazione dell’aborto – ha portato, per esempio, al bisogno di partecipare alla gestione dei consultori (Fattorini, 2014) o alla fondazione dei servizi territoriali per la Salute men-tale Donna, mentre l’affermazione di una visione femminista dei rapporti conflittuali tra i sessi, e la loro giurisdizione, sosteneva la nascita dei centri antiviolenza (Creazzo, 2010).

Queste fondazioni iniziate alla metà degli anni ’70, e ancora in corso, testimoniano le trasformazioni di cui è capace la politica delle donne; se si è trattato da una parte di una disseminazione all’interno di istituzioni già esistenti, dall’altra di apertura dell’inedito nello spazio sociale: in entrambi i casi ciò ha permesso l’inaugurazione di un nuovo posizionamento poli-tico delle donne perché, grazie e attraverso le relazioni instaurate in que-sti luoghi con altre, è diventato possibile negoziare diversamente i propri bisogni e la propria esistenza simbolica non più da sole, non più soltanto oppresse.

In questo senso li definiamo “spazi terzi”, in quanto luoghi relazionali che, valorizzando il vissuto soggettivo e l’esperienza corporea di ognuna, permettono la mediazione con le istituzioni e la realtà sociale da una posi-zione di forza o, per meglio dire, empoderada. Si tratta di luoghi in cui donne in relazione sono “capaci di trovare una misura per il proprio stare orienta-te da uno sguardo che attraversa e oltrepassa le meorienta-te e le misure sociali per sporgersi oltre e fare accadere qualcosa, farla ad-venire qui” (Muraro, 2001, p. 236). Questi spazi sono scuole di confronto, spesso laceranti, espres-sione della vitalità della ricerca che fa pulsare il possibile del femminile quando la parola circola libera da un dover essere e un dover fare.

(9)

Per quanto le differenze possano renderci distanti, la forma del cerchio – di parola, di canto e di cura – permette di riconoscere la convergenza verso un centro in comune.

Grazie a questa forma possiamo trovare parole per venire a capo dell’intreccio inestricabile di esigenze materiali e bisogni dell’anima, per fare fronte alle tendenze individualiste. Ritrovarsi in cerchio a narrare, cu-cinare, danzare, pensare, cucire, imparando l’una dall’altra, è un fare del quotidiano che genera cura per sé e per l’intorno. È una pratica politica che, lungi dal risolversi in se stessa esaurendosi nella riproduzione, apre spazi del sapere, accompagna lungo percorsi di crescita e conoscenza di sé, trasforma i cuori e i conflitti sociali in occasioni per riequilibrare i rapporti di potere. In un articolo Vandana Shiva, rivolgendosi alla sin-daca di Roma Virginia Raggi, che avrebbe voluto sfrattare la Casa inter-nazionale delle donne, afferma che questo luogo a rischio di chiusura è l’università del futuro.

Nella storia le donne sono state relegate a fare il lavoro che era considerato irrilevante. Andare in guerra e uccidere era considerato importante. Fare profitti a spese degli altri era considerato importante. In realtà, le donne sono state lasciate a fare le cose reali: fornire l’acqua, fornire il cibo e prendersi cura della famiglia. I valori di cui abbiamo bisogno sono i valori legati alla conoscenza di come vivere con la natura. Abbiamo bisogno di conoscenza su come prendersi cura. Abbiamo bisogno di conoscenza su come si condivide. Questo è il sapere delle donne, le capacità di cui avremo sempre più bisogno in futuro. O sarà permesso alle donne di mostrare la via o non avremo nessun futuro. Per questo chiedo alla sindaca Raggi non solo di proteggere ma di amplificare il ruolo della Casa internazionale delle donne. Che diventi un laboratorio per le economie, le conoscenze e le co-munità del futuro, dove i giovani, specialmente le giovani donne, possano trovare gli strumenti per costruire economie locali vibranti di vita (Shiva, 2019).

Molte autrici degli interventi di questo numero monografico suppor-tano l’idea che i luoghi delle donne siano dei luoghi di formazione che generano sapere e cura per tutti. L’appello rivolto da Vandana Shiva alla sindaca di Roma mette in evidenza lo scarso valore che, invece, la politica istituzionale riserva a questi spazi fortemente danneggiati dai tagli che ne rendono sempre più difficile l’operare. Quando si discuteva del titolo per il convegno “Allargare il cerchio”, dell’immagine del cerchio e del gesto dell’allargarlo, Elena Migliavacca, responsabile di un centro interculturale, tra le autrici di questo volume, diceva che la scelta forse era ricaduta su quella immagine per una percezione condivisa di sentirci noi stesse, ap-punto, accerchiate. In effetti, guardando l’altro lato della metafora, c’era del vero.

(10)

Il convegno nasceva dunque da una lotta, una lotta amata secondo la felice espressione di Lucia Bertell (De Vita, infra), scelta in onore del sa-pere e delle vie di apprendimento che solo grazie a questa lotta possono trovare dei varchi. Ha luogo in determinati spazi che siamo ogni giorno appellate a proteggere, ma non sono solo fisici. Sono anche simbolici e, in questo senso, si tratta di una lotta sconfinata.

Les citoyens se révoltent, crient et changent, et moi, je demeurais derrière mon bureau, collée à ma chaise à compter la caisse. Une femme perdue, esclave du capitalisme. Je ne pouvais ni parler, ni crier, ni défendre mes droits. Jusqu’à quand suis-je restée dans cette obscurité? Quand est-ce que j’allais pouvoir souf-fler? (Allouchi, infra).

“Quando avrei potuto respirare?”. Nacyb Allouchi scrive della sua uscita dalla schiavitù e della crescita di una coscienza personale e collettiva che si è accesa con la rivoluzione tunisina del 2011 contro Ben Ali e il suo partito unico. Cosa significa fare rivolta per una donna? “Io, sono una cit-tadina?”, si chiede. La domanda resta senza risposta ma l’azione si orienta. Leggendo un annuncio sul muro che parla di solidarietà tra donne, decide di lasciare alcune sicurezze, in primis economiche, decide per un nuovo inizio. Un sorriso del destino.

Antonia De Vita scrive di una risignificazione, in molti luoghi del mondo, di natura politico/educativa e auto-educativa de “la piazza” e dei “territori fragili” come un importante guadagno del femminismo che ha creato sia materialmente che simbolicamente degli spazi di legami che tengono assieme dimensioni tenute separate dalla tradizione patriarcale” (De Vita, infra). Dalla Kulturarteko Plaza Feminista (Piazza Femminista Interculturale), in una città nella provincia di Gipuzkoa, nei Paesi Baschi, alcune antropologhe impegnate nel movimento propongono infatti que-ste domande: nella attuale crisi della democrazia quali sono le trame della trasversalità, chi sono i soggetti delle alleanze politiche? Le forme materiali della solidarietà?

Nei testi che compongono questa miscellanea circola la coscienza del-la trasversalità dell’azione politica delle donne che conoscono l’“alleanza dei corpi” nelle piazze, la forza degli abbracci intorno agli alberi contro i disastri ambientali (De Vita), la dirompenza delle esperienze femminili nelle istituzioni di cura (Cima), l’intensità della parole nei ‘cerchi lumi-nosi’ delle amiche negli incontri domestici (Alga), il valore politico della trasformazione dei cereali e delle spezie in piccoli gruppi di donne (Allou-chi, Ndiaye), la vitalità incessante del ritmo del proprio passo, del proprio cuore e della voce (Crescimanno). Queste scale diverse dell’azione non

(11)

si escludono né si alternano, sono compresenti. I movimenti quotidiani compongono i gesti di una danza che onora l’uscita dalla schiavitù. Come invita a fare la profetessa biblica Miriam, sorella di Aronne, con il timpa-no in matimpa-no, timpa-non appena i cavalli del faraone, i suoi carri e i suoi cavalieri furono entrati nel mare: tutte le donne uscirono al suo seguito, danzan-do e suonandanzan-do, inaugurandanzan-do un ordine sociale e spirituale. “Il suo gesto appartiene al ventaglio dei gesti dei profeti che gettano una luce, positiva o negativa, sull’avvenire. Iscrivendone l’espressione in una celebrazione, Miriam l’inserisce in un tempo specifico in cui il compimento annunciato esiste già” (Bolli, 2000, p. 27).

È utile precisare che l’abbandonare una mentalità da schiava non la-scia spazio al raggrupparsi per “fare interesse”, fosse il proprio, quello del gruppo o, come pretenziosamente a volte si osa affermare, quello di tutti. Scrivendo dell’esperienza delle tontine in Senegal, Dieynaba Ndiaye racconta che ogni domenica incontra undici donne di differente età, classe sociale, percorso d’istruzione. Per contrastare l’immagine che viene data di questi groupement solidaires come di gruppi solo di interesse economico, Dieynaba scrive che queste donne, sì, mettono insieme del denaro, ma si conoscono, si apprezzano, si fanno fiducia. Vegliano le une sulle altre. Questa espressione mi ha particolarmente toccata: se fosse questo uno dei nomi dell’azione politica delle donne? Vegliare le une sulle altre. Il tu pri-vilegiato che le donne si rivolgono tra loro è un tu imprevisto nel sistema culturale dominante – scrive Angela Putino – poiché non è inscritta nelle sue fondamenta la domanda di conoscenza di sé, e del senso della propria vita, che una donna rivolge all’altra, ad altre.

All’interno di questa relazione traspaiono delle regole che sono un’argomen-tazione mobile, quasi corporea, di flessibilità e di fermezza, sono arte di guerra e arte di danza non separate. Il che significa che la danza è attratta nell’esperienza del modificare e non in quel movimento ornamentale che sposta il corpo fem-minile verso l’effimero e l’aggiuntivo e che la guerra, volta al danzare, non ha la tracotanza della dismisura. Qui viene tracciato dalla donna un nuovo passo che è incline solo alla propria forza. Forza vuol dire che in una donna esiste un’attività, un’azione che la modella e che non è quella generica che la dispone come essere umano, né quella che si esercita in lei in quanto individualità.

Questa forza attiva muove tendendo a quella legge che non rientra nelle leggi, ma nel dirsi fuori da queste non si fa ridurre dalla loro forza reattiva a un polveroso e caotico vitalismo che deve ricorrere per mantenersi in vita al carattere fuggevole delle percezioni, e delle sensazioni. Essa segna una direzionalità nella memoria, afferrata e diretta al futuro, diviene capacità della donna di agire nel suo progetto, di promettere nella conoscenza della sua forza e di disporre quindi della sua azione nel tempo (Putino, 1988, p. 11).

(12)

In questo conoscersi che genera forza, si diventa donne d’azione. In cerchio, danzando, intorno ai fuochi e a grandi alberi popolati da uccelli, come si può immaginare a partire dal disegno sulla copertina della rac-colta di scritti di Nora Giacobini. Non a caso, credo, Nacyb Allouchi, per parlare di una amica che è un punto di riferimento per lei e altre, dice che assomiglia a una guida-natura, a un ulivo ben radicato.

(13)

LA CIRCOLARITÀ DEI SAPERI di Rosanna Cima

Il convegno ha avuto luogo all’Università di Verona e ha interrogato le forme dell’incontro. La geometria con cui comunemente immaginiamo la struttura dell’università è votata alla verticalità: svetta il triangolo del potere accademico. Il potere gerarchico del sapere ufficialmente riconosciuto ha, infatti, una rappresentazione visiva. Del resto l’antropologia del linguaggio ce lo insegna: il rapporto tra il segno (parola o immagine) e il suo ogget-to è frutogget-to di una convenzione sociale, di una interpretazione condivisa e storicamente determinata (Duranti, 2001). Le immagini, come sostiene Mannheim, hanno in comune con i loro oggetti le “qualità semplici”, cioè la forma del segno riflette il proprio oggetto in modo diretto e concreto (Duranti, 2001, p. 143). Persino le aule nuove – costruite mesi fa – nell’a-teneo di Verona confermano la cattedra, il sistema panottico di controllo, il posto dei “corpi docili” (Foucault, 1976) in fila su sedie inchiodate al pavimento. Eppure da anni studenti e alcune/i docenti chiedono spazi per vivere esperienze di conoscenza e apprendimento in modo “attivo”. Quando un/una docente si sposta tra i banchi e cerca d’intrecciare discorsi circolari con le e gli studenti, l’attenzione è subito diversa, il corpo si torce, cerca di seguire la voce, e gli sguardi si incrociano. Se ciò accade, qualcosa di magico avviene: si pensa insieme, circola il gusto di concepire connes-sioni che mostrano possibilità, ambiguità, difficoltà, obiezioni, ostacoli, desiderio di capire e di porre interrogazioni.

Anche nel fare ricerca, gli accademici si muovono. Che geometria si dise-gna allora quando la ricerca incontra/si sposta verso i luoghi del fare? Come sottofondo rimane una sensazione di separazione tra i luoghi dell’università e “il fuori”. Esiste una zona in cui la ricerca e il lavoro dei pratici si incontrano in una dinamica che non sia di potere della parola e del sapere? È possibile modificare la dinamica nella quale i ricercatori fanno parlare i pratici, per poi scriverci su? Fare ricerca con i professionisti per molti ricercatori implica capitalizzare il lavoro dei pratici, rendendolo visibile attraverso l’ermeneutica accademica. Anche se i pratici stanno al centro e vengono facilitati nell’ela-borazione delle loro esperienze, di chi diventa questo sapere? Degli autori, degli attori? Hannah Arendt, in Vita Activa, esprimendosi sull’intreccio delle relazioni umane e la narrazione ricorda che:

(14)

Benché ognuno incominci la propria vita inserendosi nel mondo umano at-traverso la narrazione e il discorso, nessuno è autore o produttore della propria storia. In altre parole, le storie, i risultati dell’azione e del discorso rivelano un agente che non ne è però autore e che non le ha prodotte. Qualcuno le ha comin-ciate e ne è il soggetto, nel duplice senso della parola, e cioè di attore e di chi ne ha subito le vicende, ma nessuno ne è autore (1999, p. 134).

Esiste un sapere autentico che non venga da una comunità di pensie-ro? Cosa cambierebbe se si pensasse alla forma di una scrittura reciproca? Composto da recus (indietro) e procus (avanti), questo movimento disegna una circolarità. In una dinamica di reciprocità, infatti, non c’è collabora-zione, né adesione. Ma apre a «una diversa possibilità di costruire concetti. Il termine conceptus, concepito, nell’ambito di una filosofia nasce da discor-sività di donne, allude a un concepimento mentale che non metaforizza l’opera della madre, ma la continua» (Putino, 1992, p. 107).

Il convegno “Allargare il cerchio” è stato un evento desiderato. In que-sta occasione la scommessa tra le organizzatrici che provenivano da spazi lavorativi e istituzionali diversi è stata quella di interrogare le forme dell’in-contro e reimmaginare lo spazio universitario. Questo lavoro di reimmagi-nazione è imparentato con il verbo misurare.

Immaginare e realizzare un grande cerchio all’università è proporre una geometria, composta da una molteplicità di voci e di mani, che genera una specifica forma di condivisione dei saperi. Un desiderio dalle molte sfaccettature e non semplice da abitare, però foriero di uno spazio di cre-scita dove le pareti dell’università, una volta misurate, sono state adattate a un sogno possibile. Penso che l’abbiamo ottenuto “per sottrazione” e “per composizione”. Togliere ciò che non risponde all’essenziale è svolgere un fine esercizio semantico, così come mantenere le azioni mai distanti dalle parole è far ritornare al linguaggio il suo corpo (Zamboni, 2001).

Abbiamo misurato l’aula e l’atrio perché durante i giorni del convegno si potesse costruire un ordito e lavorare al telaio, affinché quella tessitura potesse essere testimone e, al tempo stesso, maestra di un fare compo-sitivo tra donne e tra luoghi diversi in connessione. Con il ricordo della sua nonna, Houda Boukal ha guidato il ritmo della tessitura prima del racconto e poi le donne più anziane quello dei fili. L’intreccio della lana ha accompagnato le relazioni alla cattedra e la contiguità con il telaio, posto a fianco, marcava il senso dell’intero lavoro che lì si compiva: il crescere del tappeto tesseva una nascente modalità di lavorare i saperi.

Disporre oggetti viventi nelle aule universitarie, normalmente prive di cose che ne dicano la storia o il senso, ha radicalmente trasformato lo stare delle partecipanti al convegno. Mobilitare cibi, ceramiche, fotografie, abiti

(15)

cuciti a mano, è conseguente al situarsi come donne consapevoli del fatto che il legame tra vita e ricerca “tiene” grazie alle esperienze: se rielaborate, conducono all’apprendere soggettivo e collettivo (Mortari, 2003). Stare nel rapporto con i differenti saperi è pensare la loro relazione tra essi e que-sto pensare ha il taglio della differenza, non è mai neutro (Irigaray, 1992; Diotima, 1996).

Misurare lo spazio “esterno” viene dopo aver preso le misure di una zona “interna” personale e politica. Il sentire di tale misura è raccolto in una dis-misura, quella dell’eccentricità. Adottare un punto di vista eccentrico è accogliere un nuovo vincolo di relazione con l’altra e con chi abita e frequen-ta gli spazi e le istituzioni. Essere soggetti eccentrici forse non lo si sceglie, forse lo si diventa; è anche il luogo in cui si nasce che è al di fuori di un cen-tro, penso alla periferia di una città, a come si colloca la campagna rispetto al centro del paese, all’isola rispetto al continente, ai differenti sud di fronte ai quali si staglia un unico nord. Alga, in una ricerca etnografica sul divenire soggetti eccentrici, riporta una frase di Mirta:

“Me gustaría contar lo que he visto como marginal pero no lo es para mí, porque yo no me siento al margen de ningún centro. Es lo que vivo”. De manera indirecta, Mirta nos recuerda que en italiano, en realidad, eccentrico es lo con-trario de concentrico: la palabra indica algo que no tiene el mismo centro, y no solo el estar fuera de un centro reconocido. Más que una exclusión o una margi-nalidad, excéntrico evoca con fuerza toda la fantasía, la capacidad de invención y resignificación de las mujeres empeñadas en renovar los imaginarios y deshacer el orden social partiendo de ellas mismas. Con esta postura no pretenden indicar que se encuentran “fuera” [...] sino simplemente que reconocen sus experiencias y sus mundos simbólicos (idiomas, contextos y relaciones) como “centros” de su lucha (Alga, 2018, pp. 23-24).

Luoghi posti al di fuori di un centro che, per molte di noi, è divenuto l’oggetto della prima ricerca a partire da sé per andare verso, per imparare a stare nei cerchi di cura con le esperte di esperienza (Cima, infra), come forma e metodo di ricerca e di formazione.

La zona “interna” personale e politica, attraversata dalle narrazioni delle donne nei cerchi narrativi (Bissoli in questo numero), risponde al lungo e delicato lavoro pedagogico dell’apprendimento in età adulta. Ap-prendere è imparare a sostare nelle “identità molteplici” (Loiodice, 2004), rispondere a tempi di vita extra-ordinari, stare in un ambiente nuovo e in mutamento ed essere in grado di trasformarlo, insieme ad altre, in una casa. Narrazione come visione non precostituita ma fluttuante e al con-tempo consolidante l’esserci, oltre la cornice consumata ma persistente, degli sguardi istituzionali.

(16)

Fare casa, come ci invita a riflettere la scrittura di Elena Migliavacca e Houda Boukal (infra), è porsi domande radicali: «chi ha il potere di definire che cos’è essere vulnerabili, cos’è la cura materna, quali sono i segnali di disagio e i modi di affrontarli? [...] In che modo potrebbe una donna de-finire la propria situazione a partire dal suo stesso modo di viverla, senza essere guidata dalla paura, dal bisogno o dalla vergogna?» (p. 83 ). Alle do-mande fanno eco i testi di Giuditta Creazzo e Alessandra Campani (infra), portando un particolare ritratto delle Case delle donne che hanno subìto violenza e del cambiamento avvenuto grazie alla presa di parola di alcune donne che, a partire dalla loro esperienza, hanno inventato pratiche per far fronte a situazioni dolorose e sovente, inizialmente indicibili.

Allargare il cerchio si realizza anche per composizione: questo numero speciale di “MeTis” vuole essere un testimone. Scrivere collettivamente, mantenendo le tensioni di una sana contrapposizione, trovando un senso comune alle distanze e alle differenze, non significa andare d’accordo e uniformarsi. Al contrario il desiderio si mantiene su una forma di flut-tuante movimento del pensare insieme. Le pedagogie di genere (Ulivieri & Pace, 2013; Cagnolati, Pinto Minerva, & Ulivieri, 2013; Loiodice, Plas, & Rajadell, 2012) e della differenza sessuale (Piussi, 2008) da molto tempo hanno dichiarato la necessità di «fondare un pensiero critico e femmini-sta capace di sviluppare nuove forme di solidarietà tra donne, creando “ponti”, relazioni tra le differenze. Si tratta di promuovere tra donne una “solidarietà riflessiva”, dove il pluralismo sia il linguaggio comune, dove la cittadinanza sia declinata sui diritti e sulle risorse necessarie a rendere dignitosa la vita di ognuno» (Ulivieri, 2017, p. 14). Questo pensiero pe-dagogico si esercita in un luogo aperto e meticciato di culture molteplici dove le voci possono dirsi e ascoltarsi. Un aspetto necessario nelle realtà sociali oramai multiculturali.

Le autrici dei saggi hanno storie e formazioni diverse. Questa pluralità è evidente negli stili di scrittura e nei linguaggi per lo più misti dei vari contributi.

I testi dalla veste più accademica, come saggi e report di ricerca, me-scolano al lessico tipico di questo genere di contributi la lingua poetica. Troviamo scritti che nascono da conversazioni tra persone di madrelingua diverse i cui tratti originari di oralità sono stati preservati nella conversione allo scritto. È trasversale l’impronta del racconto e del diario, del racconto di sé e di come il sé vive esperienze di relazione o di gruppo. Quasi tutti, infatti, portano più nomi tra le autrici a suggerire la genesi relazionale delle scritture. Se non indicati tra le autrici, all’interno dei testi è comunque fa-cile ritrovare, esplicitamente evocate, genealogie orizzontali e verticali che li rendono parte di una trama intricata e colorata.

(17)

Bibliografia

Alga, M.L. (2018). Etnografía “terrona” de sujetos excéntricos. Barcelona: Bellaterra. Arendt, H. (1999). Vita Activa. La condizione umana. Bergamo: Bompiani. (Ed. or.

1958).

Bolli, M. (2000). Il gesto e il canto di una profetessa. In L. Irigaray (Ed.), Il respiro delle donne. Milano: il Saggiatore.

Cagnolati, A., Pinto Minerva, F., & Ulivieri, S. (Eds.). (2013). Le frontiere del corpo. Mutamenti e metamorfosi. Pisa: ETS.

Creazzo, G. (2010). Affrontare la violenza alle radici. 15 anni di storia della casa delle donne contro la Violenza di Modena. Bologna: Editografica.

Diotima (1996). La sapienza del partire da sé. Napoli: Liguori.

Duranti, A. (Ed.). (2001). Culture e discorso. Un lessico per le scienze umane. Roma: Meltemi.

Fattorini, G. (2014). I consultori in Italia. Roma: L’Asino d’oro.

Foucault, M. (1976). Sorvegliare e punire. Nascita della Prigione. Torino: Einaudi. Irigaray, L. (1992). Io tu noi. Per una cultura della differenza. Torino: Bollati

Borin-ghieri.

Loiodice, I. (2004). Non perdere la bussola. Orientamento e formazione in età adulta. Milano: FrancoAngeli.

Loiodice, I., Plas, P., & Rajadell, N. (Eds.). (2012). Percorsi di genere. Società, cultura, formazione. Pisa: ETS.

Mannheim, B. (2001). Iconicità/Iconicity. In A. Duranti (Ed.), Culture e discorso. Un lessico per le scienze umane (pp. 143-148). Roma: Meltemi.

Mortari, L. (2003). Apprendere dall’esperienza. Roma: Carocci. Muraro, L. (2001). Le amiche di Dio. Napoli: D’Auria Editore.

Piussi, A. (2008). Due sessi, un mondo. Educazione e pedagogia alla luce della differenza sessuale. Verona: QuiEdit.

Putino, A. (1988). Donna guerriera. DWF, 7, 9-14.

Putino, A. (1992). La signora della notte stellata. In Diotima, Il cielo stellato dentro di noi. Milano: La Tartaruga.

Shiva, V. (2019). Cara Virginia Raggi, la Casa delle donne è l’Università del futuro. Il manifesto, 14 marzo 2019.

Ulivieri, S., & Pace, R. (2013). Il viaggio al femminile come itinerario di formazione iden-titaria. Milano: FrancoAngeli.

Ulivieri, S. (2017). Genere etnia, formazione. Pedagogia Oggi, 1.

(18)
(19)
(20)
(21)

QUEL CERCHIO LUMINOSO. LE CASE DELLE DONNE

COME CONTESTI DI FORMAZIONE A PARTIRE DA SÉ di Maria Livia Alga

L’ossessione di essere in pochi

Palermo, 26 agosto 2018 Non ero mai stata a Catania. Mi ha convinta ad andare un desiderio incon-tenibile di ritrovarmi tra tanti che, avendo seguito con preoccupazione crescente quello che avveniva al porto, si erano dati appuntamento al molo. Lì era stato au-torizzato, cinque giorni prima, l’approdo della Diciotti, nave della Guardia costiera italiana; a bordo le 177 persone tratte in salvo a qualche miglia da Lampedusa provenienti dai campi di concentramento in Libia dove viene trattenuto e tortura-to dalle mafie locali chi intende attraversare il mare Mediterraneo verso l’Europa. Restava il divieto di sbarco da parte del ministero degli Interni, impegnato in un braccio di ferro con i governi degli Stati europei per la redistribuzione delle do-mande di protezione internazionale.

In quei lunghi giorni avevo sentito crescere un senso di sgomento per la situazione. Non mi bastava più intasare le conversazioni della vita quotidiana, sentire la vicinanza dei visi noti, l’indignazione degli amici. Mi ero messa a leggere i post dei ministri sui social, i commenti, a frugare tra le pieghe dei gruppi nello sforzo di capire come mai tanta violenza. Davanti ai massicci numeri dei like o dei commenti a post razzisti finisco spesso per pensare che siamo troppo pochi. Anche ieri al porto avevo l’ossessione che fossimo troppo pochi. Cercavo di ca-pire a occhio se la nostra presenza fosse abbastanza di impatto.

Sono ripartita con l’ultimo autobus di linea verso Palermo. Durante il viaggio è arrivato l’annuncio dell’autorizzazione allo sbarco. Un senso di pace mi ha inse-gnato che quell’ossessione era indotta. Non saremo mai troppo pochi.

Questo breve testo scritto in seguito al raduno sul molo di Catania rac-conta una situazione nella quale sempre più spesso si ritrovano incastrate le nostre pratiche politiche: da una parte la massa virtuale e reale di ignoti, che ci rappresentiamo, purtroppo, allo specchio dei social network, come potenziali fonti di minacce e insulti, dall’altra i noti della vita quotidiana con cui ci si trova per lo più d’accordo. L’episodio sul molo di Catania

1 L’immagine del “cerchio luminoso, che chiamo le mie amiche” (Dickinson, 2018) è

(22)

parla dell’efficacia politica di ritrovarsi in presenza lì dove sta accadendo qualcosa per cui sentiamo che ne va del nostro percepirci comunità e parte del corpo sociale.

Non contarsi, come ci inducono a fare i like dei social, cifra della poli-tica contemporanea, ma gustare la prapoli-tica di ritrovarsi in una moltitudine il cui valore, non quantificabile né numerico, sta nella qualità della trasfor-mazione che, grazie a questo incontro, la presenza di ognuno vive. Nel mio caso era avvenuto un passaggio chiaro da un sentimento frustrato di ingiustizia a uno di forza, interiore e condivisa. Le persone erano di-stribuite lungo la banchina che correva tutto intorno alla nave, come in semicerchio, e nel punto più vicino alla imbarcazione avevamo srotolato uno striscione con scritto “Benvenuti, welcome, دودح لا”, perché il senso della nostra presenza era chiaro: dare il benvenuto, accogliere. Che acco-gliere sia divenuto come un gesto di protesta è segno dei tempi ma non del gesto in sé.

A partire dall’estate del 2018 abbiamo lavorato intensamente con le amiche del Laboratorio Saperi Situati su quel senso di sgomento, sulla percezione incombente costante della minaccia, la rabbia che si impadro-niva di molti, senza scampo, nell’apprendere le notizie del giorno segnate da una violenza istituzionale e sociale sempre più diffusa. Sotto l’effetto principale degli eventi riportati dai giornali e dalle televisioni sembravano naufragare e sgretolarsi anche le relazioni della vita quotidiana, la tensione segnava gli incontri e le discussioni in presenza.

L’effetto principale di questo stile politico mediatico era – ora lo defi-nirei così – una forma di distrazione di massa dall’opera quotidiana di chi svolge un lavoro di cura per amore del mondo, che protegge la vita e la fa crescere. L’impressione che questa opera costante stesse subendo una im-provvisa svalutazione sociale e istituzionale ha lasciato ben presto il posto alla consapevolezza della necessità di ri-orientare la nostra attenzione e le domande delle nostre ricerche verso i luoghi di mediazione vivente, spazi abitati politicamente dalle donne che trasformano in sapere, saper-vivere, le contraddizioni e le esperienze che toccano l’esistenza di ciascuna.

Quali forze a favore della collettività vi possono essere rintracciate? In che modo i saperi fioriti in questi luoghi possono essere leva per rinnovare il tessuto sociale, dialogando con il mondo istituzionale della cura?

L’immagine del cerchio è sorta da queste domande mentre eravamo alla ricerca di un modo per nominare alcune pratiche vive nelle case delle donne, nei centri antiviolenza, nelle biblioteche, librerie, gruppi di ricerca femmi-nisti, spazi nati da una ricerca di sé in relazione alle altre che hanno spesso prescelto la forma circolare come luogo di incontro. La consapevolezza del fatto che, in verità, le circostanze politiche non ci richiedessero una nuova

(23)

forma di opposizione o, in primo luogo, un impegno nella decostruzione del discorso mainstream ma «un potenziamento di quanto abbiamo sempre fatto, unito a una maggiore presa di coscienza e a una sempre più profonda chiarezza dei problemi che dobbiamo affrontare» (Giacobini, 2016, p. 112) ci ha guidate verso l’immagine dell’allargamento del cerchio come forma di intensificazione della presenza politica che genera cura e apprendimenti. 1. Introduzione

Luisanna Porcu scrive che il lavoro dell’operatrice nei centri antivio-lenza, e aggiungerei in ogni luogo delle donne, «è un lavoro politico che si sviluppa su due fronti che si intersecano quotidianamente: uno è quello con le donne; l’altro è quello della produzione di saperi che contagiano la società tutta» (Porcu & Campani, 2016, p. 87).

Questo articolo nasce da una chiara presa di coscienza presentatasi mentre come gruppo di ricerca riflettevamo sulla progettazione di percorsi formativi destinati ai servizi socio-educativi sui temi dell’accompagnamen-to di famiglie, spesso solo madri e bambini, considerate in situazione di vulnerabilità. Chi coinvolgere come formatrici? Che forma e ritmo dare alla formazione? Quali contenuti e strumenti offrire alla sperimentazione?

Trovavamo molte risposte nelle pratiche quotidiane del Centro inter-culturale Casa di Ramìa del Comune di Verona, un luogo di incontro tra donne, ispirato al pensiero della differenza sessuale italiano, fondato da alcune di noi quindici anni fa.

Così, pur avendo sempre pensato ed esperito in prima persona come questa casa fosse un luogo di apprendimento e di cura, si faceva strada l’idea che potesse anche essere considerato a pieno titolo fonte di pratiche e situazioni formative, se non anche uno spazio formativo in sé, aperto a studentesse e professioniste dei servizi.

Questo passaggio ha richiesto un tempo di maturazione durante il quale un nucleo di ricercatrici e donne che partecipano assiduamente alle attività della casa e alla sua gestione nel quotidiano ha preso il tempo di nominare alcune pratiche, allenarsi a parlarne con chi non le aveva mai sperimentate2, fare un lavoro riflessivo. Una pratica politica fa sapere se 2 Una parte di questo lavoro è stato possibile nel quadro di tre progetti europei

Erasmus+ a cui abbiamo partecipato in una doppia partnership (Università di Verona, Dipartimento di Scienze Umane – Comune di Verona, in particolare Casa di Ramìa): 2015-2017 “Erasmus+ CapevFair Taking care of vulnerable women during perinatality”; 2016-2018 “PAGE (Parental Guidance and Education)”; 2018-2021 “GIFT (Growing up in family today)”.

(24)

e quando entra coscientemente in circolo con il contesto in cui è nata, trasformandolo. Nominando le soglie che si attraversano si mettono in evidenza alcuni passaggi che ne definiscono il metodo.

2. Disfare il ruolo, trovare un posto

Voglio scriverti come colei che apprende. Lispector (2017, p. 14)

Le prime domande sono sorte grazie all’esperienza di tirocinio presso Casa di Ramìa di alcune studentesse – future maestre, educatrici e assi-stenti sociali – attratte da un luogo in cui lavorare tra donne: pur essendo tutte quasi alla fine della loro formazione universitaria, alcune esprimeva-no un tenace senso di inadeguatezza all’idea di potere sperimentarsi come operatrici in quel contesto. Richiedevano insistentemente una formazione, come se, appunto, il percorso accademico non le avesse preparate in alcu-na maniera a lavorare in quel luogo, come se sentissero di dovere ricomin-ciare da capo.

Questa reazione può non sorprendere per almeno due ordini di ra-gioni: da una parte lo scollamento, purtroppo considerato normale, tra formazione accademica e sapere nato dal pensiero delle donne che nelle università italiane si presenta ancora molto ampio, dall’altro la divisione tra l’apprendimento teorico e il lavoro sul campo, e il conseguente passaggio dall’uno all’altro, che ne fa una soglia complessa, a volte dolorosa, da attra-versare. Ma non era solo questo.

Si faceva presente la sensazione di dovere mettere tra parentesi il già appreso per nutrire il senso di un inizio, di uno sporgersi su una esperienza a tratti paralizzante.

Per cercare di venire incontro a questa esigenza, come donne che frequentano e gestiscono la Casa da diversi anni, ci siamo interrogate su come fare: la prima risposta è stata che la formazione migliore per le stu-dentesse sarebbe stata partecipare. Partecipare ai gruppi già in atto nella Casa, accompagnare l’esperienza con la lettura di alcuni testi. Di solito le ragazze hanno reagito con uno slancio positivo verso questa proposta, ma imparare a conoscere il tempo della Casa, scandito dai gesti di un quoti-diano a volte caotico, con i suoi ritardi, imprevisti e il fardello relazionale che comporta non corrisponde all’idea di una formazione cadenzata con orari fissi, atteggiamenti predefiniti né alla scansione dei tempi tipici di un servizio. Che cammino formativo è un percorso che soprattutto all’inizio scompiglia i pensieri, disordina le idee? Cosa si può imparare?

(25)

Dal punto di vista del metodo questa indicazione parte dall’assunto della precedenza della pratica. In uno dei primi libri della comunità femmi-nile Diotima, in un capitolo intitolato Diotima maestra, Luisa Muraro scrive della precedenza della pratica anche nel lavoro filosofico. Si rifà a Simone Weil, citando la nota definizione di filosofia

come cosa esclusivamente in atto e pratica. Difficile come scrivere un trattato di tennis o di corsa, ma in misura nettamente superiore. [...] Poi, da un romanzo irlandese, [Simone Weil] riassume la storia di una ragazza che, dopo avere as-sistito all’esecuzione capitale del fratello, torna a casa, e, per reazione vitale, si rimpinza di marmellata di fragole: da quella volta e per tutta la vita non poté più sentire parlare di marmellata di fragole. E commenta: “Questo potere di passare nella materia inerte è il proprio dei sentimenti reali. Per l’essere umano in questo mondo la materia sensibile – materia inerte e carne – è il filtro, il vaglio, il criterio universale del reale nel pensiero; l’ambito del pensiero tutto quanto, senza che niente ne sia eccettuato. La materia è il nostro giudice infallibile”.

E, riportando il discorso sul farsi del pensiero della differenza sessuale, continua:

Noi facciamo filosofia con l’esperienza femminile. Ma l’esperienza femmi-nile è qualcosa di cieco e inerte finché non si mette a giocare a tennis o a fare le corse. Cioè, finché non c’è politica di donne, pratica politica. Finché non comincia questo movimento, l’esperienza femminile è come una materia inerte e insensibile, che non può dare origine a un sapere. Il sapere nasce insieme alla forza. Nascono insieme quando il pensiero fa muovere la materia, così come la sofferenza della ragazza diventa marmellata di fragole, e allora la materia pensa. La materia è il nostro vaglio perché se quello che pensiamo è vero, non resta mai solo un pensiero e passa nella materia inerte facendola muovere (Diotima, 1990, pp. 212-213).

Nelle case delle donne il sapere si origina dall’esperienza femminile. In che senso? Che sapere prende forma dall’esperienza femminile, in uno spazio tra donne?

Le case delle donne non sono infatti servizi rivolti a donne ma luoghi in cui la differenza femminile esiste: «noi non ci occupiamo delle donne, noi siamo donne» (Baeri & Fichera, 2001, p. 152) scrivevano nel 1982 le fem-ministe catanesi richiedendo uno spazio pubblico comunale per una casa delle donne. «“Occuparsi di” è una arroganza intellettuale/più ti occupi della donna e più mi sei estranea/sai cos’è esporsi in prima persona? Tu cerchi l’errore senza essere pronta a rischiare» (Lonzi, 2018, p. 105), scrive Carla Lonzi nel secondo Manifesto di Rivolta femminile.

(26)

Questo tipo di sapere prende la forma di un esporsi. Un verbo giusta-mente riflessivo che comprende un tra sé e sé, e un tra sé e le altre, uno spazio corporeo che passa dall’aggressività e dalla paralisi, dalla fuga e dalla lingua impastata, dal cuore che batte e dalle guance rosse. In diversi momenti della settimana, le donne si siedono per terra, in cerchio, per un paio d’ore, a raccontarsi in modo rituale, cioè una dopo l’altra pas-sandosi un testimone, alcune esperienze di vita (Migliavacca & Boukal, infra; Bissoli, infra) magari anche mentre tessono, cantano o cuciono. In questi cerchi si può ascoltare la propria voce e iniziare a percepirne le eco nelle risa, nelle smorfie e negli occhi delle altre. A che tipo di sapere si dà così origine?

Per molte significa chiedersi chi sono o, meglio, chi diventano in quello spazio.

Nelle prime settimane ho iniziato a domandarmi quale fosse il mio ruolo di tirocinante in un contesto così poco strutturato quale è Casa di Ramìa; non percepivo quasi alcuna differenza fra me e le donne che la frequentavano, o asim-metria di ruoli (invece tanto esasperata nei libri universitari). [...] A queste do-mande rispetto al mio ruolo, ho faticato a trovare risposta anche perché non ero affiancata da nessuno; ammetto di essermi sentita in certi momenti lasciata a me stessa, senza nessuno che potesse consigliarmi. In questi momenti di smar-rimento, cercavo di trovare un punto fermo a cui aggrapparmi, una linea teorica di riferimento… Non è possibile affidarsi a una routine definita perché è quasi totalmente assente. Durante una conversazione con Elena, la responsabile, a cui avevo letto un frammento del diario di tirocinio, lei mi aveva detto che ero im-mersa nelle domande giuste, quelle che costituivano lo sfondo teorico di ricerca in cui si indagavano le modalità in cui agire, progettare, fare. L’educatore qui si trova spaesato proprio in virtù del fatto che questo luogo desidera essere speri-mentale, uno “spazio vuoto”, ricercare la formazione di nuove forme di socialità: l’idea stessa di ruolo va messa in discussione. (Greta, relazione di tirocinio in Scienze dell’educazione a Casa di Ramìa, 2019).

Un secondo passo dal punto di vista del metodo è l’avvio di un percor-so di presa di coscienza che nasce da una domanda su di sé. Sorge natural-mente in questi cerchi e si traduce spesso, almeno in un primo momento, in una interrogazione sul proprio ruolo. Che può fare una educatrice in questo luogo? Cosa può apportare?

Alcune, lamentando una certa confusione, arrivano prontamente a mettere in dubbio che sia uno spazio adatto a una educatrice. Lo smarri-mento di cui parla Greta, la ricerca di un punto fermo e la sicurezza nel dire che nessun libro già noto, teoria o programmazione sono disponibili a orientare in quello spaesamento sono indizi di una ricerca fuori dai

(27)

per-corsi definiti dalla formazione accademica o dalla scansione del tempo di un servizio. Questo trovarsi tra sé e sé fa fatica e spaventa. Greta scrive di essere “lasciata a se stessa”, senza nessun consiglio, ma due righe dopo afferma di scrivere un diario, cioè di avere uno strumento tra le mani, e di condividerlo con la responsabile della Casa. Essere lasciata a se stessa non è un sintomo di assenza di una guida, ma un privilegio di cui raramente possiamo fare esperienza. Non avere una griglia, uno schema da riempire, un format su cui plasmarsi o un’azione da ripetere è una esperienza molto rara e preziosa nella formazione.

Lasciare che le domande emergano dal profondo, per immergervisi. Nella maggior parte dei casi a dare le vertigini è la forma delle domande con le quali si finisce per confrontarsi in queste condizioni perché sono domande a matrioska. La più grande ne contiene sempre una più piccola, in un crescendo di miniatura e precisione.

È spiazzante notare come questo affollamento di domande interiori corrisponda, a volte, all’esterno, a una sorta di mutismo. La formazione accademica delle operatrici sociali si compone, infatti, di molte tecniche e teorie sull’ascolto dell’altra, spesso considerata come “bisognosa”, ma dedica poco tempo e strumenti alla creazione di uno spazio interiore, all’e-sercizio dell’ascolto di sé, al sentirsi.

Vi può essere un silenzio imbarazzato, offeso, impacciato, aggressivo, ten-tennante, disarmante che fa soffrire colei che non riesce a prendere parola e che rende instabili i meccanismi di restituzione che per molte sono naturali. Perché vi può essere questa difficoltà? Ho cercato, invano, di dare una risposta a questa domanda che mi abita e mi fa soffrire, ho letto tanti libri di ogni genere per trovare una spiegazione o forse una giustificazione, ma niente, tutti mi davano qualcosa, ma non una soluzione pronta per essere assimilata e messa in pratica.

Stanno emergendo le storie di vita, storie che ci portiamo dentro, che ci han-no segnato, che ci fanhan-no ridere, ci fanhan-no piangere, ci fanhan-no ricordare un posto lontano o la nostra vicina di casa, storie private, storie che non hai mai raccon-tato, storie che prima di allora non conoscevi nemmeno te. [...] La capacità di prendere parola non è una dote che una persona ha o non ha per nascita, ma un’abilità che possiede ognuna di noi. Come poterla risvegliare? [...] Riuscire a esplicitare i propri pensieri in maniera chiara, con le parole giuste e pensanti è un atto altrettanto difficile che richiede apprendistato, autodisciplina e soprattut-to, l’accettazione del caso e dell’imprevissoprattut-to, perché solo in questo modo vi può essere la forza di esporsi. Spesso rimango spiazzata e non so cosa dire. Tutte le storie che le ragazze richiedenti asilo e le altre operatrici raccontano sembrano cose “semplici”, ma nel momento in cui devo “rispondere”, mettere al centro del cerchio una storia, vedo quanto sia difficile. Perché questa “inibizione”? Perché questo senso di spaesamento? Perché improvvisamente la mia vita mi sembra un

(28)

caos totale, talmente confusa da non saper poi nemmeno cosa dire? È possibile non riuscire a trovare un pezzo di un episodio, di un’azione, di una situazione da raccontare? Che cosa prova allora la donna che davanti a tante persone non parla? Il silenzio in cui si segrega racchiude un’intima domanda che la fa soffrire, che chiede il perché di questa sua mancanza rispetto a tutte quelle che la circondano. Sottovaluta la situazione e la ritiene non degna del proprio intervento? Spesso, o per lo meno così capita a me e alle persone con cui ho avuto modo di confrontarmi, è l’opposto, ossia la situazione viene presa molto seriamente e viene riconosciuta la sua importanza e il suo valore, forse troppo? Questo circolo vizioso che si va creando, se non fermato, ha come conseguen-za la circolazione esclusivamente di parole vuote, di donne che si parlano senconseguen-za in realtà dirsi nulla. È come se raccontare ci permettesse di portare a compi-mento la propria vita mostrandola a un’altra, il poter raccontare significa aver vissuto. Di conseguenza l’impossibilità o la difficoltà di raccontare può essere sentita come una mancanza, una “deficienza dell’essere” (Degiampietro, tesi di laurea in Scienze dell’educazione, 2018).

Torna, anche nelle parole di Alessia, la ricerca vana nei libri delle ri-sposte per le proprie domande, ma in questo caso in relazione al sentirsi impreparata alla presa di parola di fronte al caos interiore che la precede. La sua posizione di soglia tra la coscienza di non volere più “parlarsi senza dirsi nulla” e “il potere raccontare di sé” prende in lei la forma della man-canza, la sensazione di una “deficienza dell’essere”. La politica delle donne ha tematizzato i silenzi all’interno dei collettivi femministi (Cigarini, 1995), interrogandosi sulla in/dicibilità dell’esperienza:

questa possibilità [di presa di parola] le costringe a fare i conti con il fatto di non avere un linguaggio proprio per esprimerli. C’è, qui, quello che mi pare il pun-to di maggior ricchezza della filosofia della differenza italiana. La scoperta, cioè, di una condizione di “indicibilità”, una condizione che trova la sua più pregnante espressione nell’“obiezione della donna muta”3: nel momento in cui si rifiutano

di “essere dette”, quando scelgono di liberarsi dalla “servitù del loro destino ana-tomico” – dalla significazione patriarcale del loro corpo – le donne rischiano di ritrovarsi a essere “superflue”, fuori luogo e prive delle parole necessarie a dare voce al proprio desiderio (Rudan, 2012, p. 43).

Ma questa constatazione non si risolve nella dicotomia tra silenzio come gesto passivo e presa di parola come gesto attivo. Anzi, nella parte tacita di sé si possono ricercare istanze di liberazione che talvolta la parte emancipata e la partecipazione al gruppo tendono a soffocare (AA.VV.,

3 Sulla forza del silenzio e della relazione con la parte oscura di sé, cfr. il saggio di

(29)

1976). La parte affermativa e il negativo lavorano infatti secondo direzioni diverse ma altrettanto importanti:

quando il negativo si lascia introdurre nel discorso, vuol dire che, poco o tanto, è uscito dalla sua assoluta negatività e non pretende di trionfare da solo. [...] Il negativo che non disfa, o non completamente, l’ordine del discorso in cui si è introdotto o è stato introdotto, vuol dire che, poco o tanto, ha smesso di di-struggere e che sta al gioco del simbolico, fra presenza e assenza. Se non è questo che fa, distruggere, che cosa fa il negativo che “lavora”? […] se c’è un minimo di ordine simbolico (se c’è due e una relazione fra) esso fa pensare: genera il pensiero nel senso che lo sprigiona, lo scioglie, lo libera (Muraro, 2005, p. 2).

Questo “non essere” che corrisponde a una scomodità data dal non ritrovarsi nel ruolo prestabilito o dal non sapere come comportarsi, se pen-sato, in effetti può allentare se non sciogliere, fare dubitare se non liberare, generando molte questioni.

Le donne non vengono in questo spazio4 per un bisogno educativo. Allora

come andare incontro ai loro reali bisogni? Io mi sento nel mio ruolo se le donne vengono a chiedermi un aiuto su come gestire la relazione con la scuola o un sup-porto nella regolarizzazione dei documenti. Ma già faccio più fatica se mi trovo nel cerchio. Come stare nel gruppo uscendo dal ruolo? Chi divento nel gruppo? Non mi sento di “usufruire” di un cerchio narrativo, di esserci come Giulia. Stare sul confine tra essere operatrice e utente è difficile. Come faccio a essere compagna di cerchio ed educatrice? È ovvio che per me è più facile difendermi e farmi forza del mio ruolo. Se io poi mi trovo pure a seguire i figli di queste donne in contesti di segnalazione dei servizi e di valutazione della capacità genitoriale, come faccio? Oppure è giusto uscire da questa struttura? Non è facile, non siamo preparate a uscire da questa struttura. Facciamo parte di un sistema. E come può vedermi una mamma di cui sono compagna nel cerchio, se divento l’educatrice di suo figlio nel centro diurno? Se io vedo che ci sono delle cose problematiche il mio compito è segnalare. Si cerca di creare un’alleanza ma il focus non è più sulle donne ma sui figli (Giulia, educatrice di un centro diurno).

Come mai la cultura istituzionale italiana imposta tacitamente lo sguar-do delle operatrici verso una competizione tra il bene della madre e quello dei figli? In che modo condividere uno spazio di confronto con la madre potrebbe diventare per l’operatrice una risorsa nella cura condivisa del

4 Si tratta di uno spazio di incontro per donne e bambini in cui si condividono saperi

ed esperienze, ricordi e oggetti, si lavora con le lingue presenti imparando l’italiano. Lo spazio è gestito da quattro donne, due di origine marocchina arabofone e due di madre-lingua italiana. Oltre a Giulia, l’educatrice, le altre hanno imparato “sul campo” a creare e abitare contesti di incontro per donne.

(30)

figlio? Questi dilemmi sono propri di una professionista che incontra, a un certo punto del suo percorso lavorativo, alcune modalità di lavoro che nascono dalla pratica politica delle donne. Nel suo discorso ritorna pre-potente il dubbio sul proprio ruolo, ma questa volta più orientato verso la relazione con l’altra: chi sono ai suoi occhi? Chi divento? Questo è un terzo passaggio metodologico e riguarda, per studentesse o professioniste che lavorano già da una decina di anni, in particolare la questione della netta separazione tra utente e operatrice. Giulia individua chiaramente in questa dicotomia, studiata e poi applicata in anni di lavoro, ciò che non le permette di partecipare allo scambio di parola in cerchio, obbligandola a una scelta aut aut tra l’essere compagna della donna che accoglie o educa-trice. Quando, in un incontro d’équipe, Giulia ha espresso questa posizio-ne è stato liberatorio per tutte. Non perché le altre condividessero questo stesso posizionamento; tuttavia lei toccava, grazie al suo disagio, il punto cruciale della tensione tra politica delle donne e servizio/professionalità rispetto al quale ognuna di noi aveva qualcosa da dire. Per riprendere le sue parole: su cosa si può fare forza/leva, al di là del ruolo di cui il servizio ti riveste?

Questo tema è trasversale alla riflessione che molte operatrici e ricerca-trici stanno compiendo in particolare nei servizi che sono nati dall’espres-sione politica di alcuni bisogni delle donne legati alla cura (in particolare asili nido, consultori, centri antiviolenza, case delle donne, centri intercul-turali) e che stanno assistendo gradualmente a una certa professionalizza-zione dell’accoglienza e della relaprofessionalizza-zione tra donne (Creazzo, 2010, 2016). In che relazione stanno le competenze professionali e i saperi politici? Sono in una relazione esclusiva, come sente Giulia, o competitiva?

Domande affini si sono poste 165 donne che hanno partecipato alla Scuola di politica itinerante e permanente per i 75 centri antiviolenza della rete D.i.Re. (Donne in rete contro la violenza5). Manuela Ulivi, riportando

un lavoro di gruppo, scrive che nel percorso donna a donna «non appli-chiamo quella distanza che in genere si mette in atto nel rapporto tra pro-fessionista da una parte e utente/cliente dall’altra» incoraggiando un uso attento delle parole e l’eliminazione, per esempio, di un lessico del tipo “presa in carico”, “utente”, “trattamento” (Ulivi, 2016, p. 110). Il lavoro dell’operatrice implica, «in primis, l’essere operatrici di noi stesse in conti-nua relazione positiva con le altre donne, dove noi per prime partiamo dal vissuto di essere donne in una società patriarcale» (Campani, 2016, p. 90). Quale formazione sarebbe, quindi, ideale avessero coloro che gestiscono uno spazio per donne?

(31)

L’idea del consultorio completamente specializzato non considera il pro-blema della formazione delle figure professionali menzionate e delle modalità di selezione. Niente e nessuno poteva e può garantire, infatti, che le dipendenti pubbliche abbiano una formazione femminista o “di genere” come oggi si pre-ferisce dire. Ma, soprattutto, l’idea di avvalersi di professionalità specifiche non considera un’altra idea centrale nel femminismo radicale, così come nel femmi-nismo della differenza: l’idea che alla radice della possibilità per una donna di uscire dalla violenza non stia tanto una competenza specifica, ma la relazione con un’altra donna (altre donne), che pensa che la tua libertà sia anche la sua; che la tua possibilità di autodeterminazione sia anche la sua; che nella tua pos-sibilità di affermazione di una progettualità di vita autonoma si giochi anche la sua. Una donna che guardando chi si trova in una situazione di violenza veda innanzitutto un’altra donna, una donna con punti di forza e punti di debolezza a volte estrema; una donna i cui bisogni, problemi e obiettivi, le cui strategie vanno esplorate insieme, ogni volta come se fosse la prima, non a partire da soluzioni predeterminate, ma a partire dai 360 gradi della relazione e della sua progettualità.

Le competenze professionali si possono imparare, quello che ho menzionato fa parte piuttosto di un percorso e di un bagaglio personale e politiche che si può solo proporre, di cui deve avere cura ...e poi stare a vedere cosa succede (Creazzo, 2016, pp. 61-62).

In primo luogo, in termini illichiani, questa visione della relazione ten-de a disinnescare alcuni effetti potenzialmente e, spesso nei fatti, disabi-litanti dei servizi sociali (Mc Knight, 2008): il bisogno della donna non viene identificato come una mancanza soggettiva, ma viene fatta una let-tura socio-politica dell’accaduto; alla donna accolta non viene sottratta la capacità di definire dalla sua propria voce la situazione problematica nella quale si trova e di individuare le soluzioni migliori.

Inoltre, per evitare fraintendimenti, è da sottolineare che le donne dei centri antiviolenza non intendono basare il proprio operato su un senti-mento di parità, dell’“io donna come te”, fittizio specie nei momenti di cri-si, ma sulla coscienza che accogliere significa incontrare “un’altra donna”, svincolandosi dal paradigma dell’uguaglianza per puntare su una disparità qualitativa.

Il cuore della loro idea sta, quindi, nel proporre non la asimmetria data dal potere tecnico e burocratico delle operatrici, ma da una disparità circo-lare che si gioca nella relazione tra donne (Libreria delle donne di Milano, 1987; Creazzo, 2010).

Dinanzi a un’altra donna, dunque, se non ci lasciamo imporre dalla cultura istituzionale i confini della relazione, i suoi ruoli e copioni, spetta a ognuna di-segnare con coscienza lo spazio comune e trovare il proprio posto.

(32)

Immaginando una forma per queste relazioni, mi viene in mente quel-lo che Chiara Zamboni nomina come un «movimento di un dare, ricevere, ricambiare attratto da un di più»:

Il movimento nel quale i discorsi si muovono guidati da qualcosa di incom-mensurabile alla ragione che calcola è simile più a una spirale che a un cerchio: il cerchio si rinchiude su se stesso, mentre il movimento della spirale rimane sem-pre aperto e dinamico perché non viene mai restituito un valore equivalente o eguale. L’immagine della spirale mostra il movimento di un dare, ricevere e ricam-biare attratto da un di più, che non si sa definire con le parole consuete. [...] Ma là dove c’è qualcosa che attrae, che eccede e che impegna i due, allora il cerchio che ritorna su di sé non è figura adatta (Zamboni, 2002, p. 15).

C’è un lavoro su di sé e con l’altra che va nel senso della spirale. Si parte dall’essere punto, e ricordo di avere sentito in diverse occasioni, chiaramente, che il punto di partenza per me è stato ammettere l’ignoranza. Allargare il cer-chio implica che la figura non si possa mai richiudere su se stessa, che il lavoro va nel senso della profondità. Non si tratta, in ogni caso, di un percorso lineare.

Non ci sono solo io. Siamo insieme. Pensavo fosse più semplice, ma oggi ho potuto vedere che non lo è affatto. Ho sperimentato per la prima volta la condu-zione di un gruppo. Ero molto eccitata per questo. Ma mi chiedo: è il potere che acquisisco? Acquisisco importanza per loro in questo modo? Loro sono impor-tanti per me, ognuna a modo suo. Sono contenta perché dirigo in un certo senso loro e la situazione? Ma sono io che ho potere o devo capire invece che è una cosa comune, che la situazione e l’accompagnamento sono un prodotto di tutte? (Sara, relazione di tirocinio in Scienze dell’educazione a Casa di Ramìa, 2018).

Mi chiedevo se ero in grado di instaurare un rapporto con queste donne. Se ero in grado di ottenere la loro fiducia, se potevo dare qualcosa a loro. Avevo timore di non essere accettata e considerata, perché sono giovane e bianca (Sara, relazione di tirocinio a Casa di Ramìa, 2018).

Sara avverte sin dall’inizio la seduzione del potere che il ruolo confe-risce contemporaneamente alla paura di non essere accettata dalle donne che incontrava al centro dove si stava formando come educatrice. Due pul-sioni all’apparenza opposte ma in fondo complementari: perché il copione – del potere – possa essere realmente eseguito si prevede l’accettazione, la considerazione e la collaborazione anche dell’altra donna che deve assume-re anche lei un ruolo, quello dell’utente6. Come spezzare questa complicità

istituzionale? Cosa si guadagna dal difendersi dietro il proprio ruolo? E che direzioni si prendono nel momento in cui si decide di spogliarsene?

(33)

«Essere contro le istituzioni oppure entrarci per trasformarle... poco o niente ha a che fare con la nostra pratica politica. La questione non è il rapporto con l’istituzione ma con il potere, perché in effetti è uso del pote-re decidepote-re per gli altri e degli altri» (Martucci, 2008, p. 42): spostando con questa affermazione il focus dall’istituzione alla questione del potere, Vita Cosentino paradossalmente restituisce a ognuna la capacità di agire. Non si tratta di lottare contro un sistema, né di decidere se stare dentro o fuori, quanto di prendere atto della propria relazione con il potere, qualsiasi sia la nostra posizione. Alla domanda se partecipare a un cerchio avesse in qualche modo modificato il loro lavoro, le operatrici concordano nel dire che l’esperienza ha permesso loro di capire, ma soprattutto di vedere e sentire certe dinamiche all’interno delle relazioni di lavoro, di poter avere più fluidità nelle relazioni con le donne richiedenti asilo per abbattere quel muro che prima le separava e non permetteva di vedersi.

Decido che voglio prendere questo spazio (il cerchio di parola), che è impor-tante e prezioso. Decido che non voglio essere solo un braccio operativo, come tante, troppe volte mi sono sentita mio malgrado (e voi?). Decido che voglio essere vicino a Felicia in un momento per lei difficile, a Sonia che troppo spesso “bacchet-to”. Decido che voglio stare vicino a Kate, che si è aperta con me dietro la promes-sa di non dire certe cose agli altri operatori – si è aperta con me Mirta, non con me operatrice. E mi chiedo quanto giusto/importante sia riportare quelle cose, anche se molto forti. Sento di non volerla tradire. Ma ho anche paura di fare un danno ancora più grande se tengo certe cose per me. E voi? Desidero che questo gruppo possa essere quello spazio in cui non sono tenuta a “tradirla”. Davvero possiamo entrare qui, insieme a queste donne semplicemente come donne? Questa è stata la sensazione del primo giorno, del primo incontro, così bella e liberatoria: finalmente posso essere me stessa e basta, qui dentro, con loro, con voi (Mirta, educatrice di un centro di accoglienza per persone che richiedono l’asilo politico).

3. Pirate

La nostra sapienza e la tua, e quella di tutti, sono la stessa? Come è stata assegnata, e da chi? Oppure il donatore che l’assegna la divide, e ne dà a ciascuno secondo la sua necessità?7

Se, come scrive Luisa Muraro, il sapere nasce contemporaneamente alla forza, nei centri interculturali tutte possono contare su una forza in

7 Cfr. Contini (2016, p. 11). È il sesto degli enigmi noti nella tradizione siriaca, che qui

(34)

più. Viene dalle visioni espresse da molte donne che sono nate in contesti non occidentali e si fanno portavoce di esperienze di vita sociale femmini-le o matrilineare, oppure semplicemente di stili di vita in cui, non essendo presente una massiccia istituzionalizzazione della cura, le donne si met-tono diversamente in relazione con i gesti e gli spazi quotidiani della vita, usando delle misure altre.

Questo non vuol dire, come vedremo, che non ci si ponga domande simili a quelle citate precedentemente.

Una donna che frequenta Casa di Ramìa da molti anni e partecipa alla gestione del centro, Houda Boukal, racconta una scena di vita in Marocco:

nel quartiere, quando avevo sette anni, mia nonna preparava da mangiare verso le quattro del pomeriggio. Mia nonna, una donna potente, non come mia madre che se c’è un problema chiude la porta per non farsi disturbare. E arriva-vano tutte le donne del quartiere e iniziaarriva-vano a cantare e a parlare e... lo vedo che sono proprio felici. Prima mi faceva noia e non volevo tanto fermarmi con loro, ma adesso mi ricordo la qualità di quegli incontri. Si portavano i problemi, le cose belle, si condivideva, cantava; trovi una donna che ha problemi con il marito, con la suocera, le donne riescono a trovare sempre delle soluzioni. Non vanno dallo psicologo, c’è una magia, riescono ad andare avanti nella loro vita. Sono venuta qua in Italia, sto scegliendo la mia strada di essere proprio una donna fiera della sua cultura e della sua religione, io mi presento con il velo e vorrei fare le cose che mi piacciono con le altre donne.

L’esperienza di una socialità femminile che tesse la vita di ogni giorno, tra difficoltà, lavoro del quotidiano e canti, è l’esempio che Houda porta nel cuore quando organizza gli incontri della Casa di Ramìa e accoglie le altre donne.

Una cosa che si impara partecipando alla vita di una casa delle donne è prendere coscienza della grandezza femminile: anche questo orientamento fa parte del metodo di formazione. “Ricordarsi”, nel senso di richiamare al cuore, donne importanti che hanno segnato la nostra vita, le nonne, le maestre, le amiche, donne che hanno fatto la storia. Questo cambia la vi-sione su di sé e sul proprio compito nel mondo, perché a volte la relazione o solo lo stare accanto a queste donne ci ha segnate, orientandoci, al di là del bene e del male. «Stai lottando per imparare quando tutto quello che devi fare è ricordare» (Giacobini, 2016, p. 106).

Durante un ciclo di laboratori con l’argilla Sandra Faith ha forgiato alcune donne importanti della storia del suo popolo – gli Edo –, guerriere madri e governanti, raccontandone le storie a volte non troppo diverse, se tradotte in una dimensione microquotidiana, dalle battaglie quotidiane di molte di noi. «Non siamo le prime a vivere queste situazioni» dice Sandra.

Figura

Fig. 1 – Assemblea delle dee-serpente. Cucuteni,
Fig. 2 – La Derviscia, calligrafia araba  di Amjed Rifaie (www.amjedrifaie.com),  illustrazione di Valentina Cocciolo.
Fig. 3 – Kali. La dea della forza femminile,  Los Angeles County Museum of Art.

Riferimenti

Documenti correlati

Norme per il diritto al lavoro dei disabili Legge 12 marzo 1999, n. 68 Legge­quadro per l'assistenza, l'integrazione

Nel contempo si stanno sostenendo i corsi di dottorato e le lauree magistrali, fino alla formazione di base, non solo in big data, ma anche nelle loro applicazioni industriali,

C’è in effetti un problema di relocation della forza lavoro: in questo senso la società deve pagare un sacrificio nei confronti delle trasformazioni.. Ma dire che

contrattazione possono svolgere un ruolo di primo piano nel riattivare la dinamica salariale, allo stesso tempo raggiungendo i benefici indicati sopra e incentivando le imprese

È necessario riflettere sull’opportunità di abbandonare il paradigma dominante, che vede il compito di trasferire competenze di base ( literacy , numeracy e digital skills )

La prospettiva di tali processi di progettazione macro e micro deve essere quella di dare valore economico e sociale al lavoro e di promuovere la qualità della vita di lavoro

razionalizzazione e verifica della coerenza dei dati e delle informazioni rilasciate dai diversi soggetti, pubblici e privati, che compongono la rete nazionale delle politiche.

Intanto, si nota la crescita degli investimenti e di nuove forme di collaborazione, non soltanto la crescita dei commerci, anche se la Cina è sempre di più un grande mercato verso