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La terapia biologica nel trattamento dell'artrite psoriasica: persistenza in terapia. Casistica monocentrica e confronto con i dati della letteratura internazionale.

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INDICE

Introduzione p. 2

Artrite psoriasica p. 3

Il TNF-α e l’infiammazione p. 10

Il TNF-α e l’artrite psoriasica p. 13

Gli inibitori del TNF-α p. 15

SCOPO DELLO STUDIO p. 25

MATERIALI E METODI p. 26

RISULTATI p. 27

DISCUSSIONE p. 29

CONCLUSIONI p. 33

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INTRODUZIONE

L’artrite psoriasica (AP) è un’artropatia infiammatoria a carattere cronico- evolutivo associata a psoriasi [1], classificata nell’ambito del gruppo delle spondiloartriti sieronegative (SpA) assieme a spondilite anchilosante (SA), artriti associate alle malattie infiammatorie intestinali o artriti enteropatiche, artrite reattiva e forme che non rientrano in nessuna delle suddette categorie e sono etichettate come SpA indifferenziate [2]. Le SpA presentano caratteristiche laboratoristiche, cliniche e radiologiche comuni. Sul piano clinico condividono il frequente coinvolgimento dello scheletro assiale, l’interessamento prevalente ed asimmetrico delle articolazioni degli arti inferiori, la flogosi a livello delle entesi e il possibile coinvolgimento dell’occhio con il quadro dell’uveite anteriore acuta ricorrente; sul piano sierologico si caratterizzano per la negatività del fattore reumatoide (FR) e per la frequente associazione con l’antigene di istocompatibilità HLA-B27 che risulta strettamente correlato alla suscettibilità di sviluppare i vari tipi di SpA e, in particolare, alla loro localizzazione assiale.

L’avvento dei farmaci biologici nella cura dell’AP ha cambiato drasticamente l’evoluzione della malattia ottenendo un forte impatto sulla qualità della vita di questi pazienti che, nonostante la cronicità della malattia, possono condurre una vita in assoluta autonomia anche dopo decenni dalla diagnosi.

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ARTRITE PSORIASICA

EPIDEMIOLOGIA ED EZIOPATOGENESI

La psoriasi è una malattia cutanea comune tra la popolazione caucasica (prevalenza 1–3%), mentre lo è molto meno in altri gruppi etnici come ad esempio negli afro-americani (0–0.3%). La distribuzione della malattia nei due sessi sembra omogenea e l’età di insorgenza è compresa tra 30 e 50 anni ma può anche manifestarsi nell’infanzia. Nella maggior parte dei casi (67%) la comparsa della psoriasi precede l’esordio dell’artrite, nel 16% dei casi psoriasi ed artrite compaiono entro 12 mesi l’una dall’altra, in circa il 15% dei casi la psoriasi può seguire anche di qualche anno la comparsa dell’artrite [3]. Mentre abbiamo dati certi sulla prevalenza della psoriasi nella popolazione generale, è tuttora oggetto di discussione la percentuale di pazienti psoriasici che sviluppa manifestazioni reumatologiche, essendo stati riportati in letteratura valori altamente variabili compresi fra lo 0,2% ed il 42%. Uno studio italiano sulla prevalenza dell’artrite in 205 pazienti con psoriasi (4) ha evidenziato artrite nel 36% dei soggetti. Attualmente si ritiene che, in Italia, la prevalenza dell’AP tra i pazienti psoriasici oscilli tra il 7,7% e il 35% circa [4, 5].

L’eziologia dell’AP non è nota ma si ipotizza un’origine multifattoriale legata a fattori genetici, ambientali e immunologici. Data la relazione temporale con la psoriasi è possibile che gli eventi iniziali coinvolgano sia la risposta immunitaria innata che quella acquisita, con primitivo interessamento cutaneo e successiva estensione del danno a livello articolare in soggetti geneticamente suscettibili. Recenti evidenze hanno dimostrato il ruolo centrale di alcune citochine, come il TNF-α (Tumour Necrosis Factor), l'interleuchina 12 12), l'interleuchina 23 23) e l'interleuchina 17 (IL-17), nella determinazione del processo infiammatorio e del danno strutturale;

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queste molecole hanno costituito un importante punto di partenza per la miglior comprensione dei meccanismi alla base della malattia e rappresentano il bersaglio di odierne ed efficaci opzioni terapeutiche [6].

La predisposizione genetica alla psoriasi è stata rilevata dagli studi epidemiologici effettuati negli ultimi sessant'anni. Infatti studi su famiglie hanno dimostrato la maggiore incidenza della malattia nei parenti dei pazienti affetti da psoriasi rispetto alla popolazione generale (circa 40 volte più elevata) [7], con concordanza del 62-70% tra gemelli omozigoti e del 21-23% tra gemelli dizigoti. Attualmente si ritiene che per l'insorgenza della psoriasi sia necessaria la presenza sia di più fattori genici (trasmissione di tipo poligenica) sia di eventi scatenanti. Studi di immunogenetica hanno identificato come il sistema HLA sia associato alla psoriasi e all’AP. In particolare, la psoriasi è significativamente associata agli antigeni HLA-Cw6; l’AP invece risulta associata al B16 e ai suoi split B38 e B39 (nella forma periferica) e al B27 (nella forma assiale). E’ stata segnalata, infine, un’associazione con antigeni di classe II (DR) per la forma simil-reumatoide, nella quale si trova un’aumentata frequenza di DR4. Su un terreno genetico predisponente, vari fattori potrebbero quindi scatenare l’insorgenza dell’AP e/o della psoriasi: tra questi i traumi e i processi infettivi [8].

Lo sviluppo dell’AP a seguito di un trauma è infatti sensazione comune tra i clinici ed è stato riportato in uno studio osservazionale di coorte, condotto in Canada, in cui il 24,6% dei pazienti presentava in anamnesi un evento traumatico precedente alla diagnosi di AP [9]. Apparentemente più forte sembrerebbe essere l’importanza della componente infettiva. Infatti, nei pazienti con psoriasi, la coltura delle lesioni cutanee è frequentemente positiva per Streptococco o Stafilococco, inoltre molti pazienti con psoriasi presentano un titolo antistreptolisinico elevato e, infine, l’insorgenza sia della psoriasi che dell’AP può seguire un’angina streptococcica [10]. E’ stato poi

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l’infiammazione e l’up-regolazione dell’espressione del TNF-α di origine cheratinocitaria (nella cute interessata da psoriasi) [11].

Studi condotti nel corso delle ultime decadi hanno contribuito in modo sostanziale a chiarire il ruolo delle diverse tipologie di cellule del sistema immunitario, i mediatori e le citochine infiammatorie che potrebbero svolgere un ruolo significativo nella determinazione della malattia [12]. Recenti evidenze hanno posto l'accento in particolare sull'attivazione di una risposta di tipo Th1 e Th17 con rilascio di TNF-α, interferone γ (IFN-γ), IL-23, IL-17, IL-22 e ICAM1 [13], oltre alla già nota presenza di infiltrazione linfocitaria sia in circolo sia a livello della sinovia e della placca psoriasica, in associazione con altre cellule della risposta infiammatoria e produzione di citochine come anche IL-1, IL-16 e IL-18. Il ruolo poi della risposta linfocitaria T e della citochina proinfiammtoria TNF-α, nella patogenesi sia dell'AP che della psoriasi, sarebbe confermata non solo dal riscontro diretto di aumentati livelli di tale mediatore dell'infiammazione in circolo, a livello sinoviale e a livello della placca psoriaca stessa, ma anche indirettamente dall'ottima risposta delle manifestazioni dell'AP ai farmaci biologici anti TNF-α. E' ormai comprovato da diverse evidenze che la risposta immunitaria coinvolta nella patogenesi dell' AP è essenzialmente una risposta linfocitaria di tipo T. A dimostrazione di ciò depone anche l'evidenza di un infiltrato perivascolare linfocitario di questo tipo, sia a livello cutaneo che articolare in pazienti affetti [14], nonchè la maggior produzione in coltura di tessuto sinoviale derivato da articolazioni colpite da AP, di citochine prodotte dai linfociti Th1 come l' IL-2 e l' INF-γ rispetto a colture di sinovia derivate da modelli di artrite reumatoide (AR) e osteoartrosi (OA) [15]. Queste cellule interagiscono con le APC (Antigen Presenting Cells) e attivano conseguentemente, la cascata infiammatoria a livello del compartimento cutaneo e articolare [15,16]. In particolare, come dimostrato da studi immunoistologici, predominano i linfociti T CD8+ a livello dell'epidermide,

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del liquido sinoviale e delle entesi; mentre a livello del derma e della membrana sinoviale sono più rappresentati i linfociti T CD4+; tuttavia a livello dell'infiltrato cellulare infiammatorio mononucleare del lining sinoviale si può riscontrare anche una prevalenza di cellule T della memoria CD45RO+ [15,16]. Ad ogni modo, la prevalenza nel liquido sinoviale dei linfociti T CD8+, alcuni dei quali con espansione oligoclonale del TCR-B (t cell receptor), depone per una risposta T cellulare guidata dall' Ag (antigene) [17,18]. Infine, i risultati mostrati da specifiche terapie che agiscono in modo selettivo su queste cellule e la grande efficacia dimostrata soprattutto sull'interessamento cutaneo, costituiscono un'evidenza di grande importanza in relazione all'ipotetico ruolo dei linfociti T nella patogenesi della malattia [19,20].

MANIFESTAZIONI CLINICHE

L’AP interessa sia le articolazioni periferiche che la colonna. Wright e Moll (1973) proposero 5 subsets clinici: l’oligoartrite asimmetrica (il 60-70% dei casi), la forma con interessamento delle articolazioni interfalangee distali (IFD) di mani e piedi (5-10% dei casi), la forma mutilante (1-2%), la poliartrite simmetrica o simil-reumatoide (15-20%) e la spondilitica (5-10%) [21].

La forma oligoarticolare asimmetrica risulta la variante clinica più frequente (almeno all’esordio). Infatti, in fase iniziale, l’interessamento articolare tende a essere oligoarticolare (≤5 articolazioni) con distribuzione asimmetrica ma, col tempo, diviene frequentemente poliarticolare (>5 articolazioni).

Le articolazioni più colpite sono le metacarpofalangee (MCF) e le interfalangee (IF) (sia prossimali che distali) di mani e piedi, seguite dal ginocchio e dalla caviglia ma, ogni articolazione può essere coinvolta.

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La forma con impegno prevalente delle IFD (nota anche come forma classica) e generalmente oligoarticolare, si associa alla presenza di onicopatia e colpisce più spesso il sesso maschile.

Rara è la forma mutilante, causata da un’acrosteolisi soprattutto a carico delle falangi distali, che conferisce alle dita il cosiddetto aspetto a “cannocchiale”. La variante simil-reumatoide (poliarticolare simmetrica), ha molte somiglianze con l’AR, differenziandosi da quest’ultima per l’assenza del FR, il più frequente coinvolgimento delle IFD e della colonna e per la minor evolutività.

Infine, possiamo ritrovare l’interessamento prevalente della colonna vertebrale (forma assiale o spondilitica) e delle articolazioni sacroiliache, con un impegno segmentario della colonna e spesso monolaterale/asimmetrico delle sacroliache. Questa forma si associa, molto frequentemente, alla positività per HLA-B27. La prevalenza dell’interessamento assiale nell’AP rimane ancora molto variabile (in parte a causa della diversità dei criteri utilizzati) ma probabilmente, con le accurate tecniche di imaging attualmente disponibili, si rileverebbero segni di sacroileite in un numero considerevole di soggetti con AP [22].

Clinicamente l’AP non si discosta molto dall’AR: il paziente lamenta dolore (spontaneo, ma anche alla pressione e al movimento o alla mobilizzazione passiva) e rigidità mattutina prolungata, mentre le articolazioni colpite sono calde e tumefatte. Caratteristica dell’AP risulta invece la dattilite [23], il cosiddetto dito a “salsicciotto” (dovuto alla presenza di una tenosinovite dei flessori associata all’edema infiammatorio delle parti molli), che può, ma non necessariamente, associarsi ad artrite di MCF o metatarsofalangee (MTF), IFP e IFD dello stesso dito [24]. La dattilite, che sembrerebbe associarsi alla progressione della malattia [25], può cronicizzare ed esitare in una tumefazione permanente scarsamente responsiva alla terapia.

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Frequente è il coinvolgimento delle guaine tendinee con sviluppo di tenosinoviti ma tipica è l’entesite. Infatti la sede primaria del processo infiammatorio dell’AP, come di tutte le SpA, è l’entesi, cioè il punto di inserzione ossea di legamenti, tendini e di altre componenti fibro/cartilaginee dell’apparato locomotore [26]. Tale interessamento è responsabile di gran parte delle manifestazioni cliniche tipiche delle SpA, sia assiali che periferiche, quali la sacroileite, la spondilite, l’entesite e l’oligoartrite. Sedi tipiche per entesite risultano il tendine d’Achille, il tendine quadricipitale e il rotuleo [27], così come la fascia plantare (fascite).

Altra caratteristica clinica tipica dell’AP è l’onicopatia che è caratterizzata da ispessimento distale dell’unghia, ipercheratosi sottoungueale, sollevamento e talvolta scollamento, solcature, striature e punteggiature (pitting) o chiazze giallastre (macchie d’olio). Essa è presente nell’80% circa dei pazienti con AP mentre risulta più rara negli psoriasici senza artrite (20%) [28].

Infine possiamo ritrovare altre manifestazioni associate quali uveite, congiuntivite, uretrite ed interessamento intestinale. L’uveite è forse la manifestazione extrarticolare più importante, piuttosto comune nelle spondiloartriti in generale. Si stima che il 7% circa dei pazienti con AP presenti uveite, manifestazione che può essere osservata anche in soggetti con sola psoriasi [29].

L’uretrite risulta associata a tutte le spondiloartriti sieronegative, ma soprattutto alle forme post-infettive.

L’interessamento intestinale, quando presente, si manifesta attraverso una variante aspecifica di colite, convenzionalmente considerata nell’ambito delle malattie infiammatorie intestinali [28, 30].

I pazienti con psoriasi o con AP hanno un’aumentata incidenza di malattie cardiovascolari e fattori di rischio cardiovascolari come ipertensione arteriosa, sindrome metabolica e iperuricemia. Nei pazienti con AP ad interessamento

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atrio-ventricolare e l’insufficienza aortica. Le malformazioni cardiache (ad es. la dilatazione della base dell’arco aortico) sono sicuramente manifestazioni meno comuni e risultano più frequenti nella variante spondilitica [31].

CRITERI CLASSIFICATIVI

La classificazione dell'AP presenta delle difficoltà metodologiche: il quadro clinico della malattia è polimorfo, il decorso è caratterizzato da fasi di riacutizzazione alternate a fasi di remissione e, inoltre, mancano dei criteri oggettivi per stabilire la presenza di un'artrite o di una psoriasi pregressa. Nel corso degli anni sono stati proposti una serie di criteri classificativi. Recentemente, il gruppo CASPAR (ClASsification of Psoriatic ARthritis) ha proposto un nuovo set di criteri che ha superato gran parte delle carenze dei precedenti sistemi classificativi [32] (Tabella I).

Tale set prevede un criterio obbligatorio e cinque criteri facoltativi; per la classificazione i criteri sono soddisfatti in presenza del criterio obbligatorio (malattia infiammatoria articolare) e di uno score di almeno 3 derivante dalla somma degli altri 5 criteri. Tutti i criteri danno uno score di 1 tranne la presenza di “psoriasi attuale” che dà uno score di 2. Tali criteri hanno dimostrato una sensibilità del 91,4% e una specificità del 98,7%.

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IL TNF-α E L’INFIAMMAZIONE

Prima di prendere in esame lo sviluppo e la funzione degli anticorpi monoclonali, e in particolare dei farmaci anti TNF-α, è doveroso descrivere il ruolo del TNF-α nel processo infiammatorio. Esso rappresenta un importantissimo regolatore dell’espressione di numerose citochine pro-infiammatorie come l’IL-1 e l’IL-6, ciò lo ha reso un bersaglio chiave per l’intervento terapeutico.

Si tratta di una citochina proinfiammatoria e immunoregolatoria che svolge numerosi effetti sistemici. La sua principale funzione biologica consiste nel facilitare il reclutamento di neutrofili e monociti nei siti di infezione e di attivarne le funzioni fagocitiche [33]. Tali effetti sono il risultato di un’azione combinata sulle cellule endoteliali e sui leucociti. Nelle cellule endoteliali infatti vengono espresse, in risposta a tale citochina, molecole di adesione (integrine, selectine, in particolare) che, in una prima fase ancorano i neutrofili e, successivamente, anche linfociti e monociti. Inoltre, nelle cellule endoteliali come nei macrofagi, il TNF-α induce la formazione di chemochine le quali, a loro volta, favoriscono il reclutamento e la migrazione dei leucociti. Come dimostrato, utilizzando topi knock-out per il gene del TNF-α, tale citochina svolge un ruolo fondamentale nella resistenza alle infezioni. Tuttavia, esso contribuisce in maniera importante nella patogenesi di reazioni flogistiche locali dannose per l’ospite (come avviene in diverse malattia autoimmuni).

Il TNF-α stimola i linfociti B e T, induce febbre, sopprime la lipasi lipoproteica negli adipociti e stimola gli epatociti a produrre le proteine della fase acuta.

Sebbene il TNF-α sia espresso principalmente dai macrofagi, esso viene anche prodotto da altre cellule, come linfociti, monociti, cheratinociti,

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fibroblasti, mastociti, neutrofili, cellule dendritiche e cellule endoteliali quando esposti a stimoli infiammatori.

Sono stati identificati due diversi recettori di superficie per il TNF-α detti rispettivamente TNF-R1 o p-55 e TNF-R2 o p-75. Il TNF-α esercita la sua azione legandosi a entrambi i recettori, espressi sulla membrana delle cellule del sistema immunitario, prevalentemente di quelle che sostengono la risposta infiammatoria e di quelle endoteliali (neutrofili, monociti, linfociti, cellule endoteliali vascolari e fibroblasti). In particolare, è stato evidenziato che il recettore p55 è coinvolto nelle difese dell’ospite e nella mediazione della risposta infiammatoria; al contrario, il recettore p75 interviene principalmente nel sopprimere la risposta infiammatoria TNFα -mediata. Entrambi invece sono coinvolti nella permeabilità vascolare TNFα -indotta. Recettori solubili per il TNF-α, IL-1 e IL-6 sono presenti negli individui sani, ma i loro livelli aumentano nel corso di malattie infiammatorie, presumibilmente per neutralizzare l'eccesso di citochine.

Nel ruolo di mediatore primario dell’infiammazione, come accennato precedentemente, il TNF-α promuove il reclutamento dei leucociti dal circolo ai tessuti mediante la produzione di chemochine (citochine coinvolte principalmente nella promozione della migrazione dei leucociti) quali l’IL-8, la proteina chemotattica per i monociti e l’interferone-γ stimolando in tal modo un aumento dell’espressione di molecole di adesione a livello delle cellule endoteliali e dei cheratinociti. Il reclutamento dei leucociti è accompagnato da un aumento della permeabilità vascolare che consente alle macromolecole presenti nel plasma, quali il fibrinogeno, le immunoglobuline e il complemento, di raggiungere il sito di infiammazione. Il TNF-α modula anche la comunicazione tra le cellule T e l’endotelio vascolare; stimola inoltre la produzione di altre citochine pro-infiammatorie quali IL-1, IL-5, IL-6 e il fattore di crescita trasformante.

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La sintesi del TNF-α, così come di altre citochine, è rigorosamente regolata per evitare che le risposte immunologiche diventino persistenti poiché l'infiammazione cronica e quindi la produzione continua di proteasi e di specie reattive dell'ossigeno possono essere causa di danno tissutale.

Bassi livelli di TNF-α sono comunque prodotti dai macrofagi tissutali in condizioni fisiologiche intervenendo nel mantenimento dell’omeostasi cellulare e tissutale. In determinate condizioni patologiche si determinano perturbazioni nella produzione di citochine e nel caso specifico del TNF-α la sua sintesi continua e persistente in una determinata sede può contribuire allo sviluppo di malattie infiammatorie croniche tra cui appunto la psoriasi, l’artrite psoriasica e l’artrite reumatoide [33, 34].

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IL

TNF-α

E L’ARTRITE PSORIASICA

Prove sostanziali suggeriscono che il TNF-α giochi un ruolo fondamentale

nella patogenesi della psoriasi e della AP. Nei pazienti con psoriasi si sono riscontrati livelli più elevati di TNF-α a livello delle lesioni cutanee, rispetto a soggetti sani. Sono stati rilevati elevati livelli di TNF-α anche nel liquido

sinoviale di pazienti con AP [35]. Si è osservato inoltre che la produzione di

TNF-α in pazienti con psoriasi attiva si correla positivamente con la gravità

del quadro clinico. Tuttavia la prova più convincente dell'implicazione del

TNF-α nella patogenesi sia della psoriasi che della AP deriva dalla capacità

degli antagonisti del TNF-α di controllare i sintomi della malattia.

La sintesi e il rilascio del TNF-α e di altri fattori pro infiammatori rilasciati

dai mastociti e dai cheratinociti dell’epidermide sono i primi eventi che si

verificano durante i processi infiammatori. Nella psoriasi e nella AP il TNF-α

può indurre una miriade di risposte cellulari grazie alla eterogeneità strutturale e funzionale dei suoi recettori.

Tale citochina, come precedentemente descritto, avvia il processo infiammatorio stimolando l'espressione dei recettori di adesione sulle cellule endoteliali e sui cheratinociti, promuovendo così l'infiltrazione delle cellule infiammatorie a livello tissutale. Tutto ciò quindi si verificherebbe in caso di psoriasi e AP considerando gli elevati livelli di TNF-α riscontrati in questi

pazienti. L’induzione dell'espressione dei recettori di adesione a livello delle

cellule vascolari endoteliali e dei cheratinociti è un passo fondamentale nel processo infiammatorio perché questi recettori facilitano il rolling, l'adesione e la migrazione delle cellule infiammatorie dal sangue periferico ai tessuti. L'infiltrato infiammatorio che ritroviamo nella membrana sinoviale dei pazienti con AP e a livello delle lesioni psoriasiche è costituito principalmente da leucociti attivati (linfociti T CD4 + e CD8 +, macrofagi e neutrofili), che mediano il danno tissutale grazie alla produzione di proteasi e specie reattive

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dell’ossigeno. Oltre ad avviare il processo dell'infiammazione, il TNF-α può anche agire in sinergia con altre citochine (INF- γ, IL-1 e IL-6) mantenendo così la risposta immunitaria che perpetua a sua volta il danno sia a livello cutaneo che articolare [35, 36].

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GLI INIBITORI DEL TNF-α

Gli inibitori del TNF-α sono prodotti biotecnologici cioè proteine prodotte con la tecnologia del DNA ricombinante e dell’ingegneria genetica in sistemi cellulari in vitro.

Tali farmaci sono entrati nella pratica clinica alla fine degli anni novanta e hanno profondamente cambiato l’approccio terapeutico di malattie infiammatorie croniche in cui il TNF-α gioca un ruolo importante (per es. psoriasi, AP e malattie infiammatorie intestinali) [37]. Gli inibitori del TNF-α sono efficaci a livello articolare e cutaneo e nel trattamento della entesite e della dattilite inibendo il danno strutturale e migliorando significativamente la funzione e la qualità della vita di questi pazienti con un buon profilo di sicurezza a lungo termine [35, 38].

I principali inibitori del TNF-α sono attualmente 5, di cui solo tre sono completi anticorpi monoclonali:

-INFLIXIMAB (Remicade): è stato il primo farmaco di questa classe utilizzato nella pratica clinica (indicazioni terapeutiche: AR, AP, SA, psoriasi, colite ulcerosa, m. di Crohn). E’ un anticorpo monoclonale chimerico (75% umano – 25% murino) in particolare la regione variabile (binding site) per il TNF-α è murina ed è legata al dominio costante di una catena pesante di tipo IgG1K. Si lega sia alla forma circolante libera che alla forma legata alla membrana, formando complessi stabili che ne neutralizzano gli effetti [39]. Il farmaco è immunogeno per cui può indurre anticorpi anti chimerici (HACA) circa nel 4-40% dei casi; la loro presenza viene ridotta dall’aggiunta alla terapia di methotrexate (MTX). Tali anticorpi non sembrano modificare l’efficacia del farmaco a breve termine poichè presenti in quantità molto limitate, al contrario sembra che possano essere causa di inefficacia nell’uso prolungato e/o di eventi avversi quali in particolare le reazioni infusionali [40, 41, 42, 43]. Viene somministrato per via endovenosa alla dose di 3-5mg/kg

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praticate ogni 4-8 settimane, in funzione del tipo di patologia e della sua attività.

-ADALIMUMAB (Humira): è il primo anticorpo completamente umanizzato di questa categoria impiegato nella terapia dell’AR, dell’AP, della SA, della SpA assiale pre-radiografica, della psoriasi, del m. di Crohn e della colite ulcerosa. E’ una proteina (IgG1K) di 148 Kd ad alta affinità solo per il TNF-α. Anticorpi anti-adalimumab, inversamente correlati con l'efficacia [44, 45], sono stati rilevati in una percentuale variabile di soggetti trattati (fino al 28%). Utilizzabile sia in monoterapia che in associazione con MTX. La somministrazione avviene con iniezioni sottocute di 1 fiala di 40mg ogni 7-14 giorni in funzione della patologia e della sua attività.

-GOLIMUMAB (Simponi): è uno dei più recenti anticorpi umanizzati di questa categoria, è una proteina IgG1 di 150Kd. Indicazioni terapeutiche: AR, AP, SA e colite ulcerosa. Non sono noti dati di immunogenicità. La somministrazione avviene con iniezioni sottocute di 1 fl da 50mg ogni 4 settimane.

Le ultime due molecole di questa gruppo si distinguono per la loro struttura: -ETANERCEPT (Enbrel): è una proteina di fusione ricombinante costituita da due domini extracellulari del recettore TNF-RII (p75), legati alla porzione Fc dell’IgG1. Agisce sia bloccando il TNF-α che la linfotossina α, con un’affinità 50-1000 volte superiore rispetto al recettore fisiologico [46], causando anche una riduzione delle cellule B di memoria. Si lega preferenzialmente alla forma solubile del TNF-α. Essendo una proteina umana ha una scarsa immunogenicità, tuttavia nel 1-18% dei casi sono stati trovati anticorpi anti-etanercept tutti non neutralizzanti e quindi non interferenti sull'efficacia [47]. Altra sostanziale differenza è la scarsa capacità di indurre apoptosi; pertanto da un lato ha il minor rischio di riattivazione tubercolare (3-4 volte minore di infliximab), ma al contrario non è efficace in

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alcuni tipi di patologie croniche (es. m di Crohn). Indicazioni terapeutiche: AR, AP, SA, psoriasi.

La somministrazione attuale più comune è per iniezione sottocute di una fiala da 50mg una volta la settimana.

-CERTOLIZUMAB (Cimzia): è un frammento anticorpale Fab umanizzato di 95Kd, coniugato ad un gruppo PEG (polyethylene glycol), che ha la funzione di aumentarne l’emivita. Lega l’anti TNF-α in rapporto univalente. E’ l’unico biologico ad essere prodotto da un batterio (E. Coli). Incapace di indurre apoptosi cellulare. Non sono noti dati sull’immunogenicità. Utilizzabile sia in monoterapia che in associazione con MTX. La somministrazione avviene sottocute con 1 fl di 40 mg ogni 14 gg. Indicazioni terapeutiche: AR, AP, SA e SpA assiale pre-radiografica.

EFFETTI COLLATERALI E PRECAUZIONI D’USO

I farmaci biologici sono generalmente ben tollerati ma deve essere considerato il rischio di eventi avversi (EA).

Infezioni: il TNF-α svolge un ruolo fondamentale nella difesa immunitaria

verso virus e batteri, in modo particolare nel reclutamento di neutrofili e macrofagi. Il rischio di infezioni durante terapia con anti-TNF α è quindi potenzialmente più elevato rispetto alla popolazione generale, tuttavia il tasso di infezioni rilevato nei trials clinici dei tre principali inibitori non è risultato significativamente aumentato rispetto al gruppo placebo [48].

Le più comuni infezioni riportate sono quelle delle vie respiratorie superiori (sinusiti e faringiti) e le cutanee, in circa 1/3 dei pazienti.

Sebbene la maggioranza siano infezioni con remissione spontanea e/o di breve durata, sono riportate fino al 5% dei casi infezioni particolarmente

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pericolose soprattutto nei primi 6 mesi di terapia, in caso di età >60aa, uso di steroidi, comorbidità associate.

Tubercolosi (TBC): nel periodo 1998-2002 sono stati riportati 144 casi su

100.000 pazienti in infliximab (INF) e 35 casi su 100.000 pazienti in etanercept (ETA) [49]. La maggioranza sono riaccensioni di infezioni latenti e fino al 50% dei casi sono extrapolmonari. L'introduzione dal 2002 dello screening per la TBC ha comportato una notevole riduzione di tali manifestazioni. Il periodo di maggiore rischio è risultato nelle prime 12 settimane di trattamento per INF, le prime 30 settimane per adalimumab (ADA), i primi 11 mesi per ETA.

Altre infezioni batteriche: i più comuni agenti riportati sono Listeria

monocytogenes, Salmonella species, Brucella species, Bartonella species. Inoltre sono stati descritti casi di sepsi da Streptococco beta emolitico di gruppo A e da Stafilococco Aureus ed infezioni opportunistiche varie (da Histoplasma capsulatum, Coccidiodes immitis, Pneumocystis carinii, Cryptococcus neoformans, Candida species, Nocardia species,Toxoplasma species, Citomegalovirus [50].

Per quanto concerne invece la presenza di una infezione da virus dell’epatite B (HBV), poiché il TNF-α svolge un ruolo nella clearance dell’HBV dagli epatociti infetti, la terapia con antagonisti della citochina potrebbe determinare un effetto promuovente la replicazione virale. L’infezione attiva costituisce, quindi, una controindicazione alla terapia con anti-TNFα mentre, nel caso di portatore cronico inattivo, il paziente deve iniziare la terapia profilattica antivirale da proseguire per tutta la durate del trattamento e fino a 12 mesi dopo l’eventuale sospensione del farmaco biologico per non incorrere nel rischio di riattivazione virale, fenomeno potenzialmente riscontrabile al ripristino dell’immunocompetenza. La sola positività dell’anti-HBc, segno di pregressa infezione, non sembra esporre il paziente trattato con

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iniziare terapia profilattica antivirale, ma è sufficiente uno stretto monitoraggio dello stato virale e degli enzimi epatici.

Infine, per quanto riguarda il trattamento dell’artrite in pazienti con infezione da virus dell’epatite C (HCV), la terapia con anti TNF-α, deve essere presa in considerazione, in stretta collaborazione con l’epatologo, solo nel caso in cui il problema HCV sia ben controllato, eventualmente raccomandando il trattamento antivirale (interferone-alfa + ribavirina) ed attuando uno stretto monitoraggio clinico-sierologico e virologico [51].

Reazioni infusionali: nel caso di INF tali reazioni si manifestano entro 2 ore

dall'infusione. Si verificano in circa il 22% dei casi e sono caratterizzate da flushing, brividi, febbre e nell’1% dei casi da sintomi maggiori quali vomito, dolore toracico, ipotensione, dispnea, prurito, orticaria. Tali reazioni, sono generalmente transitorie, lievi e rispondono all’uso di anti-istaminici e paracetamolo. Sono riportate anche gravi reazioni anafilattiche con convulsioni, ipotensione e rash che rispondono all’adrenalina e agli steroidi. Per ETA sono descritti in circa il 30% dei casi episodi di lieve eritema, di solito localizzato sulla cute nella sede di iniezione e non accompagnato da reazioni di ipersensibilità [52]. Con ADA episodi simili sono stati riportati nel 21% dei casi.

Ad oggi la terapia con i vari farmaci biologici non sembra associata ad un rischio di sviluppare neoplasie diverso rispetto alla popolazione di pazienti con artropatie croniche. Deve essere comunque esercitata una particolare cautela nell’uso dei biologici in pazienti con storia di neoplasia maligna. Rari casi di malattie demielinizzanti del sistema nervoso centrale o periferico, quali sclerosi multipla, neurite ottica, mielite trasversa acuta e neuropatie periferiche, sono state segnalate in pazienti trattati con anti-TNFα. La sintomatologia neurologica compare normalmente entro 5-8 mesi dall’uso del farmaco e tende a risolversi totalmente o parzialmente in seguito alla

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sospensione della terapia e a trattamento con corticosteroidi e immunoglobuline ad alto dosaggio.

E’ ormai noto che è possibile osservare lo sviluppo di una risposta autoimmune in corso di terapia con anti-TNFα e in particolare con INF. Le situazioni che si possono verificare sono molto eterogenee, andando dal riscontro di pure alterazioni laboratoristiche (anticorpi anti-nucleo, anti-DNA e anti-fosfolipidi), non correlate ad una specifica espressione clinica, sino all’insorgenza, seppur rara, di patologia autoimmune sistemica definita (lupus da farmaci, vasculiti, dermatiti). In quest’ultimo caso, le manifestazioni cliniche più frequenti sono febbre, ipertensione, pleurite, pericardite, eritemi cutanei e artromialgie (sindrome lupus-like) mentre il coinvolgimento viscerale rappresenta un evento più raro.

La sola presenza di alterazioni dei test di laboratorio non impone la sospensione del farmaco biologico, mentre tale soluzione deve essere adottata all’insorgere di manifestazioni cliniche riconducibili ad una sindrome lupus-like o ad una patologia autoimmune definita.

E’ inoltre da sottolineare che l’uso dei biologici è controindicato nello scompenso cardiaco da moderato a grave (classe NYHA III e IV) e nei pazienti con gravi infezioni come sepsi e infezioni opportunistiche e in tal caso la terapia non deve essere iniziata. I pazienti in trattamento con tali farmaci devono essere sottoposti a test per le infezioni prima, durante e dopo il trattamento tenendo presente che la diagnosi può essere spesso tardiva a causa di una comparsa insidiosa o atipica. Se il paziente sviluppa un’infezione grave, il trattamento deve essere sospeso fino a quando l’infezione non è stata risolta.

Circa l’uso dei biologici durante gravidanza e l’allattamento e i loro possibili effetti sul feto abbiamo a disposizione scarsi dati. È perciò sconsigliato l’uso di biologici sia durante la gravidanza che durante l’allattamento [53, 54].

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GLI INIBITORI DEL TNF-ALFA NELL’ARTRITE PSORIASICA:

PERSISTENZA, SICUREZZA ED EFFICACIA. DATI DELLA

LETTERATURA

Ad oggi tutti gli anti-TNFα disponibili hanno l’indicazione per il trattamento della AP.

Numerosi sono gli studi clinici condotti sulla efficacia, persistenza e sicurezza di questi farmaci utilizzati sia in monoterapia che in combinazione con i

Disease-Modifying Antirheumatic Drugs (DMARDs) tradizionali

(prevalentemente MTX). Non sono ancora disponibili studi testa a testa che confrontino i singoli farmaci. Tuttavia i risultati di metanalisi e/o studi di compliance nella pratica clinica non mostrano sostanziali differenze di efficacia tra le diverse molecole descritte nelle più comuni artriti.

Secondo le raccomandazioni EULAR (European League Against

Rheumatism) del 2011 gli inibitori del TNF-α sono indicati nei pazienti con

AP nei quali i DMARDs sintetici hanno fallito (dopo 3-6 mesi di terapia) o non sono stati tollerati [55].Gli anti-TNFα hanno dimostrato di essere efficaci nel trattamento della AP sia dal punto di vista cutaneo che articolare [56, 57, 58].

Dai trials sugli anti-TNFα in AP emerge che la terapia di combinazione (anti-TNFα associato a DMRDs) e la monoterapia (solo anti-(anti-TNFα) ottengono risultati comparabili.

Riguardo alla sicurezza degli anti-TNFα, in AP c’è sicuramente una minore disponibilità di dati rispetto a quanto abbiamo per l’AR, sicuramente meno dati per quanto riguarda il rischio di infezione. A oggi, dai risultati degli studi, sembra che gli anti-TNFα presentino un profilo di sicurezza simile sia nella AP che nella psoriasi con riguardo agli eventi avversi seri; il rischio assoluto di infezioni e neoplasie sono invece con molta probabilità più bassi che nella AR, ciò è verosimilmente dovuto alla differente fisiopatologia che sottende ai due quadri di malattia.

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Nei pazienti con prevalente impegno entesitico o dattilitico la terapia con anti-TNFα può essere presa in considerazione dopo il fallimento della terapia con FANS e con steroidi per infiltrazione locale a causa della non provata efficacia dei DMARDs su questo aspetto della malattia. L’efficacia degli anti-TNFα su queste manifestazioni della AP è stata riportata in diversi trials generalmente come endpoint secondario [59]. Come per i pazienti con SA, nei pazienti con AP con prevalente impegno assiale la terapia con anticorpi monoclonali può essere intrapresa anche senza una precedente terapia con DMARDs.

Una delle principali differenze tra l’uso degli anti-TNFα in AP e in AR è che nella AP questi farmaci possono essere somministrati in monoterapia. Ci sono tuttavia degli studi osservazionali che mostrano una maggiore persistenza nella terapia di combinazione rispetto alla somministrazione in monoterapia [60]. In un recente studio francese è stato valutato l’uso in “real life” degli anti-TNFα in AP con un follow-up di 10 anni. E’ emerso che ADA, INF ed ETA non mostrano sostanziali differenze sulla persistenza in terapia quando somministrati come prima, seconda e terza linea terapeutica dimostrando anche una soddisfacente percentuale di risposta a 3 mesi (il 90% dei pazienti era considerato responders e quindi continuava la terapia). Tra i fattori predittivi di sospensione della terapia sono stati evidenziati il fumo di sigaretta e un’anamnesi positiva per malattia cardiovascolare. Invece, la terapia di combinazione con DMARDs ridurrebbe la frequenza di sospensione per eventi avversi ma non sembra interferire con la discontinuazione per inefficacia. Tuttavia, in termini di efficacia a 6 mesi, si è osservato che tra i pazienti che assumevano gli anti-TNFα in monoterapia e quelli che invece seguivano la terapia di combinazione (anti-TNFα associato ad un DMARD) non c’erano significative differenze [61, 62, 63, 64].

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forma da moderata a grave, con un’inadeguata risposta alla terapia con FANS e DMARDs, è stata valutata l’efficacia e la sicurezza di ADA (somministrato alla dose di 40 mg/ 2 settimane) a 24 settimane, in comparazione con un gruppo di controllo. Lo studio ADEPT ha dimostrato che ADA era più efficace del placebo nel migliorare la sintomatologia articolare già a partire dalla seconda settimana di trattamento, e alla dodicesima settimana il 58% dei pazienti del braccio ADA otteneva una risposta ACR20 mentre solo il 14% dei pazienti del gruppo placebo riportava tale risultato. Inoltre, ADA si è mostrato efficace anche nell’inibire la progressione radiografica della malattia (Sharp score), nel migliorare significativamente la disabilità dei pazienti (misurata mediante HAQ DI) e nel ridurre l’estensione della psoriasi con una risposta PASI75 alla settimana 24 nel 59% dei pazienti trattati. Alla settimana 24 il 57% dei pazienti del gruppo ADA manteneva una risposta ACR 20 e solo il 15% dei pazienti che assumevano placebo raggiungevano questo risultato. Dal punto di vista della sicurezza ADA è stato ben tollerato nel corso delle 24 settimane con un’incidenza di eventi avversi simile a quella del gruppo di controllo. La percentuale di reazioni avverse e gravi effetti indesiderati inoltre è risultata comparabile a quella osservata negli studi clinici eseguiti su pazienti con AR [65].

Il trial è stato successivamente esteso a 48 settimane (in aperto) coinvolgendo tutti i pazienti che avevano completato le 24 settimane in ADEPT e rivalutando efficacia e sicurezza di ADA a lungo termine anche nei soggetti che avevano ricevuto inizialmente placebo. I risultati ottenuti hanno confermato l’efficacia clinica e radiografica di ADA stabilendo che questa azione si mantiene a 48 settimane. Inoltre è stato osservato che le risposte ACR e PASI erano simili sia alla settimana 24 che alla settimana 48 indipendentemente dal fatto che i pazienti assumessero MTX o meno; ciò dimostra quindi che l’efficacia di ADA è mantenuta dopo 48 settimane sia in monoterapia che in combinazione con MTX [66]. Ad oggi l’efficacia di ADA

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si mantiene fino a 144 settimane di trattamento con assenza di progressione radiografica [67].

Ulteriori studi sono stati condotti per valutare la persistenza in terapia con ADA nei pazienti con AP. Lo studio di Saad et al. del 2009 ha mostrato che la persistenza della terapia con anti-TNFα (ADA, ETA e INF) era del 75,5% a un anno. Da questo trial è emerso inoltre che i pazienti in terapia con INF presentavano una maggiore percentuale di discontinuazione del farmaco per EA seri rispetto a quelli in terapia con ETA o ADA.

Concludendo, è bene dire che nella AP nessun anti-TNFα si è dimostrato più efficace di altri; la scelta dovrebbe essere posta anche in accordo con le preferenze del paziente. E’ importante comunque sottolineare che tale scelta dovrebbe essere guidata, in caso di comorbidità specifiche, anche dalle indicazioni terapeutiche che i differenti anti-TNFα hanno, così, nel caso di associata malattia infiammatoria intestinale la terapia più indicata potrebbe essere quella con INF o ADA, mentre nei pazienti con un maggior rischio di sviluppare TBC si dovrebbe preferire ETA che presenta un rischio più basso di indurre TBC rispetto agli altri anti-TNFα. Inoltre, nei casi di uveite in pazienti con AP è suggerita la terapia con anticorpi monoclonali (INF o ADA) anziché ETA per la maggiore frequenza di uveiti in corso di terapia con la proteina di fusione [57, 68, 69, 70].

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SCOPO DELLO STUDIO

L’obiettivo del nostro studio è di valutare la persistenza in terapia con ADA nei pazienti affetti da AP seguiti presso la UO di Reumatologia di Pisa, confrontando i risultati con i dati della letteratura.

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MATERIALI E METODI

Abbiamo condotto un’analisi osservazionale, retrospettiva, monocentrica di cartelle cliniche di pazienti affetti da AP trattati con ADA afferenti presso la UO di Reumatologia di Pisa (sia presso il Day Hospital che gli ambulatori). La diagnosi di AP era posta sulla base dei criteri CASPAR.

Sono stati inclusi nello studio tutti i pazienti che hanno assunto almeno una dose di ADA.

Sono stati raccolti, in un database, i dati demografici e clinici dei pazienti (Tabella III), segnalate le cause di sospensione della terapia (Tabella IV), l’eventuale terapia di combinazione con DMARDs e la durata in mesi del trattamento con ADA.

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RISULTATI

Dall’analisi delle cartelle ambulatoriali e del servizio di Day Hospital sono emersi 83 pazienti che hanno assunto almeno una dose di ADA per il trattamento dell’AP.

I dati demografici e clinici (durata di malattia, terapia attuale e precedente) dei pazienti sono riportati in Tabella III.

Ventotto di questi pazienti afferiscono direttamente al servizio ambulatoriale rivolto alla cura delle SpA (ambulatorio esistente da circa vent’anni) dove sono coinvolti due medici strutturati e un medico in formazione specialistica. Degli 83 pazienti in terapia con ADA, 24 hanno sospeso la terapia per varie cause (Tabella IV).

Il 79,5% dei nostri pazienti ha assunto ADA per almeno 12 mesi, il 66,2% per almeno 24 mesi e infine il 48,2% per almeno 36 mesi. Tale dato ha scarso significato in quanto proviene da una valutazione cross-sectional che non fornisce indicazioni circa la reale persistenza in terapia che, infatti, è determinata non soltanto dal numero di pazienti che hanno sospeso l’assunzione del farmaco per un qualunque motivo, ma anche dal fatto che alcuni pazienti, semplicemente, hanno iniziato la terapia da un minor numero di mesi rispetto al limite temporale che si vuol prendere in considerazione di volta in volta. Eliminando quindi i pazienti che non possono aver raggiunto un determinato numero di mesi di terapia (ma tenendo presenti quelli che invece la terapia l’hanno sospesa), risulta che la persistenza in terapia con ADA, nei nostri pazienti, è pari all’86,8% a 12 mesi, all’82,3% 24 mesi e al 67,8% a 36 mesi (Tabella V).

Nell’analisi dei dati abbiamo distinto i pazienti che assumevano ADA in monoterapia (in accordo con quanto riportato sul foglietto illustrativo) dal gruppo di quelli che lo facevano in combinazione con DMARDs

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(indipendentemente da quale esso fosse). La differenza di persistenza in terapia a 12, 24 e 36 mesi tra questi due gruppi non è risultata statisticamente significativa (con un trend alla significatività a 24 mesi in favore della terapia di combinazione (vedi Tabella V). I pazienti in monoterapia, in accordo con quanto riportato sul foglietto illustrativo, risultavano essere circa il doppio di quelli in terapia di combinazione.

Risulta interessante il fatto che il tasso di abbandono (seppur limitato) della terapia in tutti e tre i periodi esaminati, sia maggiore nel gruppo in monoterapia (qualunque sia stato l’evento avverso verificatosi, comprese le infezioni) e come, in questo, i primi mesi di terapia costituiscano il periodo più a rischio.

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DISCUSSIONE

Il nostro studio ci ha permesso di dimostrare che la persistenza in terapia con ADA, in una coorte di 83 pazienti affetti da AP afferenti ad un unico centro, è favorevole con un valore pari all’86,8% a 12 mesi, all’82,3% 24 mesi e al 67,8% a 36 mesi. Tale risultato, ottenuto da uno studio osservazionale, retrospettivo, monocentrico, è particolarmente soddisfacente in quanto i dati che ne emergono mostrano una maggiore persistenza della terapia con ADA rispetto agli studi condotti precedentemente.

Dallo studio di Saad et al. è emerso che in un gruppo di pazienti affetti da AP (n=566), con follow-up di 12 mesi (n=422), la persistenza in terapia con anti-TNFα risultava del 75,5%, non specificando però quale fosse per i tre differenti farmaci considerati (ADA, ETA e INF). Dallo studio possiamo soltanto ricavare l’informazione circa il numero iniziale di pazienti che assumevano ADA (n=88) [68].

Bonafede et al., nel 2013, hanno esaminato la terapia con ETA e ADA in pazienti con psoriasi, AP e con entrambe le patologie valutandone persistenza, periodo di sospensione, discontinuazione, switches e ripresa della terapia. Da questo lavoro è emerso che la persistenza della terapia con ADA nei pazienti con AP (n=1197) era del 63,3% a 12 mesi quindi minore rispetto ai dati emersi dal nostro centro (simile invece a quella con ETA che era del 60,7%). In questo caso inoltre, non veniva valutata la persistenza separatamente per monoterapia o terapia di combinazione [71].

Uno studio simile, per variabili considerate, era già stato pubblicato da Chastek et al. nel 2012; in tale lavoro erano considerati 346 pazienti con AP trattati con ETA (n=202) e ADA (n=144). Dopo 12 mesi di terapia soltanto la metà circa dei pazienti continuava la terapia iniziale (ETA=50%; ADA=45%). In questa casistica i pazienti che assumevano ETA presentavano

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un maggior numero di interruzioni parziali di assunzione del farmaco, nel corso del trattamento, rispetto a quelli in terapia con ADA. Infine, la percentuale dei pazienti con una interruzione di almeno 60 giorni risultava particolarmente alta (65,3% e 61,9% rispettivamente per ADA ed ETA) anche se il 40% di questi pazienti era poi in grado di riprendere la terapia iniziale [72].

Recentemente Fabbroni et al. hanno condotto un’analisi osservazionale, retrospettiva di pazienti affetti da SA e AP in terapia con un anti-TNFα tra ADA, ETA e INF per valutarne la persistenza. In questo studio, condotto su un totale di 268 pazienti, 213 erano affetti da AP e di questi solo 58 soggetti assumevano ADA (115 assumevano ETA e 40 INF). In totale (AP+SA) i pazienti in terapia con ADA erano 64 e la loro durata media in terapia (senza interruzioni) era di 16,5 mesi. Dallo studio sono emerse inoltre differenze statisticamente significative per quanto riguarda la durata della terapia con anti-TNFα nei pazienti con SA e AP; in generale i soggetti affetti da SA mostravano una maggiore persistenza in terapia rispetto ai pazienti con AP. Infine, più del 25% dei pazienti assumeva terapia di combinazione con DMARD ma ciò non sembra interferire con la durata della terapia con anti-TNFα (come confermato da altri studi) [73].

Dal confronto invece tra i pazienti in monoterapia e quelli in terapia di combinazione con DMARDs non è emersa nessuna differenza statisticamente significativa sulla persistenza in terapia anche se il tasso di sospensione della terapia è maggiore nel gruppo in monoterapia.

Vista la scarsità dei dati pubblicati su questo argomento, possiamo guardare anche il lavoro di Jobanputra et al. che, studiando pazienti con AR attiva (n=120), nel 2012, ha confrontato l’efficacia di ADA ed ETA dimostrando la non inferiorità di ADA. Tale risultato veniva confermato anche per la persistenza in terapia a 52 e a 104 settimane, che risultava essere del 65% e

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tutti i partecipanti allo studio assumevano terapia di combinazione con DMARD [74].

Un dato interessante che è emerso dal nostro studio è infine il fatto che, osservando le cause di sospensione della terapia (Tab. IV), la causa principale sia la ridotta efficacia clinica sull’AP e che questa si riscontri dopo un periodo di trattamento sostanzialmente superiore ai 12 mesi, dato che quindi non sembrerebbe influire con la persistenza a un anno di terapia, ma che invece può interessare quella a periodi più lunghi.

Concludendo possiamo quindi confermare che la nostra percentuale di permanenza in terapia risulta maggiore di quanto riportato dagli altri autori. Quale sia la spiegazione per questo risultato non è semplice da capire in quanto gli studi non sono perfettamente comparabili tra loro, tuttavia è probabile che possa essere da correlare con le dimensioni del campione di pazienti preso in esame che risulta più ampio rispetto a quelli valutati in studi precedenti, considerando anche il fatto che lo studio è stato condotto in un setting reumatologico dove sicuramente viene posta una maggiore attenzione nella selezione dei pazienti da trattare e nel valutare i possibili effetti collaterali derivanti da tale terapia. È possibile che presso il nostro centro vi sia una particolare attenzione nell’istruire e responsabilizzare il paziente che viene sottoposto a terapie immunosoppressive in modo da renderlo il più possibile autonomo nel gestire situazioni cliniche di minore gravità o comunque nel comprendere quale sia il corretto atteggiamento terapeutico da tenere. In tal modo si incorre sicuramente in una minore percentuale di casi di abbandono della terapia.

Naturalmente tutto ciò non può essere dimostrato in modo obiettivo (non esistono questionari o altro che possano oggettivare tale ipotesi) ma, vista la notevole differenza con l’esistente letteratura, è presumibile che trattandosi di popolazioni sostanzialmente omogenee per malattia e sintomi, l’unica differenza stia nel rapporto medico/paziente. Tale aspetto, di particolare

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interesse, potrebbe quindi esser fonte di studio futuro per ottimizzare la terapia dei pazienti con AP.

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CONCLUSIONI

Il nostro studio ci ha permesso quindi di dimostrare che la persistenza in terapia con ADA nei pazienti affetti da AP seguiti presso il nostro centro è favorevole. In particolare, risulta maggiore la percentuale di persistenza in terapia rispetto a studi condotti da altri centri.

Un dato che è emerso da questo lavoro è che un maggior numero di pazienti ha sospeso la terapia per ridotta efficacia sull’AP che comunque si riscontra dopo un periodo di trattamento di almeno 12 mesi e quindi sembrerebbe non interferire con il dato “persistenza”.

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Tabella I: Criteri CASPAR (ClASsification of Prosiatic ARthritis) per la classificazione dell’artrite psoriasica.

Criterio obbligatorio: malattia infiammatoria articolare (interessante articolazioni, entesi o rachide)

1. Psoriasi: corrente (score 2), storia pregressa di psoriasi (score 1) o familiarità (score 1);

2. Distrofia ungueale (score 1);

3. Fattore reumatoide negativo (score 1);

4. Dattilite: corrente (score 1) o storia di dattilite (score 1);

5. Radiografia (mani o piedi) con evidenza radiologica di proliferazione ossea (score 1).

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Tabella II: possibili eventi avversi correlati ad Adalimumab

HUMIRA

INFEZIONI

Alte e basse vie respiratorie, sepsi, candidosi,gastroenterite virale, herpes simplex e zoster, infezioni delle vie urinarie

PATOLOGIE SIST. EMOLINFOPOIETICO

Leucopenia (neutropenia, agranulocitosi), anemia, trombocitopenia, leucocitosi.

PATOLOGIE CARDIOVASCOLARI

Tachicardia, ipertensione, vampate, ematoma

PATOLOGIE DEL SNC Cefalea, parestesie, emicrania, sciatica

PATOLOGIE RESPIRATORIE Tosse, asma, dispnea

PATOLOGIE

GASTROINTESTINALI ED EPATICHE

Dolore addominale, nausea, vomito, dispepsia, emorragia

gastrointestinale, reflusso gastroesofageo, sindrome sicca. Aumento degli enzimi epatici

PATOLOGIE DELLA CUTE E DEL SOTTOCUTANEO

Rash, prurito, orticaria, ecchimosi, dermatite, iperidrosi

PATOLOGIE DEL SISTEMA IMMUNITARIO

Produzione di autoanticorpi e sviluppo di sindrome lupus-simile

PATOLOGIE DEL SISTEMA MUSCOLOSCHELETRICO

Dolore muscoloscheletrico e spasmi muscolari

PATOLOGIE DEL SIST. URINARIO

Ematuria, insufficienza renale

ALTERAZIONI GENERALI E LEGATE AL SITO DI INIEZIONE

Vertigini, eritema e/o prurito, emorragia, dolore, edema

DISTURBI DEL METABOLISMO Iperlipemia, ipokaliemia, iperuricemia, iperglicemia, ipocalcemia DISTURBI PSICHIATRICI Disturbi dell’umore, ansia, insonnia

NEOPLASIE Carcinoma basocellulare e a cellule squamose. Rari tumore mammella,

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Tabella III: dati demografici e clinici dei pazienti studiati

M:F (N:N) 44:39

Età media all’esordio della malattia (anni; N±DS) 40.6±13.2 Durata media di malattia (mesi; N±DS) 144.3±74,9 Numero di DMARDs usati prima dell’anti-TNFa (N±DS) 2.2±1 Monoterapia con anti-TNFa:terapia di combinazione con anti-TNFa

(N:N) 52:31

DMARDs usati in terapia di combinazione (N) methotrexate leflunomide ciclosporina-A sulfosalazina idrossiclorochina 19 5 2 2 3

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Tabella IV: cause di sospensione della terapia con adalimumab

Numero di pazienti che hanno sospeso la terapia con adalimumab 24

Cause di interruzione nei singoli pazienti

ridotta efficacia sulla psoriasi cutanea

ridotta efficacia su psoriasi cutanea e artrite psoriasica ridotta efficacia sull’artrite psoriasica

ridotta efficacia sull’artrite psoriasica ed edema al volto decisione del paziente

ipercolesterolemia rettorragia

anemia

pleuropericardite

pleurite con tosse e febbre tosse produttiva

polmonite diverticolite

aumento transaminasi

alterazione del visus e parestesie gravidanza durata della terapia in mesi 34 4 e 74 6, 15, 16, 28, 30, 38, 50 1 26 24 1 12 4 76 3 3 5 4, 8 7 96

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Tabella V: persistenza in terapia Persistenza (mesi) Gruppo generale (%; N) Pazienti in monoterapia (%; N) Pazienti in terapia di combinazione (%; N) 12 mesi 86,8%; 76 86,5%; 50 88,9%; 26 24 mesi 82,3%; 68 79,2%; 47 85,7%; 21 36 mesi 67,8%; 59 68,3%; 41 66,7%; 18

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