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Il filosofo autodidatta in Ibn Tufayl e l' "autodidatta" di Gracián. (Fonti di ispirazione nella filosofia di al-Andalus)

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Indice

Introduzione 3

I. Ibn Tufayl 1. Ibn Tufayl: la vita, l’uomo 10

2. Le opere 14

3. Epistola di Hayy Ibn Yaqzan 18

4. Nota conclusiva su Ibn Tufayl e la sua opera 38

II. Diffusione in Spagna dell’Epistola di Hayy Ibn Yaqzan e possibile legame con l’opera di Baltasar Gracián y Morales 1. Contributo apportato da Marcelino Menéndez Pelayo nella diffusione del sapere di al – Andalus in Spagna 43

2. Le traduzioni dei testi arabi in Spagna e la loro circolazione dalla presa di Toledo ai tempi moderni 48

3. Baltasar Gracián y Morales, l’erudito aragonese 55

El Criticón 59

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III. Sull’impossibilità di dimostrare il legame tra l’opera di Ibn Tufayl e quella di Gracián

1. Emilio García Gómez, l’arabista spagnolo che cercò di dare una risposta al dilemma

della possibile influenza dell’Epistola di Ibn Tufayl, su El Criticón di Gracián 82

2. Storia dell’idolo, del re e di sua figlia 87

3. Studio di comparazione tra la “Storia dell’idolo e del re e di sua figlia” e l’”Epistola” 90

Premessa 90

Comparazione tra i due testi 91

4. El Criticón e La storia dell’idolo 104

IV. Rapporto tra l’ Epistola e El Criticón: due figure distinte di autodidatta nascono da premesse identiche 1. L’autodidatta non necessariamente diventa un “filosofo autodidatta” 112

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3 INTRODUZIONE

L’idea del tema trattato in queste pagine nasce dalla curiosità di conoscere più in profondità un pensatore arabo andaluso del XII secolo, Ibn Tufayl, forse più conosciuto come Abubacer o come “il maestro di Averroè”, spesso quasi dimenticato e, in particolar modo, la maggior opera che ci sia rimasta: l’Epistola di Hayy b. Yaqzan.

Questo suo romanzo filosofico, pionere nel suo genere, che ha influenzato scrittori e filosofi nel corso della storia, rappresenta un bel frutto del pensiero di al-Andalus che credo sia interessante provare ad analizzare in particolar modo in relazione a un altro romanzo filosofico, posteriore a lui di qualche secolo, El Criticón, del famoso moralista barocco spagnolo Baltasar Gracián y Morales, che con qualche probabilità scrisse tale opera ispirandosi, almeno per i primi due libri, proprio all’Epistola.

Scopo di questo lavoro, infatti, è provare a capire se, tra i due testi vi siano realmente relazioni,

sia da un punto di vista letterario che, soprattutto, da un punto di vista concettuale. Così come in passato sono state avanzate ipotesi su un collegamento tra il Robinson Crusoe di

Daniel Defoe e l’Epistola, qualche intuizione vi fu anche su El Criticón, ma, eccetto l’opera dell’arabista spagnolo Emilio García Gómez, che trattò questo tema nella sua tesi di dottorato, l’argomento non è stato trattato in modo approfondito.

Si prenderanno dunque in esame le singole opere e i loro autori, ci soffermeremo sul lavoro apportato da García Gómez e, infine, cercheremo di capire se realmente l’Epistola sia stata una fonte d’ispirazione per Gracián ed eventualmente in che modo.

Il primo capitolo è dedicato completamente a Ibn Tufayl e alla sua Epistola. Grazie alle fonti esistenti, e in particolare a quelle più aggiornate, messe a disposizione dalla Fundación Ibn Tufayl, un’ associazione istituita da alcuni professori di lingua e letteratura araba dell’Università di Almeria, siamo in possesso di varie notizie sulla vita del nostro filosofo, ma, soprattutto sulla sua produzione.

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Il capitolo si apre, dunque, presentando l’autore e immediatamente dopo le sue opere. È in questa sede che viene esposta l’Epistola, l’unica opera di Ibn Tufayl che ci sia pervenuta integralmente insieme alla Qaṣῑda politica.

L’Epistola, realizzata intorno all’anno 1180, è un’opera originale, nuova nel suo genere e per la filosofia araba andalusa, che necessita una lettura profonda o, riprendendo le parole della traduttrice italiana, Paola Carusi, da leggere a diversi livelli.

Ad una prima lettura, infatti, potrebbe sembrare una semplice novella in cui si narra la storia di un bambino, Hayy, abbandonato dalla madre o nato da generazione spontanea, che si trova a vivere e crescere da solo in un’isola deserta all’altezza dell’equatore, con l’unico aiuto, in una prima fase della vita, di una gazzella, che avendo perduto il proprio cucciolo, decide di prendersi cura di lui, spinta dal suo istinto materno. Crescendo imparara a sopravvivere, a procacciarsi il cibo e ha un’importante evoluzione interiore.

Ma solo successive letture più approfondite e meditate, possono portare il lettore a scoprire altri significati, ben più complessi e articolati rispetto a quello sopra proposto. Hayy potrebbe rappresentare l’intelletto umano, si tratterebbe quindi di un’analogia che si spinge ovviamente molto oltre la favola, in cui il bambino raffigurerebbe il percorso dell’intelletto dall’ignoranza alla scoperta e conoscenza della Verità. O, ancora, si potrebbe pensare all’incontro-scontro tra l’intelletto umano (Hayy), la religione rivelata (Asāl) e la comunità umana (Salāmān) (Carusi, 1983).

L’opera potrebbe nascondere, dietro l’apparente aspetto di leggenda, conoscenze e significati filosofici che l’autore probabilmente avrebbe occultato per timore di una censura o provvedimenti più gravi da parte degli alfaquí più ortodossi che perseguitavano scienziati e filosofi e che si preoccupavano di bruciare i libri che ritenevano insidiosi per la religione o per i loro interessi privati.

Durante la lettura ci si rende facilmente conto delle conoscenze scientifiche e filosofiche dell’autore e molto interessante risulta essere il personaggio principale, Hayy, personificazione

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di un autodidatta, che senza il minimo aiuto da parte di nessuno, se non della gazzella inizialmente, compie un importante percorso evolutivo personale, attraversando tutte le tappe della vita dell’uomo, sino a quella più elevata, l’incontro con il Divino, per convertirsi alla fine in un vero e proprio filosofo, capace di pensare ed elaborare pensieri metafisici. Hayy, è un autodidatta che si tramuta in filosofo, o per meglio dire, incarna esattamente la figura del “filosofo autodidatta”.

Il secondo capitolo, si occupa, in una prima parte, di fornire indicazioni sulla diffusione in Spagna dell’Epistola, su quali traduzioni della stessa si ebbero e sulla circolazione possa aver avuto in territorio iberico nel corso dei secoli. Grazie all’importante contributo di un erudito spagnolo, Marcelino Menéndez Pelayo, si ha un approfondimento sulla divulgazione del sapere arabo andaluso in Spagna.

Si cerca, inoltre, di offrire qualche dato sul panorama medievale delle traduzioni, come avvenissero, dove, quanto fu importante la vita intellettuale toledana e della “scuola di traduttori” di quella città.

Si ricerca in seguito cosa poté conoscere Gracián, circa cinquecento anni dopo la composizione dell’Epistola, entrando così, in una seconda parte del capitolo, in cui è presentato l’autore barocco e la sua opera, El Criticón. È qui che si gettano le basi per cercare di capire quale legame possa esserci tra quest’opera e l’Epistola, iniziando ad analizzare i suoi personaggi principali e la storia che, in generale, si delineerà poi diversa, soprattutto per quanto riguarda le finalità delle due opere.

Andrenio, il personaggio principale del racconto, è l’autodidatta di El Criticón, che per varie vicissitudini si ritrova sin da neonato a vivere in perfetta solitudine e armonia con la natura. Come nell’Epistola, in un secondo momento si aggiunge una nuova figura importante per lo svolgimento della storia, Asāl, lo stesso accade in El Criticón, con la venuta di Critilo. In entrambi i casi, il secondo personaggio rappresenta l’uomo che viene dalla società, che è cresciuto in una comunità umana e si è creato un proprio pensiero e le proprie idee sugli uomini

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in questo convivere con loro; in entrambi i casi i personaggi che sopraggiungono sono coloro che insegnano a parlare e a esprimersi agli autodidatti.

Il capitolo si conclude con un esame della posizione di uno studioso, colui che contribuì molto alla conoscenza in Spagna della filosofia araba andalusa, che per primo ebbe l’intuizione di un possibile legame tra lo scritto arabo andaluso e quello barocco e, infine, colui il quale reintrodusse l’Epistola nella sua terra natale dopo secoli, il già citato Marcelino Menéndez Pelayo: si riporta, in versione italiana, l’introduzione, da egli stesso scritta, alla prima traduzione in castigliano, all’Epistola, quella del 1900 effettuata dal suo allievo Pons Boigues.

Si passa così ad affrontare, nel terzo capitolo, la tesi di dottorato di Emilio García Gómez, “Un

cuento árabe, fuente común de Abentofáil y de Gracián”, come unica fonte che si occupi

totalmente della questione che propone il presente lavoro.

Il giovane arabista, incuriosito dalla stessa intuizione di Menéndez Pelayo, decide di affrontare il problema, ma proprio durante la ricerca di fonti necessarie per il suo lavoro, nella Biblioteca del Escorial, scopre un “nuovo” manoscritto, che diverrà per lui la chiave di volta della questione.

Si cerca di seguire il suo ragionamento, che si prefigge di dimostrare l’impossibilità di un legame tra Gracián e Tufayl, grazie a prove fornite dal terzo manoscritto rinvenuto, Storia di

Dulcarnain Abumarátsid l’Emiro e Storia dell’idolo e del re e di sua figlia.

L’arabista spagnolo presenta un interessante confronto tra i tre testi, riportando anche il terzo testo, che qui si propone in traduzione italiana, per poterlo meglio confrontare e con l’Epistola, e con El Criticón.

Cerca, infine, di dimostrare, presentando prove secondo lui sicure, il fatto che tale manoscritto del secolo XVI, in realtà non era altro che la copia di un altro molto più antico. La storia è, secondo quanto spiega García Gómez, un classico antico racconto folcloristico orientale, che forse lo stesso Tufayl conobbe e da cui anch’egli avrebbe potuto prendere spunto. Ritiene certo però che Gracián lo abbia usato come modello per la sua opera.

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Dopo questo lungo excursus tra le fonti, si è cercato nel quarto capitolo, di provare a offrire una soluzione al dilemma, che non ha la pretesa di esser esaustiva.

Nonostante la spiegazione di García Gómez per molti aspetti risulti interessante, non credo che risolva il problema pienamente. Infatti Un cuento arabe non si occupa molto del lato concettuale nelle ipotesi che propone, ma, si “limita” agli aspetti più formali, prettamente linguistici e letterali.

Dopo l’accurata analisi dei due testi principali, in cui in realtà, credo che vi siano molte più affinità di quante non ne voglia evidenziare García Gómez, è necessario capire, indipendentemente dal fatto che si accetti o meno l’influenza di Ibn Tufayl su Graciàn, quali tipi di somiglianze sostanziali vi siano nelle due opere, e, per la precisione, quali ve ne siano tra i due autodidatti, al di là delle descrizioni dei luoghi, delle persone che i due personaggi conosceranno nella loro vita, degli animali che inizialmente li salvarono. Che le finalità dei due scritti siano assolutamente diverse salta immediatamente agli occhi. Lo scritto di Tufayl si concentra su problemi metafisici, sul rapporto dell’uomo con Dio e della sua conoscenza attraverso la ragione o la fede, e si concentra su una determinata concezione di solitudine. Gracián ha fini totalmente distinti: leggendo El Criticón, si sente sin dal principio, a eccezione di un paio di passaggi, una certa assenza di Dio, l’assenza di una relazione tra l’uomo e il Divino; i fini mistici, la conoscenza del Divino e il suo possibile rapporto con l’uomo non sembrano esser al primo posto.

In quest’opera, che è morale e velatamente politica, lo scopo è quello di fare un’analisi e, di conseguenza, una critica alla società; si tratta in parte della società in cui vive l’autore, infatti si intravedono sottili riferimenti a fatti e personaggi della sua epoca, ma, anche e soprattutto, alla società umana in generale, alla comunità degli uomini in quanto tale, nel suo esistere e nel “male” congenito che si porta dietro, fuori da spazio e tempo.

Mi chiedo dunque, se sia possibile intravedere in questi due autodidatti o, in uno dei due, un modello di uomo naturale rousseauiano ante litteram.

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Sicuramente l’autodidatta di Tufayl non può esser considerato tale; Hayy è un autodidatta sui

generis, lo definisco un “autodidatta solingo”: è l’uomo che in perfetta solitudine, dall’inizio

alla fine, è in crescita, in costante evoluzione nel suo percorso spirituale. È l’uomo che grazie alle proprie capacità e ai propri sforzi riesce a superare ogni tipo di ostacolo, fisico o intellettuale che sia, che riesce a evolversi passando da fatti istintintivi come procacciarsi il cibo, conoscere il proprio corpo o coprirlo, a fatti pian piano più complessi come la scoperta del fuoco o l’invenzione di piccoli utensili; attraversando i primi stadi della conoscenza, grazie all’osservazione e alla sperimentazione empirica sugli animali o sulle cose e arrivando alla fine, a innalzarsi alla concezione di Dio, a condurre pratiche ascetiche che lo portano all’estasi spirituale e all’unione col Divino.

Grazie all’uso delle proprie forze e della ragione Hayy, nel corso della sua vita, si trasforma in un filosofo, alla fine dell’Epistola ci troviamo davanti a un filosofo autodidatta che ha raggiunto ogni livello del pensiero e gli stadi più sublimi della conoscenza di Dio solo grazie a se stesso. Non ha avuto bisogno di una società in cui vivere, con cui confrontarsi, a cui porre critiche. Hayy, ha un solo contatto con un gruppo umano, di brevissima durata, ma che in lui non apporta cambiamenti sostanziali, anzi. Abbandona subito la comunità per ritornare alla sua isola, per tornare a praticare i suoi esercizi di contemplazione e di ascèsi in una quasi perfetta solitudine.

Al contrario, l’autodidatta di Gracián presenta caratteristiche più assimilabili a quelle di un uomo naturale di stampo rousseauiano. Andrenio, come l’uomo naturale del Discorso sulla

disuguaglianza di Rousseau, ha un’evoluzione da autodidatta: è immerso nella natura ed è a

contatto solo con essa; è un essere limitato, anche se anch’egli arriva ad avere da solo un’intuizione del divino, ancor prima di conoscere altri esseri umani.

E ancora, Andrenio, come Emilio in Rousseau, si trova ad avere una guida, nonostante ciò avvenga solo in un secondo tempo e già in età adulta.

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Come accadrà nelle ipotesi rousseauiane, e accadeva al solitario di Ibn Bajja, nel suo El

Régimen del solitario, anche Andrenio, non potrà fare a meno della società degli uomini, non

sceglierà la vita solitaria. Nonostante il gruppo sociale presenti un’infinità di aspetti negativi, sia quasi sempre corrotto, troppo interessato a fini personali e beni materiali, nonostante la società non sia mai perfetta, questi personaggi non possono esimersi dal vivere in essa.

Andrenio, come Hayy è un autodidatta a tutti gli effetti; trovatosi neonato in un’ isola deserta, viene salvato e allevato da un animale, impara a sopravvivere da solo, con l’esperienza e l’osservazione apprende le leggi della natura, intuisce l’idea di un Creatore.

Ma, a differenza di Hayy, tutti questi fatti non risvegliano in lui nessuna sete di sapere, di superare limiti, di avvicinarsi alla conoscenza, al Divino, al desiderio di essere uno con il tutto. Andrenio è semplicemente un “autodidatta”, peraltro, in molte occasioni ingenuo, un po’ limitato nel modo di percepire il mondo, il quale ha bisogno di una guida che lo accompagni nel cammino della vita e di una società in cui vivere.

La grande differenza tra i due personaggi sta proprio in questo: Hayy è la bellissima e più sublime evoluzione dell’uomo, potrebbe simboleggiare il percorso dell’essere umano nelle sue varie tappe evolutive, o forse incarnare l’evoluzione dell’uomo-filosofo per eccellenza o, come accenna Paola Carusi, l’iter spirituale, filosofico e ascètico dello stesso Tufayl.

In ogni caso è la rappresentazione del massimo grado che può raggiungere l’intelletto umano senza bisogno di guida alcuna, e in perfetta armonia con la propria solitudine.

Andrenio, al contrario, non è niente di tutto ciò, non è quello che vuole per lui Gracián. È una persona normale, la quale parte dalle stesse basi di Hayy, per diventare però un membro della società, per scoprire il mondo degli uomini, ma senza la minima pretesa di innalzarsi sino a questioni metafisiche di nessun genere. Andrenio non vuole essere un filosofo, né restare un solitario tutta la vita: la società degli uomini che scopre con meraviglia verrà ad esser il suo nuovo mondo. Così la sua connotazione di autodidatta pian piano perde importanza, un po’, forse, come accade all’uomo naturale di Rousseau una volta deciso di voler far parte del gruppo,

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di voler intraprendere un nuovo cammino che porterà alla vita a contatto con gli altri uomini, con quella che sarà la società.

Andrenio, a differenza di Hayy, pur partendo dalle stesse identiche premesse e compiendo in parte un percorso individuale molto simile, non sarà mai un filosofo.

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11 Capitolo I – Ibn Tufayl

1. Ibn Tufayl: la vita, l’uomo.

Abu Bakr Muhammad b. ‘Abd Malik b. Muhammad b. Muhammad b. Tufayl al-Qaysi, conosciuto come Ibn Tufayl, Abu Ja‘far o, nell’Occidente latino, come Abubacer o Abubather, nacque, o almeno così si pensa, a Guadix, l’antica Wadi As, vicina a Granada, nei primi anni del XII secolo, giacché alcuni biografi gli attribuirono la nisba1 al-Wadiashi o segnalarono il fatto che avesse vissuto in tale città, ma non sono totalmente da scartare altre ipotesi, come quella che fosse nato a Purchena2 o a Tíjola3, ambedue situate nella Valle del Almanzora, nella provincia di Almeria. Probabilmente apparteneva alla tribù araba dei Banu Qays,

«ragione per la quale il califfo almohade, durante i preparativi per la campagna militare che lanciò per ridurre il potere di Ibn Mardanish e controllare il territorio andaluso nel 1170-2/566-

1 Nell’onomastica araba indica il luogo di appartenenza o di provenienza geografica, reale o simbolica,

recente o antica, una persona può averne più d’una.

2

Le fonti arabe ci dicono che Purchena come città fu fondata intorno al IX secolo, ai tempi dell’emiro Abdallah, nonostante vi siano resti di un insediamento romano dell’epoca di Augusto; sono state ritrovate infatti colonne appartenenti ad un tempio e, nelle vicinanze, resti di ville romane. Il nome deriva da quello arabo Hisn Burxana. La fortezza è del X secolo e vi sono testimonianze dell’insediamento arabo almeno fino al XIV secolo. Sappiamo per certo che nel dicembre del 1489, insieme a Baza, Guadix e Almeria fu consegnata ai re cattolici, venendo questi ultimi a patti col Cid Yahya Alnaya. Tuttavia i fratelli Ibrahim e Abufar Abenedir, rispettivamente alcaide (era un’istituzione che conferiva funzioni amministrative e giudiziare, la parola infatti deriva da al-qadi che significa giudice), e alguacil (come la parola visir deriva dall’arabo ispanico alwasìr, significava ministro), della città, non accettarono i regali dei monarchi e preferirono l’esilio per rifugiarsi da servitori e amici in Africa. (“Yo señores, - dijo a los reyes -, soy andaluz, de linaje de andaluces y alcaide de Purchena. En ella me pusieron para que la guardara. Vengo aquí ante vosotros no a vender lo que no es mío, sino lo que hizo vuestro la fortuna. Y creed, que si no me enflaqueciese la flaqueza que encuentro en los que me debían esforzar, la muerte sería el único precio que admitiese por defender Purchena, y no el oro que me ofrecéis por venderla... No todos los andaluces se portarían como él”) - [Io, signori, - disse ai re-, sono andaluso, del lignaggio degli andalusí e “sindaco” di Purchena. In lei mi misero perché me ne prendessi cura. Vengo qui davanti a voi non certo a vendere ciò che non è mio, ma ciò che fece la vostra fortuna. E credetemi, se non mi perdessi d’animo per la debolezza tra quelli che avrebbero dovuto darmi forza, la morte sarebbe l’unico prezzo che ammetterei per difendere Purchena, e non l’oro che mi offrite perché ve la venda... Non tutti gli andalusi si comporterebbero come lui”]. Queste le parole del alcaide nel famoso romanzo del 2005, “El manuscrito

Carmesi” dell’autore andaluso Antonio Gala, riportando un passaggio delle Cronicas de los reyes catolicos di Fernando del Pulgar. Dove non diversamente indicato, le traduzioni sono mie).

3 Già nel’VII secolo, ai tempi di Abderraman, esiste la fortezza di “Tachola”, e nel X secolo una città

fortificata chiamata “Tajela”. All’arrivo dei re cattolici questo luogo è conosciuto come Tixola che passerà al toponimo attuale solo nel 1830.

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7, gli diede l’incarico di comporre un poema con l’intento di convocare e mobilitare le tribù arabe»4.

(Di seguito è proposto l’albero genealogico di Ibn Tufayl fornito dalla Fundación Ibn Tufay)l.5

Non sono molte le notizie che ci sono giunte sulla vita di Ibn Tufayl, sfortunatamente. La sua formazione, almeno in parte, avvenne con Abu Muhammad Rushati e ‘Abd al-Haqqb’Atiyya, forse ad Almeria dove entrambi vivevano6. Si è ipotizzato che fosse stato allievo di Ibn Bajja, ma egli stesso smentisce questa ipotesi nell’introduzione

4 Cfr. Articolo su Ibn Tufayl scritto da J.M. Puerta Vílchez y J. Lirola Delgado, Biografias y obras de Ibn Tufayl, 2004, sito web Ibn Tufayil.org.

5

J. Lirola Delgado, Enciclopédia de la cultura andalusí, Fundación Ibn Tufayl de Estudios Árabes, Almería, 2007, p. 499.

6 Tra i dati importanti da menzionare ne abbiamo uno in particolare: il nome di Ibn Tufayl è menzionato

tra i membri di una tariqa, cioè una comunità o confraternita mistica che ci dimostrerebbe che fosse stato un sufi praticante, comunità alla quale appartenne un suo maestro, Abu l-Hasan ibn ‘Abbad, medico che abbandonò la confraternita per dedicarsi all’ascetismo. Ricordiamo che il sufismo è una versione islamica della mistica che affonda le proprie radici in religiosità orientali precedenti a islam e cristianesimo e non fu mai pienamente accettata nella comunità islamica, specie dai vari poteri susseguitisi. Ma, va detto, che nel secolo XII il sufismo, in Magreb e nell’Al-Andalus fu un fenomeno abbastanza diffuso, legato alle fonti di Algazel e diede anche origine a importanti movimenti di opposizione. Per ulteriori approfondimenti interessante consultazione: Edición y introducción de Emilio Tornero in: El filósofo

autodidacto – Risala di Hayy ibn Yaqzan – , Ibn Tufay, Traducción de Ángel González Palencia,

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all’Epistola di Hayy b. Yaqzan. Sicuramente studiò scienze religiose, diritto islamico e medicina con spiccato interesse per la chirurgia.

Lavorò per Abu Ya’far Ibn Milhan e suo fratello Abu l-Husayan, governanti indipendenti nelle zone di Guadix e Baza, a cui dedicò vari panegirici.

Nel 1151-2/546 si ebbe il riconoscimento dell’autorità almohade. Ibn Tufayl da quel momento inizierà i suoi rapporti di collaborazione con quest’ultima, diventando dapprima segretario del governatore di Granada, poi governatore di Ceuta e Tangeri nel 1154-5/549 e segretario personale di Abu Sa’id ‘Utman, uno dei figli di ‘Abd al-Mu’min.

Le poche fonti ci suggeriscono che il periodo più importante della sua vita fu probabilmente quello in cui entrò al servizio del sultano almohade Abu Ya’qub Yusuf, nel 1163-84/558-80. Qui, fu medico di corte e, secondo alcuni, anche visir. Con questo sovrano ebbe una relazione stretta grazie alla sua buona inclinazione verso il sapere. Significativo l’aneddoto riportato dallo storico al-Marrākushī dove si racconta di quando Ibn Tufayl presentò Averroè (Ibn Rushd) al califfo.

“Questo Abu Bakr [Ibn Tufayl] non cessò di attirare presso Ya’qub i sapienti di tutti i paesi e di richiamare su di essi l’attenzione, i favori e gli elogi del sovrano. È lui che attrasse l’attenzione su Abu l-Walid ibn Rushd, che da allora fu conosciuto ed apprezzato. Il giureconsulto, il maestro Abu Bakr Bundud ibn Yahya, allievo di Ibn Tufayl, mi ha detto di aver sentito più di una volta Abu l-Walid fare il racconto seguente: “quando fui introdotto davanti al Principe dei credenti Abu Ya’qub, lo trovai con Abu Bakr Ibn Tufayl, e non c’era con loro nessun altro. Abu Bakr si mise a fare il mio elogio, parlò della mia famiglia, dei miei antenati, e aggiunse per benevolenza elogi che ero ben lungi dal meritare. Dopo avermi domandato il mio nome, il nome di mio padre e il mio lignaggio, il Principe dei credenti diede inizio alla conversazione rivolgendomi questa domanda: - che cosa pensano i filosofi del cielo? Lo credono eterno, o venuto all’esistenza nel tempo? – Preso da confusione e da timore, tentai di scusarmi e negai di essermi mai occupato di filosofia, poiché non sapevo che Ibn Tufayl e lui avevano convenuto di mettermi alla prova. Il Principe dei credenti si accorse del mio spavento e della mia confusione. Si volse verso Ibn Tufayl e si mise a parlare della questione che mi aveva posto. Ricordò ciò che

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avevano detto Aristotele, Platone e tutti i falasifa; citò inoltre gli argomenti portati contro di loro dai musulmani. Io constatai presso di lui una erudizione che non avrei sospettato nemmeno in qualcuno di quelli che si occupano esclusivamente di questa materia. Fece tanto per mettermi a mio agio, che finii col parlare ed egli apprese ciò che avevo da dire a questo proposito”. “Questo stesso discepolo [Abu Bakr Bundud] mi ha anche riportato di lui [Ibn Rusd] le parole seguenti: “Ibn Tufayl mi fece chiamare un giorno e mi disse: - Ho sentito oggi il Principe dei credenti lamentarsi dell’oscurità dello stile di Aristotele e di quello dei suoi traduttori e della difficoltà di comprendere le sue dottrine. Se questi libri, - diceva, - potessero incontrare qualcuno che li commenti e che ne esponga il senso dopo averlo ben compreso, si saprebbe allora da che parte prenderli! – Aggiunse: - Se tu hai abbastanza forza per intraprendere un lavoro di questo genere, intraprendilo. Io conto che ne verrai a capo, perché conosco la tua alta intelligenza, la tua lucidità di spirito, il tuo grande ardore nel lavoro. Ciò che mi impedisce di incaricarmene personalmente è la grande età in cui mi vedi arrivato, e anche le occupazioni che la mia funzione e le mie cure mi impongono, senza parlare di preoccupazioni più gravi. – Ecco, aggiungeva Abu Walis, ciò che mi ha determinato a scrivere i miei commentari dei libri del filosofo di Aristotele”7

.

E ancora:

“Il principe dei credenti aveva per lui [Ibn Tufayl] molto affetto e amicizia; ho sentito dire che rimaneva nel palazzo presso di lui per giorni e notti, senza comparire”.8

Questi pochi commenti che ci rimangono su Ibn Tufayl, ci fanno intravedere il sapiente e l’uomo che fu. Sappiamo, come già accennato, che si occupò di diverse discipline e che oltre ad essere medico, giurista e filosofo, si dedicò anche agli studi astronomici e alla poesia. Per quanto concerne l’astronomia è il suo stesso discepolo, Ibn Rushd, nel

7 Ibn Tufayl, Epistola di Hayy ibn Yaqqzan. I segreti della filosofia orientale, P. Carusi (a cura di), pres.

di A. Bausani, Rusconi, Milano 1983, pp. 14 – 16. Cfr. anche C. D’Ancona (a cura di), Storia della

filosofia nell’Islam medievale, vol. II, Einaudi, Torino 2005, pp.774-775. Cfr. anche traduzione

castigliana: A. Gonzalez Palencia, El filosofo autodidacto (Risala Hayy ibn Yaqzan), Maxtor, Madrid 1934, p.14.

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Commentario grande sulla Metafisica di Aristotele, a nominare teorie astronomiche attribuite a Ibn Tufayl.

E al-Bitruji (Alpetragius), altro allievo suo, nel suo Trattato di astronomia, dice:

“ Tu sai, fratello, che l’illustre qadi Abu Bakr ibn Tufayl ci diceva che aveva trovato un sistema astronomico e dei principi per questi differenti movimenti, diversi dai principi che ha posto Tolomeo, e senza ammettere né eccentrico9 né epiciclo; e con questo sistema – diceva – tutti questi movimenti sono dimostrati e non ne risulta niente di falso. Aveva anche promesso di scrivere su questo argomento, ed è noto il suo livello elevato nella scienza”.10

2. Le opere

Non ci resta molto dell’opera di Ibn Tufayl e, per quanto ne sappiamo, purtroppo, quasi tutto andò perduto.

Sappiamo che:

- Al-Marrakushi menziona tra le sue opere metafisiche un’Epistola sull’anima, dicendo di aver visto la copia scritta dallo stesso Ibn Tufayl forse intorno al 1206-7, periodo in cui lo storico magrebino si trovava a Marrakesh con uno dei figli del filosofo.

- Per quanto riguarda la poesia, esistono raccolte di frammenti effettuate da Ibn Sa’id al-Magribi, Ibn al-Abbar, al-Marrākushī, Ibn al-Jatib e al-Safadi. I frammenti poetici rimasti, pur non essendo molti, sono di grande interesse, poiché ci presentano la poliedricità di Ibn Tufayl, trattano infatti degli argomenti più disparati, da una chiamata alle armi rivolta a tribù arabe, a un’elegia per l’amico Ibn al- Saqr, da temi ascetici e puramente filosofici ad argomenti di carattere amoroso. 11

- Ci fu una corrispondenza con Ibn Rushd sul Colliget ( il trattato di medicina di Ibn Rushd anteriore al 1162).

9

Nell’astronomia tolemaica si intendeva il cerchio ausiliario impiegato per spiegare il moto dei pianeti intorno alla Terra, detto comunemente deferente.

10

Ibn Tufayl, op. cit., p. 17.

11 Esistono traduzioni di alcune di queste poesie in lingua castigliana: Garcia Gomez E., “una qasida politica inédita de Ibn Tufayl”, Rieei, 1 (1953), pp.21-28; Lirola Delgado J. Y Garija Galán I., “Claves para interpretar unos poemas de Ibn Tufayl”, Hjmfb, I, pp.201-215; Velázquez Basanta,F, “un bibliófilo almeriense del siglo XII: Abu l-‘Abbas Ahmad ibn al- Saqr”, AA-M, 7 (1999), pp. 295-315.

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- Esiste un poema in metro rajaz sulla medicina: Urjuza fi l-tibb. È conservato in cattivo stato in un manoscritto, nella Khizanat Jami’ al- Qarawiyin di Fez, n.3138, sotto il titolo Manzuma rajaziyya fi ‘ilm al-tibb.

- scrisse una qaṣῑda politica, tradotta e pubblicata in castigliano da Emilio García Gómez.12

- L’unica opera che ci è giunta per intero e che resta dunque ciò che ci presenta il pensiero di Ibn Tufayl, è la Risalat Hayy b. Yaqzan fi asrar al-hikma al-mashriqiyya, a noi nota come l’Epistola di Hayy ibn Yaqzan.

Fu composta nel 1180 circa e tradotta in varie lingue nel corso dei secoli.

Si pensa che dopo Le mille e una notte, questa sia l’opera araba classica più volte e in più lingue tradotta. Nel Medioevo si ebbe la prima traduzione in ebraico a opera di un autore sconosciuto e nel 1349 Mosè di Narbona13 realizzò un commentario su questa versione14. Nel XV secolo Pico della Mirandola effettuò una traduzione latina, partendo da questa versione ebraica. Importante traduzione in latino, dall’arabo, è quella di Pococke15, primo professore di arabo all’università di Oxford, del 1671.16

Negli anni successivi vi furono altre traduzioni in inglese, come quella di Ashwell o quella del quacchero Jorge Keith17 del 1674; quest’ultima si pensa che convertì l’Epistola nel libro di devozione per gli adepti di questa setta cristiana.

Si ebbe una traduzione olandese nel 1701, di Johan Bouwmeester, collega di Spinoza18.

12

E. García Gómez, Una qaṣῑda política de Ibn Tufayl, Instituto Egipcio de estudios islámicos de Madrid, Madrid, 1953, pp. 21-28.

13

Medico e studioso di Narbona (fine del 1200 – 1362), fu un conoscitore e commentatore di Averroè, Aristotele, Maimonide e tra gli altri, come ricordo qui, traduttore in ebraico dell’Epistola di Tufay. Condusse studi anche in Spagna, a Toledo, Soria e Valencia.

14 Questa traduzione ricevette le lodi di Leibniz in “Lettres inédites de Leibniz á l’Abbé Nicaise et de

Galileo Galilei au P. Clavius et á Cassiano dal Pozzo, Publiées avec notes par F.-Z. Colombet, Lyon 1850: “Gli Arabi hanno avuto filosofi i cui sentimenti sulla Divinità sono stati tanto elevati quanto sarebbero potuti esserlo quelli dei piú sublimi filosofi cristiani. Ciò si può conoscere attraverso l’eccellente libro del Filosofo Autodidatta che M. Pococke ha pubblicato dall’arabo”. Tratto da: Ibn Tufayl, op. cit., p. 13.

15 Edward Pococke (Oxford 1604 - 1691), fu un orientalista, studiò arabo ad Aleppo, dove visse sei anni e

fu professore di lingua ebraica e araba, il primo per l’esattezza, all’Università di Oxford.

16 Philosophus autodidactus, sive Epistola Abi Jaafar ebn Tophail de Hai ebn Yokhan, in qua ostenditur, quomodo es inferiorum contemplatione ad superiorum notitiam humana ascendere possit. Ex Arabica in

Linguam Latinam versa ab Eduardo Pocockio, Oxford, 1671, edizione latina con testo a fronte. Nel 1700 ne uscì una seconda con correzioni, ma con la stessa impaginazione e titolo. Cfr. Ramón Guerrero, Ibn

Tufayl y el siglo de las luces. La idea de razón natural en el filósofo andalusí, Anales del seminario de

historia de la filosofía, U.C.M, Madrid, 1985.

17

Missionaro scozzese (1638/9-1716), ed esponente della congregazione dei quaccheri in quello che oggi è lo stato del New Jersey.

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17

Nel 1708 Simon Ockley19 realizza una nuova traduzione inglese direttamente dall’arabo. Nel 1717, siamo nel periodo in cui, lo abbiamo appena detto, circolava ampiamente il romanzo filosofico di Ibn Tufayl, anche in inglese, si publicò il famoso romanzo di Daniel Defoe, Robinson Crusoe, che potrebbe aver preso spunto proprio dalla storia di Hayy Ibn Yaqzan. La traduzione dell’ Epistola ebbe molto successo negli ambienti culturali e alcune somiglianze tra i due romanzi darebbero a pensare che Defoe avesse potuto trarre ispirazione dalla lettura del romanzo arabo andaluso. Ma, in realtà, le due storie non hanno troppo in comune; certo, sono ambientate in isole deserte, i due personaggi hanno la stessa capacità di ingegnarsi in mezzo alla natura, riescono a superare situazioni difficili in perfetta solitudine e praticamente senza mezzi, ma sono due personaggi profondamente diversi. Hayy vive in solitudine ed è un autodidatta sin da neonato; inoltre, quello che si racconta di lui è il processo evolutivo individuale che egli stesso porta avanti. Robinson, come è noto, viene “dalla civiltà”, per lui il naufragio nell’isola deserta è quasi un tornare indietro, è un continuo riadattamento, ma con le conoscenze già acquisite e ben interiorizzate di una vita, di una vita per lo più vissuta a contatto con gli altri uomini e con tutti i mezzi esistenti nella sua epoca. Infine, non vi sono fini mistici nel Robinson, egli è un individuo che non ha un’evoluzione spirituale e di avvicinamento al divino.

Anche Gauthier si domanda se Defoe avesse letto l’Epistola, se questa fosse potuta esser uno spunto per la sua storia, ma conclude affermando che questo non potremo mai

18 Molto interessante l’intervento del Professor Ramón Guerrero al Congresso internazionale su “Le

relazioni tra Spinoza e la Spagna”, del 1992. Nella sezione ” 2. Abentofail e Spinoza”, Guerrero spiega come Ibn Tufayl fosse potuto esser influente nel pensiero spinoziano in quegli anni, epoca dei lumi, in cui l’opera del filosofo andaluso, già circolava in Europa tradotta in varie lingue, (arabo, latino, inglese, tedesco e olandese). Stanislaus von Dunin Borkowski, autore del libro Der junge Spinoza, Münster, 1910; 2 ed., 1933, dimostra che Spinoza si distacca dal sistema di Descartes per fondare nella filosofia giudaico-musulmana il suo proprio sistema e insiste sull’influenza diretta di al-Farabi attraverso Maimònide e Levi Ben Gerson in Spinoza. La conferma di tale teoria, secondo Borkowski, è data anche dalla circolazione dell’opera di Ibn Tufail in Europa tradotta in varie lingue e proprio la traduzione in olandese del 29 dicembre del 1671 di Bouwmeester, effettuata dall’editore di Spinoza, intimo amico di Spinoza, ne darebbe ulteriore conferma. La seconda traduzione in olandese fu attribuita a S.D.B. che letto da destra a sinistra coinciderebbe con le iniziali di Spinoza (Guerrero parla di un vero enigma riguardo a questo dato). Guerrero accenna anche brevemente, ma senza approfondire, a somiglianze possibili, eventualmente da confermare, tra Spinoza e Ibn Tufayl nelle “soluzioni date ai problemi della natura di Dio, dei suoi attributi, i suoi modi e la visione immediata che l’uomo ha di Dio [...]”. Cfr. Spinoza y

España: actas del Congreso internacional sobre “Relaciones entre Spinoza y España” – Almagro 5-7

noviembre 1992/ Edición preparada por Atilano Domínguez – Servicio de publicaciones de la Universidad de Castilla – La Mancha, 1994. Cfr. anche R. Guerrero, “Ibn Tufayl y el siglo de las luces,

La idea de razón natural en un filósofo andalusí”, Anales del Seminario de Historia de la Filosofía,

U.C.M., 5 (1985), pp. 53-58.

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18

saperlo con certezza e che comunque le analogie non sono così numerose e molto meno significative di quelle che possono esserci tra l’Epistola e El Criticón di Gracián20

. Nel 1796 si ha una traduzione in tedesco di J. Georg Pritius e un’altra nel 1783 di J.C. Eichhorn21. Nel 1900 si ebbe la traduzione francese di L. Gauthier22, anche se pare che ve ne fosse già una del XIX secolo di Quatremère il cui manoscritto si conserva nella Biblioteca di Monaco23.

La prima traduzione in spagnolo si ha nel 1900 ad opera di Francisco Pons Boigues.24 Del 1934 la traduzione di Ángel González Palencia.25 E. García Gómez stava preparando una nuova traduzione prima della sua scomparsa nel 199526.

Nel 1983 finalmente si ebbe la prima traduzione in lingua italiana dall’arabo, ad opera della Professoressa Paola Carusi27.

Nella sua introduzione alla traduzione italiana Paola Carusi propone uno spunto di lettura e di riflessione molto interessante e che credo valga la pena evidenziare. Facendo riferimento alla premessa che lo stesso Ibn Tufayl fa all’inizio della sua opera, P. Carusi sottolinea la necessità di avvicinarsi a questo testo a vari livelli, per non precludersi la possibilità di coglierne diversi significati.

Al primo approccio, ci può apparire una trama molto semplice, in cui si racconta di un bambino nato dalla terra o portato dalle acque su un’isola deserta, cresciuto da una gazzella e che da solo compie un cammino verso la conoscenza, arrivando a quella più alta di Dio e del mondo sovrasensibile. Ma una seconda lettura già ci presenta un’alternativa più profonda: secondo tale lettura il bambino rappresenterebbe l’intelletto umano; si tratterebbe dunque di una lunga parabola sull’intelletto umano e su ciò che

20 L. Gauthier, Ibn Thofail sa vie, ses aeuvres, Ernest Leroux, Paris, 1909, pp. 53-54. 21 Teologo e orientalista tedesco (1752-1827).

22 L. Gauthier, op. cit.

23 Il riferimento, non approfondito, è offerto dai Professori Lirola e Puerta nell’ articolo su Ibn Tufayl

scritto da J.M. Puerta Vílchez y J. Lirola Delgado, Biografias y obras de Ibn Tufayl, 2004, sito web Ibn Tufayil.org.

24 El filósofo autodidacto de Abentofáil, novela psicológica traducida directamente del árabe, con prólogo

de M. Menèndez Pelayo, Zaragoza, 1900 - Barcelona, 1987

25 Madrid, 1934; Madrid, 1948; Madrid, 1995, con introduzione di Emilio Tornero. 26

Cfr. Articolo su Ibn Tufayl scritto da J.M. Puerta Vílchez y J. Lirola Delgado, Biografias y obras de

Ibn Tufayl, 2004, sito web Ibn Tufayil.org.

27 La già citata: Ibn Tufayl, Epistola di Hayy ibn Yaqqzan. I segreti della filosofia orientale, P. Carusi (a

(19)

19

esso è in grado di fare. La terza chiave di lettura che ci propone l’autrice è quella secondo la quale

“Argomento e scopo principale dell’opera potrebbe esser la raffigurazione dell’incontro-scontro tra l’intelletto umano (Hayy), la religione rivelata (Asal) e la comunità umana (Salaman), e la verifica delle rispettive posizioni”.28

E ancora:

“ Nella realtà storica della Spagna in cui vive Ibn Tufayl, questo problema è poi vissuto e sofferto in modo particolare. Paese di nessuna tradizione filosofica29, come osserva lo stesso autore nella sua premessa al romanzo, la Spagna musulmana del XII secolo ha visto succedersi per circa due secoli una serie di governi repressivi dal punto di vista culturale”.30

Paola Carusi suggerisce un quarto punto non numerato, secondo il quale, forse, potremmo leggere questo racconto come la storia interiore di Ibn Tufayl, come un profondo percorso individuale raccontato dallo stesso maestro (anche a me viene in mente questa possibilità e trovo l’ipotesi interessante).

3. Epistola di Hayy Ibn Yaqzan

L’opera si apre, nel titolo con una basmala, la formula presente in tutte le sure del Corano ad eccezione dell IX e, nell’incipit con una serie di lodi a Dio, il quale nella religione islamica ha molti “nomi”, 99, per l’esattezza,

28 Ibn Tufayl, op. cit., p. 21. 29 Ibid., pp. 21-22.

30

Nel 711 le truppe musulmane, composte da Berberi, nord africani e soldati mandati da Tariq attraversano lo stretto di Gibilterra e iniziano la conquista del sud della penisola iberica. In quattro anni, anche a causa della debolezza dei Visigoti, che scendono a patti con i nuovi arrivati, vengono conquistate molte terre iberiche. In pochi anni riescono a invadere terre sino alla Francia. All’inizio i musulmani sono accolti dagli ebrei, i quali avevano forti limitazioni dovute al cattolicesimo del periodo visigoto, come liberatori. I musulmani introduco un nuovo ordine sociale, culturale e religioso molto diverso da quello della Spagna visigota. Nel 756 il centro del potere si sposta da Toledo a Cordova. Il periodo che va dal 756 al 929 è quello dell’Emirato indipendente. Il X secolo è l’epoca più gloriosa della Spagna musulmana; è la fine dell’Emirato e l’inizio del Califfato, la biblioteca di Cordova in questo periodo arriva ad avere circa 400.000 volumi. Ma a partire dall’anno 1000 con la disgregazione di un unico potere e la nascita di città-stato, i Regni dei Taifas, piccoli regni che riproducono il modello del califfato, che pur vivono un buon periodo dal punto di vista culturale (specie Zaragoza, Siviglia e Toledo), inizia il lento indebolimento dei mori, che porterà poi alla sua fine, nei secoli successivi.

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20

“perché Egli, il Dispari [= l’Unico] ama [essere designato con questi nomi] uno per uno: chiunque conosce i 99 nomi entra in paradiso”.31

In questa prima parte introduttiva c’è un esplicito riferimento ad Abu ‘Ali ibn Sina (Avicenna)32 e ad al-Gazali33 quasi citando letteralmente un suo passo.34

Scrive Ibn Tufayl nella sua Epistola:

[...] Così uno di questi giunse a dire: - Gloria a Me, com’è grande la Mia gloria! – e un altro disse: - Io sono la Verità - , e un altro ancora: - Non c’è Dio nei miei vestiti. – [...]).35

Nomina anche il filosofo zaragozano Abu Bakr ibn al-Sa’ig, conosciuto come Ibn Bajja, o anche come Avempace, il quale in passato si ipotizzò esser stato il maestro di Ibn Tufayl poiché la parte iniziale di Hayy ibn Yaqzan presenta analogie con Il Regime del solitario di Ibn Bajja, riprendendo il tema della solitudine filosofica e della conoscenza interiore, se pur con atteggiamento critico nei confronti del maestro36. In questa

31

Ibn Tufayl, op. cit., p. 31 – nota 2.

32 Ibn Sina, o Avicenna, (980 – 1037), grande filosofo, letterato, medico del medioevo islamico. Tra le

opere più conosciute il Canone della medicina tradotto in latino da Gerardo da Cremona e il Libro della

Guarigione, opera filosofica in senso stretto. La filosofia di Avicenna si situa come punto di incontro di

quattro grandi aree del sapere: la filosofia greca aristotelica e della tarda antichità, il dibattito teologico islamico basato su Corano e altri scritti sacri, la filosofia medievale latina e la filosofia araba posteriore.

33

Abu Hamid Al-Gazali, (1058-1111), giurista, mistico e teologo as’arita nato a Tus e vissuto tra Bagdad e Damasco. Cfr. Ibn Tufayl, op. cit., p.33, nota 6: La nicchia delle luci, trad. It. A cura di L. Vecchia Vaglieri e R. Rubinacci, Torino 1970: “Gli iniziati, dopo esser stati al cielo della Realtà, concordemente dicono che essi non han visto esistente se non l’unico Vero... Furono ebbri di una ebbrezza tale che avanti ad essa svanì il potere dei loro intelletti. Uno di loro disse: - Io sono il Vero! – Un altro: - Lode a me! Quanto è grande la mia maestà! - , e un altro ancora:- Non v’è in questa cappa se non Iddio. – Ma le parole degli amanti di Dio in stato di ebbrezza devono essere celate e non se ne deve parlare. Quando poi l’ebbrezza si attenua in loro e ritorna sotto il potere dell’intelletto, il quale è la bilancia di Dio in terra, essi sanno che la loro non fu identificazioen con Dio, ma qualcosa di simile”.

34

C’è anche un esplicito riferimento ad un trattato scritto da Al-Gazali contro i filosofi, L’incoerenza dei

filosofi, La salvaguardia dell’errore e nuovamente a La nicchia delle luci e alle tre categorie di credenti

che si individuano in tale opera, la massa, la classe elevata e gli eletti.

35 Ibn Tufayl, op. cit., pp. 34-35. 36

Ibn Bajja, conosciuto anche come Avempace, nacque a Zaragoza verso la fine dell’XI secolo da una famiglia umile lontana dal mondo intellettuale. Abbiamo pochi dati sulla sua vita privata; sappiamo che sin da giovane si dedicò alla musica (ci resta un trattato sulle melodie musicali), alla poesia, ma fu molto preparato anche in altri campi del sapere, quali per esempio la medicina, la matematica, l’astronomia, la logica e la filosofia. Alcuni trattati sulla medicina da lui scritti ci sono testimoni della pratica della professione di medico. Sappiamo che predisse un’ eclisse lunare alla quale dedicò dei versi. Nella sua vita ebbe molti amici, ma anche molti nemici che probabilmente soffrirono di forti invidie nei suoi confronti. Pare infatti, che la morte sopraggiunse, mentre soggiornava a Fez nel 1139, per mano di un collega che lo avvelenò con una melanzana. Ibn Bajja fu un pensatore di grande importanza per il mondo intellettuale di al-Andalus. Fu un commentatore di Aristotele e lo diede a conoscere nel mondo andaluso e per questo si presenta come un precursore di Averroè, lo stesso fece con al-Farabi di cui fu grande conoscitore e che si può considerare come il suo punto di partenza; proprose un suo personale pensiero non limitandosi semplicemente a commentare i grandi e fu grandemente ammirato da altri pensatori come Ibn Tufayl o

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21

introduzione che lo stesso autore offre, si ha un assaggio di quelle che potevano essere le sue idee filosofiche, le sue basi culturali, una spiegazione dell’atteggiamento dei mistici ricordando anche quanto l’islam non apprezzi gli eccessi.

Solo alla fine dell’introduzione accenna una presentazione di quelli che saranno i protagonisti del racconto, dicendo che racconterà

Averroè. Tra i suoi scritti, forse il più rappresentativo, almeno per quanto riguarda le sue idee filosofiche, è il Régimen del solitario. Per Ibn Bajja il fine ultimo dell’uomo è la conoscenza che culmina nella saggezza e il punto di partenza per compiere questo cammino, attraverso la contemplazione, è la propria interiorità, il proprio Io. Il soggetto è mosso dall’intelletto e dalle idee che in esso possono esser contenute. L’uomo quotidianamente produce idee imperfette che attraverso un complesso processo in cui interviene anche l’immaginazione, inizia a configurarsi un ideale di idea perfetta completamente libera dalla materia. I motori dell’esistenza umana sono l’Intelletto Agente, le idee perfette in esso contenute, e che sono aggiornate dall’intelletto materiale umano, l’intelletto materiale, l’anima in cui l’intelletto materiale dimora, altre capacità conoscitive e come sintesi finale la sintesi dell’io-anima. Il grande problema per l’uomo, che non lo aiuta a raggiungere i fini più elevati della propria esistenza, è dato dalla situazione in cui si trova a vivere, cioè nella società. La vita sociale è necessaria, il fatto di esser socievole fa parte della stessa natura dell’uomo. È appunto in quest’opera che analizza la costituzione delle società, il comportamento dell’uomo. Le società in cui vive l’uomo non sono perfette; la comunità ideale dovrebbe esser costituita da uomini modello o solitari, che aspirano alla perfezione anche nel caso in cui si trovino a vivere in una società imperfetta. Questi solitari sono una minoranza, cosa che non permette loro di costruire una società a parte, ma li obbliga a restare in quelle imperfette in cui si ritrovano a vivere. Il Régimen del solitario è dunque una sorta di dieta spirituale che l’uomo modello segue nel tentativo di raggiungere il più alto livello di salute. In una ipotetica società ideale, non servirebbero più “medici” per l’ordine sociale, in altre parole, giudici. Ma la società ideale non esiste, si tratta solo di un ideale regolativo che cercano di perseguire i solitari. La vita dei solitari non richiede un isolamento fisico, possono vivere nella società imperfetta, insieme ai cittadini la cui esistenza è una continua lotta tra loro e nella quale si hanno vizi, rancori, malattie, accidenti che non intaccano la vita del solitario. La vita del solitario è il più alto valore etico possibile, la sua condizione razionale sarà il livello più alto del sapere che lo condurrà verso la saggezza. È certo che gli altri uomini rappresentano un pericolo per il solitario, ma, ripeto, è un pericolo che deve correre, perché l’uomo non può che vivere in società, dato che la sua stessa natura glielo impone. Il grande lavoro del solitario sarà quello di mantenere la sua condizione etica pur vivendo in una società imperfetta e a continuo contatto con uomini imperfetti, riuscendo a non farsi coinvolgere dai vizi che li corrompono. La vita sociale, infine, non rappresenta un male per l’uomo, anzi. Ibn Tufayl non conobbe personalmente Ibn Bajja, come egli stesso afferma, ma ne conobbe l’opera. In un certo senso, con Hayy, ripropone la figura del solitario di Ibn Bajja nella forma di romanzo filosofico. Dico in un certo senso perché, mettendo a confronto le due opere, vi sono analogie, ma anche forti differenze. Hayy è un solitario anche alla maniera di Ibn Bajja perché grazie esclusivamente alla forza dell’intelletto e della ragione ascende a gradi sempre maggiori di conoscenza empirica, scientifica e infine mistica, seguendo un itinerario simile a quello del solitario di Ibn Bajja. Il solitario è un autodidatta che grazie al proprio io reggiunge livelli sempre più elevati della conoscenza. Ma Hayy non è inserito in un contesto sociale, se non alla fine della storia per un breve momento. Voglio dire che l’atteggiamento di Hayy si presenta più come quello di un solitario eremita, o quasi. Non appare dall’opera di Tufayl la necessità dell’uomo di vivere in società, né il fatto che ciò sia connaturato nella sua natura, tutt’altro. Hayy conosce la società solo nel viaggio che compie con Asal all’isola di quest’ultimo e, capendo l’incomunicabilità tra lui e gli uomini di quella comunità, si ritira da essa, torna alla sua isola, preferendo la quasi assoluta solitudine alla vita sociale. Ibn Bajja invece, come abbiamo appena detto ritiene inevitabile e non del tutto negativa la vita in società, pur essendo essa imperfetta. Ci si presentano dunque, due punti di vista diversi; nonostante ciò, le similitudini fanno pensare al fatto che il pensiero di Ibn Bajja avesse lasciato una forte impronta nei pensatori successivi e che lo stesso Ibn Tufayl ne fu influenzato.

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“la storia di Hayy ibn Yaqzan, e di Asāl, e di Salāmān37, cui diede i nomi il maestro Abu ‘Ali.

Le loro storie sono esempio per chi sa intendere e «un monito per chi possiede un cuore, per chi presta ascolto e vede»”38

.

Il racconto si svolge in un’isola sotto l’equatore, isola indiana, che nella cultura islamica spesso era Sarandib (Ceylon), dove si ha un clima perfetto ed equilibrato, grazie al quale, si pensava che l’essere umano potesse nascere per generazione spontanea senza bisogno di madre né padre, anche se, sottolinea l’autore, ciò è in contrasto con tutte le idee di medici e filosofi, che pensano al “quarto clima”39

come il piú equilibrato40. Questa primissima parte iniziale vi sono molti riferimenti alle conoscenze scientifiche, geografiche ed astronomiche di cui Ibn Tufayl era in possesso,41 che comunque servono solo alla possibile dimostrazione che l’uomo in quelle terre possa generarsi senza bisogno di genitori.

Hayy Ibn Yaqzan è uno di questi uomini, secondo alcuni. Secondo altri la storia è completamente diversa: si racconta che di fronte a quell’isola ve ne fosse un’altra, meravigliosa, popolosa e ricca. Il re di quest’isola aveva una sorella bellissima e di immensa bontà. Il superbo re le impediva di sposarsi perché convinto che non vi fosse un pretendente adeguato, all’altezza della principessa. Ma la ragazza si sposò in segreto, secondo una maniera permessa dalla loro fede, con un parente, Yaqzan. Ella rimase incinta e diede alla luce un bambino e, per paura che si scoprisse il suo segreto, dopo averlo allattato, una notte, legatolo con delle cinghie dentro una casseta, accompagnata

37

Hayy ibn Yaqzan significa “il vivo figlio del desto” e rappresenterebbe l’Intelleto che si mette alla ricerca del vero; Asāl, probabilmente derivante da Absal è il nome di un personaggio di uno scritto Ibn Sina; infine, Salāmām, anche questo nome di origine avicenniana, potrebbe rappresentare la società con cui si incontra e si scontra l’Intelletto.

38

Cor. 50, 36-37: «E quante generazioni abbiamo sterminato già prima, piú forti di queste di forza, e vagaron sulla terra; ma vi fu scampo all’ira? In verità in questo v’è un Monito per chi possiede un cuore, per chi presta ascolto e vede».

39

Lo stesso Averroè parla del IV clima come del migliore, quello in cui si trova la terra di al-Andalus, la sua, dove tale situazione geografica, rende i suoi abitanti tra i migliori uomini e le terre le più privilegiate.

40 Il quarto clima era quello del cosiddetto mondo abitato che corrispondeva alla fascia temperata a cui

appartengono Spagna, Grecia e parte dell’Iran.

41 Si noti il riferimento alle concezioni sui climi, teorie islamiche sul clima derivanti dalla cultura greca.

Interessante anche l’esplicito riferimento sulla formazione del calore che segue la teoria avicenniana delle tre cause del calore, cfr. Ibn Tufayl, op. cit., p. 53, nota 59. Infine, da non dimenticare, la teoria menzionata sulla sfericità del sole e della Terra, dunque le conoscenze filosofico/scientifiche, ma ancor prima filosofico/religiose che sin dall’antichità sostengono questa teoria; basti ricordare le concezioni sostenute da Pitagora, Platone, Aristarco di Samo o Tolomeo.

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da serve di fiducia, si recò sulle sponde del mare, e, colma di dolore, e temendo per lui, lì, su quelle acque lo abbandonò, spingendo la cassetta e pregando Dio.42

[“Mio Dio, Tu hai creato questo bambino, ed era una cosa insignificante, hai provveduto a lui nelle tenebre delle mie viscere e ti sei preso cura di lui finché è divenuto completo e si è maturato. Io l’ho affidato alla Tua benevolenza e ho desiderato per lui la Tua grazia, per paura di questo re tiranno, prevaricatore e inflessibile. Sii con lui e non abbandonarlo, Tu che sei il più misericordioso dei misericordiosi”.]43

La cassetta prese il largo, c’era alta marea, ed era un’alta marea che si verificava solo una volta all’anno, o meglio, solo una volta all’anno permetteva di arrivare in un determinato luogo dell’isola che si trovava di fronte a quella della principessa. Fu così che la cassetta galleggiò e fu trascinata in un punto ricco di vegetazione e prottetto dalle correnti e dai venti; l’acqua prese a decrescere e la sabbia a salire44

. La cassa, ormai un po’ deteriorata dal viaggio, restò ferma e bloccata in questo punto. Passò un po’ di tempo e quando il bambino iniziò ad aver fame cominciò a piangere. Una gazzella, che aveva perso il proprio piccolo perché catturato da un’aquila, al sentire i lamenti, pensando che fosse suo figlio, seguendo il suono della voce, raggiunse la cassetta. Esplorò la cassetta chiusa con gli zoccoli e, riuscendo a spostare una tavola, vi trovò il bambino, che intenerendola, la spinse a prendersi cura di lui, allattandolo e riparandolo dai pericoli. L’autore a questo punto, spiega che questa è la teoria di chi credeva che Hayy ibn Yaqzan non fosse nato per generazione spontanea, e aggiunge che chi invece era convinto del contrario credeva che in quell’isola ci fosse

“una valle in cui l’argilla fermentava con il passare degli anni e degli anni, così che il caldo si mescolava al freddo, e l’umido al secco, in parti uguali ed in equilibrio di forza; questa argilla che fermentava era molto abbondante, ed una parte di essa era migliore dell’altra per la giusta proporzione della miscela e per la predisposizione all’ulteriore sviluppo dei miscugli, ed il suo

42

L’abbandono dei bambini, che avranno una missione da compiere è un tema spesso ricorrente nelle leggende popolari, basti pensare a Mosè nella Bibbia e nel Corano, all’indiano Kabir o a Romolo fondatore di Roma allattato dalla lupa.

43 Ibn Tufayl, op. cit., pp. 56-57.

44 Nel romanzo di Daniel Defoe, Robinson Crusoe, c’è un passaggio, che ricorda questo momento. Il

naufrago Robinson Crusoe, il protagonista appunto, trovatosi solo in un’isola deserta, decide di andare a nuoto alla nave naufragata a reperire materiale utile per la sopravvivenza, che riporterà a terra grazie ad una zattera di sua costruzione; è qui dove racconta di “giocare” con le maree per raggiungere terra dentro un’insenatura che reputava sicura, e trovato un punto dove fermarsi, attende che la marea si abbassi finché, trovatasi la zattera in secco sulla spiaggia, può finalmente scaricare tutte le sue cose sane e salve.

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centro era la sua parte più equilibrata e perfetta, simile alla costituzione umorale dell’uomo. Quella creta si scosse fortemente ed apparvero in essa bolle simili a quelle dell’ebollizione, per la violenza del moto e per la sua viscosità. Apparve al centro di essa, per la viscosità, una piccolissima bolla45 divisa in due parti da un sottile diaframma, piena di un corpo fine ed aeriforme nelle condizioni del massimo equilibrio a lui connaturale. In quel mentre, si unì il soffio che proviene da Dio Altissimo e gli aderì di un’aderenza tale che la sensibilità e l’intelletto solo a fatica possono separarsene [...]. Così il soffio che viene da Dio Altissimo è sempre sovrabbondante su tutte le creature [...]. Quelle in cui si manifesta la sua impronta in modo molto evidente sono gli animali, [...], così anche, degli animali, quello che accoglie il soffio divino nel più alto grado riproduce il soffio divino ed è modellato a sua immagine; esso è l’uomo in particolare”. 46

Continua riferendosi ad una seconda bolla, il cervello, ed una terza, il fegato. I tre organi erano adibiti a funzioni diverse, anche se il principale restava sempre il cuore. Continuando a costituirsi parte dopo parte, si arrivò ad un punto in cui lo sviluppo fu ultimato e l’argilla rimanente si spaccò e lasciando il corpo finito del bambino. Non appena il bambino finì la sostanza che gli era di nutrimento, iniziò a lamentarsi e fu il momento in cui accorse la gazzella.

Da questo momento la storia è uguale per tutti.

La gazzella si occupò pienamente del bimbo, non gli fece mai mancare il latte e, quando iniziò a mangiare, i frutti che lei stessa faceva cadere dagli alberi, un posto sicuro e caldo dove potersi coricare la notte, acqua, compagnia di altre gazzelle durante le ore del pascolo.

Il bambino imparò a comunicare con i versi delle gazzelle e con quelli di alcuni uccelli. Subito manifestò un forte spirito di osservazione, notava tutte le differenze dei vari animali, chi aveva le corna, le zanne, gli zoccoli, chi era più indifeso perché nudo, chi aveva artigli, ecc... Vedeva come gli altri piccoli delle gazzelle si erano evoluti e quanto fossero diversi da lui, senza capirne il perché. Notava che era molto diverso da tutti gli altri animali, li vedeva più protetti per i peli, o la presenza della coda o dal fatto che essi

45 Il cuore, diviso in due cavità. 46

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avessero il pène molto più nascosto rispetto a lui. Tutto questo lo rattristiva. Così, intorno ai sette anni47, quando perse la speranza di poter mutare, pensò di coprirsi con delle foglie davanti e dietro e con foglie di palma e di alfa48: fece una cintura intorno alla vita che le teneva ferme e ogni volta che appassivano ne faceva di nuove.

Iniziò a percepire le proprie differenze come una ricchezza; infatti, per esempio, le sue mani, gli permettevano movimenti che zampe o code di altri animali non erano in grado di fare, come la possibilità di costruirsi queste coperture per il corpo o il poter afferrare un bastone per difendersi.

Riuscì a costruirsi, col tempo, un “indumento” con pelli e il piumaggio di un’aquila morta con cui poté coprirsi parti del corpo e suscitare un certo timore in altri animali che evitavano di avvicinarglisi. L’unica che sempre gli fu vicina, e lui a lei, fu la gazzella che lo aveva cresciuto. Col tempo, vecchia e debole, iniziò ad aver bisogno di cure che egli le offriva quotidianamente, finché non arrivò il giorno che l’animale si spense per sempre e ciò fu per il giovane il primo dolore immenso; la chiamava con il verso con cui sempre l’aveva chiamata e lei non rispondeva, gridava, ma l’animale non dava cenno di vita. La osservò ovunque cercando di capire quale tipo di infermità avesse provocato la sua morte, ma non riusciva a scorgere la minima anomalia, voleva trovare il punto da curare affinché lei potesse tornare, ma non sapeva come fare. Era convinto che vi fossero degli impedimenti che bloccavano la gazzella, così come quando ti copri gli occhi e non puoi vedere e allo scoprirli, di nuovo, si riacquisisce la vista, lo aveva sperimentato lui stesso. Doveva trovare quel male, scacciarlo e, allora la gazzella sarebbe tornata alla normalità. Forse era un organo nascosto, invisibile all’occhio? Dall’osservazione di altri animali morti, si era accorto che le uniche membra non compatte erano il cranio, il petto e il ventre. Dalla sua esperienza personale, aveva intuito che l’unico punto di cui non riusciva ad immaginare l’inesistenza, era quello all’altezza del petto, in una zona centrale, era quello che in lotta difendeva e che continuamente sentiva presente nel suo petto.49

47 La vita di Hayy Ibn Yaqzan avrà quattro momenti fondamentali, al culmine ciascuno, di un ciclo di

sette anni.

48 L’alfa o sparto è una tipica pianta che cresce in Spagna ed in nord Africa; in spagnolo è chiamata esparto o atocha, si è usata nel corso dei secoli per la produzione di ceste, borse e di una calzatura tipica

in Spagna ancora oggi esistente e comunemente conosciuta come espadrilla o alpargata.

49 Per Ibn Tufayl il cuore è la sede del pensiero e dell’anima (ricorda il cardiocentrismo aristotelico).

Cfr. Edición e introducción de Emilio Tornero in: El filósofo autodidacto – Risala di Hayy ibn Yaqzan –, Ibn Tufay, Traducción de Ángel González Palencia, Editorial Trotta, Madrid, 1995, p.18: “Algazel, en efecto, hizo del sufismo una alternativa a la filosofía, como aparece patente, sobre todo y de una manera

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Pensò che l’organo malato fosse nel petto della gazzella, non gli restava dunque che esaminarlo. Se pur molto timoroso dell’operazione che si sarebbe accinto ad intraprendere, pensò che fosse l’unica possibilità che avrebbe per lo meno dato una minima speranza. Con schegge di pietre praticò l’incisione sul petto della gazzella. Gli strumenti non erano i migliori, così ne cercò di nuovi. Il primo organo che trovò fu il polmone, e in un primo istante pensò che fosse ciò che cercava, ma vedendo che era inclinato verso il basso, e secondo la sua teoria doveva esser centrale, continuò la ricerca, convinto che non fosse ancora giunto a quello giusto. Presto, infatti, trovò il cuore. Notò che era fatto di due cavità, una – la destra - piena di grumi di sangue, l’altra – la sinistra – vuota, cosa che di primo acchito induceva a considerarla inutile, ma che ragionando lo portò ad un’altra conclusione50: se ogni cavità è abitata da qualcosa, probabilmente anche questa lo era stata e forse il suo abitante aveva abbandonato la casa prima che venisse aperta, ed essendo ora tanto danneggiata, non ci sarebbe stato un suo ritorno. Si chiese dunque cosa mai potesse essere questa cosa che aveva abbandonato il corpo, come fosse fatta, perché fosse partita. Non sapeva darsi una risposta, ma più insisteva con questi pensieri, più trovava nel corpo qualcosa privo di valore, di insignificante, certo che fosse stato un mero strumento e, che colei che lo aveva allattato e cresciuto fosse altro da quello. Per caso, vide un corvo ucciderne un altro e subito dopo seppellirlo, cosa che gli fece pensare che avrebbe potuto fare lo stesso anche lui. Fu così che seppellì il corpo di sua madre.

Continuò ad osservare le gazzelle e tutti gli animali che incontrava chiedendosi cosa fosse quella cosa che si serve del corpo.

vívida y existencial, en sus ya citadas Confisiones. Frente al conocimiento intelectual reivindica al dawq, esto es, el saboreo, la gustación, degustación mística, que el hombre puede conseguir con un órgano distinto y superior al del intelecto y que es el corazón, entendiendo éste como la esencia más íntima y genuina del hombre, no irracional, pero sí más allá de la razón. Mediante él, el hombre consigue su más plena realización, pués al contemplar mediante una intuición directa a Dios, conoce todo en él, y a la vez, en esa visión intuitiva, experimenta la mayor felicidad que el hombre puede llegar a obtener”. [“Algazel, in effetti, fece del sufismo un’alternativa alla filosofía, come è evidente soprattutto in un modo vivo ed essenziale, nelle sue Confessioni. Di fronte alla conoscenza intellettuale rivendica il dawq, l’assaggio, il sapore, la degustazione mistica, che l’uomo può conseguire con un organo distinto e superiore a quello dell’intelletto, cioè il cuore, riferendosi con questo all’essenza più intima e genuina dell’uomo, non irrazionale, ma che va oltre la ragione. Attraverso esso, raggiunge la sua piú piena realizzazione, dunque contemplando con un’intuizione diretta Dio, conosce tutto il lui, e allo stesso tempo, in questa visione intuitiva esperimenta la maggior felicità che l’uomo possa arrivare ad ottenere”.]

50

Cfr. Ibn Tufayl, op. cit., p.74, nota 95: “ Si noti la posizione di preminenza che Ibn Tufayl attribuisce al ventricolo sinistro, facendolo sede dell’anima. Una analoga posizione privilegiata del ventricolo sinistro si trova presso lo stoico Crisippo che ne fa la sede dello psychikós pneuma (SVF II 897). Ibn Sina, Il

Canone di medicina: “Dio fece la parte sinistra del cuore cava perché potesse fungere sia da serbatoio

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