• Non ci sono risultati.

Politiche migratorie e discriminazione: il caso francese

N/A
N/A
Protected

Academic year: 2021

Condividi "Politiche migratorie e discriminazione: il caso francese"

Copied!
19
0
0

Testo completo

(1)

Politiche migratorie e discriminazione: il caso francese

Dino Costantini

Questo articolo è stato realizzato grazie ai contributi della Commissione europea (FP6 – Euroethos), e del CNR (Progetto giovani ricercatori 2005).

Copyright © 2009 Dino Costantini

Questo documento è soggetto a una licenza Creative Commons

Abstract

Il baricentro retorico intorno al quale si è condensato il discorso pubblico sull’immigrazione nella Francia dell’era Sarkozy è l’opposizione di “immigration subie” e “immigration choisie”. Attraverso una ricognizione storica delle politiche migratorie francesi e dei discorsi che le hanno accompagnate dagli anni’20 del novecento sino ad oggi, l’articolo si propone di decostruire i presupposti di questa opposizione, che non rappresenta in alcun modo una novità degli ultimi anni. In realtà ogni politica migratoria ha come uno dei suoi compiti principali quello di tracciare una linea di discrimine tra una buona e una cattiva immigrazione. Che il criterio sia quello dell’economicamente più profittevole, quello dell’etnicamente o del culturalmente più omogeneo piuttosto che quello del politicamente più conveniente, esistono e sono sempre esistiti stranieri più o meno desiderabili, e dunque frontiere dalla porosità selettiva.

Sommario

Politiche migratorie e discriminazione: il caso francese Breve storia dell’immigration choisie

I criteri di selezione delle attuali politiche migratorie Dopo la selezione la discriminazione

Conclusione

Politiche migratorie e discriminazione: il caso francese

Breve storia dell’immigration choisie

I criteri di selezione delle attuali politiche migratorie Dopo la selezione la discriminazione

Conclusione

“Le racisme n’est pas seulement celui de la violence, celui de l’assassinat, ou, plus ordinairement, plus banalement – banalité affligeante – celui de la vie quotidienne, le mépris qui se lit dans le regard et qui se traduit dans des conduites méfiantes, soupçonneuses, peureuses; il est aussi celui qui est inscrit dans les institutions et dans leur fonctionnement lorsqu’il s’agit de cette catégorie particulière de sujets et d’assujettis qu’on appelle “immigrés” – qui y est inscrit parce qu’il l’était déjà dans les catégories par lesquelles on perçoit et on constitue l’immigration”.

(2)

Nell’esposizione dei motivi che accompagnava la presentazione del progetto 1 di quella che sarebbe divenuta la legge n.°2003-119 del 26 novembre 2003, la prima dell’era Sarkozy, l’allora ministro dell’interno partiva dal riconoscimento dell’importanza culturale, politica ed economica del fenomeno dell’immigrazione. L’immigrazione, riconosceva il ministro, è una questione decisiva per le sorti del paese. Essa abbisogna di un approccio nuovo, che sappia superare la sterile contrapposizione tra i fautori di una irrealistica immigrazione-zero e coloro che credono di potere “accogliere sul nostro territorio tutti i migranti economici”, per sviluppare strumenti capaci di un suo più adeguato e pragmatico governo. È questo il compito che Sarkozy assegna all’interno della sua proposta di legge all’opposizione tra l’immigrazione “che noi subiamo, come il raggruppamento familiare o i richiedenti asilo” e che si tratterà di qui in poi di limitare, e l’immigration choisie, quella utile all’economia e allo sviluppo del paese, e che sarà d’ora in poi necessario incoraggiare. L’opposizione tra un’immigrazione scelta ed una subita è diventata da allora il baricentro retorico di tutti i discorsi intorno alle migrazioni in Francia. Si tratta di un dispositivo discorsivo particolarmente pericoloso, che per questo merita una adeguata decostruzione.

Breve storia dell’immigration choisie

Liberiamoci subito da un equivoco. Al contrario di quanto preteso da Sarkozy, l’idea di costruire una gerarchia utilitaria delle migrazioni, distinguendo gli stranieri considerati più desiderabili da quelli che lo sono di meno, non è una novità nelle politiche migratorie della Francia, né un privilegio delle sole politiche migratorie transalpine 2 . In realtà ogni politica migratoria contiene implicitamente in sé come uno dei suoi compiti principali quello di tracciare una linea di discrimine tra una buona e una cattiva immigrazione. Che il criterio sia quello dell’economicamente più profittevole, quello dell’etnicamente o del culturalmente più omogeneo piuttosto che quello del politicamente più

conveniente, esistono e sono sempre esistiti stranieri più o meno desiderabili, e dunque frontiere dalla porosità selettiva. Già ai tempi dell’Atene classica, i prigionieri di guerra erano discriminati in base all’origine: i barbari (tutti gli individui non di lingua e cultura greca) erano destinati alla schiavitù nelle miniere d’argento, mentre ai prigionieri di origine greca (semplici xenoi) era concessa la possibilità di svolgere utili funzioni produttive e commerciali come meteci. Ben prima che si potesse parlare di una politica migratoria nel senso in cui noi oggi intendiamo questo termine, quell’altro dal demos che le frontiere della cittadinanza confinano al di fuori di ogni partecipazione politica, era pensato non già come uno spazio liscio e uniforme ma come un complesso differenziato e internamente gerarchizzato 3 .

Nation building e discriminazione

Con l’epoca moderna, e più precisamente nel contesto dell’affermazione e del consolidamento degli stati nazionali, il principio del controllo e della selezione degli stranieri desiderabili assume una intensità ed una efficacia nuovi. La sovranità degli stati nazionali richiede un controllo capillare della popolazione e delle sue frontiere, un controllo che trova una delle sue espressioni più significative nella diffusione delle carte di identità e dei passaporti. Così, mentre i processi di nation building impongono come una necessità la costruzione della nazione come entità linguisticamente,

culturalmente e politicamente omogenea, nascono anche le prime politiche migratorie, ovvero i primi tentativi di centralizzare le decisioni intorno ai criteri di desiderabilità dei nuovi venuti 4 .

Negli Stati Uniti d’America i primi interventi legislativi in materia di controllo delle migrazioni risalgono alla seconda metà del 1800. Le prime restrizioni vengono approvate nel 1875, quando sono create le due prime categorie di indesiderabili, le prostitute e i condannati. Nel 1882 vengono aggiunti i pazzi e i nullatenenti, nel 1891 sarà il turno dei poligami, poi ancora seguiranno estremisti politici, handicappati, tubercolotici, etc. La prima misura di discriminazione esplicitamente etnico-razziale è il Chinese Exclusion Act, del 1882. Il criterio sarà ripreso e approfondito nel 1898, quando l’Assistant

(3)

Commissioner of Immigration di Ellis Island Edward Mc Sweeney crea un sistema di classificazione dei nuovi arrivati incentrato sul dato razziale, un sistema che, divenuto nel 1903 legge federale, resterà in vigore sino al 1952 5 .

In Canada la prima legge generale sull’immigrazione risale al 1869. Essa crea delle categorie di stranieri ritenuti particolarmente desiderabili. Anche in questo caso tra le preoccupazioni dominanti c’è quella di difendere l’omogeneità etnica della nazione. La politica migratoria del Canada di inizio secolo divide il mondo in tre zone di provenienza: i paesi con i quali il Canada pensa di possedere una particolare affinità culturale (Gran Bretagna, Francia, Scandinavia, paesi Nord europei) e dai quali l’immigrazione è favorita; i paesi considerati neutri (Europa orientale e meridionale); il resto del mondo, dal quale l’immigrazione è ampiamente sfavorita. Particolare cura viene riservata, anche in questo caso, a mettere un freno all’immigrazione asiatica, che è definitivamente arrestata dal Chinese Immigration Act del 1927. Le restrizioni razziali all’immigrazione non saranno tolte che nel 1967. I criteri etnico-razziali sono all’origine delle politiche migratorie anche nel caso dell’Australia, che sin dagli anni ’50 del XIX secolo ha conosciuto disordini a sfondo razzista, legati alla presenza cinese e dei cosiddetti kanakas (indentured labourers provenienti dalle isole del Pacifico). Nel 1901 viene approvato un Immigration Restriction Act, che proibisce l’ingresso nel paese ai non bianchi, attraverso l’introduzione di un dictation test di 50 parole in una lingua rigorosamente europea. La legislazione del 1901 viene modificata solo nel 1958, quando l’ammissione viene semplificata e l’odioso dictation

test abolito. Anche se non vi è liberalizzazione degli ingressi, il governo si dichiara favorevole

all’immigrazione asiatica ma solo nel caso essa sia “distinta e altamente qualificata” (distinguished

and highly qualified). Il criterio è successivamente ammorbidito, nel 1966, permettendo l’ingresso di

ogni “persona qualificata” (well qualified), ma è solo nel 1973 che i trattati internazionali sulle

migrazioni vengono ratificati e la posizione di tutti gli immigrati formalmente parificata, mettendo fine alla White Australia Policy 6 .

Gli anni ’20 e ‘30: alle origini della politica migratoria francese

L’origine del fenomeno moderno delle migrazioni può essere datato anche in Francia alla fine del XIX secolo. Esso esplode però in concomitanza con la prima guerra, che mobilita verso il fronte una parte importante della forza lavoro del paese. L’11% della popolazione maschile vi troverà la morte e negli anni del dopoguerra la Francia sarà costretta a rimediare al proprio bisogno interno di manodopera, superando la fase liberista delle origini e sviluppando per la prima volta una politica migratoria integrata e centralizzata 7 .

Anche in questo contesto di emergenza la Francia non si limita a “subire” il proprio bisogno di manodopera, ma tenta di orientarlo. Il criterio di orientamento è anche nel caso francese anzitutto di carattere etnico: apposite convenzioni volte a favorire l’immigrazione di origine europea sono firmate nell’immediato dopoguerra 8 , mentre l’immigrazione di origine coloniale - che pure era stata una risorsa particolarmente preziosa nel corso del conflitto, tanto impiegata direttamente al fronte quanto indirettamente nell’industria bellica - è energicamente invitata a rientrare nei propri paesi di origine. Già nel 1920, tuttavia, la pressione del patronato metropolitano impone di riaprire l’accesso agli immigrati di origine coloniale. Negli anni compresi tra le due guerre la legislazione in materia cambia in continuazione, sotto la spinta contraddittoria delle esigenze del patronato metropolitano che la sostiene, e dei coloni che, preoccupati della politicizzazione crescente degli emigrati che ingrossano sempre più spesso le fila dei movimenti nazionalisti e indipendentisti, chiedono all’amministrazione di tenerla a freno 9 . Il risultato di queste contrastanti esigenze è un controllo del tutto particolare, che viene esercitato da organismi creati ad hoc, come il Service de surveillance et de protection des indigènes nord-africains (SSPINA), che mescolano i compiti di assistenza 10 e protezione con quelli del controllo politico e poliziesco 11 .

(4)

Il primo tentativo di centralizzare il controllo delle migrazioni - e dunque la scelta dei criteri di maggiore o minore desiderabilità relativa delle differenti categorie di immigrati - risale al 1924, quando viene creata la Société générale d’immigration (SGI). Si tratta di un organismo di diritto privato, espressione diretta delle organizzazioni padronali, che ha come proprio scopo quello di coordinare a livello nazionale la selezione – sulla base dell’origine, di indagini di tipo medico, delle attitudini professionali, etc. - dei candidati all’immigrazione. Tra il 1924 e il 1930 la SGI favorisce l’ingresso in Francia di 406.950 stranieri, un numero che corrisponde solo al 35% dei permessi di soggiorno rilasciati nel periodo 12 . Il resto dei titoli concessi, ovvero la loro maggioranza, è

rappresentato dalle regolarizzazioni dei lavoratori stranieri giunti in Francia al di fuori dei canali della SGI, e dunque al di fuori di ogni controllo statale.

Che siano stati “scelti” in base ai criteri della SGI o “subiti” attraverso le regolarizzazioni, la Francia accoglie in questo periodo un imponente numero di lavoratori stranieri – Patrick Weil calcola in 1.150.000 il saldo positivo degli ingressi di lavoratori stranieri tra il 1919 e il 1930 – che la porta a divenire nel 1930 il paese con il più alto tasso di stranieri del mondo (515 per 100.000 abitanti contro i 492 degli Stati Uniti). Il bisogno di controllare il fenomeno si fa ancora più imperioso per effetto della grande recessione economica degli anni ’30. È in questo contesto che le prime misure integrate di restrizione dell’immigrazione vedono la luce. A partire dal 1930 si organizza un sistema di rientri forzati per i lavoratori licenziati nei settori più esposti alla crisi: solo nel 1935 saranno 20.500. Con la legge del 10 agosto 1932 viene instaurato per la prima volta un sistema di quote che fissa la

proporzione massima di lavoratori nei settori industriale e commerciale (l’agricoltura non è toccata dal provvedimento, mentre l’artigianato lo sarà a partire dal 1935). Nel corso degli anni seguenti svariate misure sono prese per limitare l’accesso degli stranieri alle professioni liberali: medicina, avvocatura, funzioni pubbliche, etc. Nel 1934 si decide di non concedere permessi di lavoro ai nuovi arrivati, decretando di fatto una battuta d’arresto dell’immigrazione legale di lavoratori salariati.

Il dibattito sui criteri di selezione: René Martial e Georges Mauco

Il contesto della crisi economica rende particolarmente urgente la creazione di una politica migratoria integrata. Per arrivare alla sua formulazione la Francia si interroga apertamente sui criteri in base ai quali operare la selezione dei nuovi arrivati.

René Martial 13 , medico specializzato in questioni di salute pubblica e autore nel 1931 di un Traité de

l’immigration et de la greffe inter-raciale, si oppone con forza all’errore psicologico in cui a suo

parere consiste la xenofobia di ispirazione nazionalista che, percependo in ogni straniero un potenziale nemico, impedisce di procedere al necessario ripopolamento del paese. Non si tratta dunque di

scongiurare l’immigrazione, ma di controllarne con cura la qualità, da un punto di vista sanitario, morale e etnico-razziale. I tre aspetti sono d’altronde inseparabilmente legati: secondo Martial il criterio della relativa desiderabilità delle differenti etnie dipende dalla loro integrabilità, e questa integrabilità discende a sua volta dalla prossimità biochimica tra popolazioni candidate

all’immigrazione e società d’accoglienza, una prossimità capace di garantire più fecondi risultati in caso di incrocio con la razza degli autoctoni. Martial, che nei suoi ragionamenti é ispirato ampiamente dall’eugenismo di Vacher de Lapouge 14 , usa per descrivere il fenomeno migratorio una metafora tratta dal giardinaggio: l’immigrazione funziona come un innesto e il buon esito dell’operazione si può avere solo se gli immigrati candidati all’inserimento nella società francese non sono biochimicamente troppo differenti dalla razza degli autoctoni. Per rendere possibile una politica qualitativa

dell’immigrazione fondata su presupposti scientifici, Martial si impegna a calcolare l’indice

biochimico delle differenti etnie, sostenendo l’opportunità di favorire l’innesto nella società francese solo di quelle (invariabilmente bianche ed europee) non troppo distanti dall’indice biochimico dei francesi 15 .

(5)

Un’ipotesi parzialmente differente da quella di Martial, è sviluppata da Georges Mauco 16 , autore nel 1932 di una delle prime tesi di dottorato dedicate al fenomeno dell’immigrazione intitolata Les Étrangers en France, leur rôle dans l’activité économique. La preoccupazione di fondo dell’opera di Mauco è quella di stabilire dei criteri sulla base dei quali discriminare l’immigrazione non tanto da un punto di vista sanitario, come nel caso dell’eugenismo di Martial, ma da quello dell’ utilità economica. Nella sua tesi Mauco riprende i risultati di un sondaggio da lui stesso effettuato nel 1926 tra i dirigenti di un’importante casa automobilistica. L’azienda impiegava all’epoca 17.229 operai, di cui 5.074 stranieri. Mauco intervista i quadri dell’azienda, chiedendo loro un parere sui propri operai, proponendo il criterio dell’appartenenza etnica degli stessi come principale variabile dello studio. Etnia per etnia, Mauco procede a indagare l’opinione dei quadri sull’aspetto fisico, la produttività, la disciplina, la regolarità nel lavoro degli operai. Lo sguardo etnicizzante di Mauco produce una classifica della maggiore o minore utilità economica delle differenti etnie 17 , orientata intorno alla preoccupazione di difendere - assieme all’avvenire della razza francese - gli interessi dell’industria nazionale, sul cui bisogno di manodopera immigrata Mauco non nutre dubbi di sorta. Bisognerà però evitare di aprire le porte del paese all’immigrazione di elementi inadatti al lavoro manuale – come ebrei, armeni, levantini, la cui “naturale” propensione al commercio é considerata da Mauco come moralmente perniciosa – sorvegliando nel contempo i matrimoni misti attraverso i quali “degli elementi fisicamente inferiori o troppo differenti etnicamente, imbastardiscono la razza apportandovi dei germi di malattie che essa era giunta ad eliminare” 18 .

Segno evidente della volontà di coordinare l’azione pubblica in materia di immigrazione è la creazione, nel 1938, di un sottosegretariato della presidenza del consiglio incaricato di occuparsi di immigrazione e condizione degli stranieri che sarà affidato a Philippe Serre. Lo stesso Serre dirigerà anche, a partire dalla sua creazione nel 1939, i lavori dell’Haut Comité de la population. In entrambi i casi si avvarrà della collaborazione di Georges Mauco, le cui idee sulla necessità di una selezione etnica dei candidati all’immigrazione influenzeranno ampiamente gli orientamenti del Comitato. Sarà però la Francia di Vichy a realizzare nel modo più conseguente le idee di Mauco, in particolare invertendo la rotta repubblicana in tema di protezione dei rifugiati. In un articolo del 1942 pubblicato su L’Ethnie française 19 , Mauco si schiera apertamente a favore della politica restrittiva del governo vichyista. I rifugiati gli paiono tra tutti gli immigrati i più indesiderabili. Si tratta, a suo parere, di una

immigration imposée che le sciagurate tendenze egualitarie della politica della terza repubblica

avevano impedito di realizzare tenendo in debito conto l’imperativo della protection ethnique del paese, una protezione verso la quale invece il governo di Vichy – attraverso le procedure di denaturalizzazione, la stretta sul diritto di asilo, la generale subordinazione dei diritti a criteri esplicitamente etnico-razziali 20 – si muove concretamente.

Il secondo dopoguerra

Con la Liberazione si inaugura lentamente una fase nuova, tanto a livello economico che politico. Fin dal marzo 1945 la necessità di manodopera immigrata appare come non aggirabile. In un discorso programmatico pronunciato di fronte all’Assemblea consultativa il 3 marzo 1945, De Gaulle ricorda la grave “mancanza di uomini” che affligge il paese e vi riconosce “il principale ostacolo” alla sua rinascita. Coerentemente a questa analisi annuncia l’intenzione di “introdurre nel corso dei prossimi anni, con metodo e intelligenza, dei buoni elementi di immigrazione nella collettività francese” 21 . Nell’espressione di De Gaulle si scorge ancora una volta la logica della discriminazione: organizzare una politica migratoria significa qui ancora una volta, scegliere i propri immigrati, favorendo

l’inserimento dei buoni elementi (sani, prolifici, assimilabili) e alludendo implicitamente all’esistenza di elementi intrinsecamente cattivi, culturalmente o etnicamente inadatti allo scopo. L’ordinanza del 2 novembre 1945 è lo strumento legislativo che la Quarta Repubblica produce a questo scopo, uno strumento che nelle sue linee essenziali rimarrà in vigore sino alle recenti leggi Sarkozy, e sul quale continuerà ad essere modellato l’essenziale del Code de l’entrée et du séjour des étrangers et du droit

(6)

d’asile (CESEDA), che la sostituisce a partire dal 2005. Alla stesura del documento collabora un apposito comitato, l’Haut Comité consultatif de la population et de la famille, creato il 3 aprile 1945 e la cui direzione é affidata a Georges Mauco. Mauco sostiene la necessità di una riforma organica capace di subordinare le scelte sulle politiche migratorie e di naturalizzazione agli interessi nazionali, ed in particolare al principio dell’unità etnica della nazione. Le idee di Mauco sulla necessità di un’accurata selezione etnica dei candidati all’assimilazione sono condivise da una ampia parte dell’amministrazione 22 . Saranno riprese da Charles de Gaulle, in una direttiva indirizzata al guardasigilli Pierre-Henri Teigten il 30 maggio 1945, nella quale chiede che i consigli del Comité siano trasmessi sotto forma di istruzioni immediate alle prefetture:

“è necessario che le naturalizzazioni siano effettuate secondo una direttiva d’insieme. In particolare sarebbe opportuno non farle più dipendere esclusivamente dallo studio di casi particolari, ma subordinare la scelta degli individui agli interessi nazionali nei domini etnico, demografico, professionale e geografico” 23

De Gaulle accetta la logica di Mauco, e chiede apertamente di privilegiare l’immigrazione di provenienza nord europea, limitando l’afflusso di latini e slavi. Al di là della selezione etnica, sul piano professionale consiglia di favorire l’immigrazione operaia, considerando sconveniente l’apertura delle professioni liberali e commerciali agli stranieri. Sul piano demografico consiglia di favorire una immigrazione giovane e prolifica. Ulteriore motivo di preferenza, questa volta geografico, la

destinazione: bisognerà favorire l’emigrazione diretta in provincia e sfavorire quella destinata in direzione delle grandi città.

Siano etnici, sanitari, geografici o economici, i criteri impiegati nella discussione mostrano

chiaramente come, sin dalla sua origine, la politica migratoria francese si costruisca discriminando la buona dalla cattiva immigrazione. L’esperienza nazista, tuttavia, ha squalificato l’uso pubblico del concetto di razza e i criteri di selezione etnica che Mauco continua a raccomandare non possono essere accettati 24 .

Facendo proprie le perplessità rispetto all’approccio etnicizzante di Mauco dei giuristi vicini alla resistenza, il Consiglio di stato presieduto da René Cassin proscrive dal linguaggio di quella che diverrà l’ordinanza del 2 novembre 1945 ogni distinzione etnica o razziale tra gli stranieri. Seguendo lo stesso spirito l’ordinanza sulla Sécurité sociale del 19 ottobre 1945 aveva posto tutti i lavoratori indipendentemente dalla nazionalità all’interno del medesimo regime protezione 25 . Ciononostante è ancora a Mauco che nell’immediato secondo dopoguerra viene affidata la direzione del neonato Office National de l’Immigration, istituito dalla stessa ordinanza con il compito di gestire organicamente il fenomeno migratorio. Alexis Spire ha ben mostrato come l’ONI 26 , che rappresenta il primo strumento di una politica migratoria integrata sviluppato dal paese, sia stato vivamente influenzato nelle sue pratiche dall’idea dell’esistenza di differenti gradi di assimilabilità delle differenti etnie, secondo quanto preconizzato dall’Haut Comité. Un esempio di questo condizionamento è ad esempio la scelta dell’ONI di favorire, nell’immediato dopoguerra, l’immigrazione italiana. Se la preferenza etnica per l’immigrazione europea rispetto a quella coloniale non può essere stabilita per legge -poiché il dispositivo rischierebbe di possedere una imbarazzante parentela con le logiche razziste

dell’avversario nazista da poco sconfitto - essa è tuttavia surrettiziamente reintrodotta nella pratica amministrativa. Le quote etniche che gli alti funzionari del ministero della popolazione continuano trimestralmente a suggerire all’ONI di rispettare ne sono un esempio. Un altro esempio sono appunto gli accordi preferenziali, come quello firmato con l’Italia nel 1947. Scegliendo di aprire due uffici di reclutamento nel nostro paese (a Milano e a Torino 27 ), l’ONI conferma la propria preferenza. Sin dall’estate del 1946 precise istruzioni del ministero degli interni chiedono alle prefetture situate nelle regioni di frontiera di favorire la regolarizzazione degli italiani entrati irregolarmente, instradandoli verso i centri di selezione dell’ONI. Nel maggio 1947, specifiche misure di sostegno economico al

(7)

ricongiungimento familiare sono introdotte per i soli italiani, (e poi estese a partire dal 1949 agli immigrati provenienti da Austria, Germania, Jugoslavia e Polonia). Nel novembre 1948 poi, viene soppresso l’obbligo di visto per gli italiani che vogliano soggiornare in Francia per meno di tre mesi. Si tratta di fatto di una liberalizzazione degli ingressi, attraverso la quale si cerca di controbilanciare un fenomeno percepito come particolarmente preoccupante, poiché capace di mettere in crisi la politica di qualità che Mauco non si stanca di sostenere: l’ordinanza del 7 marzo 1944 ha aperto per i “Francesi musulmani di Algeria” - che sino a quel momento erano stati dei semplici sujets del potere coloniale francese 28 - la strada dell’accesso ad una (quasi) piena cittadinanza 29 . Dall’estate del 1946 quando i collegamenti navali tra il Dipartimento di Algeria e la metropoli vengono riaperti, la Francia conosce un massiccio ingresso di algerini. Tra il 1949 e il 1955 su 340.000 nuovi ingressi, 180.000 sono di lavoratori di origine algerina, ai quali non può più essere negata la libera circolazione

30 . La loro permanenza nel paese è percepita come un rischio, come testimonia questo rapporto

redatto nel 1947 per conto dell’Institut national d’études démographiques (INED) da Luis Chevalier: “Dal punto di vista fisico, si tratta di sapere se questa immigrazione non rischi di sconvolgere le componenti fisiche che è possibile constatare in Francia, componenti che si esprimono nella ripartizione di un certo numero di caratteristiche tanto evidenti quanto la statura, la pigmentazione, l’indice cefalico. Dal punto di vista etnico, si tratta di sapere se l’etnia nord-africana, portatrice di una determinata civiltà - ovvero di una lingua, di costumi, di una religione, di un modo di comportarsi e infine di una mentalità propri -, non opponga un rifiuto assoluto, un antagonismo totale a ciò che possiamo considerare l’etnia francese… Rischiamo di venire a costituire in Francia, negli anni che verranno, una minoranza pericolosa e totalmente inassimilabile poiché volontariamente non assimilata

31 ”.

Pericolosa ed inassimilabile, l’immigrazione algerina è sfavorita in vari modi: attraverso appositi incentivi al ritorno 32 , attraverso la moltiplicazione dei permessi temporanei anche in caso di occupazione stabile, attraverso l’opposizione al ricongiungimento familiare, attraverso le politiche abitative, che quando non sfociano nella formazione di bidonville nelle periferie urbane, rimangono strettamente limitate alle esigenze di alloggio di celibi che tali erano ritenuti dover restare 33 .

La guerra scoppiata nel 1954 pone un freno all’afflusso degli algerini e costringe la Francia a mobilitare un consistente numero di soldati. Il contesto di crescita economica rende particolarmente grave la carenza di manodopera e spinge per un superamento delle perplessità etnico-demografiche. E’ in questo contesto che, sotto la pressioni degli ambienti industriali, si spezza il monopolio dell’ONI: una circolare del 18 aprile 1956 34 , permette la regolarizzazione ex post di tutti gli immigrati, una volta accertato che la loro situazione lavorativa sia regolare. E’ così che, nonostante gli sforzi profusi per anni dall’amministrazione per privilegiare una immigrazione più facilmente “assimilabile” (in buona sostanza quella di provenienza europea, che continua in vario modo ad essere “favorita”: italiani, spagnoli, portoghesi, polacchi, etc.), gli arrivi sul suolo francese di popolazioni provenienti dalle ex-colonie si moltiplicherà negli anni successivi, venendo a mutare in profondità la composizione dell’immigrazione francese 35 .

La svolta restrittiva degli anni’70

A partire dalla fine degli anni ’60 il sistema di produzione fordista entra in crisi: la disoccupazione diviene un fenomeno strutturale e di massa, e il suo diffondersi colpisce con particolare violenza i lavoratori immigrati. E’ il 1972 quando le circolari Marcellin-Fontanet mettono fine tra grandi polemiche alla pratica delle regolarizzazioni, suscitando oltre alle ire della confederazione degli industriali un vivace confronto sociale che si concluderà l’anno successivo con la regolarizzazione eccezionale della posizione di 50.000 lavoratori. E’ l’annuncio della fine dei trente glorieuses, un annuncio che coincide con l’affermarsi dell’ortodossia restrittiva in tema di migrazioni. La svolta si

(8)

completa infatti nel luglio 1974, quando le frontiere dell’immigrazione economica legale e permanente vengono chiuse tanto per i lavoratori che per le loro famiglie.

La chiusura delle frontiere coincide con la progressiva caduta del mito dell’immigrato come oiseau de passage 36 . Nonostante i tentativi fatti per scoraggiare l’installazione definitiva degli immigrati ritenuti indesiderabili, il fenomeno si dimostra irreversibile. Esso è aggravato dal fatto che gli obblighi internazionali del paese impongono che il ricongiungimento familiare – che i provvedimenti del 1974 avevano bloccato – sia riconosciuto come un diritto 37 : ciò apre la via ad un flusso di immigrazione non controllabile, che allarga i ranghi di molte categorie di “indesiderati”. Per arginare il perpetuarsi di questa immigrazione non desiderata, si tenta allora di favorirne il ritorno verso i paesi di origine. Allo scopo viene elaborato un insieme di misure che non si limita al sostegno economico al ritorno, ma si configura come una complessa politica culturale, che passa anche per lo sviluppo di corsi delle lingue madri nelle scuole e l’insegnamento religioso nelle fabbriche 38 . Il fallimento di tutti gli incentivi economici e culturali al ritorno volontario che vengono predisposti a partire dal 1975 spinge verso un progetto più radicale. Sotto gli auspici di Valéry Giscard d’Estaing, tra il 1978 e il 1980 si studia la fattibilità di una massiccia politica di ritorno forzato degli immigrati non desiderati, ed in particolare degli algerini. Si vorrebbero stabilire su base dipartimentale delle quote annuali di non-rinnovo dei titoli di soggiorno, cui si aggiungerebbe il ritiro immediato in tutti i casi di disoccupazione prolungata per oltre sei mesi o di ritorno tardivo dalle ferie. In totale si immagina così di poter procedere

all’espulsione di 100.000 stranieri all’anno, ovvero alla selezione negativa di 500.000 persone in 5 anni, per la maggior parte di origine algerina.

Gli anni ’80: la crisi della politica della nazionalità

Tra la fine degli anni ’70 e i primi anni ’80 comincia anche un’epoca di intensa spettacolarizzazione 39 e politicizzazione della questione migratoria: la lotta all’immigrazione clandestina lanciata in questo contesto permette la diffusione di un legame tra immigrazione e insicurezza sul quale il dibattito pubblico verrà progressivamente focalizzato, e che da patrimonio privato delle destre più estreme diventerà in breve tempo uno degli oggetti privilegiati della speculazione elettorale per tutti i maggiori partiti. Uno dei risultati di questa politicizzazione è la cosiddetta crisi del Codice della nazionalità, una crisi che ha al proprio cuore la volontà di razionare l’accesso alla cittadinanza repubblicana ai figli dell’immigrazione postcoloniale. Nella prospettiva che abbiamo qui sviluppato, si tratta di una estensione della ben nota logica della selezione dei desiderabili alle cosiddette seconde generazioni. La crisi coincide con le elezioni municipali del 1983, nelle quali la sinistra ottiene una pesante sconfitta. È invece il primo grande successo elettorale del Front National di Le Pen che ottiene l’11% dei suffragi, puntando l’essenziale della propria campagna sul nesso sicurezza-immigrazione. Il 1983 è anche l’anno della marcia per l’eguaglianza, conosciuta anche come marcia dei beurs, ovvero

dell’affacciarsi sulla scena politica delle seconde generazioni di immigrati: gli indesiderati figli dell’immigrazione maghrebina non si accontentano di essere presenti sul suolo francese, ma chiedono di essere riconosciuti come soggetti a parte intera, capaci di parola e di azione 40 ; le loro

rivendicazioni non muovono, come era accaduto per i padri, dal piano del lavoro, ma si appoggiano su quello di una cittadinanza rivendicata nella sua irrealizzazione. L’effimera risposta del governo socialista è la creazione di un titolo unico di residenza, valido per il soggiorno e per il lavoro, della durata di dieci anni, che sembra porre fine alla precarietà di statuto degli stranieri. La risposta della destra è la contestazione dell’ammissibilità delle rivendicazioni dei beurs, ovvero l’apertura di quello che da quel momento in poi verrà conosciuto come il problema della loro integrabilità al progetto repubblicano 41 . Alain Grittoray, editorialista di Le Figaro e deputato dell’UDF, scatena la polemica scrivendo un libro – Les immigrés: le choc – nel quale pone direttamente in questione l’assimilabilità degli immigrati provenienti da culture troppo differenti. Grittoray rifiuta apertamente l’idea di una Francia multirazziale, e chiede una riforma del Code de la nationalité, che faccia della nazionalità

(9)

qualche cosa di “choisie” piuttosto che di “subie” 42 . Il 19 marzo 1986 le destre vanno al potere, dopo essersi presentate alle urne con una piattaforma elettorale che prevede l’abolizione del doppio ius soli

43 . La nazionalità, dice il programma di governo, dovrà essere richiesta ed accettata: la sua

acquisizione non potrà più risultare da un riconoscimento amministrativo automatico. In particolare si vuole eliminare l’articolo 23 del Codice del 1973, che prevedeva esplicitamente la possibilità di applicare il doppio ius soli ai figli nati in Francia “di un genitore nato su di un territorio che aveva, al momento della nascita di questo genitore, lo statuto di colonia o di territorio d’oltre mare della Repubblica francese” 44 . Ora, poiché l’Algeria era a tutti gli effetti Francia fino agli accordi di Evian del 1962, i circa 400.000 figli dell’immigrazione algerina presenti sul territorio francese possono pretendere in piena legittimità alla cittadinanza. È dunque per scongiurare il rischio di un loro ingresso con pieno diritto nella vita politica e sociale del paese che la crisi del Code de la nationalité ha luogo. La riforma non potrà essere approvata. Il movimento studentesco dell’autunno 1986, che si oppone al progetto di riforma dell’insegnamento superiore del governo Chirac, blocca il cammino del governo e impedisce la sua approvazione. Il progetto di riforma, tuttavia, non viene del tutto abbandonato. Nell’estate del 1987 una commissione di “saggi” presieduta da Marceau Long è incaricata di indagare la possibilità di una riforma del codice della nazionalità. Il 7 gennaio 1988 la commissione presenta un rapporto – Être français aujourd’hui et démain – le cui conclusioni saranno riprese solo nel 1993 da una riforma che, pur non eliminando il doppio ius soli, introduce la necessità di una manifestazione di volontà da effettuarsi tra i 16 e i 21 anni, prolunga a due anni il tempo di convivenza necessario a ottenere la nazionalità per dichiarazione in caso di matrimonio, e richiede ai figli di algerini nati in Algeria prima del 1962 di provare che i loro genitori risiedono in Francia da più di cinque anni per poterla ottenere.

I criteri di selezione delle attuali politiche migratorie

I molti esempi che sono stati qui presentati dovrebbero aver evidenziato a sufficienza il fatto che l’appello a “scegliere” la propria immigrazione piuttosto che a “subirla” non costituisce affatto una novità nel panorama storico delle politiche migratorie francesi. Come ha mostrato più ampiamente di quanto sia stato qui possibile fare Gerard Noiriel 45 , il concetto di immigration choisie rimonta per quanto riguarda il caso francese almeno agli anni ’20 del Novecento, e si lega strettamente alla storia del razzismo nel paese. Superata l’illusione di novità che il volontarismo migratorio di Sarkozy vorrebbe veicolare, si tratta ora di riflettere brevemente sul carattere delle più recenti disposizioni in materia di immigrazione.

Immigrazione scelta

La più importante novità contenuta nelle recenti riforme, ed in particolare nella legge 24 luglio 2006, é la riapertura di un canale di ingresso legale per l’immigrazione economica 46 . Secondo dati

recentemente diffusi dal sito internet del ministero, l’immigrazione di lavoro avrebbe raggiunto nei primi cinque mesi del 2008 il 16% degli ingressi legali (contro al 10% del 2007 e al 7% del 2006). Si tratta di una riapertura che, seguendo una logica non dissimile da quella della Bossi-Fini in Italia, subordina in maniera estremamente rigida l’ingresso della forza lavoro straniera alle esigenze congiunturali delle imprese. La legge prevede la concessione di una Carte de séjour temporaire di durata annuale nel caso in cui il lavoratore possa esibire un contratto di durata annuale, e di durata eguale a quella del contratto nel caso di contratti di durata inferiore. La prima scelta delle attuali politiche migratorie francesi è dunque quella di un’immigrazione rigidamente temporanea, ovvero di un’immigrazione quanto più possibile precaria e limitata nei diritti e nelle possibilità di rivendicarli, la cui quantità e qualità è regolata da criteri schiettamente utilitari, collegandola ai bisogni economici di singoli settori professionali o di particolari aree geografiche. E’ facilmente prevedibile, e il caso italiano del resto lo esemplifica bene, che uno dei principali risultati della rigidità del collegamento tra

(10)

permesso di soggiorno e contratto di lavoro così istituita sarà quello di favorire la diffusione dell’irregolarità, ovvero l’estensione di una massa di lavoratori ricattabili e sfruttabili a piacere. L’immigrazione scelta à la Sarkozy comprende una seconda nuova figura. A fianco all’immigrazione precarizzata dalle carte di soggiorno temporaneo, il legislatore ha previsto una nuova figura di pretendente all’immigrazione, per la quale ha immaginato la concessione di un titolo di soggiorno specifico. E’ la nota carta di soggiorno “competenze e talenti”, misura gadget che nei primi 5 mesi del 2008 ha riguardato 44 persone 47 . La carta competenze e talenti la Francia è lo strumento di punta di tutta una serie di misure – rivolte a studenti e professionisti – attraverso le quali la Francia, a partire almeno dalla legge Chevènement dell’11 maggio 1998, pensa di poter attirare verso di sé

un’immigrazione di particolare pregio culturale. La carta, che ha una durata triennale, é riservata infatti “allo straniero che, per le sue competenze o i suoi talenti, potrà partecipare in modo significativo e durevole allo sviluppo economico, territoriale o all’espansione dell’influenza

intellettuale, scientifica, culturale, umanitaria o sportiva della Francia e, direttamente o indirettamente, del paese di cui ha la nazionalità” 48 . Il significato di questa misura è messo nella sua luce più

opportuna da una ormai celebre affermazione programmatica dell’attuale Ministro della Sanità, della Gioventù e degli Sport, il deputato UMP Roselyne Bachelot-Narquin:

Bisogna avere il coraggio o il cinismo di dire che ci lanceremo in un’operazione neo-colonialista di grande ampiezza per assicurare la sopravvivenza delle nostre sempre più vecchie società

postindustriali. Dopo aver depredato il terzo mondo delle sue materie prima, ci apprestiamo a depredare quella che sarà la più grande fonte di ricchezza del terzo millennio: l’intelligenza. 49 .

La valutazione sulle domande presentate nel quadro competenze e talenti viene fatta da un’apposita Commissione nazionale 50 , che valuta il “progetto di integrazione” presentato dal candidato. Il progetto di integrazione richiesto ai beneficiari della privilegiata carta di soggiorno “competenze e talenti”, ci rinvia all’innovazione simbolicamente più inquietante apportata dalle più recenti disposizioni in materia di immigrazione: l’introduzione, per tutti coloro che chiedono una Carta di residente non temporanea, della cosiddetta condition d’intégration républicaine. La condizione di integrazione repubblicana è prevista per la prima volta dalla legge 119 del 26 novembre 2003. La Circolare applicativa diramata dal Ministero degli Interni il 20 gennaio 2004 dà ai prefetti il compito di assicurarsi del suo rispetto, fissando nel contempo i criteri della sua realizzazione nella disponibilità a sottoporsi ad una formazione civica e linguistica, al termine della quale vengono valutate la

conoscenza del francese e dei principi repubblicani. La Circolare del 2004 prevedeva che, nel futuro, una della condizioni di integrazione sarebbe stata la firma di un apposito contratto di integrazione. Il Contrat d’Accueil et d’Intégration (CAI) è creato dalla legge 32 del 18 gennaio 2005, che istituisce nel contempo l’ente che si occuperà della sua somministrazione, l’Agence Nazionale de l’Accueil des Etrangers et des Migrations (ANAEM). Il CAI è reso obbligatorio dalla legge del 24 luglio 2006, che subordina il rilascio di ogni nuova carta di soggiorno non temporanea alla sua stipula e al rispetto delle sue condizioni.

Si tratta di condizioni che, come é evidente, sono sottoposte a criteri di apprezzamento ampiamente soggettivi, e che per questo nascondono nelle proprie pieghe un grande potenziale di produzione di arbitrario amministrativo. Attraverso il CAI inoltre, la scelta dei migranti desiderabili operata dallo stato francese – e l’implicita esclusione di coloro che non lo sono – viene fatta simbolicamente dipendere dalla buona volontà degli stessi migranti, che diventa condizione indispensabile del rilascio e del rinnovo dei permessi di soggiorno. Ogni rifiuto potrà essere così fatto risultare dalla scarsa disponibilità di questi a spogliarsi della propria cultura di origine per abbracciare i valori repubblicani, seguendo le mosse di una violenza simbolica che non può non ricordare l’assimilazionismo professato dalla Francia nel corso della sua storia coloniale 51 . Si tratta di un meccanismo particolarmente insidioso, poiché capace di operare una mobilitazione perversa tanto della differenza culturale quanto

(11)

dei sentimenti di appartenenza in un’operazione di selezione e di gerarchizzazione delle migrazioni più o meno desiderabili. In questo senso il CAI sembra realizzare amministrativamente la perfezione di quello che la riflessione intorno al razzismo ha da tempo definito come la transizione da un razzismo di tipo biologico ad uno di impronta culturalista 52 .

Immigrazione subita

La chiusura delle frontiere e l’arresto delle regolarizzazioni decisi negli anni ’70, non hanno messo un termine all’immigrazione, ma hanno mutato le sue forme. Nel corso degli anni l’immigrazione illegale – necessario sottoprodotto della giurisprudenza dell’ortodossia restrittiva - si è moltiplicata, mentre quella legale é proseguita facendo perno sul diritto d’asilo e sul ricongiungimento familiare,

espressione delle costrizioni legali provenienti dagli impegni internazionali e costituzionali del paese. Nel 2004 il 73% delle carte di soggiorno con durata di un anno o superiore sono state concesse per motivi familiari. Di queste solo un quarto riguarda ricongiungimenti concessi a persone straniere regolarmente soggiornanti, mentre più della metà concerne degli stranieri richiedenti l’accesso al paese per raggiungervi il proprio coniuge francese. E’ questo genere di immigrazione l’obiettivo polemico costante degli ultimi interventi legislativi in materia 53 . Dal 2003 al 2007, numerose misure sono state prese per comprimere questi canali, riprendendo gli obiettivi delle cosiddette lois Pasqua del 1993 54 . Già nel 2003 viene creata la figura della paternité de complaisance, per contrastare la quale sono rafforzati i controlli sulla validità dei titoli matrimoniali e inasprite le condizioni finanziarie e di alloggio richieste per poter aver accesso alla procedura. Il ricongiungimento non dà più diritto ad un titolo di soggiorno uguale a quello del proprio congiunto, ma solamente ad una carta di soggiorno temporanea, che può essere ritirata se la vita in comune cessa nei due anni successivi alla sua concessione (e non più se ciò avviene nell’anno successivo).

Le procedure per la regolarizzazione della situazione di un cittadino straniero sposato con un francese vengono ulteriormente irrigidite con la legge 24 luglio 2006, che porta da 12 a 18 mesi il periodo di soggiorno richiesto per poter accedere al ricongiungimento, esclude le prestazioni sociali dal calcolo delle risorse familiari richieste, inasprisce ulteriormente le richieste in termini di alloggio e prevede tra l’altro che i matrimoni celebrati all’estero debbano essere preceduti da un’audizione presso il

consolato, al quale viene conferita la discrezionalità di giudicare della reale consistenza dei progetti matrimoniali. Una volta ottenuto un titolo provvisorio di soggiorno, il periodo di vita in comune richiesto per la concessione di una carte de résident è aumentato da due a tre anni. La legge allunga inoltre a tre anni la possibilità di ritiro del titolo di soggiorno nel caso di rottura della vita di comune. La legge Hortefoux, del 20 novembre 2007, continua nella stessa direzione, imponendo un’ulteriore stretta sulle risorse richieste. La politica simbolica inaugurata con l’introduzione dei contratti di integrazione, è estesa e ampliata attraverso la previsione di un nuovo strumento, il contrat d’accueil et

d’intégration pour la famille, con il quale i genitori saranno resi responsabili della buona integrazione

dei figli. Ulteriore novità, in linea con i processi di esternalizzazione del controllo delle migrazioni, è quella di imporre che tutti coloro che vogliano ricongiungersi con le proprie famiglie debbano sottomettersi a accertamenti della loro docilità all’integrazione prima ancora di mettere piede in Francia: la valutazione della condition d’intégration inizia sin dal momento della richiesta fatta nel paese di origine, dove i pretendenti all’immigrazione saranno tenuti a seguire dei corsi di lingua che saranno dispensati dalle autorità consolari francesi. Questo dispositivo introduce di fatto per tutti i candidati all’emigrazione un obbligo a risiedere per dei periodi di tempo piuttosto lunghi nelle capitali dei paesi di provenienza (dove si può immaginare che i corsi verranno erogati), obbligo che non potrà che rappresentare un impedimento oggettivo e sostanziale all’emigrazione degli elementi più poveri di tali popolazioni.

(12)

I risultati dell’insieme di queste misure sono concreti, tanto che il ministro dell’immigrazione, dell’integrazione, dell’identità nazionale e dello sviluppo solidale Bruce Hortefeux può annunciare, non senza qualche trionfalismo, un calo del 12,6% delle richieste di ricongiungimento per i primi cinque mesi del 2008. Il pacchetto di misure di contrasto all’immigrazione subita è completato da due misure.

La prima è il rinforzo delle espulsioni: 10.000 nel 2002, sono divenute 20.000 nel 2005 e 24.000 nel 2006. Dal primo giugno 2007 al trentuno maggio 2008 hanno riguardato 29.729 immigrati, con un aumento del 31% rispetto al periodo giugno 2006 – maggio 2007. Considerando i soli primi cinque mesi del 2008 l’aumento è addirittura dell’80% (14.660 espulsioni, contro le 8.117 del 2007). Questa crescita vertiginosa è dovuta in particolare al quadruplicarsi delle “partenze volontarie” – favorite dall’erogazione di aiuti economici al rientro -, passate da 1.760 a 8.349. A parere del ministro ciò dimostra che “ormai un numero significativo di stranieri in situazione irregolare comprendono la necessità di rispettare le nostre regole” 55 .

La seconda è il freno posto alle regolarizzazioni. La riforma Chevènement del 1998 aveva introdotto una procedura amministrativa, che permetteva a chi potesse dimostrare un soggiorno di almeno 10 anni nel paese di domandare la regolarizzazione a titolo individuale. La procedura è stata abolita nel 2006: la regolarizzazione – che viene ora definita “admission exceptionnelle au séjour” - sarà d’ora in poi concessa solo a titolo eccezionale, e a seguito della presentazione e della valutazione discrezionale di un corposo dossier. A titolo di esempio su circa 33.000 domande presentate da genitori in

condizione irregolare di minori scolarizzati in Francia, e nonostante la grande mobilitazione popolare a loro favore 56 , solo 6.924 sono stati regolarizzati nel corso dell’estate 2006 57 .

Dopo la selezione la discriminazione

Una volta superata la selezione imposta al momento dell’ingresso, quale è la condizione degli immigrati eletti al soggiorno in Francia? E, più specificamente, quale è la condizione di coloro che fanno parte o discendono dall’indesiderata immigrazione di origine coloniale?

La risposta richiederebbe una trattazione specifica, che supera di molto i limiti del presente intervento. Si potrà qui dunque solamente accennare ad alcuni dei molteplici fattori che contribuiscono a costruire un quadro di intensa e diffusa discriminazione. Nonostante la ricerca sociologica sia rallentata dal fatto che la legislazione francese impedisce di effettuare sondaggi di tipo “etnico” - costringendo così a misurare la discriminazione delle popolazioni di origine immigrata attraverso indici forzatamente indiretti -, tutti gli studi effettuati sembrano convergere infatti in questa direzione 58 .

E’ questo il caso di un test realizzato dall’osservatorio sulle discriminazioni dell’Università di Parigi 1, che per poter stimare la discriminazione subita nella ricerca di impiego ha usato lo strumento del testing. Ha preso in considerazione 258 offerte di impiego, e ha costruito poi dei curriculum fittizi, eguali in tutto tranne che nei particolari che si voleva testare: età, sesso, residenza, origine, etc. I curriculum così costruiti sono stati inviati alle 258 aziende in questione. Il curriculum di riferimento -un maschio, con -un patronimico di chiara origine francese e -una residenza a Parigi - ha ricevuto 75 convocazioni per una intervista individuale. Un curriculum identico, a cui però corrispondeva un patronimico chiaramente magrebino, ha superato la selezione sole 14 volte. L’inchiesta è stata realizzata nel 2004, e poi ripetuta e allargata negli anni successivi, confermando l’esistenza di una forte discriminazione nell’accesso all’impiego per le popolazioni di origine immigrata. 59 .

Insieme causa e conseguenza di questa discriminazione è la forte pressione sociale che spinge – si vorrebbe “naturalmente” - gli immigrati verso i lavori più umili. Sovra-rappresentati nella popolazione operaia 60 , gli immigrati – ed in particolare i non comunitari - sono in realtà esclusi per legge da un

(13)

gran numero di impieghi che spaziano dalla funzione pubblica alle grandi aziende nazionalizzate, dalla piccola imprenditoria alle professioni liberali 61 . Relegati al fondo della scala sociale, essi subiscono prima e più pesantemente degli altri le fluttuazioni del mercato del lavoro. L’inchiesta “Emploi” realizzata dall’INSEE nel 1992, indicava per gli stranieri un tasso di disoccupazione pari al 18,6%. Questo tasso, quasi doppio rispetto a quello del 9,5% che colpiva i francesi, saliva al 29,6% per gli immigrati di origine maghrebina. Tra questi ultimi, i livelli di disoccupazione delle fasce più giovani della popolazione (15-24 anni) raggiungevano il 50%. Ripetuta nel 2000 la stessa inchiesta ha dato risultati del tutto simili: la disoccupazioni degli stranieri è doppia rispetto a quella dei nazionali (il 20% contro il 10%), tripla se si escludono gli stranieri di origine comunitaria 62 .

Alla sovra rappresentazione tra i disoccupati – e in perfetta armonia con il contesto della sostituzione neoliberista dello stato penale allo stato sociale 63 - corrisponde direttamente quella all’interno del sistema carcerario. Nella fascia di età che va dai 18 ai 24 anni, il 39,9% dei giovani incarcerati ha un genitore nato in Maghreb. Considerando che solo l’8,5% dei genitori è nato in Maghreb, contro al 75,5% che è nato in Francia, si ottiene una relazione tra origine magrebina e possibilità di essere incarcerati dieci volte più alta che per i detenuti i cui genitori sono nati in Francia. 64 .

L’iperselettività del sistema penale ha un ruolo fondamentale nel sistema del razzismo istituzionale: essa provvede infatti a verificare l’equazione tra immigrato (o discendente di immigrato) e criminale che è necessaria alla sua giustificazione e al suo mantenimento. Intorno a questa equazione, la retorica politica che ricopre il razzismo istituzionale sta riuscendo a solidificare un sempre più preoccupante e corposo consenso popolare. L’accesso di Le Pen al secondo turno delle elezioni presidenziali del 2002 è solo uno dei tanti segni che indicano la forza di questo processo di banalizzazione e popolarizzazione della logica razzista.

L’insieme di queste considerazioni dipinge ancora in modo insufficiente la discriminazione subita dalle popolazioni di origine coloniale. Esse infatti non possono tenere in considerazione la condizione di perdurante discriminazione che colpisce le seconde generazioni che, pur non essendo per le

statistiche citate né straniere né immigrate, continuano a subire – in maniera del tutto invisibile 65 -forti discriminazioni. Discriminati nell’accesso all’impiego, sovra rappresentati tra i disoccupati e nelle prigioni, marginalizzati dal sistema scolastico 66 , gli immigrati e i loro discendenti si

concentrano nelle periferie urbane, in quelle zone “sensibili” o “difficili”, che tali sono percepite non tanto in basi a criteri socio-economici, ma proprio perché, in definitiva, maggioritariamente abitate da popolazioni di origine non europea. La locuzione “giovani delle banlieues”, in linea con il carattere metaforico o eufemizzante del razzismo istituzionale repubblicano 67 , è un perifrasi che traduce il meno politically correct “i noirs e gli arabes che abitano in periferia”.

Nei confronti di questi giovani la retorica integrazionista raggiunge la sua pienezza e verità: spogliata da ogni riferimento al concetto sociologico originario, l’integrazione non è una condizione sociale da indagare, descrivere o valutare, ma un’ingiunzione morale al mantenimento dell’ordine politico, economico e simbolico repubblicano rispetto al quale essi sono sospettati di costituire una mortale minaccia. La condizione sociale delle popolazioni di origine immigrata, in questo rocambolesco salto mortale sociologico-morale, non è più pensata come causa del loro agire sociale, ma come

conseguenza di un’essenza morale indocile, disordinata, aggressiva e tendenzialmente deviante. Questa essenza è collegata, implicitamente o esplicitamente, al “carattere” presuntamente astorico delle etnie (o culture o religioni) di provenienza, da cui sono fatte discendere le “costanti” del loro comportamento “antisociale”. La condizione sociale vissuta concretamente dagli immigrati extra-europei (quelli europei avendo inspiegabilmente, come è noto, doti di integrazione assai superiori) e dai loro discendenti non testimonia più a questo punto delle molteplici forme assunte dal razzismo istituzionale e ambientale, ma della loro soggettiva incapacità ad integrarsi, un’incapacità che è spiegata in termini culturalisti. L’integrazione si trasforma così da categoria sociologica in categoria

(14)

dell’agire morale: non è una condizione sociale, ma una variabile individuale che dipende dalla volontà. Il cerchio di auto-giustificazione del razzismo istituzionale trova qui la sua chiusura: non solo l’oggettiva discriminazione subita dagli immigrati e dai loro discendenti non è riconosciuta per tale, ma la condizione di miseria da essi vissuta è fatta per di più dipendere dal loro deficit di integrazione ovverosia, in definitiva, dalla loro cattiva volontà.

Conclusione

Durante la discussione sviluppatasi al momento della Liberazione intorno ai criteri di selezione da porre a fondamento della nuova politica migratoria di cui il paese si voleva dotare, il Ministero degli affari esteri aveva sostenuto con forza la necessità di distinguere nettamente tra due tipi di

immigrazione molto diversi tra di loro. Da un lato la drammatica congiuntura economica e sociale rendeva necessaria una massiccia immigrazione di lavoratori non qualificati da impiegare nella ricostruzione del paese. Rispetto all’urgenza di questo bisogno non si poteva, a parere del ministero, andare troppo per il sottile nei criteri di scelta. L’amministrazione avrebbe provveduto in un secondo momento a scoraggiare in ogni modo la stanzializzazione dei soggetti meno desiderabili. D’altro canto gli ambienti ministeriali sostenevano anche la necessità di stimolare un’immigrazione di qualità, tanto dal punto di vista etnico caro a Mauco, quanto da quello sanitario e di qualificazione professionale. Questa immigrazione di qualità, al contrario, doveva essere incentivata e fidelizzata, e il suo obiettivo a termine doveva essere quello della naturalizzazione. Il progetto del ministero prevedeva dunque da un lato un’immigrazione quantitativa e strettamente temporanea, dall’altro una immigrazione

qualitativa e tendenzialmente permanente. La posizione, espressione di un utilitarismo tanto coerente con le necessità del mercato quanto spietato dal punto di vista umano, non entrò a fare parte del dispositivo dell’ordinanza del 1945, in quanto il legislatore la percepì come non sufficientemente rispettosa dei diritti delle persone coinvolte. Essa ricorda con assoluta precisione la logica sottesa alle recenti riforme, con la sola differenza che il criterio di distinzione oggi invocato non è quello

etnico-razziale squalificato dall’esperienza nazista, ma quello culturale implicito nella condizione di integrazione.

[1] Projet de loi n° 823, relatif à la maîtrise de l’immigration et au sejour des étrangers en France, 30

Avril 2003.

[2] Cfr. D. Lochak, Le tri des étrangers: un discours récurrent, “Plein droit”, n.° 69, juillet 2006; di

“Plein droit” si può vedere anche il numero monografico Le tri des étrangers, “Plein droit”, n.° 73, julliet 2007.

[3] Sulla logica escludente della cittadinanza cfr. L. Ferrajoli, La sovranità nel mondo moderno,

Laterza, Roma-Bari 1997; A. Sayad, Exister, c’est exister politiquement, in A. Sayad, L’immigration

ou les paradoxes de l’altérité. 2. Les enfants illégitimes, Raisons d’agir, Paris 2006.

[4] Cfr. G. Noiriel, Le creuset français. Histoire de l’immigration XIX-XX siècle, Seuil, Paris 1988.

[5] Cfr. P. Weil, Races at the Gate. Racial Distinctions in Immigration Politics: a Comparison

between France and the United States, in A. Fahrmeir - O. Faron – P. Weil, Migration Control in North Atlantic World, Berghan Books, NewYork 2001.

[6] Cfr. D. Costantini, Migrazione "illegale" e ascesa dello stato penale. Il caso australiano, in P.

Basso – F. Perocco, Gli immigrati in Europa. Diseguaglianza, razzismo, lotte, Franco Angeli, Milano 2003.

(15)

[7] Cfr. G. Noiriel, Immigration, antisémitisme et racisme en France (XIX-XX siècle). Discours

publics, humiliations privées, Fayard, Paris 2007.

[8] Nel 1919 é firmato un accordo con l’Italia che riprende e rinnova quelli del 1904 e 1906. Nel 1906

era stato firmato un accordo anche con il Belgio. Sempre nel 1919 é il turno della Polonia, nel 1920 quello della Cecoslovacchia. Cfr. P. Weil, La France et ses étrangers, Gallimard, Paris 2004; pp. 23-26;

[9] S. Bouamama, L’immigration algérienne au temps de la colonisation, in “Hommes et migrations”,

n° 1244/2003, pp. 6-11.

[10] In generale gli immigrati di origine coloniale sono esclusi dalle prestazioni sociali concesse agli

altri lavoratori. Un esempio significativo riguarda il regime delle allocations familiales, creato in Francia nel 1932, e che non viene però applicato ai dipartimenti algerini. Un regime rudimentale è creato nel 1941, ma riguarda professioni salariate esercitate in maggioranza da europei. Anche con la Liberazione rimangono le sperequazioni: i lavoratori la cui famiglia risiede in Algeria ricevono solo un terzo delle allocations concesse ai lavoratori la cui famiglia risiede in Francia, mentre non ricevono affatto sussidi alla natalità. In un dibattito parlamentare del 4 novembre 1954 la comunista Alice Sportnisse denuncia così lo scandalo: “alors qu’un travailleur français, père de deux enfants, perçoit – allocation de salaire unique comprise – 11629 francs, son camarade d’atelier, parce qu’il est algérien, n’a droit qu’à 4800 francs, soit 6829 francs de différence … Ainsi les 94.000 allocataires algériens sont frustrés d’environ 430 millions de francs par mois, soit près de 6 milliard par an ” (citato in A. Spire, Semblables et pourtant différents. La citoyenneté paradoxale des “français musulmans

d’Algérie” en métropole, in “Genèses”, n. 53/2003, pp. 48-68; p. 65). Questo mentre la preferenza

etnica accordata ai lavoratori di origine italiana spinge nel 1947 a riconoscere l’allocation a tutti lavoratori italiani, compresi quelli le cui famiglie vivono ancora in Italia. Questo provvedimento è esteso nel 1957 agli spagnoli e nel 1958 a tutti i comunitari.

[11] L. Amiri – B. Stora, Les politiques de l’immigration en France du début du XXe siècle à nos jours,

in B. Stora – E. Temime, Immigrances. L’immigration en France au XXe siècle, Hachette, Paris 2007.

[12] P. Weil, La France et ses étrangers, op. cit.; p. 27.

[13] Per una presentazione della figura di Martial si può vedere Benoît Larbiou, René Martial,

1873-1955. De l’hygiénisme à la radiologie, une trajectoire possible, in “Genèses”, n. 60/2005, pp.

98-120; P. A. Taguieff, La science du Dr René Martial ou l’antisémitisme saisi par

l’anthropo-biologie des races, in P.-A. Taguieff (dir.), L’antisemitisme de plume 1940-1944, études et documents, Berg International, Paris 1999. Opera di riferimento generale per la ricostruzione

dell’eugenismo francese è William H. Schneider, Quality and Quantity. The Quest for Biological

Regeneration in Twentieth-century France, Cambridge University Press, Cambridge 1990.

[14] Cfr. P.-A. Taguieff, Face à l’immigration: mixophobie, xénophobie ou sélection. Un débat

français dans l’entre deux guerres, in “Vingtième siècle. Revue d’histoire”, n. 47/1995, pp. 103-131.

[15] L’indice dei francesi é calcolato da Martial in 3,2. Esso rimane compatibile con gli indici di belgi

(4,4), alsaziani (4,01), olandesi (3,08), italiani (2,6). Molto meno integrabili appaiono a Martial ebrei (1,6), arabi (1,6), russi (1,4), polacchi (1,2). In fondo alla scala non vi é sorpresa alcuna a trovare accomunati indistintamente i “negri” (0,9).

[16] Cfr. P. Weil, Georges Mauco, expert en immigration: ethnoracisme pratique et antisémitisme

(16)

[17] Ponendo i francesi al culmine della scala con un indice di 10, i belgi vengono riconosciuti come i

più desiderabili con 9, di fronte a svizzeri (8,5), italiani (7,3), polacchi (6,4). In fondo alla scala qui ci sono gli arabi con 2,9.

[18] G. Mauco, citato in D. Lochak, Le tri des étrangers, op. cit.

[19] Rivista diretta da Georges Montadon, titolare dal 1933 di una cattedra di etnologia presso l’École

d’anthropologie. Montadon fu un fiero sostenitore dell’eugenismo di Vacher de Lapouge, diresse dal 1943 l’Institut d’études des questions juives et ethnoraciales, e collaborò con i nazisti come specialista nel riconoscimento dei “tipi ebraici” presso il campo di Drancy. Fu giustiziato dalla resistenza nel 1944.

[20] Cfr. B. Laguerre, Les dénaturalisés de Vichy 1940-1944, in “Vingtième siècle. Revue d’histoire”,

n. 20/1988, pp. 3-15; P. Weil, Histoire et mémoire des discriminations en matière de nationalité

française, “Vingtième siècle. Revue d’histoire”, n. 84/2004, pp. 5-22.

[21] Ch. De Gaulle, Discours à l’Assemblée consultative del 3 marzo 1945, citato in P. Weil, La France

et ses étrangers, op. cit., p. 69.

[22] P. Weil, Racisme et discrimination dans la politique française de l’immigration:

1938-1945/1974-1995, in “Vingtième siècle. Revue d’histoire”, n. 47/1995, pp. 77-102.

[23] Citato in P. Weil, Qu’est-ce que un français? Histoire de la nationalité française depuis la

Révolution, Grasset, Paris 2002; p. 147.

[24] Mauco proponeva di ripartire l’immigrazione, tenuto conto del diverso grado di assimilabilità

delle differenti razze, secondo le seguenti proporzioni: 50% di nord-europei, 30% di latini, 20% di slavi. Per tutte le altre etnie le possibilità di ingresso si sarebbero dovute valutare a titolo individuale.

[25] Essa tuttavia non sia applica ai tre dipartimenti algerini. Nel 1949 si fa un tentativo di adattarla,

che si configura come una sua considerevole limitazione.

[26] A. Spire, Étrangers à la carte. L’administration de l’immigration en France (1945-1975), Paris,

Grasset, 2005.

[27] Anche la localizzazione degli uffici nel nostro paese non è casuale, ma riflette secondo Alexis

Spire una preferenza dell’amministrazione per gli italiani del Nord, concepiti come più assimilabili rispetto a quelli del Sud.

[28] E. Saada, Une nationalité par degré : civilité et citoyenneté en situation coloniale, in Patrick Weil,

Stéphane Dufoix (sous la dir. de), L’esclavage, la colonisation, et après..., Paris, PUF, 2005; L. Blevis,

Les avatars de la citoyeneté en Algérie coloniale ou les paradoxes d’une catégorisation, in “Droit et

société”, n. 48/2001, pp. 557-580.

[29] Sul piano formale questa viene riconosciuta dalla legge del 20 settembre 1947, “portant statut

organique de l’Algérie”. Il quasi si riferisce al fatto che la pienezza di questo riconoscimento è limitata dall’introduzione del doppio collegio. Cfr. B. Stora, Histoire de l’Algérie coloniale (1830-1954), La Découverte, Paris 1991.

(17)

[31] L. Chevalier, Le problème démographique nord-africain, Cahiers de l’Ined, Paris 1947. Il corsivo

è mio.

[32] Cfr. Circulaire du 13 juillet 1950 des ministères de la Justice, de l’Intérieur, du Travail et de la

Population.

[33] Cfr. A. Sayad, L’immigrazione o i paradossi dell’alterità. L’illusione del provvisorio, Ombre

Corte, Verona 2008.

[34] La circolare è riprodotta tra gli annessi a A. Spire, Étrangers à la carte, op. cit.

[35] Ancora nel 1962 il 31,8% degli immigrati presenti in Francia è di origine italiana, il 78% di

origine europea; gli immigrati di provenienza africana sono solo il 14,9%, gli asiatici sono il 2,4%. Nel 1975 l’immigrazione di origine europea è scesa al 67,2%, quella africana è salita al 28%. Nel 1990 l’immigrazione europea è ridotta al 50,4%, quella africana rappresenta il 35,9%, quella asiatica l’11,4%. Nel 2005 dei 4.959.000 immigrati presenti nel paese, gli europei sono 1.984.000, gli africani 2.108.000, gli asiatici 690.000. I dati provengono dai censimenti INSEE.

[36] Cfr. A. Sayad, La doppia assenza. Dalle illusioni dell’emigrato alle sofferenze dell’immigrato,

Raffaello Cortina, Milano 2002.

[37] Con la legge 29 aprile 1976. Lo stesso giorno il governo, presieduto all’epoca da Jacques Chirac,

pubblica un decreto che ne vuole limitare le conseguenze, impedendo l’accesso al mercato del lavoro a coloro che avrebbero approfittato della legge. Il decreto – contestato dalle associazioni sindacali e di sostegno agli immigrati – viene annullato dal Consiglio di stato con una decisione dell’8 dicembre 1978, che lo trova incompatibile con il diritto dello straniero alla conduzione di una vita familiare normale. Nel 1993 il Consiglio costituzionale consacra il ricongiungimento familiare – che è protetto anche dall’articolo 8 della Convenzione europea dei diritti umani - come principio costituzionale.

[38] Cfr. G. Kepel, Les banlieuses de l’Islam, Le Seuil, Paris 1987.

[39] Cfr. G. Noiriel, Immigration, antisémitisme et racisme en France, op. cit.

[40] S. Bouamama, Dix ans de marche des beurs: chronique d’un mouvement avorté, Desclée de

Brouwer, Paris 1994.

[41] Cfr. N. Guénif-Souilamas, Immigration/Intégration: le grand découplage, in

“Ville-Ecole-Intégration Enjeux, n.°131/déc. 2002, pp. 232-238; A. Sayad, Qu’est-ce que

l’intégration, in « Hommes et migrations », n. 1182, déc. 1994, pp. 8-14; J. Costa-Lascoux, Assimiler, insérer, integrer, in “Projet”, n. 227/automne 1991, pp. 7-15; F. Gaspard, Assimilation, insertion, intégration: les mots pour “devenir français”, in “Hommes et migrations”, n. 1154/mai 1992, pp.

14-23. Una storia adeguata della complessità dell’intreccio di questi termini resta ancora da scrivere.

[42] Cfr. P. Weil, Qu’est-ce que un français?, op. cit., p. 170.

[43] Secondo il principio del doppio ius soli, introdotto dalla legislazione del 1889, il figlio nato in

Francia di un genitore nato in Francia è francese.

[44] Oltre all’eliminazione dell’articolo 23 si richiedono misure simbolicamente vessatorie, come

l’introduzione dell’obbligo per i soli naturalizzati di prestare un giuramento di fedeltà ai valori repubblicani. Si cerca inoltre di limitare la possibilità di ottenere la nazionalità francese attraverso il matrimonio, sostituendo la semplice dichiarazione prevista dalla legge con una vera e propria procedura di naturalizzazione. Si preconizza infine l’idea che una qualsiasi condanna penale sia

Riferimenti

Documenti correlati

Molti altri autori, tra cui Cabr´ e, Caffarelli, Hishii, ´ Swiech, Trudinger, hanno contribuito allo sviluppo di questa teoria dimostrando risultati di esistenza, unicit` a,

Si parla spesso degli anni ’60 come di un periodo felice, in realtà si trattò di un’epoca piuttosto contraddittoria: alle esaltazioni per il benessere si unirono forme di

Se noi riandiamo con la nostra memoria a tutti i discorsi che abbiamo fatto sulla continuità della Resistenza e sulla necessità di mantenere vivo lo spirito della Resistenza anche

Ciascuno dei contributi qui raccolti analizza un periodo specifico o un tema rilevante della storia delle Nazioni Unite, oppure della partecipazione dell’Italia all’attività dell’Onu

Alla fine degli anni ‘20 un nuovo interesse per le questioni sociali e popolari influenzò sia il cinema di finzione, nella corrente del realismo poetico, sia il documentario,

La figura I.1 riporta i segnali di scattering relativi a due bersagli simili appoggiati sul fondale marino, illuminati con un’onda acustica alla frequenza di 1 kHz ed evidenzia i

Nonostante le remore segnalate, nel periodo 1997-2002 i soggetti autorizzati all’eser- cizio delle attività di fornitura di lavoro interinale e di intermediazione tra domanda ed

Nel succedersi delle leggi elettorali, fino all’intervento della Consulta e all’ultima riforma, ci troviamo in presenza sempre di sistemi misti e pa- sticciati 17 – il