PARTE I
“Il ricorso a clausole generali: una necessità che fa discutere”
1. Primi passi in una complicata vicenda. L’importanza del giudice del lavoro. - 2. Discrezionalità (integrativa e valutativa) dell’interprete. - 3. Discordanze applicative. - 4. Rilevanza della contrattazione collettiva. - 5. La legge 4 novembre 2010, n. 183: un cambiamento di rotta? - 6. Il controllo giudiziale e il sindacato del giudice di legittimità.
1. L’utilizzazione di concetti flessibili ed elastici in ambito giuridico non è certamente cosa rara; basti pensare alla “buona fede” caratterizzante l’esecuzione del contratto, o alla “correttezza”, che funge da parametro per valutare i comportamenti tenuti dal debitore e dal creditore.
Nel microcosmo lavoristico, poi, questa tendenza pare ancor più accentuata, rappresentando la tecnica legislativa necessaria per non trascurare i rapidi mutamenti
a cui è soggetta la realtà sociale1. Fondare un potere di recesso, ovvero la possibilità
di sciogliere unilateralmente un contratto (nel nostro caso un vincolo lavorativo), sul verificarsi di una «causa che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del
rapporto»2, dà la possibilità all’interprete di selezionare3 i comportamenti che, in un
determinato momento storico, siano idonei a provocare questa chiusura immediata. Valutazione effettuata non in maniera arbitraria ma, per certi versi, rappresentativa
della percezione che una certa collettività ha di una qualsivoglia condotta4.
1 L’alternativa a ciò, ovvero l’elencazione casistica, oltre a non svolgere proficuamente tale compito lascerebbe scoperte
(e impunite) talune condotte facilmente riconducibili al contenuto di una clausola generale.
2
Definizione (tautologica) di giusta causa rintracciabile nell’art. 2119 c.c.
3
È PAPALEONI, Licenziamento per giusta causa o motivo, 1998, 4, riprendendo PERA, La cessazione del rapporto di lavoro, Padova, 1980, 55, a definire la giusta causa di licenziamento quale «concetto normativo ed elastico, diretto alla valutazione ed alla selezione dei comportamenti sociali».
4
Gli standards sociali possono mutare nel corso del tempo. Oggi, un bancario in maniche di camicia non risulta, agli occhi della comunità, meno affidabile rispetto al collega in giacca e cravatta; tuttavia, analizzando sentenze degli anni ’30 del secolo passato, è facile notare come comportamenti similari integrassero inadempimenti contrattuali.
Sembra dunque condivisibile il percorso tracciato dal legislatore, consistente nel poggiare una materia delicata come quella dei licenziamenti su una base flessibile, pur rendendoci conto che la scelta di affidare alla mera sensibilità di un uomo (perché è l’interprete, in sostanza, a “estrarre” la regola dalla clausola) la sorte di un altro uomo che molto probabilmente trae il proprio sostentamento dal lavoro che svolge,
possa far nascere preoccupazioni legittime5.
Al giudice di merito viene delegato un compito determinante: quello di
«produrre il diritto a contatto con il fatto»6. Egli non si limiterà a stabilire se uno
specifico contegno sia o meno compatibile ai risultati che la clausola generale contiene astrattamente in sé, ma dovrà necessariamente completare quanto da essa disposto (o, meglio, sottointeso) tramite parametri concreti. L’operazione di integrazione verrà infatti compiuta «mediante la valorizzazione sia di fattori esterni relativi alla coscienza generale, sia di principi che la stessa disposizione tacitamente
richiama»7. Con il primo riferimento8 la Cassazione richiama quelle nozioni morali e
culturali prodotte dal cosiddetto “sentire sociale”. Quando parla di «principi», invece, essa allude probabilmente a «regole precettive presenti in altre parti del sistema
giuridico o nei microsistemi delle comunità intermedie»9: in poche parole l’interprete
potrà (e dovrà) avvalersi di materiale proveniente dalla Costituzione, di direttive
5 Riprenderemo in seguito tale argomento (v. infra, parte I, cap. 2). 6
BRECCIA, Clausole generali e ruolo del giudice, in MAZZOTTA, Ragioni del licenziamento e formazione culturale del giudice del lavoro, 2008, 22.
7 Cass., 29 aprile 2004, n. 8254, in Massimario di Giustizia Civile, 2004, 4.
8 Riguardante i «fattori esterni relativi alla coscienza generale» di cui abbiamo già accennato. 9
CASOLA, La giusta causa di licenziamento e le clausole generali: il sindacato della Corte di Cassazione, in DE LUCA TAMAJO, BIANCHI D’URSO, I licenziamenti individuali e collettivi nella giurisprudenza della Cassazione, 2006, 143.
rintracciabili in specifici settori del diritto, nonché di indicazioni presenti nella
contrattazione collettiva10.
Questa attività è di tipo normativo: di conseguenza è garantito il controllo di legittimità ex art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., nel caso in cui l’interprete disapplichi le
specificazioni di cui la clausola necessita11.
Allora si comprende come le preoccupazioni (prima accennate) e la diffidenza nei confronti di un sistema in cui il legislatore, di fatto, affida al giudice del lavoro l’onere di stabilire concretamente in cosa consista una giusta causa di licenziamento, debbano per forza di cose affievolirsi dinanzi agli eventi. La discrezionalità dell’interprete è arginata dagli elementi evocati dalla sentenza citata («fattori esterni relativi alla coscienza generale» e «principi») e dalla possibilità di intervento della Corte di cassazione in caso di violazione di legge; essa non sfocia in un’arbitrarietà ricostruttiva.
2. La previsione di meccanismi di indirizzo e controllo al potere interpretativo/integrativo che il magistrato esercita per riempire di significato la clausola generale, pone al riparo da eventuali “slanci arbitrari” in sede di ricostruzione del concetto di giusta causa. È difficile, ad ogni modo, negare che una
10 La possibilità/necessita di integrare il parametro normativo tramite materiale proveniente dalla contrattazione
collettiva è indirettamente corroborata dall’art. 360, comma 1, n. 3, che prevede il ricorso in cassazione anche per violazione o falsa applicazione dei contratti e accordi collettivi nazionali di lavoro.
norma indeterminata non comporti un certo «soggettivismo giudiziario»12: questo,
tuttavia, «costituisce un prezzo inevitabile da pagare»13, come abbiamo visto14.
Ma se l’assetto modellatosi grazie al lavorio legislativo e giurisprudenziale non
pare15, in tale ambito, presentare manchevolezze degne di nota, il discorso cambia (e i
problemi sorgono) nel momento in cui il giudice di merito passa ad applicare la norma giuridica ricostruita in via interpretativa. Per accertare la concreta ricorrenza,
nel fatto dedotto in giudizio16, degli elementi che integrano una giusta causa di
licenziamento, egli deve considerare ogni aspetto del caso concreto17, «con
riferimento alla natura e qualità del singolo rapporto, al particolare vincolo di fiducia che esso implica per la posizione rivestita dal lavoratore, al grado di affidamento richiesto dalle specifiche mansioni esercitate nell’organizzazione dell’impresa, alle finalità delle regole di disciplina postulate dalla stessa, alle circostanze in cui la condotta è stata posta in essere, ai motivi che l’hanno determinata e all’intensità
dell’elemento intenzionale»18
. Tali fattori, ormai cristallizzati da un consolidato
orientamento di legittimità19, vengono discrezionalmente soppesati dal giudice, che
12
CASOLA, op. cit., p. 160.
13 MAZZOTTA, Il recesso, la giustificazione del licenziamento, la tutela reale, 2005, p. 91.
14 L’elencazione casistica è inutilizzabile, in quanto non riuscirebbe ad adeguare la nozione di giusta causa ai
cambiamenti “di visuale” della società (v. supra, parte I, cap. I, nota 1).
15 “Non pare”, appunto. Alcune difficoltà, infatti, sorgono nel momento in cui la parte soccombente (in secondo grado)
voglia censurare la ricostruzione del concetto di giusta causa effettuata dal magistrato di merito (v. infra, parte I, cap. 6).
16 Talvolta, la ricostruzione del fatto storico può risultare difficoltosa. Il magistrato ha, ad ogni modo, la piena libertà di
«individuare le fonti del proprio convincimento, esaminare le prove, controllarne l’attendibilità e la concludenza, scegliere tra le risultanze quelle ritenute più idonee a dimostrare i fatti in discussione, dare la prevalenza all’uno o all’altro mezzo di prova, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge» (Cass., 8 maggio 2000, n. 5806, in Rivista italiana di diritto del lavoro, 2001, II, 107, con nota di D’ARCANGELO).
17
V. per tutte Cass., 14 maggio 1998, n. 4881, in Rivista italiana di diritto del lavoro, 1999, II, 156, con nota di CATTANI; Cass., 2 febbraio 1998, n. 1016, in Rivista italiana di diritto del lavoro, 1998, II, 822, con nota di CARO.
18 CASOLA, op. cit., 145. 19
Tra cui Cass. 4 marzo 1996, n. 1667, in Massimario di Giustizia Civile, 1996, 286; Cass., 4 novembre 1995, n. 11500, in Giustizia civile, 1996, I, 1723; Cass., 2 marzo 1995, n. 2414, in Giustizia civile, 1995, I, 3033 (con nota di BOLEGO).
rimane sempre libero di convincersi come meglio ritiene, con l’unico limite di
motivare l’iter logico seguito20
. Godrà, dunque, di una piena autonomia valutativa, sia in ordine all’accertamento della gravità della mancanza del dipendente, sia nel giudicare proporzionale o meno la sanzione espulsiva rispetto all’accadimento verificatosi.
A prescindere da questa constatazione, saremmo indotti a pensare che, di fronte a casi concreti in tutto e per tutto similari, la magistratura, disponendo di uno strumentario valutativo comune, giunga a risultati finali equivalenti. Invece non è così, riscontrandosi non raramente sentenze di segno opposto (che in determinate occasioni ritengono giustificato il licenziamento, e in altre situazioni pressoché
identiche optano per la salvezza del vincolo lavorativo) 21. La spiegazione di tale
discrepanza è semplice: pur essendo certi i dati da scrutinare, non esiste una regolazione tra fattori di valenza diversa. Questo fa sì che, dinanzi alla contemporanea sussistenza di elementi caratterizzanti in negativo e in positivo la
condotta del dipendente22, il giudice possa, in un caso, valorizzare esclusivamente i
primi legittimando così la scelta datoriale e, in un altro, dare prevalenza ai secondi “scagionando”, in tal modo, il prestatore di lavoro.
20
L’onere di motivare la decisione presa non si traduce in un obbligo, per il giudice, di controbattere ogni argomentazione presentata dalle parti. È sufficiente che indichi gli elementi sui quali basa il proprio convincimento.
21 V. infra, parte I, cap. 3. 22
È evidente come la ricorrenza di alcuni elementi aggravi la posizione del prestatore di lavoro: una condotta dolosa, ad esempio, sarà valutata severamente. Altri elementi (come l’incensuratezza o la posizione non fiduciaria), invece, tenderanno a diminuire la gravità del comportamento tenuto.
Discrezionalità valutativa23 che genera una «discordanza di risultati
applicativi»24, e per la quale non sono possibili meccanismi di indirizzo in qualche
modo equiparabili a quanto predisposto a tutela del primo momento applicativo della
clausola generale (la sua interpretazione/integrazione)25. Non è ad esempio
ipotizzabile un intervento della Suprema corte avente lo scopo di veicolare il bilanciamento tra elementi di segno opposto: esso configura un accertamento di fatto e, come tale, spetta esclusivamente al magistrato di merito.
È evidente, allora, come l’assetto predisposto a garanzia della valutazione concreta e individuale (di quel licenziamento in quel preciso contesto) effettuata dal giudice mostri gravi debolezze, generando sostanziali disparità di trattamento.
3. Per “toccare con mano” le problematiche esposte è interessante analizzare due sentenze coeve (risalenti al 2000), riguardanti il medesimo settore: quello della sanità
privata. La prima è una pronuncia della Cassazione26 (Cass. 8 maggio 2000, n. 5806,
cit.) che vede protagonista un infermiere resosi colpevole di una condotta ignobile,
qual è quella di radere a zero i capelli di un degente, per (probabili) finalità punitive. Nel giudizio de quo, oltre a rigettare tutti i motivi di ricorso (deducenti un vizio ex art. 360, comma 1, n. 5. c.p.c. ) proposti dalla parte soccombente (il prestatore di lavoro) affermando la congruità e la correttezza sul piano logico-giuridico (e quindi l’incensurabilità) della motivazione della sentenza impugnata, la Suprema corte è
23 A ben vedere è questa a creare problemi concreti, e non tanto la discrezionalità che il magistrato esercita per
ricostruire il concetto di giusta causa.
24
CASOLA, op. cit., 146.
25 V. supra, parte I, cap. 1.
“entrata nel merito”, allineandosi alla ricostruzione effettuata dal tribunale di Savona. Nello specifico, si è ritenuto che la particolare gravità della condotta (provocante un regresso psichico nel paziente affetto da infermità mentale e, ad ogni modo, censurata dal CCNL di riferimento) fosse di per sé elemento sufficiente a determinare la chiusura immediata del rapporto. Non sono stati tenuti in considerazione altri fattori
(solitamente) rilevanti27 quali le circostanze obiettive in cui l’azione si è compiuta
(può “non essere facile” avere a che fare con una persona incapace di intendere e di
volere), o la (certa) sussistenza di un “intento punitivo”28
(ergo, il dolo dell’infermiere).
Da un punto di vista morale, prima che giuridico, non stupisce che un comportamento del genere, idoneo a integrare il reato di lesione personale di cui all’art. 582 c.p.p. (almeno secondo la ricostruzione effettuata in appello e avallata dalla Cassazione), abbia indotto il giudice di merito a ritenere giustificato il recesso datoriale.
I problemi sorgono, appunto, nel momento in cui un altro magistrato, dispiegando la propria discrezionalità valutativa nell’analizzare una situazione equiparabile al caso appena analizzato, giunga a risultati opposti rispetto a quelli del collega. La vicenda (Trib. Roma, 19 ottobre 2000, in Rivista italiana di diritto del
lavoro, 2001, II, 837, con nota di CONTE) riguarda ancora una volta un infermiere
addetto a un reparto psichiatrico, colpevole di aver preso a calci e pugni un paziente, insistendo anche dopo la caduta di questi a terra. Saremmo propensi a ritenere che
27 V. infra, parte II, cap. 5.
una condotta del genere sia idonea determinare la chiusura immediata del rapporto, soprattutto alla luce della sentenza precedentemente analizzata che, di fatto, valorizzava in modo esclusivo la particolare gravità del comportamento tenuto. Invece non è così. In questo caso, il tribunale di Roma ha ritenuto illegittimo il
licenziamento per insussistenza di giusta causa (nemmeno convertita29 in giustificato
motivo soggettivo), sul presupposto che l’inadempimento, pur rilevante, fosse
ragionevolmente destinato a non ripetersi30 (sia per l’assenza di precedenti specifici,
sia per la natura impulsiva del gesto condizionata dall’aggressività del paziente). Lungi dal giudicare le discutibili motivazioni della sentenza, ciò che interessa in questa sede è mostrare come manchi qualsiasi tipo di simmetria tra le due pronunce.
Il fatto che tale distorsione sia ineliminabile è palese. Il magistrato non troverà mai dinanzi a sé casi concreti in cui il comportamento tenuto si connoti solamente di aspetti negativi o, viceversa, positivi. Dal vaglio di alcuni elementi si aggraverà la posizione del dipendente, mentre tenendone in considerazione altri la situazione apparirà meno pesante (e magari il giudice non riterrà proporzionale la sanzione espulsiva). Non esistendo (e non potendo esistere) un criterio di bilanciamento tra fattori di segno opposto, e non potendosi rifugiare dietro un non liquet, il magistrato sarà libero di convincersi come meglio crede, effettuando una scelta di valore in base alla propria sensibilità.
Il periculum concreto di sostanziali disparità di trattamento rappresenta, allora, il “costo” della discrezionalità valutativa affidatagli. Constatazione che tuttavia non ci
29
V. infra, parte II , cap. 4.
30 Il giudizio riguardante la sussistenza della giusta causa deve essere prognostico, rivolto ai futuri adempimenti del
esime dal ricercare ipotetici spazi di intervento per far sì che tale “costo” sia il meno elevato possibile.
4. Assodato il fatto che la Corte di cassazione non possa regolare il conflitto tra elementi di valutazione di segno contrario, contribuendo così ad elidere (o quantomeno attenuare) le disparità di trattamento che le aule di tribunale producono, un ruolo importante potrebbe essere svolto dalla contrattazione collettiva.
Fonte peculiare (ed autonoma, in quanto non proveniente dallo Stato) del diritto del lavoro, si crea all’interno del comparto produttivo per mezzo di accordi raggiunti tra sindacati e confederazioni datoriali.
Come è stato ben osservato31, non vi sono dubbi sul fatto che essa si atteggi, da
una parte, a «strumento di limitazione dell’esercizio del potere»32
, circoscrivendo la discrezionalità del datore di lavoro nella scelta della reazione da adottare dinanzi al comportamento inadempiente di un suo dipendente. Dall’altra, svolge la funzione di «assicurare ai prestatori di lavoro la conoscibilità ex ante della gravità della
infrazione e della possibile sanzione disciplinare»33, indirizzandoli verso la corretta
(secondo il punto di vista datoriale) esecuzione del contratto.
Non basta, tuttavia, un’elencazione più o meno esaustiva di comportamenti sanzionati per inibire la discrezionalità valutativa di colui che è chiamato a risolvere un caso specifico. Secondo una massima ricorrente in giurisprudenza, infatti, la
31
NICCOLAI, Previsioni collettive e ruolo del giudice, in MAZZOTTA, op. cit., 95 e ss.
32 NICCOLAI, op. cit., 96. 33 NICCOLAI, op. cit., 96.
nozione di giusta causa (di licenziamento) ha la sua fonte direttamente nella legge34, cosicché, la casistica contenuta nei contratti collettivi legittimante la punizione più severa non riuscirebbe nell’intento di vincolare il giudice, che può discostarsene nel momento in cui, ad esempio, ritenga la sanzione troppo rigida rispetto all’infrazione
concretamente verificatasi35.
La classificazione di fattispecie integranti giusta causa ha quindi una valenza
esemplificativa36, e risulterà utile per avvalorare l’esito dell’accertamento compiuto
dal magistrato o fare comparazioni nella circostanza in cui egli debba valutare il livello di disvalore di un caso concreto non rintracciabile tra le ipotesi elencate. Ciò andrà a sommarsi ai tradizionali elementi di valutazione (intensità dell’elemento psicologico, entità del danno, contesto in cui la condotta è stata posta in essere, e così via)37.
La sua discrezionalità pare ridursi solamente quando abbia a che fare con fatti38
per i quali la contrattazione collettiva preveda sanzioni conservative. In tali casi, egli non potrà sindacare sulla scelta convenzionale ritenendo il comportamento meritevole
34 Vi sono varie sentenze della Cassazione che affermano ciò, tra cui Cass. 18 febbraio 2010, n. 4060, in
dejure.giuffre.it; Cass., 19 dicembre 2008, n. 29825, in dejure.giuffre.it; Cass., 10 agosto 2006, n. 18144, in Rivista critica di diritto del lavoro, 2007, 196, con nota di MUGGIA; Cass., 14 novembre 1997, n. 11314, in dejure.giuffre.it.
35 In questo senso, Cass., 3 febbraio 1993, n. 1341, in dejure.giuffre.it. 36
Per esigenze di completezza, è necessario riferire di un orientamento giurisprudenziale minoritario che sancisce la preminenza assoluta del contratto collettivo sull’intervento giurisdizionale, in quanto espressione dell’autonomia contrattuale delle parti sociali. In tal senso v. Cass. 16 aprile 2004, n. 7291, in dejure.giuffre.it.
37 V. infra, parte II, cap. 5. 38
È ovvio che debba esservi una perfetta corrispondenza tra la fattispecie contrattualmente prevista e quella in concreto avvenuta. Se tale coincidenza non c’è, l’interprete sarà libero di optare per la sanzione ritenuta maggiormente proporzionata a quanto accertato.
di una misura espulsiva39: la gravità di esso è stabilito dalle parti sociali, alle quali «si
attribuisce una vera e propria riserva di valutazione»40.
Al netto di ciò, pur non negandone una utilità orientativa in sede di valutazione giudiziale, risulta alquanto arduo sostenere che tale fonte sia potenzialmente in grado di contenere le asimmetrie decisionali che il sistema fisiologicamente produce. Le cose (forse) potrebbero mutare se intervenisse il legislatore con un provvedimento che imponga a colui che decide di attenersi precipuamente al dettato convenzionale, azzerando così la libertà che egli ha di valorizzare gli elementi che più lo convincono per decretare la sussistenza (o meno) della giusta causa di licenziamento.
5. Un intervento significativo, a dire il vero, c’è stato. Parliamo della legge 4
novembre 2010, n. 183 (cd. “collegato lavoro”) 41
, dove, al comma 3 dell’art. 30, si afferma che «nel valutare le motivazioni poste a base del licenziamento, il giudice tiene conto delle tipizzazioni di giusta causa e di giustificato motivo presenti nei contratti collettivi di lavoro stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi ovvero nei contratti individuali di lavoro ove stipulati con l'assistenza e la consulenza delle commissioni di certificazione di cui al titolo VIII del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, e successive modificazioni».
Ad una lettura poco attenta si potrebbe pensare ad una vera e propria “rivoluzione copernicana”: da mero contenitore di condotte da cui discrezionalmente
39 La Cassazione ha espresso questo orientamento in varie occasioni, tra cui Cass., 15 febbraio 1996, n. 1173, in Il
Lavoro nella giurisprudenza, 1996, 690; Cass., 8 aprile 1991, n. 3681, in Massimario giurisprudenza del lavoro, 1991, 406, con nota di INGLESE; Cass., 15 dicembre 1989, n. 5645, in Foro italiano, 1991, I, 985, con nota di CECCONI.
40 MAZZOTTA, op. cit., p. 117. 41 In altalex.com .
attingere per dirimere un caso complicato o per effettuare comparazioni, il contratto collettivo si evolverebbe in pressoché unico interlocutore del giudice, fornendo tipizzazioni di giusta causa (e giustificato motivo) dal valore tassativo che soverchierebbero gli altri parametri di valutazione di cui l’interprete tradizionalmente si avvale.
Il dato letterale, tuttavia, non conforta questa tesi. La disposizione, infatti, afferma testualmente che «il giudice tiene conto»: se il legislatore avesse voluto affermare la vincolatività delle previsioni convenzionali avrebbe dovuto utilizzare un’espressione diversa, più chiara (ad esempio, «il giudice deve tener conto»); ma non l’ha fatto. Delle due l’una: o il legislatore ha voluto dare un taglio netto al passato attenuando l’incertezza del diritto (e, di conseguenza, le disparità di trattamento) tramite la sterilizzazione del potere di discernimento di colui che
giudica42, ma ha commesso un errore (sciocco) usando una terminologia ambigua,
oppure ha semplicemente avvalorato l’orientamento tradizionale e prevalente (secondo cui l’interprete tiene conto delle valutazioni effettuate dalle parti sociali al pari degli altri criteri valutativi), ma allora non si comprende l’esigenza di
un’affermazione di tal fatta43
, essendo una certezza acquisita da tempo.
La Suprema corte, dal canto suo, non pare aver colto l’ipotetico effetto
dirompente della disposizione esaminata, confermando, in una recente pronuncia44,
l’opinione consolidata secondo cui il giudice non sarebbe vincolato dalle previsioni
42 Tesi senza dubbio condivisa da quella giurisprudenza minoritaria che, da sempre, sostiene la prevalenza delle clausole
contrattuali sulla discrezionalità del giudice (v. parte II, cap. 2, nota 18).
43
Per approfondire il tema della limitazione della discrezionalità del giudice a seguito del cd. “collegato lavoro” v. PEDRAZZOLI, Licenziamenti e sanzioni nei rapporti di lavoro, 2011, p. XLVI e ss.
del contratto collettivo nell’accertamento della sussistenza della giusta causa di licenziamento.
A prescindere dalle prese di posizione giurisprudenziali, la contrattazione collettiva sembra soffrire di un limite sistematico incontrovertibile: quello di non riuscire ad imbrigliare la natura relativa del giudizio sulla giusta causa. Il comportamento tenuto dal dipendente a cui sono affidate mansioni delicate avrà, infatti, ripercussioni differenti rispetto al medesimo comportamento tenuto da colui che svolge compiti di livello esecutivo semplice. Ancora: la gravità della condotta si colorerà diversamente in base all’ambito lavorativo in cui viene messa in atto, e così via. È dunque da condividere l’opinione secondo cui «non esiste l’inadempimento “in sé” a prescindere da una valutazione comparativa e dalle caratteristiche di una data
attività»45.
Si comprende, allora, come sia illusorio pensare di poter contenere le discrezionalità valutativa del giudice tramite “iniezioni di certezza giuridica” sotto veste di tipizzazioni contrattuali. Tale attività non può essere imbrigliata da un’astratta elencazione che si limiti ad indicare mere irregolarità oggettive (della condotta) che, di per sé, integrerebbero una giusta causa di licenziamento. Una siffatta autosufficienza non è suffragabile. Essa non è in grado di cogliere quelle peculiarità fenomeniche che talvolta inducono il magistrato a ritenere eccessiva la scelta datoriale. L’accertamento da egli compiuto in merito alla gravità del caso specifico (e il conseguente rischio di decisioni dissimili per casi concreti similari)
rappresenta, allora, un dato imprescindibile, non sterilizzabile attraverso meccanismi sancenti automaticamente la proporzionalità della risposta sanzionatoria.
6. A destabilizzare ulteriormente l’assetto predisposto contribuisce la difficoltà di controllare giudizialmente sentenze di tal fatta. Queste, infatti, si risolvono in giudizi relativamente apodittici, dove la valorizzazione di un elemento a discapito di un altro dipende dalla sensibilità di colui che è chiamato a decidere. Per offrire una motivazione adeguata alla scelta di valore compiuta, poi, basterà che il giudice indichi i fattori sui quali fonda il proprio convincimento, senza la necessità di confutare le censure prospettate dalle parti. Tutto ciò contribuisce alla emanazione di pronunce poco argomentate, scarsamente confrontabili in termini di motivazione e, dunque, poco verificabili nei gradi di impugnazione.
Gli apprezzamenti effettuati dai magistrati che interverranno nella medesima vicenda saranno poco comunicanti tra loro.
È particolarmente difficile, allora, preventivare l’esito finale di una causa riguardante un licenziamento per giusta causa o giustificato motivo soggettivo.
Per meglio comprendere tale constatazione è necessario ricorrere agli archivi giurisprudenziali. Le fattispecie che vaglieremo sono accomunate dallo stesso tipo di
infrazione: l’indebito utilizzo del telefono aziendale46 da parte del dipendente. La
prima è una vicenda conclusasi nel 1998 (Cass., 2 febbraio 1998, n. 1016, in Rivista
italiana di diritto del lavoro, 1998, II, 822, con nota di CARO) riguardante il
46
L’utilizzo abusivo di strumenti tecnologici (internet e telefono aziendale) forniti dall’azienda per lo svolgimento della prestazione lavorativa rappresenta una casistica in grande espansione nelle cause riguardanti il licenziamento per giusta causa e giustificato motivo soggettivo.
licenziamento per giusta causa intimato dalla SIP a un dipendente che, mediante una permutazione di linea effettuata in modo grossolano e provvisorio, aveva collegato il numero di telefono della propria abitazione (non funzionante per un guasto) con un numero di servizio della centrale presso cui lavorava. Ciò, al fine di rimanere informato sullo stato di salute della figlia. Il recesso datoriale, determinato da una
lesione irreversibile del vincolo fiduciario47 (e corroborato dalla circostanza che il
comportamento punito rientrava in due fattispecie ritenute giusta causa di licenziamento dal CCNL di riferimento), veniva condiviso dal pretore, mentre il tribunale di Foggia optò per la conversione della sanzione espulsiva in sospensione dal servizio e dalla retribuzione per dieci giorni. Quest’ultimo giunse a tale conclusione dando risalto all’assenza di precedenti disciplinari per il lavoratore e al fatto che avesse agito non a fini di lucro ma per uno scopo che, in sostanza, sminuiva la gravità del suo inadempimento. La Corte di cassazione ha confermato la sentenza di secondo grado, affermando l’incensurabilità, in sede di giudizio di legittimità, delle valutazioni del giudice di merito in ordine alla sussistenza della giusta causa di licenziamento e alla proporzionalità di tale sanzione rispetto all’addebito. Inoltre, nella parte in diritto, ha sottolineato come il dipendente avesse sì commesso il fatto addebitatogli, ma dalle testimonianze era emerso che «lo aveva fatto senza quell'elemento psicologico necessario per potere ritenere proporzionata la sanzione
che gli era stata inflitta»48.
47
La fiducia (intercorrente tra datore di lavoro e dipendente) costituisce l’epicentro della nozione di giusta causa (v. infra, parte II , cap. 1).
La seconda (Cass., 7 aprile 1999, n. 3386, in Rivista italiana di diritto del
lavoro, II, 649, con nota di PERA) riguarda il licenziamento di una lavoratrice
addetta al magazzino di un’azienda piemontese, rea di aver effettuato, tra il dicembre del 1994 e il marzo del 1995, trentatré telefonate alla madre abitante in Nuoro nonché al fratello e a quattro sorelle, tutti abitanti in località distanti. In primo grado, il pretore ritenne non sussistente una giusta causa di licenziamento, in base allo scarso rilievo (nell’ambito aziendale) della posizione lavorativa della dipendente, all’assenza di precedenti disciplinari, e alla circostanza che il datore di lavoro consentisse, seppur limitatamente, l’uso del telefono per motivi personali. Il giudice di secondo grado, invece, riformò totalmente la sentenza del pretore, asserendo l’inconferenza degli elementi da quest’ultimo valorizzati al fine di minimizzare la gravità del comportamento della dipendente. Per il tribunale di Torino, la circostanza che l’azienda tollerasse l’uso moderato del telefono di certo non giustificava la condotta della lavoratrice, semmai l’aggravava, denotando una slealtà certamente idonea a violare la fiducia riposta nei suoi confronti. Secondo questo, poi, non contribuivano ad attenuare ciò né la posizione ricoperta (la lavoratrice, in quanto addetta al magazzino, godeva di una certa autonomia), né l’assenza di precedenti disciplinari (tenendo conto che il comportamento posto in essere non consisteva in un singolo episodio, bensì in una condotta protratta nel tempo). La Corte di cassazione ha ritenuto congrua la motivazione fornita dal giudice di appello, confermando, dunque, la legittimità del licenziamento della prestatrice di lavoro.
L’ultimo caso, più recente (Cass., 8 gennaio 2008, n. 144, in Rivista giuridica
del lavoro e della previdenza sociale, 2009, II, 395, con nota di LUCARELLI), ha
come protagonista un dipendente licenziato per aver contravvenuto al divieto di inviare messaggi scritti (oltre tredicimila nel periodo gennaio-ottobre 2000) per ragioni personali con il telefono cellulare di servizio. Sia il tribunale che la corte d’appello di Napoli ritennero illegittimo il licenziamento per mancanza di proporzionalità, considerato che per fatti analoghi la datrice di lavoro aveva inflitto una sospensione di pochi giorni (o addirittura nessun tipo di sanzione) e che, sotto il profilo soggettivo, essa non aveva provato alcun motivo di differenziazione. La Suprema corte, giudicando congrua la motivazione della sentenza di secondo grado, ha confermato la scelta effettuata dal magistrato di merito. Tra i motivi di ricorso avanzati dalla ricorrente vi era un vizio di motivazione per avere, la Corte d’appello, valutato la proporzione della sanzione non con riguardo al solo fatto illecito (tra l’altro sanzionato dal CCNL telecomunicazioni) ma attraverso il paragone con analoghi fatti (puniti più lievemente) commessi da altri dipendenti della stessa impresa. Censura che si basava sul principio generale secondo cui non esisterebbe, a carico del datore di lavoro, l’obbligo di parità di trattamento sanzionatorio (insieme a
quello economico e normativo49) tra dipendenti. La Corte di cassazione ha ritenuto
infondato questo motivo (come del resto gli altri), non tramite la negazione dell’esistenza di tale principio, ma sostenendo che questo non può tradursi in una totale arbitrarietà del datore di lavoro nel graduare la sanzione disciplinare. Egli deve
in ogni caso motivare in modo coerente la scelta effettuata, illustrando le ragioni che lo hanno indotto a optare, nel caso specifico, per la punizione più severa. Se non mette in risalto elementi tali da diversificarlo rispetto a casi analoghi (dal datore) trattati più lievemente, il giudice di merito potrà ravvisare in ciò un’incoerenza sufficiente a non ritenere giustificata la più grave delle sanzioni. Ed è ciò che è
accaduto in questa vicenda50.
La comparazione di queste tre cause non solo ci conferma una sostanziale discrepanza valutativa tra casi similari (pur estrinsecandosi in maniera differente, si tratta sempre di un abuso del telefono aziendale) dovuto alla valorizzazione o meno di taluni elementi, ma ci fa notare la facilità con cui le magistrature superiori possono riformare (o confermare) una sentenza di primo grado giudicante la gravità di una determinata condotta. Nella prima vicenda, in secondo grado il tribunale di Foggia ha smentito la valutazione fatta dal pretore (che riteneva sussistente una giusta causa di licenziamento) dando rilevanza a elementi quali l’assenza di precedenti disciplinari e di un “misterioso” elemento psicologico necessario a far ritenere proporzionata la sanzione espulsiva. Nella seconda si passa da un primo grado in cui la dipendente viene “assolta”, ad un appello che, invece, ritiene giustificata la scelta datoriale dando una rilevanza totalmente opposta ai fattori che avevano indotto il pretore a ritenere poco grave il comportamento della lavoratrice. Nel terzo caso, infine, le due magistrature di merito sono allineate nel giudicare illegittima la punizione più severa,
50
La vicenda è utile per introdurre il delicato tema della «tolleranza», ovvero la mancata reazione del datore di lavoro alla condotta illecita del dipendente. Secondo la sentenza analizzata, tale atteggiamento (avuto rispetto alle infrazioni dei colleghi del lavoratore licenziato) è stato determinante al fine di giudicare illegittima (rectius non proporzionale) la sanzione espulsiva. Tuttavia non vi è uniformità di vedute: altre sentenze sottolineano l’irrilevanza di tale elemento nell’accertamento della gravità della condotta del dipendente (v. Cass., 9 settembre 1995, n. 9534, in Massimario di Giustizia civile, 1995, 1631).
avvalorando un elemento (discusso) quale la “tolleranza” avuta dal datore di lavoro verso eguali condotte tenute da altri dipendenti.
Ciò che più risalta agli occhi è la non confrontabilità tra sentenze: in caso di esiti opposti, non si può dire che la valutazione (di una determinata vicenda) offerta in appello sia “giusta” perché fondata su argomentazioni più convincenti rispetto a quanto condensato nella motivazione del giudizio di primo grado. Entrambe le
conclusioni sono adeguatamente sostenibili51, e la scelta di valore differente dipende
dalla diversa sensibilità di colui che decide.
Non può esservi, allora, un reale controllo giudiziale di tali pronunce.
Interessante, a questo punto, è capire il ruolo svolto dalla Corte di cassazione.
Abbiamo visto52 come salvaguardi l’attività di integrazione giurisprudenziale della
nozione di giusta causa: la scorretta specificazione del parametro normativo da parte del magistrato di merito consente, infatti, di ricorrere ad essa per violazione di legge (art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.). L’applicazione in concreto della regola ricostruita costituisce, invece, una valutazione di fatto e come tale risulta incensurabile in sede
di legittimità se non per omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione53 (art.
360, comma 1, n. 5, c.p.c.).
Non sussisterebbero problemi se la distinzione tra queste due attività fosse chiara anche da un punto di vista pratico, oltre che teorico. Ma dal momento che
51
Ciò è riscontrabile non solo nelle tre vicende analizzate, ma nella maggior parte dei casi, dal momento che una determinata condotta non è mai connotata solamente da elementi che ne accentuano la gravità o, viceversa, ne svalutano la portata negativa.
52 V. supra parte I, cap. 1. 53
Non è possibile, ad esempio, un suo intervento per risolvere il problematico conflitto tra i fattori di segno opposto che condiziona (e rende difficile) l’accertamento della sussistenza di una giusta causa di licenziamento nel comportamento concretamente tenuto da un dipendente.
l’integrazione della nozione di giusta causa deve essere effettuata tramite parametri concreti, è abbastanza palese che, nel compiere tale operazione, il magistrato tenga in considerazione le circostanze di fatto. I due momenti applicativi della norma, quindi, rischiano irrimediabilmente di sovrapporsi, con conseguenza negative per la parte soccombente (in secondo grado) che decida di ricorrere per cassazione ex art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., censurando la non conformità alla legge della nozione di giusta causa assunta per compiere la valutazione del fatto specifico. Il pericolo di “scivolare” in una deduzione di un vizio di motivazione, invece che estrarre «dalla applicazione che la sentenza impugnata fa della nozione di “giusta causa” una
puntualizzazione generale ed astratta per poi censurarla come errata in diritto»54, è
concreto. Con la conseguenza che, se la Corte di Cassazione riterrà la motivazione sufficiente e non contraddittoria, dichiarerà inammissibile il motivo di ricorso avanzato (non potendo di certo ripercorrere l’accertamento effettuato in appello).
Lo scenario che ne esce è piuttosto allarmante: se la difesa della parte ricorrente non riuscirà a convincere la Suprema corte che la censura da lei mossa verte sulla (errata) specificazione del parametro normativo, la valutazione compiuta dal giudice di merito risulterà incensurabile (a meno che sia priva di motivazione o comunque essa risulti viziata).
D’altro canto, nel caso in cui si acceda al controllo di legittimità deducendo un vizio di motivazione ex art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., il controllo della logicità delle argomentazioni poste a base della decisione di merito risulterà piuttosto dichiarativo,
essendo, le sentenze riguardanti la sussistenza di una giusta causa di licenziamento, scelte di valore scaturenti dalla sensibilità di colui che giudica.
Le cose si ribaltano nel momento in cui, contrariamente a quanto paventato, si riesca a dedurre una violazione di legge nell’attività normativa compiuta dal magistrato di merito. In tal caso, il controllo del giudice di legittimità potrà andare ben oltre la mera verifica della correttezza dei parametri orientativi scelti per ricostruire il contenuto della clausola generale, arrivando a sindacare anche la valutazione concretamente operata.
Questo risvolto inaspettato è dichiarato dalla Suprema corte stessa all’interno di molte sentenze. Nella parte in diritto, infatti, spesso viene riportato questo ragionamento: «ogni disposizione ha un contenuto precettivo compreso in un intervallo di interpretazioni plausibili e quindi ha una maggiore o minore potenzialità di esprimere una norma differenziata nel contenuto secondo l’opzione interpretativa del giudice. La disposizione interpretata esprime inizialmente una norma plausibile, ma l’estrinsecarsi della funzione di nomofilachia devoluta a questa Corte fa sì che il contenuto di quella norma si precisa progressivamente mediante puntualizzazioni, a carattere generale ed astratto, che fa la giurisprudenza fino alla formazione di quello che viene definito come diritto vivente (i.e. la norma come vive nella riconosciuta e condivisa interpretazione giurisprudenziale). Invece la soluzione del caso singolo non partecipa in questo processo se non nella misura in cui da essa sia possibile estrarre una puntualizzazione della norma (i.e. una massima di giurisprudenza). Questo processo di progressiva definizione della norma ha più ampio spazio per quelle
disposizioni che recano della formulazioni testuali ampie, delle nozioni generali, dei termini polisensi. […] La nozione di “giusta causa” costituisce quindi un canone ampio, naturalmente polivalente e fatalmente destinato ad essere integrato dalla giurisprudenza mediante puntualizzazioni di dettaglio che, come le tessere di un mosaico, valgono a definire meglio i contorni della norma. Ma, anche se di dettaglio, deve pur sempre trattarsi di canoni generali ed astratti, al di là dei quali c’è la valutazione di merito ossia il fattuale riconoscimento della riconducibilità del caso
concreto nella fattispecie generale ed astratta»55.
A prescindere da quest’ultima espressione poco chiara dove si fa riferimento alla necessità di puntualizzare il contenuto della clausola generale tramite canoni “generali e astratti ma di dettaglio” (probabilmente la Suprema corte esprime l’esigenza di salvaguardare l’elasticità della nozione di giusta causa rifuggendo da controproducenti irrigidimenti che ne indebolirebbero la funzione), si delinea una realtà dei fatti ben diversa da quella supposta. Il controllo di legittimità non pare vincolato alla natura dell’attività posta in essere dal magistrato di merito, ma sembra piuttosto agganciarsi a un elemento teleologico, «costituito dalla possibilità di fissare un principio interpretativo della norma generale ovvero di enucleare un esempio in grado di consentire l’interpretazione esemplificativa del concetto indeterminato in
questione»56. Anche la valutazione concreta del caso singolo, dunque, potrà in taluni
casi essere controllata dalla Corte di cassazione. Ciò avverrà nel caso in cui il fatto abbia una valenza tale che da esso sia ricavabile una precisazione della norma.
55
Vedi, tra le altre, Cass., 12 agosto 2009, n. 18247 in dejure.giuffre.it; Cass., 15 aprile 2005, n. 7838, cit.
56 PIZZUTI, Il controllo della Cassazione sulla giusta causa di licenziamento, in Massimario di Giurisprudenza del
Una simile apertura genera a sua volta ulteriori problematiche. La discrezionalità di stabilire se un determinato caso sia o meno “meritevole” di essere giudicato provoca, infatti, disparità di trattamento tra soccombenti (in appello): solo alcuni di loro godranno di un ulteriore controllo. Per altro verso, c’è il rischio che l’indicazione ai giudici di merito di un percorso sussuntivo predefinito per risolvere un determinato caso sterilizzi la loro libertà valutativa, con la conseguenza che un eventuale giudizio divergente venga censurato come falsa applicazione della norma.
Prescindendo da ciò, se il potenziamento del ruolo della Corte di cassazione
rappresenta l’unica “medicina”57 per limitare (almeno parzialmente) le incertezze
derivanti dal trattamento variegato che la magistratura riserva a casi concreti similari, allora, seppur amara, è da ingoiare, pur nella consapevolezza che un eccessivo irrigidimento del dettato normativo provocherebbe un sostanziale svuotamento della nozione giusta causa, quale concetto in grado di cogliere le peculiarità di una certa vicenda.
PARTE II
“Nozioni e criteri di valutazione”
57 Abbiamo visto come ad esempio la contrattazione collettiva non riesca a indirizzare la libertà valutativa del giudice di
1. La definizione di giusta causa di licenziamento. - 2. Divaricazione tra giurisprudenza e dottrina. – 3. Obblighi strumentali, preparatori e di protezione: è possibile (e necessario) fare a meno della fiducia? - 4. La disciplina limitativa del licenziamento. - 5. Elementi di valutazione.
1. Delineate le problematiche che maggiormente affliggono la materia e, soprattutto, mostrata la difficoltà di stabilire quando concretamente ricorra una giusta causa di licenziamento, è ora necessario dare una precisa definizione di essa, indicare i comportamenti idonei ad integrarla, nonché descrivere gli elementi da valutare al fine di stabilirne la sussistenza.
Il codice civile, all’art. 2119, parla di «causa che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto»: formulazione letterale ben poco esaustiva, e che rimanda a un necessario intervento in sede giurisprudenziale al fine di completare
quanto da essa inteso58. È nelle sentenze59, perciò, che va ricercato il concreto
significato della clausola generale in questione.
Dal loro studio, si ricava che la giusta causa di licenziamento costituisce una «grave negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro, ed in particolare di
quello fiduciario»60. La fiducia ne rappresenta allora l’epicentro61, essendo il
presupposto essenziale della collaborazione tra datore di lavoro e dipendente. La sua lesione, dunque, giustifica la chiusura immediata del rapporto.
58 V. supra, parte I, cap. I, dove si descrive la fondamentale attività posta in essere dal magistrato, consistente
nell’integrare l’enunciato della clausola generale tramite parametri normativi concreti.
59 In primis, ovviamente, quelle di legittimità. 60
Si veda, da ultimo, Cass., 12 dicembre 2012, n. 22798, in dejure.giuffre.it.
61 L’idea che pone la fiducia alla base del rapporto di lavoro non è un’acquisizione degli ultimi anni, ma è già
rintracciabile nell’opera di Barassi (BARASSI, Il contratto di lavoro nel diritto positivo italiano, Milano, 1901; inoltre la seconda edizione, 1917). Il grande giurista, al fine di giustificare l’orientamento della giurisprudenza probivirale che dava “cittadinanza” al recesso ad nutum quale strumento idoneo a sciogliere un vincolo contrattuale in alternativa alla risoluzione giudiziale, sottolineava come fosse proprio il fondamento fiduciario intercorrente tra datore e lavoratore a legittimare l’impiego di tale rimedio. Secondo egli, infatti, il recesso tutelava da fatti idonei a turbare la fiducia caratterizzante il rapporto di lavoro, i quali risultavano sindacabili esclusivamente dai contraenti: nessuno meglio di loro (nemmeno il giudice) avrebbe potuto apprezzare la convenienza della prosecuzione del rapporto. Per approfondire questo argomento si veda MAZZOTTA, op. cit., 2; PISANI, Licenziamento e fiducia, 2004, 16 e ss.
L’imprescindibilità di tale requisito determina conseguenze non certo trascurabili da un punto di vista applicativo. Per prima cosa, la valutazione della gravità di un determinato inadempimento risentirà della rilevanza (più o meno elevata) da essa rivestita all’interno del singolo rapporto: la condotta tenuta dal dipendente che ricopra funzioni di responsabilità (e, di conseguenza, goda di un’ampia fiducia) sarà giudicata in maniera più dura (ad esempio) rispetto al medesimo comportamento posto in essere dal lavoratore svolgente una mansione meramente esecutiva.
In secondo luogo, rafforza62 l’idea per la quale anche comportamenti estranei al
vincolo lavorativo possano determinare la chiusura immediata di questo. Taluni contegni “privati” avrebbero una portata tale da minare inesorabilmente la fiducia
nutrita dal datore nell’«idoneità professionale»63 del dipendente.
All’inverso, fa sì che tutto quanto attenga alla sfera aziendale venga espunto dall’ambito operativo della giusta causa. Di ciò troviamo una conferma nel comma 2 dell’art. 2119 c.c., dove il legislatore afferma che «che non costituisce giusta causa di risoluzione del contratto il fallimento dell’imprenditore o la liquidazione coatta amministrativa dell’azienda». Assunto non così scontato: soffermandoci ad un’analisi letterale anche un’eventuale cessazione dell’impresa sarebbe in grado di provocare
62 Invero, la terminologia utilizzata dal legislatore all’interno dell’art. 2119 c.c. non esclude di per sé l’eventuale
rilevanza di comportamenti estranei al rapporto di lavoro. Se avesse voluto fugare ogni incertezza e valorizzare esclusivamente i contegni tenuti nello svolgimento della prestazione lavorativa, avrebbe dovuto far ricorso a un’espressione differente da «causa», magari avvalendosi del termine «inadempimento», o quantomeno ricalcare l’art. 9, comma 3, r.d.l. 13 novembre 1924, n. 1825, convertito nella legge 18 marzo 1926, n. 526 (la legge sull’impiego privato) che adoperava la parola «mancanza» («mancanza così grave da non consentire la prosecuzione anche provvisoria del rapporto»). Per approfondire il tema riguardante la legge impiegatizia del 1924 si veda TULLINI, Contributo alla teoria del licenziamento per giusta causa, 1994, 123 e ss.
63
Il bancario che si rende colpevole di un furto al di fuori dell’ambito lavorativo può essere ritenuto poco idoneo a “maneggiare” le somme di denaro depositate dai risparmiatori, pur non avendo mai commesso infrazioni nello svolgimento delle proprie mansioni.
l’effetto descritto (il non consentire una prosecuzione nemmeno temporanea del rapporto).
Siffatto elemento ha dunque una «funzione unificante»64, venendo utilizzato
come parametro di valutazione di tutte le condotte (e solo di esse) poste in essere dai dipendenti (sia interne al contratto di lavoro, che esterne ad esso).
2. La centralità dell’elemento fiduciario (rectius della sua lesione) nel giudizio riguardante la sussistenza di una giusta causa di licenziamento non è mai stata messa in dubbio da parte della giurisprudenza. Di conseguenza, un comportamento tenuto dal dipendente al di fuori dell’ambito lavorativo, ma in qualche modo incidente sulla fiducia che lo lega al datore, ben può portare alla chiusura immediata del rapporto pur non essendo riconducibile ad un inadempimento contrattuale. Si parla, per questo
motivo, di concezione oggettiva della giusta causa65.
Il pericolo che la magistratura, facendo leva su tale elemento, tuteli esclusivamente le ragioni datoriali trascurando la reale portata (in termini di gravità, di danno procurato, di imputabilità) della condotta posta in essere, appare molto elevato. A maggior ragione se consideriamo il fatto che il centro di interessi prioritariamente valutato non è mai quello del dipendente, come si comprende anche da molte disposizioni codicistiche collocanti la categoria del lavoro subordinato in
posizione «funzionalmente servente»66 rispetto all’attività d’impresa67.
64
PAPALEONI, op. cit., 5.
65 Tale teoria trovò in Santoro Passarelli il suo principale esponente (MAZZOTTA, op. cit., 49). 66 CASOLA, op. cit., 138.
Una totale assenza di “filtri” (nel ricorso a tale parametro) rischia perciò di trasformare la fiducia in una sorta di passepartout a disposizione del datore di lavoro per sindacare la vita “privata” del lavoratore alle sue dipendenze e, dal lato di colui che giudica, in uno «strumento multiuso che consente l’operazione interpretativa
voluta»68.
Non è un caso, allora, che la dottrina prevalente abbia (da sempre) aderito a una teoria differente rispetto a quella oggettiva, sostenendo la c.d. concezione contrattuale (o soggettiva) della giusta causa. Per essa, solamente gli inadempimenti sarebbero idonei ad integrare la fattispecie di cui si tratta.
Di tale elaborazione sono rintracciabili due versioni: una “rigorosa”69, che
ritiene rilevanti solamente le inosservanze relative all’obbligazione principale di
lavorare e a certe obbligazioni accessorie restrittivamente considerate70, e una
“blanda”, che “allarga le maglie” dell’inadempimento costituente giusta causa (a differenza dell’accezione “rigorosa”), riconducendo a questo una serie di comportamenti che paiono lambire la vita privata del dipendente, ma che invece
67 Si pensi all’art. 2086 c.c., secondo cui «l’imprenditore è il capo dell’impresa e da lui dipendono gerarchicamente i
suoi collaboratori», o all’art. 2104 c.c., il quale, al comma 1, afferma che «il prestatore di lavoro deve usare la diligenza richiesta dalla natura della prestazione dovuta» e «dall’interesse dell’impresa», mentre al comma 2 obbliga il prestatore di lavoro a «osservare le disposizioni per l’esecuzione e per la disciplina del lavoro impartite dall’imprenditore e dai collaboratori di questo dai quali gerarchicamente dipende». Ancora: l’art. 2105 c.c. ci dice che «il prestatore di lavoro non deve trattare affari, per conto proprio o di terzi, in concorrenza con l’imprenditore, né divulgare notizie attinenti all’organizzazione e ai metodi di produzione dell’impresa, o farne uso in modo da poter recare ad essa pregiudizio».
68
MAZZOTTA, op. cit., 102.
69 Si veda BALLESTRERO, La stabilità nel diritto vivente. Saggi su licenziamenti e dintorni (2007-2009), 2009, 53 e
ss.
70
Ci si riferisce in particolar modo all’art. 2105 c.c.: secondo la teoria contrattuale “rigorosa” non esisterebbe un generico obbligo di fedeltà in capo al dipendente (come si intuirebbe dalla rubrica della disposizione), ma soltanto un obbligo di non concorrenza e un obbligo di riservatezza (gli unici elencati).
sarebbero «sempre compatibili con la posizione obbligatoria dell’uno o dell’altro
contraente nei confronti della controparte»71.
A ben vedere le formulazioni enunciate cercano proprio di apporre quei “filtri” necessari a depurare l’eccessiva discrezionalità concessa (dal criterio della “lesione della fiducia”), in prima battuta, al datore di lavoro e, successivamente, al giudice. La prima (la versione “rigorosa”) vuole scongiurare eventuali intrusioni datoriali nei “fatti personali” del dipendente, sottolineando l’insindacabilità dei comportamenti estranei al rapporto di lavoro, mentre la seconda (quella “blanda”) si preoccupa maggiormente di “frenare” la magistratura, obbligandola ad effettuare ricostruzioni circa l’esistenza di obblighi strumentali, preparatori e di protezione a carico del lavoratore (prima di giudicare la rilevanza della condotta extralavorativa da lui tenuta).
3. A questo punto è interessante approfondire il modo in cui i contrattualisti
moderati tentano di surrogare la funzione selettiva della fiducia72, tramite
un’interpretazione estensiva del concetto di inadempimento contrattuale.
Essi73 partono dal presupposto secondo cui la concezione fiduciaria della giusta
causa sarebbe inesorabilmente entrata in “crisi”, soprattutto dopo l’approvazione
della legge 15 luglio 1966, n. 60474 (la c.d. “disciplina limitativa del licenziamento”)
71
RIVA SANSEVERINO, Diritto del lavoro, Padova, 1982, 449, citata in CHIANTERA, La rilevanza dei comportamenti extralavorativi ai fini della giusta causa di licenziamento, op. cit., 191.
72 La quale (è utile ribadire) dà rilevanza, nel giudizio riguardante la sussistenza di una giusta causa di licenziamento,
anche ai comportamenti extralavorativi del dipendente.
73 Si veda PISANI, op. cit., 85 e ss. 74 V. infra, parte II, cap. 4.
che ha partorito la nozione di giustificato motivo soggettivo75. In base alla nuova definizione solo gli inadempimenti contrattuali (notevoli) legittimerebbero il recesso datoriale. Ciò implicherebbe una necessaria rivisitazione del ruolo da assegnare alla fiducia, la quale non sarebbe più idonea a giustificare ulteriori ipotesi di recesso svincolate dall’esecuzione della prestazione lavorativa, ma assurgerebbe
esclusivamente a criterio per valutare il livello di gravità76 dell’inadempimento.
Il vuoto lasciato dall’inutilizzabilità di tale criterio selettivo (di condotte esterne rilevanti) verrebbe colmato attraverso una particolare chiave di lettura del rapporto
obbligatorio. Quest’ultimo, avendo una struttura complessa77
«nella quale al nucleo costituito dall’obbligo di prestazione accede una serie di obbligazioni collaterali e accessorie, la cui funzione complessiva è di “pilotare” il rapporto obbligatorio verso
quel risultato integralmente utile che esso è di per sé volto a realizzare»78,
permetterebbe di ricondurre all’inadempimento contrattuale anche taluni comportamenti (apparentemente) extralavorativi, scongiurando il rischio di incontrollabili ampliamenti che il ricorso ad un parametro sfuggente come quello fiduciario inevitabilmente produce. La giurisprudenza avrebbe meno “comodità” in sede di valutazione, essendo costretta (in primis) a individuare quelle «obbligazioni
75 L’art. 3, l. n. 604/1966, afferma che «il licenziamento per giustificato motivo con preavviso è determinato da un
notevole inadempimento degli obblighi contrattuali del prestatore di lavoro ovvero da ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa». In realtà, all’interno di tale disposizione sono distinguibili due fattispecie: un licenziamento giustificato da ragioni soggettive (primo inciso: da «il licenziamento» a «lavoro»), e un altro giustificato da ragioni oggettive (da «ovvero» a «essa»). Quello che interessa ai fini della nostra analisi è giustificato motivo soggettivo, che andrà a porsi in concorrenza con la giusta causa di licenziamento.
76
L’inadempimento notevole giustifica il licenziamento per giustificato motivo soggettivo (con preavviso), mentre quello “notevolissimo” fa scattare il recesso per giusta causa (senza preavviso). Tra le due fattispecie vi sarebbe solamente una differenza di tipo quantitativo.
77
Non una struttura lineare delimitata dal debito (da un lato) e dal credito (dall’altro).
78 PISANI, op. cit., 89 e ss., che a sua volta riprende MENGONI, Obbligazione di risultato e obbligazione di mezzi, I, in
collaterali e accessorie» scaturenti dal contratto di lavoro, per poi stabilire l’eventuale contrasto con esse della condotta tenuta, ma da siffatto passaggio argomentativo si trarrebbero « “guadagni” non solo garantistici, ma anche in termini di certezza del
diritto»79.
Gli obblighi in senso lato accessori che accompagnano (secondo i contrattualisti moderati) l’obbligazione principale di prestare lavoro scaturirebbero o dalla prestazione in sé e per sé, o dalla correttezza che necessariamente deve
contraddistinguere la sua esecuzione80. Si individuano, perciò, due ampie categorie a
cui sarebbero riconducibili tutti gli obblighi derivanti dal contratto81. Alla prima
categoria (quella, appunto, costituita dai cosiddetti “obblighi di prestazione”), oltre all’obbligo di svolgere la prestazione fondamentale, apparterrebbero gli “obblighi integrativi strumentali”: questi sarebbero privi di autonomo scopo, avendo l’esclusivo
intento di assicurare l’utilità che il datore si attende dalla prestazione del lavoratore82.
Gli “obblighi di correttezza” (la seconda macro- categoria individuata), invece, si distinguerebbero in due sottospecie: “obblighi preparatori e di conservazione” ed “obblighi di protezione o sicurezza”. I primi, pur avendo natura strumentale, avrebbero un contenuto autonomo in quanto non opererebbero nel ristretto ambito dell’esecuzione della prestazione. I secondi, a differenza di questi ultimi, sarebbero anche privi di qualsiasi strumentalità rispetto all’esecuzione della prestazione
79 PISANI, op. cit., 119. 80
Infatti «il lavoratore non si obbliga semplicemente a prestare la propria attività di lavoro in determinate mansioni, ma si obbliga a svolgere tali mansioni in vista dello scopo dell’organizzazione creata dal datore di lavoro»: PISANI, op. cit., 89, che a sua volta riporta MENGONI, Contratto e rapporto di lavoro nella recente dottrina italiana, in Rivista delle società, 685-686.
81
Interessante è la classificazione effettuata da Pisani in PISANI, op. cit., 91 e ss., che riprende le elaborazioni di Mengoni e Mancini.
principale, e sorgerebbero, bensì, in funzione di un distinto interesse di protezione che fa capo ad entrambe le parti. Scendendo nel dettaglio (ed è utile farlo perché sono proprio queste due tipologie che possono in qualche modo “attrarre”
nell’inadempimento contrattuale taluni comportamenti apparentemente
extralavorativi), gli “obblighi preparatori” troverebbero la loro fonte negli artt. 2094 e
2104 c.c.83, nonché nelle clausole generali di buona fede e correttezza. Questi
imporrebbero al debitore un generale “dovere di coerenza”, tale da precludergli comportamenti che, pur non violando direttamente l’obbligo di lavorare, ne
metterebbero a repentaglio la realizzazione84. In particolare la buona fede ordinerebbe
al lavoratore-debitore di «provvedere a quanto è opportuno e conveniente», «oltre che
di prestare il necessario»85. Tali obblighi opererebbero in particolar modo negli
intervalli in cui il dipendente non svolge la propria attività, imponendogli tutte le misure idonee a salvaguardare la possibilità di eseguire la prestazione (principale).
L’interesse da tutelare in queste frazioni temporali sarebbe il solo86
riposo, che, in generale, deve permettere la ripresa delle forze fisiche e la cura degli affari personali (contribuendo, così, ad un maggior rendimento al momento del ritorno al lavoro). Di conseguenza, qualora in tale periodo non venissero perseguite tali finalità e da ciò derivasse un’impossibilità ad adempiere all’obbligazione primaria (di lavorare), ciò
83
L’art. 2094 c.c. ci dà la definizione di prestatore di lavoro subordinato, individuandolo in «chi si obbliga mediante retribuzione a collaborare nell’impresa, prestando il proprio lavoro intellettuale o manuale alle dipendenze e sotto la direzione dell’imprenditore», mentre l’art. 2104 c.c. afferma che «il prestatore di lavoro deve usare la diligenza richiesta dalla natura della prestazione dovuta, dall’interesse dell’impresa e da quello superiore della produzione nazionale».
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Ad esempio, lo sportivo professionista ha l’obbligo di mantenersi “in forma” per svolgere utilmente la prestazione.
85 PISANI, op. cit., 101, che a sua volta cita MANCINI, La responsabilità contrattuale del prestatore di lavoro, Milano,
1957, 53 e ss.
86 Solamente sul mancato rispetto di ciò sarebbe possibile sindacare: se si giungesse a sostenere che il lavoratore debba
evitare di fare tutto quanto possa danneggiare la sua persona, l’intera vita privata del lavoratore sarebbe posta al servizio della controparte.
sarebbe imputabile al dipendente87. Siffatta (rigorosa) ripercussione sarebbe tuttavia temperata dall’azione della buona fede, che giustificherebbe il comportamento del
dipendente nel caso risultasse compatibile alla ratio del riposo88. Questa
impostazione sarebbe sostanzialmente confermata dall’art. 2110 c.c., secondo il quale
al lavoratore infortunato89 spetta la retribuzione o un’indennità (nella misura e per il
tempo determinati dalle leggi speciali, dagli usi o secondo equità), e corroborata dall’orientamento giurisprudenziale che amplia tale trattamento anche ai casi in cui l’infortunio (e in generale la malattia) derivi da una condotta colposa. Non sarebbero perciò utilizzabili i rimedi di diritto comune (come la risoluzione per impossibilità sopravvenuta totale o parziale).
Gli “obblighi di protezione” troverebbero anch’essi fondamento nei principi di buona fede e correttezza ma, a differenza degli “obblighi preparatori”, si contraddistinguerebbero per avere un’autonomia di scopo e per la possibilità di essere fatti valere indipendentemente dall’inadempimento dell’obbligo principale. La loro funzione consisterebbe nel tutelare le parti da eventuali danni (personali o al
patrimonio) causati in occasione (o durante l’esecuzione90
) del contratto. Da un punto
87 È utile sottolineare che, ponendosi in una posizione “servile” rispetto all’obbligazione principale, gli obblighi
preparatori avrebbero la funzione di imporre al lavoratore-debitore di evitare il verificarsi del fortuito. Ciò significa che dalla loro violazione
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Un esempio calzante è quello del lavoratore che, a causa dell’attività sportiva svolta nel tempo libero si procuri un danno tale da rendere impossibile la prestazione. La responsabilità non può scattare, perché il comportamento tenuto è coerente con le funzioni attribuite al riposo.
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La disposizione fa riferimento anche ai casi di malattia, di gravidanza e di puerperio.
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Su tale punto non c’è uniformità di vedute: una parte della dottrina ritiene che sarebbe configurabile l’inadempimento degli obblighi di protezione ogni qual volta il danno sia stato causato “in occasione” del contratto, mentre un’altra parte della dottrina è del parere che la condotta dannosa debba essere essenzialmente connessa “all’esecuzione” del contratto. Ciò ha dei notevoli risvolti pratici: il pittore che, lavorando in casa del committente, ruba un oggetto, secondo la prima impostazione risponderebbe ex contractu, mentre per la seconda impostazione no (in quanto mancherebbe l’accertamento di una relazione di causalità).