3. COMMENTI ALLE TRADUZIONI
3.1 Emigrantes (1928)
Di questo romanzo ho tradotto i capitoli VIII e IX, che coprono la narrazione del viaggio di Manuel da Bouça verso il Brasile nella terza classe del Darro.
Le vicende sono narrate in terza persona e tutto è descritto e presentato attraverso il punto di vista di chi si trova tra la misera gente che viaggia in terza classe: quello del protagonista Manuel da Bouça, uno dei tantissimi poveracci che viaggiano sul Darro, che vede le cose come gli altri emigranti e ha le loro stesse aspirazioni.
Il capitolo VIII si apre con la descrizione della nave. Prevale il nero: il ponte è «nero», sempre bagnato e scivoloso; la terza classe è «nera, nera, viscosa e soffocante» come «una miniera in piena attività» (p. 65). A mio avviso l’autore insiste sui colori scuri proprio per enfatizzare lo stato d’animo degli emigranti.
Nel testo troviamo molte figure retoriche di significato quali metafore e similitudini, che rendono quello di Ferreira de Castro uno stile molto poetico. Ad esempio l’autore ricorre a questa strategia quando paragona gli oblò della nave a «pupille di vetro opaco incastonate nella parete» o quando ci descrive il mare agitato paragonandolo a «colline blu e mobili» (p. 65).
È anche frequente l’uso da parte di Ferreira de Castro di
personificazioni e animalizzazioni: ad esempio Manuel da Bouça e molti
altri dei suoi compagni di viaggio sono paragonati a cani che respirano con
difficoltà perché hanno appena inseguito una rondine (p. 65). Nel testo
originale l’autore non utilizza il termine di paragone, limitandosi a dire che
«Manuel da Bouça e muitos dos seus companheiros contorciam-se em esforço de vómito e depois ficavam pálidos, olheirentos, a respirar com dificuldade de cão que correu atrás de andorinha.» (p. LXV), ma in italiano ho ritenuto più conveniente rendere quest’immagine come un paragone diretto, aggiungendo il termine «come», anche per far sì che il testo risultasse più scorrevole. Inoltre il Darro è descritto spesso come un ovile fluttuante e gli emigranti sono un grande gregge, paragone per niente esaltante dal momento che le pecore obbediscono sempre senza mai ribellarsi.
Interessanti metafore e personificazioni sono riscontrabili soprattutto nelle parti del testo dove l’autore descrive il tramonto, conferendo spesso al Darro, all’oceano, al sole caratteristiche e comportamenti umani: «Ma si sarebbe potuto dire che qualcuno avesse lanciato un fiammifero alla fine del mare, provocando un grandioso incendio»; «[il sole] poco a poco si arroventava, diventando sangue di carneficina, fulgore di pira incommensurabile che ardeva sul limite dell’oceano…» (p. 70).
Tutti i viaggiatori hanno lo stesso sogno e le stesse speranze: «il mistero, l’illusione del remoto, la fuga dalle grinfie di una laboriosa miseria» (p. 66), la ricerca di un posto ricco che possa mettere fine alle loro sofferenze e alla loro fame, intesa sia come «fame» nel vero senso della parola, sia come «speranza».
È interessante notare che la descrizione di Ferreira de Castro è molto
simile a quella che ci dà Rodrigues Miguéis della terza classe dell’Arlanza,
anche se l’autore di Emigrantes vive il viaggio come un emigrante della
terza classe condividendo con gli altri che si trovano nelle sue stesse
condizioni dolori, sofferenze, speranze e aspettative, mentre Rodrigues
Miguéis passa sulla nave degli emigranti solo tre giorni, il tempo necessario
per arrivare a Cherbourg e prendere poi il piroscafo di lusso che lo porterà
negli Stati Uniti.
Ferreira de Castro procede nella descrizione della nave usando contrasti che mettono in mostra la netta distinzione che esiste tra la prima e la terza classe: in prima classe c’è la musica di un’orchestra, sventolano le écharpe delle donne benestanti e i camerieri sono molto gentili; in terza classe i viaggiatori sono nauseati dai cattivi odori e dalle oscillazioni dello scafo, e su loro aleggiano la monotonia e la preoccupazione per un futuro ignoto.
Nella terza classe viaggiano emigranti russi, galleghi, romeni, italiani, siriani e portoghesi. I galleghi sono solo uomini, forti e rosei, disposti anche alla morte pur di raggiungere quel che neppure conoscono: «partivano alla spera in Dio» (p. 66). Con loro ci sono le polacche dalle belle curve che vanno in Brasile per prostituirsi e ci provano anche sulla nave con i galleghi.
Tra i tanti portoghesi c’è Manuel da Bouça.
Questo flusso di gente segna il passaggio di testimone dalla vecchia Europa al nuovo continente come un esodo costante verso un idolo, come una trasfusione di nuova energia per creare un nuovo mondo che attrae
«con la magia dell’ambizione e dell’avventura» (p. 66).
Ferreira de Castro parla del cosiddetto “sogno americano”
personificando l’America come una donna che «agita la sua mammella piena, grondante d’oro» (p. 66), seducente e ricca.
Secondo l’autore, gli emigranti del suo tempo sono schiavi non di un padrone, come invece lo erano quelli del secolo precedente, ma della loro ambizione: vogliono solo «essere ricchi, ricchi, ricchi» (p. 67). La ripetizione serve proprio a enfatizzare il concetto.
Mentre l’autore dà per scontato che l’espressione «a terceira do
“Darro”» si riferisce alla terza classe del Darro, nella mia traduzione ho
ritenuto opportuno aggiungere sempre il termine «classe» perché in italiano
mi sembrava più corretto.
Per evitare ripetizioni che in italiano potessero “disturbare” lo scorrere della narrazione, mi sono trovata spesso a dover scegliere se utilizzare dei sinonimi o se lasciare il testo così come voleva l’autore, come nel caso di:
A Europa, hipnotizada pela moeda de oiro que a América erguia sobre a linha azul do Atlântico, marchava em êxodo constante à conquista do ídolo. O velho continente abria o peito e entregava ao novo, periodicamente, envolto em trapos, o que ainda tinha de prometedor e de são, numa sangria das sua melhores energias, que se iam caldear com outras na terra distante, para erguer um mundo inédito sob a magia da ambição e da aventura (p. LXVI).
Nel testo originale l’autore utilizza in entrambi i casi il verbo erguer, quindi nella traduzione ho scelto di mantenere la ripetizione del verbo «innalzare», applicando quella che Toury chiama «norma dell’adeguatezza»
1, poiché non ho trasformato il testo originale, eliminando un’antiestetica e molesta ripetizione per rendere il testo più leggibile e far sì che il lettore italiano abbia più facilità di accesso poichè, se l’autore decide di usare delle ripetizioni, questo potrebbe dipendere da una sua scelta stilistica.
Ferreira de Castro fa anche delle lunghe e dettagliate descrizioni del paesaggio, molto poetiche, nelle quali si dà moltissima importanza ai colori nel cielo e sull’oceano. I colori sono uno dei tanti esempi che ci permettono di affermare che la traduzione non si limita a sostituire le parole della lingua di partenza con altrettante parole della lingua d’arrivo perché, come afferma Umberto Eco
2, alcune lingue hanno domini semantici più ricchi di altre. Il dominio semantico dei colori è uno di questi. Infatti, per quanto riguarda i colori e le loro sfumature, l’italiano ha uno specchio cromatico più ricco rispetto al portoghese. Così, mentre noi possiamo dire che generalmente «il cielo è azzurro» e «il mare è blu», in portoghese azzurro e blu si traducono
1 Bruno OSIMO, Propedeutica della traduzione. Corso introduttivo con tavole sinottiche, Hoepli, Milano 2001, p.81.
2 Cfr. Umberto ECO, Dire quasi la stessa cosa. Esperienze di traduzione, Bompiani, Milano 2004, pp. 255-256.
entrambi con azul. Nel testo di Ferreira de Castro ho sempre tradotto azul con «blu», quando questo si riferiva all’oceano, e con «azzurro» quando si riferiva al cielo, ma quando l’autore descrive il calar della sera a pagina LXIX («Na luz crepuscular […] precisavam-se as linhas do oval imenso, […] como se não continuasse para lá do último farrapo de céu azul casado ao último farrapo azul de água.»), ho tradotto in entrambi i casi con «blu»
perché ormai di sera, senza più la luce del sole che lo illumina, anche il cielo si fa scuro e diventa blu, dello stesso colore dell’oceano.
Il capitolo VIII si chiude con l’interessante episodio in cui Ferreira de Castro ci spiega come funzionava all’epoca il controllo dei passaporti degli emigranti, «sottomessi e silenziosi» (p. 71) perché l’autorità incute loro paura, e ci descrive il Commissario del Darro. Vengono scoperti due clandestini, paragonati a «prigionieri» in attesa della fucilazione (p. 71):
sono due uomini giovani, uno portoghese e l’altro spagnolo, imbarcatisi a Vigo senza documenti né soldi, sorpresi nascosti nello scompartimento del bagno. Il Commissario diventa più cattivo (l’autore che lo descrive con gli occhi brillanti come l’acciaio della lama di un coltello) e guarda i due clandestini dall’alto in basso, con superiorità e disprezzo. Come punizione, i due sfortunati viaggiatori sono costretti a lavorare nella fornace della nave, stremati dalla fatica e dal caldo. La fornace ha la «gola vermiglia» ed è
«insaziabile» (p. 73), quasi come fosse un mostro divoratore, la sala macchine sembra l’inferno («folgorazione satanica» (p. 73)) e i due clandestini sono «due poveri cristi» (p. 72).
Nel capitolo IX i viaggiatori avvistano la terraferma, la costa brasiliana.
Qui ritroviamo le scelte stilistiche già operate dall’autore nel capitolo
precedente, quali l’uso di metafore e personificazioni: ad esempio il faro
intermittente che si vede in lontananza è paragonato a un occhio che sbatte
le palpebre, oppure le luci del ponte di comando ci vengono descritte come
due occhi, le cui orbite sono disegnate da una montatura di metallo (p. 75).
Continuano le descrizioni degli emigranti come un’«orda», un
«agglomerato nero della miseria» (p. 76): tutti, accalcati sul ponte di comando, cercano di guardare da lontano la «terra promessa» e ancora una volta sono definiti come un gregge.
Se nel capitolo VIII Ferreira de Castro descriveva il tramonto, in questo descrive il sorgere del sole, sempre in maniera poetica, soffermandosi sulla prima nuvola bianca nel cielo che forma un «castello meraviglioso» e sul mare che con le sue onde sembra «un dorso di cammello» (p. 76).
Quando la nave entra a Rio de Janeiro e vengono nominati e descritti tutti i luoghi caratteristici della città, tutto dà l’idea di un mondo chimerico.
Nel descrivere il paesaggio attorno al Pan di Zucchero, il narratore definisce la Urca come «ligada àquele por vagão aéreo que, visto de longe, parecia brinquedo de crianças, a andar sob um arame» (p. LXXVII). Ho dovuto far ricorso a Internet, cercando su Google Immagini, delle raffigurazioni di Rio de Janeiro perché non riuscivo a capire che cosa fosse quel “vagone aereo” di cui parla Ferreira de Castro e ho trovato che sulla Urca passa una funivia che collega questa al Pan di Zucchero.
Ferreira de Castro ci fa notare ancora una volta il diverso trattamento riservato ai viaggiatori della prima classe, che possono subito scendere dalla nave e andare in città, e a quelli della terza classe, che invece vengono portati con un rimorchiatore all’Isola dei Fiori per ricevere i controlli sanitari e subire, se necessario, la quarantena.
Invece Manuel da Bouça continua il viaggio sul Darro per raggiungere Santos, e resta quindi sulla nave osservando gli altri emigranti della terza classe che salgono sul rimorchiatore, che non hanno nessuno ad aspettarli sul molo, e i viaggiatori della prima classe che al contrario vengono accolti con calore da parenti e amici.
Per quanto riguarda la Ilha Fiscal, ho scelto di tradurre in italiano con
«Isola Fiscale» e aggiungere poi una nota a piè di pagina dove riportare il
nome in portoghese e spiegare di che cosa si trattasse. Così mi sono
comportata anche per la Ilha das Flores, avvicinando il testo al lettore italiano e applicando la cosiddetta «norma dell’accettabilità»
3di Toury.
Per quanto riguarda la traduzione di espressioni proverbiali, come la massima «quem tem boca vai a Roma» (p. LXXXI), che letteralmente in italiano si dovrebbe tradurre con «chi ha bocca va a Roma», ho scelto di seguire il principio dell’equivalenza funzionale di Nida, utilizzando un’espressione proverbiale simile in italiano, sempre per avvicinare il testo al lettore e traducendo quindi con «chiedendo si ottiene tutto».
Al contrario, per la battuta di Afonso «Barco que avista terra e não chega dentro de três horas, ou mete água ou só deve estar de quilha para o ar» (p. LXXVI), ho optato per «Una barca che avvista terra e non arriva in tre ore, o imbarca acqua o è già con la chiglia all’aria», facendo una traduzione più letterale in quanto non si tratta di un proverbio, ma piuttosto di una perla di saggezza dovuta all’esperienza di questo personaggio riguardo alla vita di mare.
Manuel trova un nuovo amico sulla nave, Janardo, e si fa convincere da lui a scendere e fare un giro in città, tra le vie frenetiche e caotiche. Manuel non è abituato a tanta grandezza e osserva tutto con ammirazione ma in realtà anche Janardo, che dice di aver girato molte città, è estasiato di fronte a tanta bellezza. Vedendo le donne che passeggiano per Rio, Manuel si ricorda di sua figlia e di sua moglie, rimaste al suo paese lontano ed è consapevole che al suo arrivo a Santos non ci sarà nessuno ad aspettarlo, neppure chi lo aveva convinto a partire per il Brasile.
Il protagonista incarna la figura di tutti gli emigranti portoghesi partiti per il Brasile all’inizio del XX secolo con la valigia piena di sogni e tornati in patria con invece un pugno di mosche, dopo che quella terra ha rubato loro la gioventù e tutte le energie.
3 Bruno OSIMO, Propedeutica della traduzione. Corso introduttivo con tavole sinottiche, p. 83, cit.
3.2 A Criação do Mundo (1937)
Questo testo, contrariamente agli altri da me scelti, ha come protagonista-emigrante un ragazzino di soli dodici anni che subisce la decisione presa dai suoi genitori. Nei passi da me tradotti si può vedere il suo cambiamento interiore, la sua maturazione avvenuta durante i cinque anni passati in Brasile.
Nel Primo Giorno prevalgono i sentimenti del protagonista, che ci descrive il momento della sua partenza per il Brasile, una mattina d’ottobre.
Capiamo che nutre un affetto speciale nei confronti della comare Maria Ambrósia, che quando era piccolo gli raccontava favole sempre a lieto fine e le cui lacrime, al momento della sua partenza, gli sembrano più calde persino di quelle di sua madre. Poi inizia a piangere disperatamente quando vede il padre in lacrime diventare sempre più piccolo a mano a mano che il treno si allontana dalla stazione di Vila Real. A questo proposito, ho ritenuto giusto specificare che il protagonista partiva da Vila Real, anche se nel testo originale Torga si limita a chiamare quella località Vila. Dal momento che anche la geografia fa parte della cultura e i toponimi locali vengono spesso dati per scontati dagli autori, il traduttore deve saper riconoscere e marcare questo fatto, cercando di avvicinare il più possibile il lettore alla realtà anche geografica del testo, permettendogli quindi di farsi un’idea il più precisa possibile dello spazio dove si svolgono le azioni.
In questo Primo Giorno la città natale del protagonista è sempre vicina a lui, nel suo cuore e negli oggetti che porta con sé come regalo per la famiglia dello zio in Brasile, ed è preoccupato per il futuro che lo attende in quella terra che vede troppo lontana.
Per descrivere al meglio i tanti dubbi che il ragazzo nutre riguardo al
luogo dove è destinato, Torga utilizza la similitudine «[si sente] come un
uccello lontano dal proprio nido» (p. 88). È rassegnato perché altri lo hanno
spedito verso l’ignoto ed è impotente perché vede il Portogallo fuggire da
lui e viceversa: si lascia guidare «come un cieco fiducioso» (p. 88). La figura del cieco torna poi quando il ragazzo viene assalito dai ricordi della sua Agarez in festa, quando risuonavano canzoni su Lisbona suonate per strada da «un cieco accompagnato dal canto di una ragazza giovane e bella»
(p. 89).
In questa prima parte Torga scrive in maniera molto fluida e la narrazione è scorrevole, quindi non ho trovato grandi difficoltà a livello sintattico e di contenuto.
La prima scelta traduttiva che ho dovuto affrontare è stata riguardo al termine ti, quando l’autore parla di «ti Maria Ambrósia, mulher do ti Adriano» (p. LXXXVI). Ho scelto di rendere, per il femminile, il termine ti, il cui traducente italiano sarebbe «zi’» o «zio/zia», con «comare», che allo stesso tempo indica la «donna del vicinato, legata da rapporti di lunga amicizia o consuetudine»
4. Ho deciso di omettere invece il ti riferito ad Adriano, «compare» in italiano, per evitare un’espressione desueta e straniante.
Ho dovuto adattare alcuni verbi relativi alla pulitura del granturco e dei legumi traducendo espressioni come «escaroçar milhão» (letteralmente tirar os caroços a, ossia «snocciolare il granturco»), «descasar favas»
(letteralmente «separare/spaiare le fave») e «esbangar feijões»
(letteralmente «pulire/sbucciare i fagioli») in «scartocciare il granturco»,
«sgranare le fave» e «mondare i fagioli». È interessante notare che Torga utilizza il verbo esbangar in riferimento ai fagioli, quando generalmente si utilizza in riferimento al granturco: esbangar o milho.
5Per quanto riguarda i titoli delle favole che Maria Ambrósia raccontava al ragazzo da bambino, ho deciso di tradurli in italiano per favorire il lettore e di conseguenza le peripezie della Princesa Mangalona diventano le peripezie della Principessa Magalona, il Carvoeiro e seus filhos diventa la
4 Cfr. Il Devoto-Oli, Vocabolario della lingua italiana Il Devoto-Oli, cit.
5 Cfr. AA. VV., Dicionário Eletrônico Houaiss da Língua Portuguesa, Editora Objetiva, Rio de Janeiro 2001 (cd-rom).
favola de Il Carbonaio e i suoi figli e il Gigante das botas de sete léguas diventa la storia de Gli stivali delle sette leghe.
Non sempre il processo di “naturalizzazione” risulta, però, efficace. In alcuni casi il traduttore può scegliere infatti di operare un processo inverso rispetto a quello appena esaminato, decidendo di lasciare parti di testo così come si trovano nell’originale, aggiungendo note che ne favoriscano la lettura. In tal modo mi sono comportata con le vecchie rime cantate dalla madre sulla soglia di casa mentre aspettava il ritorno del figlio (p. 100) nel Terzo Giorno. In questo caso ho infatti scelto di lasciare il testo in portoghese, aggiungendo una nota a piè di pagina con una traduzione di servizio per avvicinare il testo al lettore italiano senza però stravolgere l’originale. Ho deciso di ricorrere a questa strategia perché, trattandosi di versi ripresi dalla tradizione medievale portoghese, mi pareva più giusto mantenerli, per far sì che il lettore italiano li riconoscesse come tali.
Per favorire ancora una volta il lettore italiano ho modificato il termine
«cruzado» (p. LXXXVI) con il più generico «soldo», essendo il cruzado una vecchia moneta portoghese, e il termine «toalha de linho fino» (p.
LXXXVI) con «telo di lino fine» piuttosto che con i più specifici «tovaglia»
o «asciugamano».
Il Secondo Giorno continua la narrazione del viaggio sull’Arlanza, e viene descritto il panico creatosi a bordo durante un terribile temporale che fece preparare le zattere, come scrive Torga, «para o que desse e viesse» (p.
XC). Letteralmente quest’espressione si tradurrebbe «per quel che fosse dato e venuto», ma ho deciso di tradurla utilizzando l’espressione italiana
«a qualsiasi evenienza», a mio avviso più adeguata e comprensibile per un lettore italiano, anche se si perde la dimensione della frase idiomatica.
Appena sbarcato in Brasile il protagonista incontra lo zio, che lo prende
in consegna e come prima cosa lo accompagna in un negozio di vestiti per
adattare il suo abbigliamento alla nuova realtà. Ho tradotto «fato de
surrobeco» (p. XCI) con «vestito di lana cotta», dal momento che il
surrobeco è un tessuto grossolano, giallognolo e resistente, simile al bigello (che però è un tessuto di lana a pelo lungo di colore grigiastro
6).
Quando lo zio viene definito come un «estraneo e padrone» (p. 91), Torga ci dà un’anticipazione di quel che accadrà più avanti nella lettura:
infatti si comporterà da padrone nei confronti del nipote.
Nel testo troviamo termini che in italiano non avrebbero un traducente diretto: è il caso per esempio di «arroba» (p. XCII), ed «engenho» (p.
XCV). Essendo l’arroba un’unità di misura antica tipicamente spagnola e portoghese, ho scelto di lasciare il termine in portoghese, e quindi di marcarlo con il corsivo, aggiungendo una nota a piè di pagina per spiegare la corrispondenza tra arroba e chilogrammo. La stessa cosa ho fatto in seguito con engenho, spiegando, sempre in una nota a piè di pagina, che si tratta di un magazzino, tipico delle piantagioni brasiliane, nel quale si lavora la canna da zucchero.
Il ragazzo si sente solo e angosciato in quel Brasile che lui stesso descrive con aggettivi che rendono bene l’idea, ma viene rinfrancato dalle parole, non tutte comprensibili, di Anacleto, il nero che guida il carro di buoi che lo porterà alla fazenda dello zio. Ho tradotto la battuta di Anacleto
«Seu minino deixe di bobage. Chorar porquê?» (p. XCIII) marcando la sua parlata scorretta in «Banbino, basta sciocheze. Perché tu piangere?», eliminando le consonanti doppie e usando la costruzione con il verbo all’infinito, proprio come sono soliti fare gli stranieri che stanno apprendendo l’italiano.
All’inizio il Brasile, per il protagonista che è venuto per fare fortuna come tutti gli altri emigranti, è solamente la fazenda dello zio. Poi però la sua visione si allarga e il Brasile diventa piantagioni infinite di canna da zucchero e caffè, risaie, pascoli enormi, frutti strani che ad Agarez non aveva mai visto né sentito nominare. Tutto è diverso dalla sua Agarez.
6 Cfr. Il Devoto-Oli, Vocabolario della lingua italiana, cit.
Degno di nota è il parallelismo tra la cena al ristorante con lo zio e il pranzo nella bettola con il padre, poco prima della partenza, parallelismo che serve per creare un contrasto tra la ricchezza dello zio e la povertà della sua famiglia di origine.
Il Terzo Giorno si apre con l’arrivo in treno a Rio de Janeiro per imbarcarsi sull’Andes e tornare in Portogallo. Adesso il narratore guarda quella città in cui era sbarcato cinque anni prima con altri occhi, con gli occhi di un uomo maturo, che non ha più paura, tanto che ottiene la sua rivincita contro quel commerciante che l’aveva snobbato al suo arrivo in Brasile. Anche l’acquisto del libro di Samuel Smiles Chi si aiuta Dio l’aiuta (p. 97), di cui ho riportato il titolo in italiano e per intero nella nota a piè di pagina, ci fa capire che ormai egli si sente un uomo che riuscirà ad affermarsi nella vita e negli affari.
La lettura stimola la sua fantasia, facendogli rivedere i personaggi dei libri nelle persone che lo circondano, riuscendo a capire i loro caratteri e le sensazioni che provano. Proprio per la sua cattiveria e acidità, paragona, ad esempio, la zia alla Megera della mitologia, incarnazione vivente dell’invidia. E nei libri che legge ritrova anche alcuni momenti della sua vita. Quando lo zio lo rimprovera, consigliandogli di non esagerare con la lettura, la zia ribadisce acidamente utilizzando l’espressione «tanto lê, que treslê» (p. XCIX), letteralmente «tanto leggi, che sragioni», che ho scelto di tradurre con l’espressione «chi tanto legge poi vaneggia», quasi come fosse un detto popolare, creando l’allitterazione legge/vaneggia e cercando di mantenere almeno l’assonanza che c’era anche nella figura etimologica originale (lê/treslê).
Sulla nave che lo riporterà in patria con la famiglia dello zio, si sente lo stesso odore di disinfettante che anni prima aveva sentito sull’Arlanza:
interessante è notare che, questa volta, viene utilizzato il nome scientifico
«cloruro di calce», perché il narratore si è acculturato e, studiando, ha
imparato anche questo.
Durante il viaggio di ritorno il protagonista si ribella allo zio e mette fine alla servitù del Morro Velho, ma fa anche il suo primo incontro con la morte, quella del signor Porfírio, un commerciante che dopo tanti anni avrebbe voluto tornare al suo paese per finire lì i suoi giorni. Il cadavere del signor Porfírio, ucciso dalla tisi, viene invece gettato a mare e il suo sarà, come spiega Torga utilizzando un’efficace metafora, un «tumulo di perpetua inquietudine» (p. 99), perché il mare, sempre in movimento, sarà la sua tomba, senza alcun nome inciso sopra, e di conseguenza non potrà mai riposare in quella pace che avrebbe desiderato trovare in patria.
La ribellione all’autorità dello zio inizia a venir fuori a mano a mano che la nave si avvicina a Lisbona. L’avvicinarsi al suo paese natale rafforza il protagonista e indebolisce gli zii: è il Portogallo la sua forza. Una sera, durante un ballo sulla nave, la ribellione si scatena. Lo zio vorrebbe imporgli di invitare la signora Candinha, vecchia e abbruttita dalla meningite che aveva avuto da piccola, ma lui rifiuta categoricamente.
Questa sua opposizione alla volontà autoritaria dello zio continua anche durante il pranzo, quando decide di non mangiare le stesse cose degli altri, ordinando ham and eggs al cameriere inglese, facendo andare su tutte le furie i parenti. Addirittura non va neanche nella cabina dello zio a chiedere la benedizione prima di andare a dormire. Gli zii ormai sono impotenti nei suoi confronti, come la nave che si fa spazio fra le onde lasciandosele dietro vinte e agitate come per dispetto.
Durante la gara di tiro alla fune tra i marinai inglesi dell’equipaggio e
gli emigranti portoghesi, il protagonista mette in opera la sua vendetta nei
confronti di quella nave e dell’Arlanza, che lo aveva ingoiato nella sua stiva
da bambino e da cui erano iniziate tutte le sue sofferenze. Lui rivede nelle
braccia tatuate di quei marinai, le stesse che aveva visto sull’Arlanza cinque
anni prima, e si vuol vendicare anche di loro. Per questo, vedendo i
portoghesi in difficoltà, che stanno per essere facilmente battuti da quegli
uomini forzuti, lega di nascosto l’estremità della fune dalla parte dei
portoghesi a un palo per godersi l’inutile sforzo dei marinai, e tutto questo per dimostrare che «un braccio tatuato può umiliarci solo se la nostra volontà glielo permette…» (p. 103).
Scoperti l’inganno e il suo autore, la famiglia si coalizza contro di lui e inizia a ignorarlo, ma l’idea del ritorno a casa e della sua patria gli danno la forza e lo fanno sentire immune a tutto, come si capisce dalla frase «Il mondo in cui stavo per sbarcare era mio» (p. 104). Ora è lui che esige che sia lo zio a riappacificarsi e a scusarsi per come si era sempre comportato nei suoi confronti, ed è proprio quest’ultimo che va «da pari a pari» (p. 104) a far pace con lui: per il rimorso di come lo ha trattato alla fazenda o perché anche la sua radice si sente riscaldata dalla vicinanza della terra natia.
Quando anche lo zio sente la benefica influenza del Portogallo i due si riavvicinano; il più autoritario dei due si ammorbidisce, in quanto riemerge la sua vera portoghesità di emigrato ancora fortemente legato alle proprie radici.
Ho scelto di tradurre proprio questi passi del romanzo perché Torga mostra molto bene la condizione dell’emigrante e il bagaglio di esperienza che questi porta con sé al suo ritorno in patria. Torga ci dimostra chiaramente che l’attaccamento e l’amore per la terra natia non si attenuano neanche dopo tanti anni di lontananza.
3.3 Gente da Terceira Classe (1962)
In questo racconto, che si presenta come un diario di bordo datato 1935,
tratto dall’omonima raccolta di testi pubblicata nel 1962, Rodrigues
Miguéis evoca in maniera pittoresca i compagni del suo breve viaggio sulla
nave Arlanza, intrapreso il 29 giugno 1935 per arrivare a Cherbourg, dove
salì poi sulla nuovissima, confortevole e lussuosa nave a vapore Normandie, diretta al di là dell’Oceano.
Osservatore attento e perspicace, Miguéis non perse l’occasione di approfittare del viaggio per raccogliere materiale interessante per la cronaca che avrebbe aperto la sua raccolta di racconti del 1962, dedicando paragrafi al racconto delle vicende personali anche passate dei suoi compagni di viaggio, che gli vengono riferite dal pescatore di Figueira, che perciò fa diventare il narratore primo un narratore di secondo grado.
Per superare lo stato di solitudine che lo fa soffrire, il narratore osserva tutte quelle persone che come lui stanno viaggiando nella terza classe dell’Arlanza, in condizioni deplorevoli. Possiamo intuire il suo stato sociale più elevato rispetto al resto dei viaggiatori della terza classe dal momento che indossa un vestito nuovo, comprato appositamente per la traversata e che anche agli occhi degli steward non pare aver niente a che fare con gli altri passeggeri della terza classe (spagnoli, portoghesi, polacchi, galleghi, irlandesi), anche perché ha una buona padronanza dell’inglese. Inizialmente le sue parole mostrano una certa freddezza nei confronti degli emigranti della terza classe, come se si sentisse superiore ai suoi compagni di viaggio (o, come lui stesso afferma a pagina 105, «di sventura»). In seguito però il suo atteggiamento cambia e inizia a sentirsi molto vicino a tutti loro e lontano da quel mondo falso e attento alle apparenze che è la prima classe.
Questo è il caso del passaggio dove afferma
Nunca me senti tão perto de todos eles, tão solitário com todos, nem tão longe do mundo hostil e estranho lá de cima. É deste que eu fujo, é para eles que corro... (Começo a comprender, com espanto, o que me move: um desejo de identificação com os humildes deste mundo…) (p. CVII).
che ho tradotto:
Non mi sono mai sentito così vicino a tutti loro, così solitario con tutti, né così lontano dal mondo ostile ed estraneo là sopra. È da questo che fuggo, è da loro che corro… (Inizio a capire, con stupore, cosa mi muove: un desiderio di identificazione con gli umili di questo mondo…)
.
Il primo aspetto che colpisce il lettore nella descrizione della nave è senza dubbio il fatto che ci sia una divisione netta tra le varie classi e, come già evidenziato nel testo di Ferreira de Castro, anche qui prima e terza classe sono due “mondi” totalmente opposti. Mentre in prima classe i viaggiatori hanno tutte le comodità (elettricità, champagne, musica), nella terza gli emigranti non possono neanche allungare un po’ le gambe e stendersi perché lo spazio è limitato. Gli steward mostrano il loro sdegno e la loro indifferenza, o per meglio dire la loro superiorità e il loro disprezzo nei confronti dei viaggiatori della terza classe. Lo stesso Rodrigues Miguéis, come già si è potuto riscontare in Emigrantes, si riferisce ai viaggiatori di terza classe come a un «gregge umano», «bestiame da macello», «capi di bestiame con il marchio del padrone», mentre quelli della prima sono semplicemente «uomini». Vediamo che, come nel testo di Ferreira de Castro, anche il ricorso ad animalizzazioni è frequente. Ad esempio, la maderense che viaggia con i suoi bambini malati per raggiungere il marito che non vede ormai da quattro anni, è caratterizzata da un «sorriso di umanità canina che si osserva nei poveri ereditariamente rassegnati alla loro sorte» (p. 110), e i suoi piccoli sono descritti come
«agnellini condannati alla decapitazione» (p. 109) e «pollastrelli spennati»
(p. 126). Anche la turca (o libanese) proveniente da Buenos Aires è paragonata a un animale («occhi di capra»), abbandonato nella pancia della nave, vista come un mostro accelerato (p. 116).
Il narratore fa spesso ricorso a metafore e similitudini: la nave è «un guscio di noce», «una pancia mercenaria», «un sepolcro fluttuante» (p.
105); gli emigranti sono «correnti umane» (p. 106) poiché alcuni arrivano e
altri partono; la terza classe è «un lebbrosario» umano (p. 105), un mondo sdegnoso, mentre la prima classe è chiamata «mondo degli uomini» (p.
107), con il ponte che fa da frontiera tra questi due mondi; gli steward diventano «carcerieri» degli emigranti che invece sono i «condannati» (p.
109).
La frase «For Spanish and Portuguese people only» sintetizza la discriminazione razziale che regna sull’Arlanza e la superiorità che gli inglesi sentono riguardo alle altre razze.
Tra tutti i viaggiatori della terza classe i più sfortunati, che Rodrigues Miguéis chiama «quelli di ritorno» e che non sono che una cinquantina, sono costretti a viaggiare ammucchiati gli uni sugli altri in un ambiente poco igienico, «improprio persino per il bestiame da macello» (p. 105). Di ritorno dall’America per raggiungere le terre che un giorno lontano avevano abbandonato, queste povere persone vengono trattate come animali. Il lungo viaggio è aggravato dalla monotonia e dai cattivi odori che arrivano dalle profondità della nave: sudore, vomito, urina, creolina, vernice.
Quello dell’emigrazione “di ritorno” è un tema nuovo, che Torga in A Criação do Mundo accenna appena e che addirittura Ferreira de Castro in Emigrantes tralascia del tutto. Rodrigues Miguéis è il primo autore che ci parla degli emigranti che tornano in patria. Di questi, partiti anni addietro per andare a cercare fortuna oltreoceano, solamente pochi, quelli che si sono arricchiti davvero, sono soddisfatti e felici, ma vuoti dentro. La maggior parte degli «emigranti di ritorno», infatti, sono più poveri di quando erano partiti, senza più passato né futuro, senza speranze né denaro, né forza di lavorare. In particolar modo, l’autore mostra poca simpatia per quei portoghesi imbarcatisi a Lisbona che lodano le grandezze materiali della patria adottiva, per non aver conosciuto né ricchezza né progresso nella loro terra madre e che stanno sempre dalla parte di chi comanda, considerando il denaro come il reale motore del loro trionfo e del mondo.
Da queste considerazioni trapela chiaramente la visione liberale dello
scrittore. Di certo il narratore-autore disprezza quei personaggi mediocri, troppo ambiziosi e sicuri di sé, convinti di essere superiori agli altri e si rispecchia invece nella figura della vecchia di Montalegre, vestita di nero e diretta a Providence dalla figlia, ignara (un po’ come lui) di tutto ciò che la aspetterà al di là dell’oceano. Secondo lui questa donna, che non mangia da tre giorni perché nauseata dal viaggio, vive nella sua semplicità e nella sua umiltà «con una dignità da nobile» (p. 124).
Rodrigues Miguéis mette in evidenza il contrasto tra le emozioni e gli stati d’animo di chi torna e di chi parte, tutto reso efficacemente con una metafora: «correnti umane in quel Mar dei Sargassi, la vita» (p. 106).
L’autore si mostra anche un attento osservatore delle realtà che lo circondano e dà molta importanza al fattore linguistico e alle sfumature e caratteristiche linguistiche dei suoi compagni di viaggio. Non è stato facile rendere in italiano l’idioletto della maderense che, come ci spiega il narratore, «pare abbia perso la lingua madre, e che non abbia ancora scoperto quella matrigna» (p. 109), sfoggiando così una parlata che è una mescolanza di portoghese, americano e maderense. Ho scelto di tradurre l’espressione «Yé meu senhor!» (p. CIX) proprio evidenziando la mescolanza tra inglese e portoghese, optando quindi per «Yeah, signore mio!».
Molto spesso nel testo ci imbattiamo in altri termini inglesi riadattati al portoghese: è il caso di quel «Sou’t’n» che apre il testo e che si riferisce alla meta dell’Arlanza, Southampton, che nella mia traduzione ho voluto marcare traducendo in «Sauten», e venendo incontro al lettore, aggiungendo una nota a piè di pagina. Ma anche di «dolas», che sta per dollars e che io ho reso con «dolars», di «propiadades», che sta per properties e che io ho reso con «propertis», di «Crismas», che sta per Christmas e che io ho reso con «Crismas» e di «cracas», che sta per creckers e che io ho reso con
«creches». Per questi termini ho deciso di scrivere le parole inglesi così
come si pronunciano in italiano, seguendo quella che era stata anche la strategia dell’autore.
Tornando alla figura della maderense, molto difficile è stato tradurre tutte le altre battute da lei pronunciate poiché la sua parlata presenta dei dittonghi là dove nel portoghese standard non esistono, come nel caso di
«economeias» per economias e «meneinos» per meninos (p. CX). Per rendere evidente questa scelta nella traduzione, ho deciso di ricorrere a un italiano substandard in una variante caratterizzata da tratti toscano- occidentali, utilizzando di conseguenza, quando possibile, strutture sintattiche marcate, come nel caso di «Non c’era punti creches pei bimbi»
(p. 110). Ho cercato, dove possibile, di utilizzare l’apocope, vocalica come per l’aggettivo possessivo «suo», che ho trasformato in «su’» (è il caso di
«Ormai un povero Cristo non pole più bersi il su’ cicchetto»), e sillabica nel caso del verbo «fare», che ho trasformato in «fa’» («non si pole più fa’
com’una vorta»). Sono ricorsa all’assimilazione grafica per il termine
«creches» e ho scelto di utilizzare termini popolari come «bimbi» e
«cicchetto» in alternativa a «bambini» e «bicchierino». Per quanto riguarda
la traduzione di «caresteia» e «proeibeido» ho deciso di utilizzare forme
scorrette dei termini corrispondenti in italiano, «caristia» e «vetato», nel
primo caso sostituendo la vocale «e» con la «i» e nel secondo caso
eliminando il dittongo «ie» rendendolo semplicemente con la vocale
anteriore medio-alta. Le difficoltà riscontrate nella traduzione di queste
parti di testo sono dovute al fatto che non è semplice rendere in italiano le
sfumature di una varietà diatopica appartenente a un’altra lingua. Oltretutto
la parlata della maderense è caratterizzata, come già fatto notare in
precedenza, dall’influenza della lingua inglese. Se avessi scelto di tradurre
le parole della maderense in un italiano standard aggiungendo poi una nota
a piè di pagina dove spiegavo la strategia applicata dall’autore, il testo
avrebbe perso senza dubbio la sua verosimiglianza.
Nel caso della donna di Murtosa che sta consegnando due piccoli monelli a una famiglia di Lowell, Rodrigues Miguéis si sofferma sul modo in cui lei si rivolge ai due bambini chiamandoli «demoni», «canaglie»,
«mal-inducados», ossia una forma substandard di maleducado («maleducato»), che ho scelto di rendere con «’gnoranti» (p. 124). Nella frase «…promette loro tremendi castighi una volta arrivati in America, come se la terra di Lincoln e Whitman fosse il Purgatorio» (p. 124), troviamo due figure retoriche: la metonimia, poiché si riferisce all’America come la terra di due americani illustri, e il paragone, poiché l’America è paragonata al Purgatorio. Per continuare con l’isotopia religiosa oscurantista, gli occhi della donna sono paragonati a due grani di rosario di vetro perché duri e neri, mentre il suo sguardo viene in seguito comparato a quello di una vacca in calore, quando è sorpresa a guardare di nascosto l’uomo delle propertis.
Quando Rodrigues Miguéis usa la metafora della vita come una catena di sfingi, utilizza il termine «irrespondíveis» (p. CV), che in italiano ho ritenuto più opportuno tradurre utilizzando l’espressione «che non danno responsi». Ho quindi modificato la struttura sintattica originale per dare più fluidità alla narrazione, preferendo il termine «responsi» («risposte date da un oracolo»
7) al più generico «risposte».
Là dove il narratore scrive
Ao partir, levavam consigo ao menos uma esperança: agora nem isso lhes resta. Muitos deles, com o sonho, seu único luxo, perderam por lá a saúde e a força trabalho, que era toda a sua riqueza (p. CVI)
in italiano ho dovuto omettere alcuni elementi della frase che potessero creare delle noiose ripetizioni. Infatti i pronomi personali consigo e lhes, la contrazione pronominale deles e gli aggettivi possessivi seu e sua, si
7 Cfr. Il Devoto-Oli, Vocabolario della lingua italiana, cit.
traducono in italiano con «con sé» e «loro», non esistendo una distinzione tra femminile e maschile negli aggettivi possessivi plurali. La frase in italiano doveva quindi risultare in questo modo:
Alla partenza, portavano con sé almeno una speranza: ora neppure questo rimane loro. Molti di loro, insieme al sogno, loro unico lusso, là hanno perso la salute e la forza di lavorare, che era tutta la loro ricchezza.
ma ho ritenuto meno pesante renderla con
Alla partenza portavano con sé almeno una speranza: ora neppure questo rimane loro. Molti insieme al sogno, loro unico lusso, là hanno perso la salute e la forza di lavorare, che era tutta la loro ricchezza.
Pittoresca è la coppia di polacchi che si fingono francesi, diretta a Parigi: lei pare essere un’ex prostituta in carne e dalle forme ormai flaccide, controllata a vista dal suo fedele e geloso apale comprato a Baía; l’uomo invece ha l’aspetto di un protettore poco affidabile. La donna viene definita
«carnes de medusa» (p. CX) e, proseguendo nella lettura, «alforreca» (p.
CXII). In italiano ho scelto di utilizzare lo stesso termine «medusa» per tradurre i due termini portoghesi.
L’autore chiama l’uomo alle volte «cáften» (p. CX) e alle volte «chulo»
(p. CXI), quindi nella mia traduzione ho tradotto il primo termine con il più generico «protettore» e il secondo con il più dispregiativo e popolare
«pappone».
Dopo l’episodio del gallego che si ribella a uno steward, il narratore fa
delle considerazioni personali riguardo ai poveri galleghi della terza classe,
definiti «parodia di Cittadini» (p. 115), che tornano in patria più poveri di
quando sono partiti, non avendo guadagnato niente e avendo speso anche le
loro illusioni. La Galizia viene evocata con termini che rimandano alla
tradizione lirica medievale portoghese e paragonata a una donna «triste, raccolta e misteriosa» (p. 115).
C’è una figura etimologica nella frase «Mas vale a pena arriscar a vida para sair do seio deste monstro, onde uns viajam, e outros são viajados» (p.
CXV). Per mantenere questa scelta stilistica, nella mia traduzione ho modificato il verbo viajar (che si tradurrebbe con «viaggiare») preferendo il verbo «navigare» e di conseguenza l’aggettivo «navigati» (nel senso figurato di «persona dalle molteplici esperienze, non necessariamente tutte positive o lodevoli»
8), così che la traduzione diventa «Ma vale la pena rischiare la vita per uscire dal grembo di questo mostro, dove alcuni navigano e altri sono molto navigati».
Quando racconta della turca (o libanese) proveniente da Buenos Aires, il narratore, con un’analessi, ci descrive il giorno in cui si era imbarcato sull’Arlanza e l’aveva intravista dalla porta della cabina: «gemendo e cuspindo sem parar no escarrador ao lado do beliche» (p. CXV). Dato che il verbo cuspir si traduce in italiano con il verbo «sputare» e che l’escarrador è la nostra «sputacchiera», nella mia traduzione ho dovuto sostituire il verbo «sputare» con il verbo «scaracchiare», per evitare una ripetizione che nell’originale non risultava.
Maggiori difficoltà ho trovato nella resa in italiano di termini specifici della partizione agraria, come «courelas, jeiras, tornas e partilhas» (p.
CXVII). Ho utilizzato «campi da arare» per courelas, «iugeri» per jeiras, recuperando l’unità di misura di superficie usata nell’antica Roma, «campi»
per tornas e «parcelle» per partilhas.
Nell’ultimo paragrafo il narratore ci spiega che, appena arrivato a Cherbourg, si imbarcherà sulla Normandie, pagando addirittura meno dei poveri viaggiatori della terza classe, costretti a proseguire la traversata sulla
8 Cfr. Il Devoto-Oli, Vocabolario della lingua italiana, cit.
nave Manhattan, in condizioni simili a quelle che aveva denunciato sull’Arlanza.
Avendo l’opportunità di viaggiare sia con chi torna, sia con chi parte, Rodrigues Miguéis, consapevole che la sua condizione di emigrante è sicuramente una condizione privilegiata rispetto alla loro, fa un’amara riflessione di quello che è stato e di quello che sarà il destino di quei poveri miserabili.
3.4 Holanda e Os comboios que vão para Antuérpia (1963)
Di Herberto Helder ho scelto questi due testi che si riferiscono al periodo in cui l’autore si trovava in Olanda e in Belgio (tra 1955 e 1960).
Come possiamo leggere nel testo di Maria Estela Guedes, molti critici, tra i quali António Ramos Rosa, hanno definito Helder un «poeta obscuro porque insuficientemente estudado pela crítica e ausente de manifestações culturais de natureza oficial»
9. Io lo definirei piuttosto un poeta di difficile interpretazione, soprattutto perché la sua è una prosa abbastanza chiusa, lirica, e questo lo rende uno scrittore difficile da tradurre. Pur trattandosi di testi brevi, Holanda e Os Comboios que vão para Antuérpia sono molto profondi, ed esprimono più degli altri già analizzati la sofferenza dell’uomo-poeta in terra straniera.
In Holanda, benché si tratti di una narrazione in terza persona, Helder si riferisce a se stesso, al poeta che «sta seduto in Olanda e pensa alla tradizione» (p. 127). Qui esprime i suoi pensieri di poeta in una sorta di monologo, riportando le proprie riflessioni interiori, dalle quali capiamo benissimo che non si sente parte integrante dell’ambiente e della cultura che
9 Cfr. il sito Internet: http://www.citi.pt/cultura/literatura/poesia/helder/ (data di accesso: 1 marzo 2010).
lo circondano e per questo afferma di vivere «affogato nella storia di altri uomini» e di avere l’«anima persa» (p. 127).
È solo tra le vacche che pascolano attorno a lui, ed è spaesato. L’Olanda non è un luogo adatto a un poeta lacerato nell’anima. Helder marca fortemente il termine «di-la-ce-ra-do», scandendolo quasi fosse una parola- chiave per tutto il testo e per questo anche nella traduzione il termine
«lacerato» è stato marcato dalla divisione in sillabe: «la-ce-ra-to» (p. 127).
Helder paragona la solitudine del poeta a un grande lago e a un inferno infuocato dove lui, seppur innocente, è costretto a lavorare come un fabbro, perdendo così ogni stimolo (e quindi anche la vena poetica) e la propria identità.
Tutto il testo è arricchito da simboli che rimandano all’inferno, al diabolico, al divino. Helder punta tutto sulla religiosità, creando un netto contrasto tra quella che è la sua tradizione cattolica e il protestantesimo calvinista bigotto praticato dai suoi ospiti. Anche per questo il poeta prova pena per gli Olandesi, che vede rassegnati alla loro vita e ai loro valori.
Anche il Diavolo, in Olanda, si sente solo come lui: il poeta prova pietà anche per il Diavolo. Il Diavolo in Olanda è quindi uguale al poeta, ed ecco che Helder parla di «solitudine diabolica» (p. 128).
La sensibilità poetica riesce a emergere di notte: non sentendosi amato dagli Olandesi e non riuscendo a integrarsi nella nuova comunità dove si sente straniero, estraneo e che a sua volta sente straniera ed estranea, si chiede perché lui vuole amore.
L’Olanda sta prendendo il sopravvento su di lui, lo sta per corrompere con la sua tradizione, fatta di formaggio, latte e panna. Persino Dio viene corrotto dall’Olanda ed è per questo che Helder lo definisce un gran
«divoratore di panna» (p. 128), forse proprio per mostrare la sua diversità da quei calvinisti dalla mentalità ristretta e dal moralismo integralista.
Infatti tra i vari punti del Calvinismo troviamo anche quello che riguarda la
depravazione totale della creatura umana: l’uomo è totalmente contaminato
dal peccato, tanto che tutto ciò che fa ne è inficiato e condizionato. Il Calvinismo prevede anche la privazione di tutti i piaceri sensibili, anche quelli legati alla gola, quindi il fatto che Helder definisca Dio come un
«divoratore di panna» suggerisce una critica all’etica calvinista.
Sia il poeta che il Diavolo (e Dio) soccombono all’Olanda e interessante è la contrapposizione che Helder crea tra l’Olanda, «innalzata [dal mare]
lentamente al concreto» e il poeta stesso che invece «si inabissa nello spirito diabolico» (p. 128).
A un certo punto il poeta sembra pensare al suicidio, pensa di avvelenarsi per punire quel paese così inospitale e lasciargli come ricordo il suo cadavere in eredità. Poi però qualcosa comincia a cambiare in lui perché sente che può provare del bene per quel paese, grazie all’amore che ha dentro, uomo e poeta al tempo stesso. L’Olanda non è più vista come l’inferno e Helder inizia ad ammirare gli Olandesi per l’ingegno che permette loro di rubare la terra al mare e chiede pietà per loro e per sé, riconoscendo di essere stato troppo duro con quel paese e i suoi abitanti.
L’Olanda non è poi quell’inferno che pareva essere all’inizio.
Benché si tratti di un testo in prosa, Holanda ha tutte le caratteristiche di un testo lirico: simbolismo e musicalità in primis. E in quanto testo lirico, qui la libertà del traduttore si trova abbastanza “legata” all’originale. Ecco perché nella traduzione ho mantenuto per esempio il climax formato da tre parole derivate della frase «um poeta tem de partir, repartir, repartir-se», che in italiano diventa «un poeta deve partire, ripartire, ripartirsi» (p. 127).
Lo stesso vale per i repentini cambiamenti temporali che Helder effettua nel testo originale, passando improvvisamente dal presente al passato o all’imperfetto. Generalmente l’autore si affida al presente quando riporta i pensieri del poeta e le battute che questi rivolge all’entità che gli fa la
«visitazione» e usa invece il passato o l’imperfetto quando narra quel che
accade al poeta e le sue azioni. Ma non è sempre così. È il caso, per
esempio, del paragrafo seguente:
Já não escreve poemas nem pergunta às pessoas o seu nome. Ele próprio, visto estar destinado à inteira perdição, vai perdendo o nome pelo país adiante. Agora vigia a paz devoradora dos animais, as coisas, a imobilidade.
Vou partir – imagina. As cidades ardem, os campos enlouquecem. Um poeta tem de partir, repartir, repartir-se. Um poeta deve ser uno. O inferno não o deixa. Às vezes lamenta-se: Sinto-me como se tivesse percorrido o deserto;
não sei nada. À noite falava baixo, conhecendo que não possuía a protecção das coisas e a sua vida estava a ser corroída por uma vocação menos que humilde: degradante. Não servia para nada; essa era a sua mais implacável vocação. Ficava sentado a ver os homens holandeses cuidarem dos animais e da terra e a vigiarem o céu. Os homens holandeses invocavam os poderes que se debruçavam, um pouco omo holandeses, sobre o exercício humano.