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Stefano perché fossero custodite nella conventuale dell’Ordine dei Cavalieri2

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Academic year: 2021

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Capitolo 2.

A Pisa, prima di Giovanni Battista.

1- L’età di Cosimo III è stata letta dalla più recente storiografia come segnata da un rigorismo religioso che sconfinava nel bigottismo e in un puritanesimo scandito da gesti concreti e da altrettante espiazioni. Cosimo III come è noto favorì pellegrinaggi, e di alcuni egli stesso fu protagonista, incoraggiò il culto delle reliquie e la devozione dei santi1, e anche Pisa fu attraversata da manifestazioni religiose, dove il senso della pietà e della contrizione era sopraffatto dal decoro e dal gusto per la pompa. Nel 1683 con una solenne processione impreziosita da apparati festivi cui non era estraneo il recupero dei preziosi teatri urbani di Ferdinando I, Cosimo III ricondusse da Trani a Pisa le reliquie di S. Stefano perché fossero custodite nella conventuale dell’Ordine dei Cavalieri2 . La celebrazione delle reliquie del protomartire fecero da preambolo in città e nei luoghi circonvicini ad una fitta serie di sacre commemorazioni, di trasporti di venerati residui, di lodi cantate, di esposizioni e di incensi, organizzati dal clero locale sotto l’egida del Granduca allo scopo di esaltare le tradizioni religiose del territorio3 .

Nel 1693, a seguito di un Processo che probabilmente risentì delle pressioni esercitate dal Granduca, Innocenzo XII beatificò Pietro Gambacorta, fondatore dell’Ordine degli eremiti di S.

Girolamo4 , caro alle memorie veneziane oltre che pisane, che nei primi del Settecento venne commemorato in una Istoria biografica dal gesuita Antonio Maria Bonucci arricchita da una bellissima antiporta incisa all’acquaforte, raffigurante il Beato inginocchiato di fronte alla Trinità e alla Vergine, con testatine disegnate dal Campiglia e capilettera di Sebastiano Conca5 .

La fortuna devozionale e iconografica del Beato è ancora da ricostruire, ma certo non dovette essere di poco momento, se è vero che ad inizio del nuovo secolo poté vantare due esempi straordinari per firma e tenuta qualitativa: il Beato Gambacorta dipinto da Federico Bencovich per la chiesa di S.

                                                                                                               

1 FANTONI 1993.

2 PALIAGA 1985.

3 Per una storia delle feste religiose a Pisa, anche nell’età di Cosimo III v. CASINI-PALIAGA 1984. Nel 1683, l’anno dell’arrivo delle reliquie di S. Stefano, a Cascina vi fu la rimozione delle ossa di S. Innocenzo; nel 1699 la traslazione del corpo di S. Valentino a Bientina; nel 1688, a Pisa, la traslazione del corpo di S. Ranieri.

4 MORONI 1845, pp. 103-4.

5 BONUCCI 1716. L’acquaforte era stata disegnata da Giovanni Battista Brughi e incisa da Nicola Oddi.

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Sebastiano a Venezia, e quello di analogo soggetto dipinto da Francesco Trevisani a Roma, in S.

Onofrio 6.

La diffusione di culti pisani in seno a Santa Romana Chiesa venne intensificata tra Sei e Settecento da alcuni fatti relativi alla vicenda del patrono, S. Ranieri. Nel 1688 le reliquie del Santo erano state trasportate in un’ampia cappella della Cattedrale, in un’urna realizzata da Giovanni Battista Foggini, perché la valorizzazione della funzione cultuale, oltre che storica, del santo, fosse ben percepibile dai fedeli. L’importanza attribuita a S. Ranieri fu così eloquente da spingere la Nazione pisana a Roma a muoversi “tosto nella sera della vigilia di S. Ranieri ogni tre anni, ad illuminare tutta la via de Serpenti, ed ogni anno in quella chiesa celebrare in onore del medesimo, sontuosissima festa”7. La chiesa in questione altri non era se non quella contigua a via dei Serpenti, la chiesa della Madonna dei Monti, dove il pisano Orazio Gentileschi aveva decorato nel 1599 una cappella con quattro Angeli: Gentileschi, colui che aveva dipinto la volta della Cattedrale di Pisa.

La volontà dei Pisani di promuovere il culto del proprio patrono anche a Roma trovò probabilmente una sponda in Innocenzo XII, che certo doveva vedere positivamente – o almeno non ostacolare – un santo il cui culto si fondava sull’apprezzamento dei valori di povertà e sul totale disinteresse pubblico, che fu un tratto biografico che distinse un papa che molto si batté contro gli arricchimenti del clero e lo sfrenato nepotismo di gran parte di esso8.

Nel 1709, con Clemente XI sul trono di S. Pietro, ancora il Bonucci pubblicò a Roma un volumetto illustrante i Sentimenti di cristiana Pietà cavati dalla divina Scrittura, dedicati a S. Ranieri da un personaggio che, come vedremo, molta parte stava avendo a Pisa nella diffusione del culto del santo: Domenico Cosi del Voglia9 .

Ancora pochi anni, e la popolarità di S. Ranieri a Roma meriterà un’unzione ulteriore e assai significativa, quando assieme alla Beata Giacinta Marescotti diventerà compatrono della

                                                                                                               

6 Per la tela di Bencovich, dipinta tra 1725 e 1728, v. MARTINI 1996. Sul culto di Pietro Gambacorti a Venezia cfr. DA VICENZA 1786 (ma 1731). Già tra Cinque e Seicento Pietro Gambacorti aveva goduto di una diffusa fortuna iconografica, v. i casi di Fabrizio Santafede, autore di una Madonna in Gloria, S. Gerolamo e il Beato Pietro Gambacorta, tuttora nel duomo di Acerra, e della Madonna del Rosario con S. Domenico e il Beato Pietro Gambacorta, dipinta da Cesare Begni e ancora nel convento dei Girolamini a Pesaro.

7 Luminara 2000, p. 112. L’informazione è ricavata da un manoscritto di Matteo Fanucci del 1724.

8 Su papa Pignatelli v. l’ampia voce di AGO 2004.

9 BONUCCI 1709.

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confraternita romana del Sacro Cuore che dal 1732 ebbe sede nella chiesa di S. Teodoro, celebrato in una eloquente tela di Lorenzo Masucci10.

Occorre allora notare come il culto del patrono non stesse diventando un elemento confinato nella pura, anche se importante, dimensione devozionale, ma che a questa si stesse sovrapponendo una percezione ‘laica’, legata ad una pretesa di forte identità storico-culturale. Quando nel terzo decennio del Settecento il lucchese Francesco Banelli firmò una xilografia con S. Ranieri che protegge Pisa, il Santo sembrava quasi come volare sopra il Duomo, ma inginocchiato davanti ad una roccia, col filo delle montagne sullo sfondo: sembrava – era – uno degli anacoreti della Tebaide di Buffalmacco usciti dall’affresco sulla parete del Camposanto, perché fosse chiaro che il culto del santo si riallacciava ad un universo visivo popolare e potente. S. Ranieri patrono di Pisa e custode suo e della sua storia 11.

Nei primi decenni del Settecento, nel cuore dunque del lungo e malinconico regno di Cosimo III, la rivalutazione dell’idea di santità, come è stato bene dimostrato da studi recenti12, si articolò in forme diverse, dove la cattedra si confondeva col trono, e il canto fratto al suono delle trombe.

L’osservanza religiosa e il soddisfacimento del culto diventavano elementi di giustificazione del potere politico, e a Cosimo III non parve certo eccessivo farsi dipingere nelle vesti di S. Giuseppe13 . Allo stesso modo le raffigurazioni dei santi pisani, e in particolare del patrono, rinviavano per sineddoche alla città che quel santo aveva espresso14 .

Questa inedita insistenza su una costellazione sacra di protettori, cadeva del resto in un periodo decisivo per la storia del Granducato. Si inseriva in un arco storico in cui Cosimo III tentava di ribadire l’identità culturale della Toscana favorendo studi, approfondimenti storici e antiquari che in qualche misura avessero il potere di stabilirne la primazia culturale e una forte soggettività politica.

Non a caso nel Granducato, appena morto Cosimo III ma come frutto di un lavoro che affondava le                                                                                                                

10 Il dipinto, scomparso, è documentato da una acquaforte: BURGALASSI-ZACCAGNINI 1997, p. 156 e tav. 56 bis.

(dove però erroneamente s’indicava Batoni come autore della stampa), ma soprattutto PANSECCHI 2005, pp. 134-35, 141 n. (che data la stampa al 1767, ma con una indicazione attributiva forse da rivedere).

11 Per la stampa del Banelli, del 1723 v. Pisa iconografia 1992, pp. 164-65.

12 La Toscana nell’età di Cosimo III 1993.

13 CIARDI 1993, pp. 359-60. Su Cosimo III raffigurato come S. Giuseppe v. FANTONI 1993, pp. 400-401.

14 V. ad esempio il reliquiario eseguito dal Foggini per Cosimo III nel 1718 per la cappella di palazzo Pitti, arricchito da sette statuette in argento con i protettori della Toscana, tra cui, per l’appunto, S. Ranieri (Gli ultimi Medici 1974, p.

352).

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radici proprio nel suo regno, venne stampata finalmente l’Etruria Regali, dove lo scozzese Thomas Dempster celebrava il mito di una Toscana che precedeva i fasti romani, che valeva come caposaldo per una riscrittura della Storia, fino a provocare reazioni assai polemiche, sebbene strutturate in versi anziché nella più acre prosa della trattatistica storica15 . Un testo, giova ricordarlo, che nel trovare finalmente i torchi per merito di Thomas Coke, si era arricchito di una glossa importante e dirimente. Perché se è vero che il testo di Dempster ben poco si soffermava sulle opere d’arte, semmai alle fonti letterarie, nelle integrazioni di Filippo Buonarroti gli elementi artistici (specie quelli architettonici, come è ovvio) vennero affrontati in profondità, a conferma ed integrazione dell’assunto dell’antiquario seicentesco16 .

Sebbene occorresse aspettare l’Istoria del Granducato di Toscana di Riguccio Galluzzi per assistere ad un consapevole sforzo di ricostruzione storica non elusiva nei confronti delle occorrenze figurative17, è certo che la pubblicazione dell’Etruria Regali segnò un passaggio formidabile nel riconoscimento della gloria politica e culturale vista come essenziale per la costruzione della fisionomia di uno Stato, valutata dunque non solo sugli aspetti evenemenziali, ma anche sulle fondamenta materiali del sapere.

La circostanza è importante anche per le nostre cose, perché serve a rendere ragione dell’agiografia pisana. Il recupero del pantheon religioso cittadino, di un universo abitato da santi, beati e martiri, nella sensucht cosimiana bene si correlava alla speculare propensione per la riscoperta dell’identità toscana. L’una, anzi, si scioglieva e si rinforzava nell’altra, come due parti della stessa medaglia.

A Pisa l’autopsia esercitata sul corpo della patristica locale ebbe un correlato di grande suggestione.

La necessità di giungere ad imprese che celebrassero la tradizione religiosa locale venne probabilmente sollecitata da quella, appena conclusa, di esaltazione delle glorie politiche e in qualche modo laiche della città, così come era stata realizzata nell’appena inaugurato nuovo palazzo dei Priori, in quella sala detta delle Baleari dove in tre grandi affreschi erano state celebrate – da                                                                                                                

15 Il Porsenna di Domenico Rolli, uscito a Roma nel 1731 sotto l’egida del pontefice, fu un testo teso a celebrare la vittoria di Roma sugli Etruschi, è probabile che sia stato suggestionato dealla recente pubblicazione dell’Etruria Regali di Thomas Dempster da parte di Thomas Coke (1723), come se il ricordo poetico del trionfo romano fosse stata una risposta al tentativo granducale di descrivere una nuova storia del primato culturale toscano (BENDI-RAMBELLI 2001).

16 Sulle integrazioni del Buonarroti al testo del Dempster, e su come il recupero della Toscana etrusca significasse in qualche modo anche ritrovare un’identità medievale, nel senso delle libertà repubblicane e comunali cfr. GALLO 1986.

17 L’Istoria del Granducato di Toscana sotto il governo della casa Medici, venne commissionata allo storico volterrano direttamente da Pietro Leopoldo nel 1775, e venne pubblicata a Firenze nel 1781.

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Giacomo Farella e da Pier Dandini – alcune tra le più importanti azioni militari della città repubblicana. Palazzo Gambacorti (questo il nome originario del palazzo) si poneva in città come polo laico di così grande rilievo, da conservare con grande cura, e da esibire con pari vanto, una

“testa del conte Ugolino”18, con un intento che non poteva sottrarsi ad un retrogusto polemico e venato da motivazioni identitarie molto forti, che sarebbe interessante poter approfondire anche in relazione a rielaborazioni storiche composte altrove in quegli stessi anni, con una evidente volontà polemica 19.

L’agiografia pisana si arricchiva insomma di sfumature che eccedevano il semplice aspetto devozionale, per costituirsi come fatto capace di designare la fisionomia di una intera comunità.

Nel Settecento, in anni precedenti il costituirsi in sistema di un Aufklärung toscano, il culto di S.

Ranieri beneficiò anche di una divulgazione iconografica capillare (legata soprattutto alla distribuzione d’immagini a stampa20), segno dell’importanza decisiva assegnata al Santo, ma anche della necessità della città di rileggere la propria storia in quella dell’eroe consacrato dai digiuni e da una volontà sottomessa all’Eterno.

Durante le feste in onore di S. Ranieri, i cappellani della Cattedrale amavano festeggiare l’evento applicando alle pareti del Duomo, negli spazi vuoti tra altare e altare, delle plaquette celebrative del Santo. Erano in genere componimenti di scarso o nullo interesse espressivo, dove l’agiografia si dispiegava in facili rime alterne e in applausi poetici d’occasione21

Ma quegli esili fogli volanti già a partire dalla fine del Seicento dovettero contendersi lo spazio lungo le pareti della chiesa con dei quadri, dal momento che in occasione della festa del patrono,

“Alle muraglie laterali della navata principale si accomodavano li soliti velluti della Chiesa con tre bellissimi quadri grandi frà un altare, e l’altro al n. di 9 per cadauna parte ”, e “Sopra questi fu                                                                                                                

18 ASP, Comune D 1139, c. 37, alla data 22.11.1711 p. Il busto, dato come già esistente e posto sopra la porta d’ingresso della Cancelleria, venne ricordato in occasione del suo restauro, eseguito da Giuseppe Giacobbi.

19 Nel 1700 la Repubblica di Genova decise di far decorare a Marcantonio Franceschini palazzo Ducale con una serie di dipinti commemoranti le principali imprese militari della città: per contrappasso, il primo episodio illustrato fu la Battaglia della Meloria (GAVAZZA 1987, p. 239: gli affreschi andarono poi perduti nel 1777).

20 Nel 1714 ad esempio l’Opera del Duomo pagava uno stampatore per le acqueforti di 545 “effigi” del Santo, da distribuirsi il giorno della sua commemorazione (ASP, Opera del Duomo 663, 6.7.1715 p.). Ancora nel 1739 la Compagnia del SS. Sacramento pagava Domenico Casotti per aver fatto 300 “stampe d’indulgenze per fissare alle porte delle chiese” (ASF, Compagnie Religiose Soppresse da Pietro Leopoldo, 2661, Compagnia del SS. Sacramento, 1.10.1740 p. ).

21 BURGALASSI 2004, pp. 127-29. I componimenti (ne sopravvivono almeno venticinque), erano spesso composti dagli stessi cappellani.

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attaccato 20 pezzi di quadri singolari per ciascheduna parte”, in aggiunta ad una “opera in foglio […] con lumi” raffigurante S. Ranieri portato da angeli, dipinta da Giovanni Cammillo Gabrielli (“celebre pittore”), posta in coro22 .

Quando allora di lì a poco il nobile Domenico Cosi del Voglia deliberò d’intraprendere la nota impresa dei quadroni del Duomo, la decisione non fu il frutto di un impulso, come invece lui stesso racconta, improvviso, quasi rapito da una sorta di estasi mistica; bensì il risultato di una meditata applicazione delle ragioni della committenza artistica alle possibilità espressive della tradizione. Il foglietto applicato alla parete tra altare e altare eppoi i quadri lì appesi per il tempo della festa, evidenziavano un’urgenza illustrativa ed emozionale di rilievo, che nel 1699 venne prontamente registrata dal del Voglia, quando determinò – “in far fare per mano di celebri pittori i quadri simili a quelli che sono nella primaziale dall’altare del Santissimo Sacramento con far dipingere in essi le cose più singolari della vita di S. Ranieri, per metterli, come gli altri, per adornamento di quel sacro deposito …”23 .

La risoluzione di decorare l’interno della Cattedrale di Pisa con fatti relativi alla vita di S. Ranieri - e dopo degli altri santi e beati pisani –, fu però decisiva non solo dal punto di vista agiografico e della rivalutazione dell’identità locale24. L’idea di raccontare la vita del Santo con gran dispiego d’illustrazioni e di spazio a sufficienza, con un sussiego illustrativo ineccepibile e alto, con una scelta che non si attardava solo nel riconoscimento del profilo incensurabile del pittore, ma anche della scena raccontata (e del come e del quando: da qui l’estrema importanza affidata ai bozzetti preparatori25), tracciava anche un passaggio ulteriore.

                                                                                                               

22 Luminara 2000, pp. 42, 48. Questo fu quello che avvenne nel marzo del 1689 in occasione dell’inaugurazione del nuovo altare di S. Ranieri di Giovanni Battista Foggini, così come venne documentato da una lettera di Francesco Gaeta ad Antonio Lupo a Venezia. Ma anche Matteo Fanucci, descrivendo la luminara del 1724, parlava di una Cattedrale che quella volta, contrariamente al solito, non era stata addobbata di quadri (Ivi, p. 112).

23 BARSANTI 2001, pp. 160-61. Si tratta di una memoria dello stesso Domenico redatta in data 1.9.1701 pisano (p.) dunque 1700, dal momento che il calendario pisano fino al 20 novembre 1749 era ab Incarnatione Domini: dal 25 marzo, - primo giorno dell’anno - segnava un anno di anticipo rispetto al calendario comune.

24 Il merito di aver fatto del ciclo di quadroni del Duomo un problema storiografico, affrontato nella doppia chiave della lettura parcellare delle singole opere e in quella complessiva del senso culturale e ‘politico’ dell’operazione, spetta a C.

M. Sicca, che lo ha affrontato in varie occasioni in SICCA 1990; SICCA 1993; SICCA 1994 (v. poi le numerose schede dell’autrice in Da Cosimo III 1990, passim). Il primo studio panoramico sui dipinti settecenteschi per il Duomo spetta invece Garms, in un articolo che puntualizzò gli aspetti cronologici delle varie committenze, v. GARMS 1984.

25 SICCA 1990; SICCA 1993.

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La grande galleria di dipinti segnava la meditazione sul fatto miracoloso visto nella sua dimensione storica e parenetica, togliendolo alle angustie della pura percezione religiosa in senso stretto. Il fatto miracoloso, dipinto e illustrato, diventava per l’appunto un fatto, un evento accaduto e dunque storicamente circoscrivibile e comprensibile. L’esigenza di una claritas figurativa, la necessità insomma di esporre meglio che si potesse quei fatti e alla vista di tutti e non solo per poco tempo (quello della festa del Santo), puntavano a fare del quadro un evento che al tempo stesso fosse stato monumento e documento.

In questa prospettiva è allora piuttosto evidente come la decisione di costituire la galleria pisana risentisse del pensiero muratoriano, quello delle precoci riflessioni sopra il buon gusto nelle scienza e nelle arti, dove l’apprezzamento artistico innestava un processo conoscitivo che fondava le proprie basi sulla valorizzazione della tradizione, intesa come passato, come dispositivo antropologico di una collettività. Quello stesso Muratori che esprimeva la necessità che il metodo storico si fondasse sull’esigenza di “accertare, vagliare, interpretare”26 .

Una simile propensione rivolta, anche sulla scia di Mabillon, a far coincidere filologia e storiografia, era del resto rinforzato dallo sviluppo nei primi anni del Settecento in Toscana delle correnti filosofiche materialistiche e atomistiche che, in polemica spesso con le censure della chiesa ed il pirronismo, tendevano a dimostrare come il processo di ricostruzione storiografica del passato si fondasse sui documenti; ovvero, come la storia fosse scoperta dei documenti e loro illustrazione, spiegazione e divulgazione. E a Pisa un tale atteggiamento aveva trovato una validissima breccia in Guido Grandi e Giuseppe Averani, professori presso lo Studio.

2- La promozione dell’iniziativa da parte del del Voglia fu dunque mossa da uno spirito che fu anche di tipo estetico, diretto all’abbellimento della Cattedrale, sebbene congruente con la destinazione dell’edifici. L’idea di promuovere quella che già ai visitatori settecenteschi parve una vera e propria galleria pittorica fatta con precisi criteri artistici, è difficile ritenere che si fosse precisata in base ad una scelta estemporanea o dettata solo dalla pia devozione per il santo patrono.

Infatti Domenico Cosi – non ancora Del Voglia -, giusto pochi mesi prima della sua decisione d’intraprendere la decorazione delle pareti del Duomo di Pisa, era stato ufficialmente “adottato”, cioè fatto famiglio, dall’amico, corrispondente e parente siciliano Giuseppe Del Voglia. Questi,                                                                                                                

26 Fu questo uno dei capisaldi del metodo storiografico consigliato dallo studioso nel cap. XIII delle Riflessioni sopra il buon gusto nelle scienze e nelle arti: MURATORI 1708.

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ultimo rappresentante palermitano della famiglia Del Voglia, una delle tante di origine pisana fuggite in Sicilia per non sottomettersi alla conquista fiorentina, nel marzo del 1698 con la sanzione di un decreto dei Priori pisani aveva infatti aggregato alla propria famiglia Domenico Cosi, riconoscendogli “la facoltà di utilizzare insieme al proprio il cognome dei Del Voglia e la loro arme”27 .

Giuseppe Del Voglia non è però noto alle cronache della storia dell’arte per queste vicende private, o per essere stato presbitero della chiesa di S. Caterina di Olivella, ma per essere stato nel 1689 il destinatario di un dono straordinario: il cosiddetto Libro di arabeschi, composto da parte dell’amico, sodale e corrispondente, Sebastiano Resta28 . Giuseppe del Voglia si trovò quindi a possedere una importante raccolta – una galleria privata – di disegni, che rivelava una vena collezionistica ed un interesse per le arti figurative di grande rilievo. Allo stadio attuale delle ricerche non è possibile stabilire un rapporto causale tra i fatti palermitani e quelli pisani, eppure risulta difficile immaginare che una formidabile raccolta di disegni come quella non rientrasse negli aggiornamenti epistolari tra i parenti di Sicilia e di Toscana, tanto più che il padre oratoriano Sebastiano Resta dal 1697 al 1700 aveva presieduto alla decorazione della chiesa romana di S.

Maria in Vallicella, per la quale aveva concepito l’esecuzione di una serie di dipinti legati tra loro dallo svolgimento di un tema dal forte contenuto teologico ma anche pedagogico, proprio come poi sarà nella Cattedrale pisana29 . Possibile che l’impresa della riscrittura delle pareti di una chiesa sottoforma di un percorso di salvezza, non avesse trovato ospitalità nelle discussioni tra Giuseppe e Domenico Del Voglia?

Che del resto una simile ipotesi sia qualcosa di più di una scommessa metodologica è ulteriormente documentabile. L’intervento di padre Resta a Roma si giustificava anche nella previsione dell’imminente Giubileo: cosa vi era di più coerente con l’Anno Santo dell’esplicazione del percorso di Salvezza? Ma cosa di più appropriato anche per il progetto pisano di Domenico Cosi del Voglia, che per l’appunto era stato ideato nel 1699, alla vigilia dell’Anno Santo? Un progetto che prese corpo in quel Giubileo sul quale molto investì Cosimo III, che andò appositamente a Roma, ne ricavò la cattedra di S. Stefano per arricchirne la chiesa dei Cavalieri di S. Stefano, fu nominato                                                                                                                

27 BARSANTI 2001, p. 17.

28Per le vicende relative alla raccolta di disegni e alla figura di Giuseppe del Voglia v. I disegni del Codice 2007. Il rapporto Pisa-Palermo a proposito dei Del Voglia era stato notato anche da SICCA 2008 a, p. 36.

29 Sul ruolo decisivo svolto da Sebastiano Resta in S. Maria in Vallicella v. DUNN 1982. I dipinti, realizzati da vari autori (Ghezzi, Parodi, Baldi etc), illustravano il tema della salvezza del genere umano attraverso episodi del Vecchio e Nuovo Testamento.

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canonico di S. Pietro per poter visitare le reliquie petrine. Pochi anni dopo, il 10 ottobre 1705, Clemente XI in un Breve concesse l’indulgenza plenaria a chi si fosse accostato ai sacramenti nella Cattedrale di Pisa durante le feste in onore di S. Ranieri30. In quello stesso anno Giuseppe Martini, canonico della Cattedrale pisana, affidava alle stampe il suo Theatrum Basilicae Pisanae, dove il motivo devozionale s’intrecciava saldamente a quello artistico, in modo che l’uno giustificasse l’altro31. Non fu un caso.

Quanto fosse consapevole la volontà di Domenico Cosi del Voglia di operare sul doppio registro dell’esaltazione devozionale e della precisazione storica è attestato dal contenuto delle brevi introduzioni da lui scritte nei volumi che fece stampare in occasione dell’inaugurazione dei dipinti di cui si rese diretto protagonista (i primi del ciclo: quelli di Benedetto Luti e Domenico Maria Muratori), accompagnandoli da Canzoni redatte dal poeta Brandaligio Venerosi. In esse il nobile pisano non solo colse l’occasione per dedicare i volumetti non ad maiorem Dei gloriam, ma ai protettori dei due artefici (rispettivamente Orazio Panciatichi, vescovo di Fiesole, e Giuseppe Renato Imperiale, cardinale di Santa Romana Chiesa), ma finì col restringere l’elogio dei dipinti alla pura sfera artistica, alla mondanissima promozione della fama e della bellezza, non della Fede, cedendo a quell’autocompiacimento tipico dell’amateur che ha indovinato l’investimento32 .

Una simile concezione del Bello, che in Cosi del Voglia non era svincolato dalla quantità di Bene che se ne poteva ricavare, essendo la bellezza artistica al servizio di quella religiosa e politica, era probabilmente la spia di un aggiornamento del nobile pisano sull’estetiche empiristiche (in specie sul pensiero di Gassendi, che come è noto tradizionalmente vantava nello Studio pisano interessati osservatori33), ma che a noi sembra importante anche per il tentativo d’individuare una ragione politica in senso stretto alla nascita del ciclo pittorico della Cattedrale.

                                                                                                               

30 BURGALASSI 2004, p. 48.

31 MARTINI 1795; MARTINI 1723. Per una collocazione storica del testo v. MILONE 2004, pp. 217-24.

32 Significativo è un brano della dedicatoria del volume sul quadro del Luti, dove Cosi del Voglia si compiaceva di aver promosso un’opera così bella, così come del franco successo romano dell’artista fiorentino (VENEROSI 1712, pp. 3-4).

Nel secondo volumetto invece, quello dedicato al dipinto del Muratori, sottolineava che “Quei personaggi, che onorano della lor protezione gli Uomini illustri, godono sommamente, quando gli vedono salire in alto grado di pubblica estimazione …”, perché “il chiaro nome, de’ Soggetti, che proteggono, fa conoscere, ch’eglino con sano accorgimento hanno saputo discernere, e distinguere il perfetto Talento, e all’altrui merito far giustizia …” (VENEROSI 1718, pp. 3- 4).

33 SAVORELLI 2000, pp. 571-72.

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Le prime proposte del ciclo sulla vita di S. Ranieri nella cappella della Cattedrale si orientarono infatti su due soggetti (L’arrivo di S. Ranieri a Gerusalemme e il Ritorno del santo a Pisa) che poi il Luti dopo alcuni iniziali infingimenti ritenne di rivedere e di affrontare a modo suo. L’unica opera delle due che venne consegnata – pur con grave ritardo – fu quella recante un soggetto affatto inusitato e, a ben vedere, meno coinvolgente dei precedenti proposti all’artista fiorentino: la Vestizione di S. Ranieri 34. Nel dipinto si deve notare quanto la presenza del santo inginocchiato davanti ad un altare officiato, con al fianco due presbiteri intenti a sorvegliarne il pallio che lento scende sul suo braccio, sembri rimandare ellitticamente ad una canonizzazione vescovile, fatta secondo il rituale di Santa Romana Chiesa.

S. Ranieri veniva così ad evocare il pastore della chiesa pisana; e il Vescovo poteva sembrare colui che ne prendeva il ruolo perché a questi si rifaceva, perché esisteva una immedesimazione tra Chiesa locale e suo protettore35.

Questo dirottamento di significato non poteva allora essere interpretato se non alla luce delle recenti polemiche che avevano contrapposto il clero locale, guidato fermissimamente dal Vescovo Francesco Pannocchieschi D’Elci, a Cosimo III, in occasione della lacerante polemica sulla potestà ecclesiastica sulla piazza dei Cavalieri che il Granduca in qualità di Gran Maestro stefaniano rivendicava a se stesso, tentando di fatto uno strappo che avrebbe provocato la nascita di una diocesi nella diocesi, col Granduca insignito di una dignità pastorale36 .

                                                                                                               

34 Il dipinto fu commissionato nel 1703, ma venne consegnato nel 1712, come in BOTTARI-TICOZZI II 1822, pp. 78- 80; Settecento pisano 1990, pp. 407-8; DOWLWLY 1962, p. 227; BOWRON 1979, pp. 137, 141-51; Da Cosimo III 1990, pp. 113-16, scheda di C. Sicca; SICCA 1993, pp. 125-28. Sul Luti però v. ora l’importante monografia di MAFFEIS 2012 (v. in partic. pp. 115-22, 248-51).

35 La circostanza assolutamente di rilievo è che il dipinto venne affrontato sulla scorta di un bozzetto “doppo essere stato visto in Firenze da quelle Reali Altezze” (ASP, Opera del Duomo 56, cc. 31-2), quasi una sorta d’investitura ufficiale. Da una lettera inedita del Luti a Orazio Felice Della Seta (s. d. ma allegata ad un’altra missiva del 22.12.1708 sul S. Ranieri), si ricava che a quella data il pittore dichiarava di eseguire “il quadro destinato a V. S. Ill.ma, che da me sarà fatto con quell’amore che si richiede come i sudetti modellini, senza altra replica, si à da consentire che da me se ne farei un donativo a V. S.”: è probabile che si riferisse proprio al dipinto del Duomo, e non ad una commissione privata (AFA. Carteggio Orazio Felice Della Seta, busta 338/341, c. 149, Luti da Roma, s. d.).

36 Le autorità di governo cittadine traslocarono da piazza dei Cavalieri a palazzo Gambacorti nel 1689: l’edificio che era stato dei Priori venne adibito a sede di una magistratura stefaniana, sanzionando così la quasi totale occupazione della piazza da parte dell’Ordine militare. Questo spinse Cosimo III a cercare di creare una nuova diocesi nella piazza stessa, autonoma da quella di Pisa e dipendente dal Trono, nella quale il Granduca, in qualità di Gran Maestro dei Cavalieri, avrebbe cercato di assumere una carica di fatto assimilabile a quella vescovile (GRECO 1984, pp. 110-15).

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Il ciclo di dipinti del Duomo diventava allora il ritratto più somigliante di una comunità intenta a fare i conti con la propria storia. Quando nel 1705 a Livorno venne inaugurato l’Oratorio della confraternita del SS. Sacramento e di S. Giulia, le pareti furono completamente rivestite da una serratissima trama di affreschi, dove alle quadrature di Francesco Natali si alternarono le scene figurate di Alessandro Gherardini: raffiguravano le Storie di S. Ranieri, e questa coincidenza di temi – e di anni -, in un ciclo dipinto in una città che all’epoca era inclusa nella Diocesi di Pisa, qualcosa avrà pur voluto dire37 . E così, quando venne pubblicata la vasta tela di Domenico Maria Muratori per il Duomo – la seconda del ciclo di S. Ranieri 38-, raffigurante S. Ranieri libera un’ossessa, su di essa si abbatterono le ragioni di una censura che ne contesterà l’eccessiva teatralità, quel sedimento di una drammaturgia guercinesca che venne interpretato come demodè (e perché “Se sparsa di troppi lumi, all’occhio molesti, resta mancante al primo colpo di unità di oggetto”)39, sembrando contravvenire alle regole del buongusto, a quella che di lì a poco verrà indicata come regolata devozione. Ma quel telero – che pure incontrò anche l’approvazione di quanti vi lessero la grazia e robustezza del “disegno, fondamento della Romana Scuola”-, andava riletto come il risultato di una autopsia sentimentale aderente al Vero della storia e della sua restituzione: come di un’opera insomma concepita per molcere il pianto al fedele, l’ansia al dilettante, la curiosità all’intendente40 . Era un’opera fatta per convincere e terrorizzare, che alludeva all’inveramento del Verbo nelle vicende degli uomini.

In modo analogo, il terzo episodio della vita del Santo (il Miracolo di S. Ranieri nel monastero di S.

Vito), venne redatto dal bolognese Felice Torelli tra il 1729 e il 1730 41 con un linguaggio che accusava la franca adozione d’impaginazioni carraccesche (di Ludovico, più che di Annibale), ma risolte con fraseggi e gesti che tradivano una forte accelerazione dinamica, la sottolineatura del                                                                                                                

37 Sull’Oratorio v. D’ANIELLO 2001.

38 L’opera, commissionata nel 1712, venne dipinta a Roma entro il 1718 e consegnata nel 1719, come in GUERRIERI BORSOI 1982-83, pp. 39, 45n.; SICCA 1993, pp. 129-30.

39 DA MORRONA, I, 1787, p. 84.

40 Per la citazione v. DA MORRONA 1787, I, pp. 84-5. Sull’impostazione teatrale del dipinto: GIUERRIERI BORSOI 1982-83, pp. 39, 45 n. Per le censure del Gabburri, che insisté sul confronto a perdere tra l’opera del Muratori e il vicino capolavoro del Luti cfr. GABBURRI, II, pp. 681-82. Sulla tela Da Cosimo III 1990, pp. 116-17, scheda di C.

Sicca; SICCA 1993, pp. 129-30; Il Duomo di Pisa 1995, I, scheda di A. Ambrosini, pp. 473-74.

41 Il contratto per l’opera venne firmato a Bologna il 26.1.1729 (ASP, Comune D 1380, alla data); la tela giunse a Pisa nella primavera del 1731 (SICCA 1994, pp. 47-8). Cfr anche MILLER 1964, pp. 60, 66 n.; Settecento pisano 1990, pp.

415-16, GRAZIANI 2005, pp. 87-9, 203-4.

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frastuono della storia, che fu ben presente – e dunque voluta – allo stesso pittore, che reduce da Lucca (dove avrà ammirato il capolavoro del suo defunto maestro Gian Gioseffo del Sole a palazzo Mansi), confessava all’Operaio del Duomo la speranza che il lavoro facesse “il suo spicco”42. In questa animazione dei dipinti del Muratori e del Torelli si traduceva una volontà di far vedere il miracolo nel suo ‘farsi’ nella vicenda degli uomini, ma non per una esclusiva volontà d’immedesimazione popolare, ma perché lo svolgimento dell’azione salvifica di Dio nel teatro degli uomini, il suo intervento diretto nel mondo per liberarlo dal peccato – il contrario insomma di una visione estatica della Fede -, fu come è noto uno dei temi fondamentali del pensiero agostiniano, che sotto l’interpretazione giansenista stava vivendo a Pisa una rinnovata misura di culto e di dottrina43.

Negli stessi anni di queste vicende, un fatto apparentemente secondario che vide protagonista l’Opera del Duomo, per quanto laterale rispetto ad esse, consente qualche chiarimento. Nei primissimi anni del XVIII secolo l’Opera, deliberando l’iniziativa di far redigere una Iconica Sepulcrarum del Camposanto Vecchio, prese una decisione dal doppio significato: da una parte relativa alla volontà di costruire un repertorio di tutti coloro che vi erano sepolti; dall’altra, affidandone la composizione a mani esperte ed ‘artistiche’ anziché a quelle meno sapute di un cancelliere, ribadì la volontà di valorizzare quello che nella coscienza cittadina già cominciava ad essere misurato come un Pantheon, specie da quando l’edificio, non a caso in quegli stessi anni, era stato destinato ad ospitare i marmi romani ed etruschi.

Nelle belle tavole di Domenico Rinaldi – allievo dei Melani, e destinato ad una brillante carriera di architetto44 -, la serie dei sepolcri si valorizzava al segno di una mano educata anche se non sapiente, fino a trasformarli in una successione, meglio in una galleria, di memorie e di marmi figurati, riscattandone così in un fatto artistico l’altrimenti muta scansione dell’elenco. Ad un passo allora dal senso della biografia come storia compiuta, e dal senso di questa come fatta da uomini per                                                                                                                

42 ASP, Comune D 1380, 14.7.1731.

43 PAOLI 2000, pp. 448-57.

44 Da Cosimo III 1990, pp. 49-50, scheda di L. Tongiorgi-A. Tosi; TONGIORGI TOMASI 1993, tavv. XI-XVI. Rinaldi venne pagato per il Sepoltuario nel maggio del 1707 (ASP, Opera del Duomo 662, 18.5.1708 p.). Come architetto progettò i lavori di ristrutturazione della chiesa di S. Eufrasia, che diresse dal 1727 al 1729 (PUTTINI 1996, pp. 42-4).

Altrove viene detto “agrimensore” (ASP, Opera del Duomo 665, 30.8.1730 p. ). Si formò con i Melani, che lo frequentavano “con loro indicibile soddisfazione” (AGOSTINI DELLA SETA 1878, p. 54), e assieme collaborarono al Theatrum del Martini (MARTINI 1723, tav. 33). Del Rinaldi è nota poi un’importante attività nel campo dell’illustrazione naturalistica (TONGIORGI TOMASI 1991, pp. 192-93).

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gli uomini. La valorizzazione insomma di un valore parenetico, dimostrativo della Storia, unito alla preziosa evidenza dell’arte. Che era l’altra faccia, e al contempo il risvolto, della vicenda della rappresentazione delle imprese di S. Ranieri.

Tuttavia la questione dell’identità in quell’inizio secolo tra Cosimo III e Gian Gastone, venne posta anche da altri fatti.

In anni pressoché coevi alla progettazione del ciclo di dipinti per la cappella di S. Ranieri, nel 1706 il poeta arcadico pisano Brandaligio Venerosi rese noto in un paio di lettere che la Comunità di Pisa gli aveva commissionato la redazione degli Annali pisani. Il problema della ricomposizione della storia cittadina sullo stile degli Annales pontificum tendeva evidentemente a diventare qualcosa di più di un’ipotesi di sistemazione diacronica della stessa. Significava portare a termine le Memorie istoriche della città di Pisa 45 che lo storico e canonico Paolo Tronci aveva redatto nella prima metà del Seicento (ed edite postume nel 1682) e che erano servite come testo di riferimento e giustificazione culturale al Luti alle prese con la sua tela con la Repubblica di Pisa nell’atto di ricevere la regina di Maiorca, e al Farelli e Dandini per l’impresa degli affreschi di fine Seicento nella sala delle Baleari46. Significava insomma che la Comunità di Pisa (si noti il sigillo della pubblica commissione) affidando al Venerosi la dettagliata rivisitazione dei fatti pisani da dove li aveva lasciati il Tronci (dal XV secolo fino agli anni correnti), manifestava l’urgenza di una illustrazione storica e civile delle vicende cittadine, il cui senso non poteva non intrecciarsi alla rivisitazione della sua tradizione religiosa a partire dal protettore attuata ancora per mezzo delle immagini.

Il progetto non andò in porto, ma la cosa per noi interessante è che il Venerosi, nel dichiarare l’impresa al suo interlocutore tentò di coinvolgerlo, con parole piane ma che eccedevano la gentilezza di circostanza. Questo signore, questo personaggio cui Brandaligio si affidava con così dichiarata onestà di cuore e d’intenti, rispondeva ad un nome piuttosto cospicuo: Ludovico Antonio Muratori47.

                                                                                                               

45 TRONCI 1682.

46 Su questo v. ora MAFFEIS, pp. 102, 108, 113.

47 La richiesta è parte di una lettera spedita dal Venerosi da Pisa al Muratori, il 5 gennaio 1706: “Sappiate dunque che il pubblico di questa città mi ha eletto a scrivere gli annali della patria; al quale impegno e amore e convenienza mi hanno obbligato. E perché nessuno mi camina avanti con buon lume, converrà alla mia attenzione sudar molto. Chiedo pertanto aiuto a chi può darmelo, e voi illustrissimo signore, siete la mia maggior fiducia; e ardisco pregare la vostra

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Nel pur vasto carteggio dello storico modenese non esiste la minuta delle risposte, che quasi certamente fu negativa48, ma la cosa per noi interessante è che si fosse pensato al soccorso delle sue carte per giungere ad una definizione storiografica calibrata ed esatta della storia cittadina. Una città alla ricerca di se stessa allora, e che si voleva riconoscere in un passato peculiare e tutto suo. Nella sua storia politica e religiosa, sentita come specifica.

La definizione di un profilo della storia e della cultura cittadina dominava infatti le vicende attinenti l’ambito religioso. L’impresa dei quadri di S. Ranieri, e poi dei santi e beati pisani, ebbero una non casuale espansione in altri episodi pressoché coevi, verso la fine degli anni Venti.

Il primo fu quello dell’importante galleria di tele che il pisano Ranieri del Pace e il fiorentino Ottaviano Dandini dipinsero nella chiesa dei SS. Andrea e Lucia a Ripoli, piccola ma elegantissima chiesa settecentesca posta tra Pisa e Cascina. Fu un ciclo avente per soggetto l’esaltazione dei più importanti santi locali (S. Torpè, S. Ranieri, S. Ubaldesca, S. Bona), articolato in storie narrativamente accostanti e composte mediante opzioni stilistiche abbreviate e compendiarie, facili alla comprensione e all’interpretazione emotivamente dettata49 .

L’impresa, realizzata per volontà di Valerio Perelli (protonotario apostolico e cappellano della Primaziale pisana)50, avveniva del resto negli stessi anni in cui a Palermo la Nazione Pisana (quindi anche i Del Voglia), incaricava il pittore fiammingo Federico Borremans di affrescare l’interno                                                                                                                

benignità a ricercare codesta Ducal libreria se vi fosse qualche manoscritto, o particolar notizia di questa città, per approfittarmene in sì gran congiuntura” (MURATORI 1982, pp. 88-9).

48 Lo si deduce da una seconda lettera del Venerosi a Muratori scritta da Pisa il 23 dicembre 1706, dove con tono irritato si richiamava lo storico modenese a far fronte alla richiesta d’aiuto del gennaio precedente: “Io alla migliore stagione mi porterò a quella Dominante per continuare con più fervore il faticoso studio degli annali pisani, al quale vi prego voler conferire con qualche rara notizia della vostra libreria, e già compie l’anno ch’io vi supplicai di tal favore”

(MURATORI 1982, pp. 89-90).

49 Il ciclo è stato datato 1726-27. A Ranieri del Pace, oltre al bellissimo Martirio di S. Andrea sull’altar maggiore, sono state assegnate solo due delle quattro tele laterali: S. Torpé e S. Ranieri. Quello con S. Ubaldesca è stato attribuito con ottimi argomenti a Ottaviano Dandini, mentre il quarto non ha ancora trovato una paternità (CAROFANO 1989; TOSI 1991; SPINELLI 1995, pp. 133-35; BELLESI 2000, p. 105; La Principessa saggia 2006, pp. 380-81, scheda di F. Berti;

BELLESI 2009 vol. I, p. 132).

50 A questo proposito v. un’importante raccolta di poesie dedicate al Perelli (datata 1741 sebbene la prefazione di Matteo Fanucci rechi la data del 1742), dove esplicitamente si fa riferimento all’impresa decorativa promossa a Ripoli, che suggerisce l’idea di come essa fosse stata pensata in rapporto al ciclo decorativo della Cattedrale: Nel celebrarsi 1741.

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della chiesa dei SS. Quaranta Martiri e di S. Ranieri – fondata nel 1605 dalle famiglie pisane dimoranti a Palermo -, con fatti relativi alle Storie di Santi e Beati pisani (Ubaldesca, Agnello, Ranieri, Vernagalli…), arricchiti da vedute della città di origine51. Si assisteva ad un vero e proprio recupero identitario da parte della comunità di Pisa (intra ed extra moenia), che affidava all’immediatezza della pittura la propria chance di restituzione ‘popolare’ ed eidetica .

Ma l’episodio ancor più importante, per il profilo altissimo degli artisti coinvolti e per gli esiti qualitativi dei dipinti, fu quello della decorazione delle pareti laterali della chiesa pisana di S.

Matteo.

La parte superiore dei setti murari dell’edificio posto sul lungarno (la cui volta era stata da poco affrescata dai Melani), verso la fine degli anni Venti venne infatti progressivamente arricchita da quella che giustamente è stata definita la più importante impresa pittorica del Settecento pisano dopo il Duomo. Nel breve volgere di pochi anni la chiesa si arricchì di quattro tele di pittori romani, o di cultura romana, di primissimo piano (Sebastiano Conca, Francesco Trevisani, Jacopo Zoboli, Marco Benefial), impegnati in tele dai soggetti apparentemente eccentrici per l’ambiente pisano, perché se escludiamo quello scontato del Martirio di S. Matteo del Conca - , le altre tre affrontarono temi legati alla conversione di re e di regine52 . Nel 1737 presso la chiesa fu eretta la Compagnia di S. Ranieri e del Beato Pietro Gambacorta, e la circostanza è doppiamente importante: da una parte perché consente di sciogliere i dubbi relativi alla datazione dei dipinti, che sono stati collocati in diversi ambiti cronologici. Ma dall’altra, consente d’interpretare il breve ciclo come manifestazione di uno straordinario sforzo di sinestesia agiografica e celebrativa. Raccontare la vita di S. Matteo e gli episodi legati alle conversioni dei regnanti africani, significava non solo alludere alle predicazioni in Terra Santa di S. Ranieri, ma anche produrre l’eco di quello che fu il ruolo che meglio di ogni altro venne attribuito al Beato Gambacorti: la condotta ascetica e indefessa, rivolta soprattutto alle famiglie nobili, facoltose e titolate.

                                                                                                               

51 BRUGNO’ 1983; GUTTILLA 1983. Borremans dipinse il ciclo dal 1725 al 1727.

52 I dipinti sono: S. Matteo che battezza una regina Etiope (Marco Benefial), S. Matteo che resuscita il figlio del re d’Etiopia (Francesco Trevisani), S. Matteo che impone il velo a una regina etiope (Jacopo Zoboli), e naturalmente il Martirio di S. Matteo (Sebastiano Conca). Il merito di aver per prima approfondito il ciclo di S. Matteo nella sua complessità spetta a SICCA 1990, pp. 247-49; SICCA 2008; della stessa autrice cfr. poi le schede relative ai singoli dipinti in Da Cosimo III 1990, pp. 147-49.

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3- Non vi è dubbio che per i confini di Pisa, l’impresa dei quadroni di S. Ranieri assunse una dimensione centrale, specie dopo che nel 1733 – conclusa la decorazione della cappella di S.

Ranieri col quadro del Torelli - si decise di estendere la serie dei dipinti ai più importanti protagonisti della storia religiosa pisana, fino a coprire le pareti della Cattedrale53, a partire da due episodi della vita del Beato Pietro Gambacorti (che come abbiamo visto nel Settecento aveva affiancato S. Ranieri nella fortuna cultuale e agiografica), affidati a Francesco Mancini e a Sebastiano Conca. Le loro due vaste imprese (consegnate rispettivamente nel 1745 e nel 1748)54, costituirono però una svolta negli orientamenti artistici della ristretta cerchia dei Pisani incaricati di sorvegliare e dirigere la questione degli arredi pittorici della Cattedrale. Così, dal ‘furore’ del Muratori e del Torelli si tornò ad una pittura di tono più pacato e quasi inerte, che certo risentiva del mutato clima artistico di tono classicheggiante – ma non Neoclassico 55 - introdotto da Benedetto XIV, ad un uso dei linguaggi figurativi che Francesco Guidi, il nuovo arcivescovo di Pisa, nelle prediche e nell’omeletica raccomandava fosse accostante e comprensibile, quieto e rassicurante, convincente56 .

A parte il recinto del Duomo, tra Seicento e Settecento le presenze ‘forestiere’ a Pisa non furono marginali.

Anton Domenico Gabbiani ad esempio a Pisa aveva lasciato non flebili tracce di un’attività per niente secondaria e che si era strutturata in significativi rapporti personali con alcune famiglie pisane57. Perduti i suoi dipinti in S. Frediano58, di lui resta ancora nell’ex convento di S. Caterina la                                                                                                                

53 Da Cosimo III 1990, pp. 117-18, scheda di C. Sicca; SICCA 1990, p. 249 (dove la studiosa sottolineava come la prosecuzione del ciclo avesse avuto come probabile esempio la recente decorazione della chiesa di S. Clemente a Roma).

54 I due dipinti furono Il Beato Pietro Gambacorta istituisce il suo Ordine (Francesco Mancini); il Beato Pietro Gambacorta riceve da Martino V l’approvazione della regola (Conca). La tela del Mancini, solitamente ritenuta come situata in duomo nel 1746, in realtà giunse nel dicembre dell’anno precedente (v. ASP, Opera del Duomo 667, 4.12.1746 p.).

55 E’ merito di Ambrosini aver fatto notare le affinità di gusto romano delle due tele e aver mostrato come la declinazione classicheggiante del dipinto del Conca andasse interpretata in senso lato, e non come incunabolo Neoclassico (Il Duomo di Pisa 1995, I, p. 482, scheda di A. Ambrosini).

56 Sulla politica delle arti del pontefice v. Benedetto XIV 1998. Sul prelato pisano e il suo atteggiamento culturale e religioso cfr. BATTISTELLA 1996-1997, pp. 131-36.

57 Nel maggio del 1684 Benedetto Luti si rivolgeva da Pisa al suo maestro con una lettera molto elaborata, dove chiedeva una raccomandazione per i fratelli pisani (BOTTARI-TICOZZI 1822, II, pp. 70-1. La richiesta ebbe esito, e Luti iniziò poi con i Berzighelli un’importante collaborazione (ma v. anche MOUCKE 1762, IV, pp. 200-201, 204).

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sua brumosa e cupa copia del Martirio di S. Cecilia di Orazio Riminaldi, dipinta come risarcimento quando il Gran Principe Ferdinando decise nel 1697 di portare l’originale a Firenze59 . Eppure la sua presenza pisana dovette beneficiare di altri momenti interessanti, se è vero che fino a pochi anni fa un’importante collezione locale poteva esibire alcuni numeri dell’artista di non poco momento (disegni preparatori per affreschi fiorentini), e se nel 1732 Clarice Rosselmini Raù conservava nel proprio palazzo sul lungarno due sue tele60 .

Non ebbe fortuna per altri versi a Pisa il Gabbiani, perché nell’ultimo decennio del Seicento la decorazione della sala cosiddetta delle Baleari in palazzo Gambacorti, affrescata da due storie di Giacomo Farelli o Fardella (“le quali, parlando con V. S. con intera confidenza, non sono state di quella soddisfazione che si credeva”)61, attese invano il suo progettato intervento, che per motivi indecifrabili finì nel nulla, sebbene la decisione finale di affidarne le cure a Pier Dandini – che vi eseguì una bellissima Presa di Gerusalemme – non abbia certo corrisposto ad una facile accontentatura62.

                                                                                                               

58 In S. Frediano aveva dipinto la volta del coro con i Miracoli di S. Frediano e Gloria del Santo e la seconda cappella a destra. Tutti gli affreschi sono andati perduti (PALIAGA-RENZONI 2005, pp. 114-15).

59 Ancora da scrivere è il capitolo dedicato alle sottrazioni operate dal Gran Principe Ferdinando di alcuni capolavori di Orazio Riminaldi. Oltre alla S. Cecilia Ferdinando si procurò per le proprie collezioni anche il Mosè che innalza il serpente di bronzo della tribuna del Duomo – poi restituito da Cosimo III nel 1719 -, il modello con S. Guglielmo battuto dai demoni (già nella chiesa di S. Cristoforo e oggi perduto), e l’Amor vincitore, ora a palazzo Pitti. Per il Mosè la responsabilità di una copia fedele fu affidata al Dandini (“nella quale aveva migliorata particolarmente nella forza di quello che straccia il serpente”), segnalata ora nel palazzo Ducale di Massa (La tribuna 1995, scheda di G. Papi, pp.

210-15, ma v. anche BELLESI 1991 a, p. 180; per l’attività pisana del Dandini cfr. MOUCKE 1762, IV, p. 44). Le attenzioni del Gran Principe per il patrimonio artistico pisano non si limitarono al Riminaldi. Da una nota manoscritta del 1703 si ricava che lo scultore Giuseppe Giacobbi venne pagato per aver eseguito “diversi cavi di gesso, di mascheroni, e altro in Campo Santo per servizio del Ser.mo Prencipe Ferdinando per farne i rilevi [sic] per il medesimo” (ASP, Opera del Duomo 662, 3.2.1703 p.).

60 ASP, Raù dell’Oste 12, ins. 6, 25.5.1732. Un dipinto raffigurava S. Caterina, la Madonna e Gesù. Il secondo sarà da identificare in una S. Cecilia, forse derivata da quella di S. Caterina. Per altri tre disegni collezionati a Pisa, già facenti parte della collezione Camici-Roncioni v. FABBRI 1997, pp. 82-3, 86 n.

61 I due affreschi, eseguiti nel 1693, raffigurano rispettivamente La riconquista della Sardegna; La conquista delle isole Baleari. Non è questa la sede per entrare nel merito dell’annosa questione relativa alla corretta identificazione del loro autore, divisa tra Giacomo Farelli e Giacomo Fardella, riproposta recentemente in MAFFEIS 2012, p. 113 n. (con bibliografia precedente).

62 Sul Gabbiani e il suo progettato intervento in palazzo Gambacorti v. BOTTARI-TICOZZI, V, 1822, pp. 298-99;

BELLESI 1991 a, p. 179 n.

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Ma anche tra i dilettanti, la città e la pertinente campagna non mancarono di esercitare un qualche richiamo. Pandolfo Titi, noto fino a ora solo come autore della prima guida a stampa della città e per una appena discreta Annunciazione già in S. Apollonia63 , fu invece pittore dilettante assai versato e protagonista di una serie considerevole di dipinti (a Pisa e altrove), che lo stesso autore disse eseguiti “gratuitamente […] per lo suo divertimento”, e “per far cosa grata alli suoi Amici”64 . Le sue tele si dimostrano invece meno banali di quanto dichiarato e furono a loro modo paradigmatiche di tanta pittura ‘aristocratica’ settecentesca, dove un sostrato narrativo ricavato dalle frequentazioni nella natale Sansepolcro (dove non mancò di guardare all’impressionante retorica del S. Francesco Saverio di Andrea Pozzo, e ai più accostanti fraseggi di gora bolognese del pasinelliano Giovanni Battista Grati), si riallacciava alla monumentale prestanza del Gabbiani. E il tutto, ovviamente, indagato con un fare rustico disinibito e senza vergogne, dove la mano schietta usciva in composizioni neomanieriste, nel senso di un assemblaggio dove allo stesso tempo si esibiva la cultura affrancata e il banco di scuola65 .

Così fu in due vaste tele riemerse nel Museo Diocesano di Livorno – raffiguranti l’Adorazione dei Magi e l’Apoteosi di S. Felice -, e nel più mediocre Angelo custode di Capannoli 66, dove la sintassi si appoggiava a declinazioni cinquecentesche, con esiti che in qualche modo potevano ben tradire un risentimento gabbianesco.

In quella ricordata sala priorale dove si avvicendavano i pittori alle prese con le glorie militari pisane, nel 1692 fece la sua figura anche il fiorentino Luca Bocci, allievo del Chiavistelli e di Francesco Sacconi, che trasferitosi a Pisa si fece una solida fama di pittor di grottesche e quadrature

67 . Occultate quelle eseguite nel 1706-1707 con Bartolomeo Busoni, suo creato, nella chiesa di S.

                                                                                                               

63 La Guida del Passeggere erudito venne editata nel 1751 (TITI 1751), e venne ben volentieri accolta dal governo locale: ASP, Comune D 108, c. 199, 16.12.1750. L’Annunciazione (ora depositata nel palazzo Arcivescovile) è discussa in CIARDI 1990 a, pp. 50-1.

64 TITI 1751, pp. 134-35.

65 Per queste presenze nell’aretino, e più in generale sull’arte nel Settecento nella città e nel territorio v. Arte in terra di Arezzo 2007

66 Le tele livornesi – firmate e datate 1722 – provengono dalla chiesa di S. Giovanni Gualberto a Valle Benedetta (VIVOLI 1846, p. 604; PIOMBANTI 1903, p. 412). Per la tela conservata nella SS. Annunziata di Capannoli, dipinta presumibilmente nel 1715, cfr. MARITI 2000, p. 98).

67 Per la biografia di Luca Bocci del Gabburri cfr. Settecento pisano 1990, p. 342. V. anche BELLESI 2009, I, p. 87 (dove si accenna anche alla sua attività livornese). Per palazzo dei Priori , v. AMBROSINI 1998, p. 178

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Silvestro (qualche frammento è ora riemerso da sotto l’intonaco68), ci resta di lui un gran daffare a palazzo Gambacorti, con una ricca successione di mensole, finti aggetti, cartelle e volti deliziosamente mostruosi, quello stesso repertorio che gli aveva fatto acquisire meriti anche presso i palati finissimi dei Certosini di Calci69 .

Arricchite in gran parte da Storie del Vecchio Testamento dai fratelli bolognesi Giuseppe Maria e Pietro Roli e dai quadraturisti Paolo Antonio e Rinaldo Guidi, le pitture per la Certosa sono tra le più fantasiose, bizzarre, barocche, tra quante vennero dipinte a Pisa ad inizio secolo. Ne erano talmente consapevoli i pittori, che al momento d’iniziare i lavori vollero espressamente che gli venisse riconosciuta la piena “libertà de pensieri concernenti alla loro pittorica operazione; acciò maggiormente possino far conoscere la loro virtù, uniformando il più possibile l’opera da farsi, con l’opera già fatta, e ornandola di quadratura, prospettiva, fiori, frutti, et altre figure che occorreranno, ad arbitrio de detti s.ri pittori”70. La condizione pregiudiziale, non banalissima, specie per artisti di livello non eccelso e di fama conseguente, è interessante perché indica il livello di consapevolezza del tipo di lavoro che i Bolognesi si apprestavano ad iniziare, certi che la grande messe di fiori e di corone vegetali inframezzate alle scene religiose, avrebbero potuto provocare una qualche notazione d’inadeguatezza per il luogo in cui si era: una chiesa, e per giunta mossa dalla solenne nudità dei canti gregoriani, e non palazzo da ‘uomo d’importanza’. Così, quando nel 1703 morì giù dai palchi Antonio Guidi, e Giuseppe Roli e il Guidi superstite finirono addirittura alle mani, a terminare i fiori venne chiamato giusto Luca Bocci, e la gustosa messe di fiori che vi lasciò dimostrò come il suo fosse un mestiere sapiente ed emancipato, non così lontano da quello del suo maestro Francesco Sacconi 71.

Allievo di Luca Bocci fu, come detto, il pittore Bartolomeo Busoni (talvolta indicato come Buzzoni72). Figlio di un certo Livio (o Olivio) scultore in legno “non affatto mediocre”73 ,                                                                                                                

68 BURRESI 2011, p. 41.

69Per gli affreschi di S. Silvestro v. TITI 1751, p. 173; FANUCCI LOVITCH 1995, pp. 275-76; ACP, Misc. Zucchelli C87, c. 37. Per gli interventi in Certosa MANGHI 1911, pp. 122-23.

70 ASP, Corp. Rel. Soppr. 326, doc. del 20.8.1700 (in calce il saldo per la conclusione dei lavori, alla data 4.10.1703).

71 Sugli affreschi, eseguiti sostanzialmente dal 1700 al 1703, v. MANGHI 1911, passim; LAZZARINI 1990, pp. 188- 180; GIUSTI-LAZZARINI 1993, pp. 83-5; BIONDI 2005, pp. 107-115 (con i riferimenti al fatto che il Guidi “si sia lassato intendere voler venire alle mani con il Sig.r Giuseppe [Roli]”).

72 Così lo chiamava il Gabburri nelle sue Vite di Pittori, dove lo indicava correttamente come allievo del Bocci (GABBURRI, I, p. 442).

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