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Letteratura, potere

e didattica della letteratura

Cristina Nesi

La situazione attuale degli studi umanistici, ridimensionati sia in ambito universitario che nell’istruzione secondaria, sembra a molti l’indizio di una crisi, che coinvolge il ruolo del sapere letterario, la sua autorevolezza sociale, la formazione degli studenti, lo studio critico della letteratura.

In realtà si tratta di una situazione paradossale, come sostiene Remo Ceserani nella ricognizione di Convergenze: da una parte la perdita della tradizionale posizione di prestigio goduta a lungo dalla letteratura nelle nostre società e nei nostri programmi scolastici, dall’altra l’inaspettata rilevanza che gli strumenti letterari stanno guadagnando per l’uso che ne fanno altre discipline, dalla chimica alla fisica, dalla storia all’antropologia, dalla psicologia alla biologia. Una visione dinamica, lontana dal requiem di Fortini: «La letteratura somiglia sempre più a un enorme edificio abbandonato, luogo di transito e quasi cava di pietra per tante discipline, dalla linguistica alla filosofia, dall’antropologia culturale alla psicanalisi, dalla ricerca storica a quella filosofica» (Fortini 1987: 307).

Ironizzando sull’esistenza di un profilo ciclotimico delle lamentazioni umaniste, Jean Marie Schaeffer sostiene che da parte dei letterati oggi sarebbe più utile un’elaborazione del lutto della loro stessa tradizione istituzionale, o - per usare l’espressione di Pierre Bourdieu – della fine del ‘corporativismo dell’universale’, dato che il prestigio in campo letterario non si estende più ad ogni campo del sapere.

Pretendere sostegno e finanziamenti per gli studi umanistici appare difficile, a meno che non si accetti «l’urgenza, peraltro in parte innegabile, di dimostrare – alla politica, al mercato – l’utilità pratica dei nostri studi» (Pellini 2011) e non si disdegni il tentativo di sottoporre la scuola a un’egemonia culturale valutativa ed economicistica, clonata su modelli aziendali.

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Basterebbe la boutade di Pietro Ichino, che ha etichettato il liceo classico come causa del ritardo italiano nella mobilità sociale durante il

Processo al Teatro Carignano di Torino del 15 novembre 2014 (con

Umberto Eco alla difesa), per cogliere anche negli aspetti più ludici l’interesse pressante «del debito pubblico che già abbiamo e che sarà difficile restituire solo con le orazioni di Cicerone» (Ichino 2014).

Nell’ipotesi apocalittica di una «visione brutalmente mercantile», sostiene sarcastico Valerio Magrelli, la letteratura «può servire soltanto come una branca collaterale della sezione vendite» (2007), interessata all’uso sapiente della retorica.

Al contrario, la cultura umanistica sarebbe ancillare nell’ipotesi di Martha Nussbaum a un preciso modello di società democratica, visto che ogni lettore, immedesimandosi nelle storie degli altri, può dotarsi di spirito solidale e costruire sotto forma di configurazione narrativa la propria identità. Le democrazie hanno bisogno della cultura umanistica, recita non a caso il sottotitolo di Non per profitto (2011).

Se il saggio offre interessanti spunti, qualche cono d’ombra in quelle pagine rimane, a cominciare dalla lamentela sulla crisi dell’istruzione umanistica che Nussbaum attribuisce già a Tagore e a Dewey, cioè all’inizio del XX secolo: «In parte è così: è sempre lo stesso piagnisteo, anche piuttosto stucchevole», puntualizza Claudio Giunta (2011):

Ma in parte le cose sono effettivamente cambiate, e non è inutile prendere nota di questi cambiamenti, e rifletterci sopra. Ciò che è cambiato, tra gli anni di Tagore e i nostri, è soprattutto questo: che la scienza e la tecnologia hanno rivoluzionato il modo in cui viviamo; e che la vita, nelle società occidentali, è diventata così complessa da sollecitare sempre di più le competenze, non d’intellettuali capaci di interpretare il mondo (filosofi, storici), ma di tecnici capaci di farlo funzionare (economisti, giuristi, medici) (ibid.)

Un secondo dubbio riguarda il fatto che alla cultura umanistica sia demandato nelle «esplicite ammissioni» (Pellini 2011) della Nussbaum «il compito di sollecitare comportamenti socialmente positivi, non quello di indagare disinteressatamente il funzionamento, i significati, le ambiguità delle attività umane e dei loro prodotti» (ibid.). E questo equivale a collocare la letteratura su un piano didascalico con il possibile inconveniente di escludere opere giudicate nei vari secoli come immorali.

Ora, se la letteratura coltiva negli studenti ‘risorse’ cognitive e non solo contenuti lo fa proprio disorientandoli, mettendo in discussione le

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loro certezze e invitandoli ad analizzare le ragioni delle proprie convinzioni in rapporto ad altre. Tutto questo anche grazie al fatto che ogni lettore può sperimentare situazioni emotive impensabili nella propria quotidianità tramite personaggi fittizi, che lo mettono al riparo da esperienze dirette difficili, dall’angoscia, dal ribrezzo e, perché no, anche da eventi moralmente devianti.

Le statistiche del 2014 ci dicono che il 50% dei ragazzi legge almeno un libro l’anno per motivi non strettamente scolastici e che in assoluto la «fascia di età in cui si legge di più è quella tra gli 11 e i 14 anni (53,5)» (ISTAT 2014). Già questo dovrebbe ridimensionare l’eccesso di pessimismo anche perché se la quota dei lettori di libri in Italia è scesa fra il 2013 e il 2014 dal 43% al 41,4% il suo numero complessivo negli ultimi cinquant’anni è certamente aumentato in seguito all’innalzamento dell’obbligo scolastico (a 14 anni nel 1962, legge n. 1859, e a 16 anni nel 2006, legge n. 296). Rimane il fatto che gli adolescenti si appassionano maggiormente alle storie quando sono narrate con linguaggi multimediali e che per molti di loro l’immaginario spesso si riduce al piacere dell’intrattenimento.

Come possiamo allora far sì che la letteratura «non ingenuamente ‘educativa’ ma anzi – come ci ricorda Federico Bertoni -contraddittoria, seduttiva, talvolta pericolosa e sgradevole, che aggredisce i luoghi comuni» (2013) possa ritornare a essere declinata nel presente degli studenti, rispondere alle loro inquietudini, offrirsi come carica eversiva e di smascheramento del reale?

Certo, la letteratura pone davanti alle esperienze altrui e questo nel processo di attenzione che ogni ragazzo presta al mondo può arricchire e può soprattutto orientare entro l’ambiente fisico e umano, in cui ciascuno di loro si trova a vivere. Ma, come questo avvenga non è per niente facile da dire. Basterebbero le parole di Luigi Meneghello a ricordarci quanto impervio sia quel terreno per un docente: «Che ci sia passaggio tra leggere e vivere è vero che lo crediamo, ma credi a me, non sappiamo come sia fatto» (1976: 294).

Certo, l’interesse degli studenti diventa palpabile se si trovano davanti al racconto di crocevia esistenziali, di vite colte nel momento di un dirompente ripudio o di un dilemma o di una decisione irrevocabile. Un esempio rimane la ‘scelta’ del partigiano Johnny di sottrarsi alla diseducazione fascista e al suo linguaggio mistificante con l’azione: «La penna l’ho lasciata a casa e non ci penso a sintassi e grammatica. Per tutto il tempo che starò qui non intendo stringere in mano che un fucile» (Fenoglio 2005: 70).

Su questo impervio terreno anche Calvino può venirci in soccorso, laddove chiarisce che «la letteratura è necessaria alla politica prima di tutto quando essa dà voce a ciò che è senza voce, quando dà un nome a

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ciò che non ha ancora un nome, e specialmente a ciò che il linguaggio politico esclude o cerca di escludere» (1980: 292).

Seguendo il suo viatico, la lettura de I sommersi e i salvati in classe può far scoprire come Primo Levi riesca a dare «un nome a ciò che non ha ancora un nome» (ibid.): a quella zona grigia, che individua «la classe ibrida dei prigionieri - funzionari» (Levi 1997: 1022) che costituiva l'ossatura del Lager e il suo lato più inquietante, quello di chi si sottomette al potere in cambio della tutela di un benessere personale o di un desiderio di massimizzazione della vita1. Lo statuto di vittima non conferisce certificati d’innocenza, motivo per cui un libro come I

sommersi e i salvati rimane un’efficace confutazione delle concezioni

demologiche del potere e di ogni dicotomia bene/male.

Nessun docente oggi potrebbe dire come Friedrich Nietzsche fa in

Sull’avvenire delle nostre scuole che l’interesse occulto dello Stato è quello

di ‘allevarsi’ in tempi rapidi utili impiegati e assicurarsi la loro incondizionata arrendevolezza: non è infatti più possibile rappresentarsi il potere come una relazione frontale tra sovranità dello Stato e cittadini portatori di diritti. Dopo le riflessioni di Hannah Arendt e di Michel Foucault, ma anche dopo la lettura di Primo Levi o di Elias Canetti, tutti noi sappiamo che capillarmente la nostra vita quotidiana ha rilevanza politica; persino la nostra vita biologica. Abbiamo cessato, insomma, di credere a un rapporto dualistico così come non crediamo più, per dirla con Simona Forti, al «paradigma Dostoevskij» (2012: 386).

In un simile contesto è importante che la letteratura aiuti lo studente a definirsi come soggetto, «per il quale il rapporto con l’altro e la cura di sé siano categorie compresenti e fondamentali, accanto all’investimento sull’oggettualità (e dunque il tema del fare e del lavoro ma anche quello della contemplazione e dell’ozio), all’interesse per il corpo (vera modalità essenziale del nostro essere nel mondo), e all’apertura verso le dimensioni ulteriori dell’esistenza: la dimensione culturale del vivere, l’ulteriorità, il senso del mistero, l’irriducibile alterità della morte» (Mantegazza 1998: 204).

Rimangono ancora oggi preziose le parole di Walter Benjamin, quando ci ricorda che «in diretto rapporto con la crisi della cultura e dell’educazione umanistica, la storia della letteratura ha perso interamente di vista il suo compito più importante (per cui è nata come ‘bella scienza’) e cioè quello didattico» (1973: 138-139).

Allora come ora, il valore e il ruolo dell’educazione umanistica dipendono da due agenti educativi, che dovrebbero agire di concerto, 1 «La situazione del sopravvivere – come sostiene anche Elias Canetti - è la situazione centrale del potere» (1974: 14).

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quello della ricerca universitaria e quello della didattica scolastica perché «ciò che importa è forse meno un rinnovamento dell’insegnamento, della didattica da parte della ricerca, che quello della ricerca da parte della didattica» (ibid.) Insomma, contro ogni rapporto gerarchico di potere fra ricerca e didattica, Benjamin richiama all’interdipendenza delle due componenti nell’educazione umanistica, se vogliamo uscire dalla crisi.

Al contrario, in Italia fra mille conflittualità e arroccamenti difensivi i processi formativi e la definizione di curricula verticali non sono mai entrati in un sistema interrelato di confronto fra ordinamenti di tipo diverso. Così, i guasti emergono proprio in questi punti di snodo, che fanno perno sulle diffidenze universitarie verso i sistemi educativi scolastici e, al contempo, sull’insofferenza della scuola secondaria di secondo grado che si vede addebitare la lacunosa preparazione delle matricole. Questo solco profondo di divisione ha determinato anche l’attuale situazione dell’educazione letteraria, tant’è che sul terreno della formazione iniziale dei docenti si sta giocando ultimamente una delle partite più decisive per le discipline umanistiche, che hanno nell’insegnamento una delle maggiori opportunità lavorative.

Già con la legge 341/90 l’Italia era stata uno degli ultimi paesi europei a istituire la formazione universitaria per l’insegnamento secondario (nel 1970 erano nati in Spagna gli Institutos de Ciencias de

L’Educación), formazione divenuta effettiva solo dopo altri otto anni

(D.M. 26 maggio 1998) con l’attivazione delle Scuole di Specializzazione e con il reclutamento dei Supervisori al tirocinio, selezionati con concorsi universitari.

Prima reale figura di raccordo fra scuola secondaria e università, il docente formatore si è trovato accomunato con i docenti universitari in una realtà totalmente nuova, poco definita e flessibile. Pur nella difficoltà obiettiva d’individuare insieme delle strategie di lavoro, quell’incontro ha consentito una ricchezza di confronto e di riflessioni sorprendenti, un’esplorazione di nuove metodologie didattiche e di intersezioni disciplinari. Lo dimostrano le pubblicazioni sulle esperienze SSIS e TFA, nelle quali è evidente come l’università abbia cominciato a valutare i profondi mutamenti della didattica intervenuti nella scuola, mentre i docenti formatori hanno utilizzato metodi di ricerca-azione più rigorosi e scientifici.

Gli uni e gli altri, proprio occupandosi di didattica della letteratura, hanno scoperto omologie e dato più importanza alla ‘mediazione’: da un lato perché, lo sappiamo, «le opere esistono sempre in seno a un contesto e in dialogo con esso» (Todorov, 2008: 24), dall’altro perché non c’è opera capace di rivivere in un’aula scolastica,

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se non in relazione all’interrogazione del testo e alle domande che il lettore muove a se stesso. Ed è proprio in questa centralità del giovane lettore «che si colloca oggi il docente mediatore che opera nella scuola e nell’università. Mediatore non tanto e non solo tra studente e opera letteraria, ma fra opera e mondo, fra quello che è costitutivo della forma artistica e quello che attiene all’extra-letterario, alle sollecitazioni della storia, della politica, dell’economia, della società» (Santarone 2010: 374).

Occupandosi di didattica della letteratura, i docenti formatori hanno anche contribuito a sfatare la convinzione generalizzata e distorta fra gli specializzandi che l’insegnamento sia una qualità innata, che la capacità di comunicare sia una competenza spontanea e che la formalizzazione di un percorso didattico serva a irrigidirne e burocratizzarne i processi. Lo hanno fatto utilizzando lo spazio del laboratorio dell’Area Linguistico Letteraria, congeniale all’incontro fra disciplina e progettazione didattica, fra sperimentazione di nuovi modelli formativi e simulazione di situazioni didattiche. Erroneamente equiparato a un atelier, in cui esercitarsi artigianalmente, o a un prontuario prassiologico il laboratorio è di fatto lo spazio essenziale per allenare un habitus comunicativo e per predisporre un docente a un’attitudine riflessiva sul proprio operato.

Purtroppo, l’istituzione del Tirocinio Formativo Attivo (D.M. 249/2010) ha visto una drastica riduzione oraria dei laboratori didattici a sole 15 ore, rispetto al quadruplo circa di ore di un primo anno SSIS, ridimensionamento, che ne ha sminuito l’importanza scientifico-didattica. Di contro, il chiarimento apportato nel D.M. 312/2014 sulla loro conduzione da parte di tutor coordinatori o di docenti esperti di scuola ha creato un primo argine all’annoso problema di una gestione affidata, in alcune realtà universitarie, a docenti privi di un’esperienza consolidata nella scuola.

Bisogna aggiungere, che il primo e il secondo anno del TFA hanno avuto anche un esordio difficile, in quanto non è stato possibile riunire fin dall’inizio tutte le componenti del Consiglio di Corso di Tirocinio, composto da docenti universitari, tutor coordinatori e rappresentanti dell'Ufficio scolastico regionale. I tutor coordinatori solo in primavera sono entrati in servizio, quando cioè tutto era stato programmato, così che la dimensione della ricerca comune fra università e scuola sulla programmazione didattica dei corsi ha trovato nella tempistica dei semiesoneri il maggior ostacolo.

Un ruolo importante nel processo formativo svolge anche il tutor che accoglie in classe il tirocinante, selezione che dovrebbe essere eseguita secondo i parametri del D.M. 8 novembre 2011, cioè sulla base del curriculum per garantire il massimo della professionalità al

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corsista, ma purtroppo solo pochi Istituti Superiori hanno creato graduatorie interne conformi ai criteri ministeriali.

Il nuovo modello di formazione iniziale degli insegnanti di scuola secondaria prefigurato nella legge della Buona Scuola (in forma di delega del Parlamento al Governo) prevede un reclutamento per concorso, superato il quale si accede a un corso di specializzazione universitario della durata di un anno. A questo seguirebbero due anni di tirocino nella rete di scuole di appartenenza e una graduale assunzione della funzione docente tramite supplenze.

La sequenzialità del sistema proposto è anomala rispetto ai vari sistemi europei, che propongono in ambito universitario un modello integrato di formazione teorica e di formazione pratica. Inoltre, l’ipotesi avanzata dalla Buona Scuola sembra non fare distinzioni fra percorso abilitante e assunzione a tempo indeterminate e fa lievitare gli anni per la formazione di un docente rispetto, ad esempio, al sistema tedesco che prevede una durata di sei/sette anni.

Non convince l’interruzione della sinergia università/scuola che ha contraddistinto le migliori esperienze SSIS e TFA, nonché quelle del Programma Operativo Nazionale (PON) impegnato fra il 2007 e il 2013 nella formazione di tutor e di docenti di Letteratura, di Lingue e civiltà straniere e di Lingue classiche. Quest’ultimo è stato un esempio significativo di cooperazione fra università e scuola, equamente presenti nel Comitato Tecnico Scientifico del PON Educazione linguistica

e letteraria in un’ottica plurilingue, nel quale venivano proposte 13 aree

tematiche (fra le quali Temi e i topoi letterari, Generi letterari, Centralità del

testo e Didattica della scrittura), aree che hanno affrontato nodi chiave

dell’educazione linguistica e letteraria con un approccio plurilingue e una forte trasversalità declinata in competenze trasversali metodologiche, metacognitive e sociali.

Una rete d’interlocuzione nazionale fra scuola e università è stato anche il progetto Compìta2, che ha tentato di ripensare l'esperienza della lettura di autori italiani e stranieri all'interno del curriculum, monitorando l’efficacia degli interventi formativi e documentando e diffondendo i materiali della ricerca-azione. Nato dalla collaborazione di dodici università italiane e di un centinaio di docenti dell’area linguistico letteraria di quarantacinque scuole pilota delle secondarie superiori, il progetto ha incentrato la sua ricerca-azione e i suoi seminari nazionali e regionali sull’innovazione metodologico-didattica e sull’elaborazione di un Quadro di riferimento delle competenze linguistico-letterarie per le ultime classi della secondaria di II grado.

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A considerazioni conclusive, viene da augurarsi che vengano rafforzati e sostenuti questi primi vagiti dialogici fra università e pratica scolastica, due mondi poco dialoganti e non percepiti purtroppo come continui, e che la formazione iniziale degli insegnanti qualunque sia la regolamentazione del futuro accesso alla professione non debba ripartire, come è avvenuto in passato, da un azzeramento delle buone pratiche, né delle risorse umane che si sono formate nell’ambito delle SSIS, del TFA, dei PON e di Compìta in questi quindici anni di ricerca-azione.

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L’autrice

Cristina Nesi

Insegnante e docente a contratto all’Università di Siena, si è occupata del racconto breve novecentesco, di letteratura industriale, del teatro del XX sec. È autrice, con Maria Corti, di Dialogo in pubblico (1995 & 2006) e di una monografia su Sebastiano Vassalli (Cadmo, 2005). Di Alfonso Gatto ha raccolto prose inedite e rare Il pallone rosso di Golia (1997) e L'Arno dalla sorgente al mare (2006). Per il Piccolo Teatro di Milano ha curato la mostra e il catalogo Il giacobino Federico Zardi (2002). Ha contribuito a curare per Rizzoli l'opera omnia di Romano Bilenchi (1997) e gli Scritti scelti di Ottiero Ottieri (2009) nei Meridiani Mondadori. Email: crinesi@gmail.com

L’articolo

Data invio: 15/05/2015 Data accettazione: 30/09/2015 Data pubblicazione: 30/11/2015

Come citare questo articolo

Nesi, Cristina, “«La penna l’ho lasciata a casa»: Letteratura e potere”,

L'immaginario politico. Impegno, resistenza, ideologia, Eds. S. Albertazzi, F.

Bertoni, E. Piga, L. Raimondi, G. Tinelli, Between, V.10 (2015), http://www.Betweenjournal.it/.

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