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CAPITOLO QUARTO Il Carducci

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CAPITOLO QUARTO

Il Carducci magister vitae?

"O poeta dei miei verd'anni [...] eri tanta parte di noi": è il commosso ricordo crociano di Giosuè Carducci, comparso sul Giornale d'Italia il 18 febbraio 1907, "l'ultimo vate nazionale", in aperta polemica con i critici che ne contestano la "poesia da professore", o che intendono salvarne solo qualche frammento paesaggistico (precorrimento, a loro dire, delle Laudi dannunziane); laddove egli innalza, in primis, il cantore della grandezza dell'Italia, quella grandezza un tempo inseguita dai repubblicani, dai carbonari e dalla Giovine Italia, oltre che dai poeti, dai prosatori e dagli uomini di pensiero di tutta un'epoca.

"L'Italia sopra tutto" il motto carducciano, illuminato da un ideale preciso, quello della storia d'Italia inserita nella cornice della storia europea, o meglio, del mondo, e la sua ammirazione era consacrata agli eroi e ai poeti di tutti i popoli, erede, anche in questo, di quell'idea di Risorgimento.

Il poeta amava Garibaldi, lo considerava il suo eroe, "glorioso per fortunate imprese d'armi", e parimenti Mameli, "crociato dell'idea", eroico e gentile: è da ricercare qui il motivo fondamentale del suo ideale guerresco, sempre congiunto alla deprecazione dello spirito di conquista e di oppressione1.

Gli avversari letterari lo etichettavano come poeta oscuro e artificioso, triviale e impigliato nello schema ultimo desunto dalle Odi barbare; i nemici politici e religiosi erano via via scandalizzati dal cantore di Satana, dal sostenitore dell'ideale repubblicano o dall'insultatore del partito che aveva fatto l'unità d'Italia; qualcuno lo riteneva troppo classico e non abbastanza originale per essere il poeta del popolo, facendogli difetto la schiettezza moderna dell'ispirazione: per questo, non essendo stato mai poeta davvero nazionale, non divenne neanche poeta europeo. Per giunta, faceva mostra di ignorare temi eterni della poesia, quali l'amore, l'ebbrezza, il dolore, anzi, non temeva di mostrare verso di essi la propria sostanziale indifferenza: eppure, il temperamento passionale, prerogativa del poeta vero, non gli fa mai difetto, anche laddove la frase appare più teorica e ragionativa.

In definitiva però, ciò che il Carducci disprezza è la lirica ridotta a "secrezione del sentimento"2, e la vita gli appare da accettarsi per quella che è, ossia trepidazione,

dolore, gioia, ma sempre opera necessaria e feconda3, e l'ama come una austera 1 B. Croce, Ripensando a Giosuè Carducci, in "La Critica", XII, (1915), 320-22, 322.

2 B.Croce, Note sulla letteratura italiana nella seconda metà del secolo XIX. Studi sul Carducci. I. Anticarduccianismo

postumo, in "La Critica", VIII, (1910), 1-21, 16.

3 Note, cit. II. Le varie tendenze spirituali del Carducci e le loro armonie e disarmonie, 81-97, 87. Ideale (hegeliano)

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bona mater, che con il senso del dovere dice il semplice senso della vita (motivo che il Croce non poteva non apprezzare).

Nella sua poetica, la figura della donna, già esaltata dai romantici, viene a occupare una posizione precisa, e a essa altro non chiede che una qualche oasi di pace, pochi istanti di abbandono e di sogno nell'attesa serena della morte, di quel momento, cioè, in cui compierà il fatidico passo già compiuto da Omero ellenico e da Dante cristiano, nell'idea che tutto trapassa e niente muore, perchè ciò che fu torna e tornerà nei secoli4.

La sua azione di correttore ed educatore è spesso ricordata a fronte della sua irascibilità e mancanza di tatto: ma si tratta di caratteristiche che non ne intaccano la forza dell'insegnamento, casomai possono indebolirne l'efficacia, privandolo della fiducia che nasce negli animi alla vista della serenità e della calma: tempra di letterato vero, più che spirito teoretico, studioso delle letterature classiche e di quella italiana, e poi di quelle moderne e straniere, critico e storico, raccoglitore ed editore, insomma cultore del passato.

E poi la passione politica, che gli ha valso l'appellativo di "poeta-vate" e che ravviva le sue predilezioni letterarie porgendo loro materia: nel suo ideale poetico sono sempre presenti l'aspetto letterario e quello erudito (la storia che si riversa nella lirica, altra concordanza col Croce); in lui l'amore per i classici è rispetto per l'arte, unito alla modestia dell'uomo di ingegno vero, così come l'antipatia nei confronti di certo romanticismo e l'inclinazione verso la mitologia non sono mera reminiscenza letteraria, ma nostalgia dell'Ellade antica (si pensi al Canto di primavera, in cui ritorna un tema prediletto dal Leopardi, il rimpianto della fine delle fabulae, e della serenità di Roma antica), di quell'ideale di bellezza e di eroicità sempre desiderato (ricordiamo Dinanzi alle Terme di Caracalla, ove dorme "la dea Roma", protetta dalla sua austera grandezza, lontano dai travagli degli uomini della presente età).

Quanto all'amore, inteso (come l'intenderà anche il Croce) come amore-passione, torna o, meglio ancora, fa la sua prima comparsa, negli anni maturi, in liriche quali Alla stazione in un mattino d'inverno, un amore che è voluptas (in senso etimologico), cioè desiderio di sentire e godere la bellezza.

Altro soggetto amato e frequentato quello della natura, della campagna verde e luminosa, sfavillante del lavoro umano, ma anche monumentum delle battaglie d'Italia: poesia campestre e, insieme, poesia storica5.

proposito della doppia libertà dell'uomo (v. cap.I, 7s).

4 Ibid, 89. Vedi anche R.Serra, L'amore nella poesia del Carducci, in Scritti di Renato Serra, II, a cura di G.de Robertis

e A.Grilli, Firenze Le Monnier, 1958², 443-52.

5 Si ricordi il celebre endecasillabo "il divino del pian silenzio verde", di ispirazione virgiliana, con la ardita enallage

finale di fronte alla quale più di un critico ha storto la bocca e che non convince neanche Croce, poichè vi avverte "una nota troppo forte e alquanto stridente" in un sonetto per altro pacato e vigoroso. Cfr. Il sonetto «Il bove», in "La Critica", XXXIX, (1941), 76s.

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La sua storiografia difetta di riflessione mentale: per questo è più epica che storia: ma per quanto riguarda la letteratura italiana, il suo indirizzo critico è ancora - assicura il Croce - il migliore, anche se il filosofo non può condividerne l'antipatia verso il De Sanctis e la critica filosofica dell'arte: eppure, analizzando le diverse tendenze, avvertiamo la differenza esistente tra i due, ossia le diverse culture che agiscono dentro di loro (la meridionale e la toscana), e la sostanziale originalità del De Sanctis rispetto al poeta, che intende accoglierne i motivi fondamentali e i pensieri senza possederne lo spirito animatore, così da insinuare il sospetto di volerlo imitare, con risultati inevitabilmente più pedanti e superficiali.

E «Alla memoria di Francesco De Sanctis e di Giosuè Carducci, due maestri che, per diversa via e con diversi modi, concorsero a formare negli italiani una più schietta e severa coscienza di quel che è la poesia», il Croce dedicherà nel 1936 l'omonima opera.

Il primo contatto tra il Carducci e l'allora giovane erudito napoletano era avvenuto nel 1887, successivamente alla pubblicazione dello studio su Eleonora Fonseca Pimentel, pregiato e citato dal poeta maremmano: avvenimento che il Croce rievocherà anni più tardi con grande riconoscenza in una memoria apparsa sulla Critica, definendolo "giorno memorando"6, e non dimenticherà mai l'accorata

esortazione del maestro a provare "gli studi severi" della filologia, pilastro dell'amore del passato: "Entrate nelle biblioteche e negli archivi d'Italia, [...] sentirete come gli studi fatti in silenzio, con la quieta fatica di tutti i giorni, con la feconda pazienza di chi sa aspettare, con la serenità di chi vede in fine d'ogni intenzione la scienza e la verità, rafforzino, sollevino, migliorino l'ingegno e l'animo"7, nella convinzione che la biblioteca sia il luogo privilegiato

della ricerca e (in particolar modo dopo l'Unità) della raccolta e conservazione del patrimonio librario nazionale.

Dunque, il Carducci come maestro, anche se non l'unico, un maestro che non ha bisogno di essere difeso, se non contro coloro che non lo intendono: e vedremo la predilezione di Renato Serra, anche se, per Serra - avverte Croce - il Carducci era per lo più una guida "nel leggere un libro e nel tollerare la vita", un "Carducci (se non erriamo) alquanto pascolizzato"8.

6 Dalle «Memorie di un critico», in La Critica, XV, (1917), 392-97, 393: "Negli anni seguenti, egli continuò [..] a

lodarmi per le mie fatiche erudite, che gl'inviavo in devoto omaggio".

7 G. Carducci, Edizione nazionale delle opere, XXIV, Bologna Zanichelli 1935-45, 196-7. In quel torno di tempo,

scrive all'amico Sommaruga: "la mia biblioteca e la bibliomania cresce di giorno in giorno", in Edizione nazionale

delle lettere, XVIII, Bologna Zanichelli, 1938-69, 252.

8 B.Croce, Il Carducci come maestro, in "La Critica", IX, (1911), 78-9. Cfr. R.Serra, Per un Catalogo, in Scritti di

Renato Serra, a cura di G.De Robertis e A.Grilli, I, Firenze Le Monnier, 1958², 93. Riserva che il Serra accetta come il difetto principale del proprio scritto: difetto che "è restato nella pagina in cui non ho saputo organizzare tutti gli elementi del mio sentire", cfr. lettera al Croce da Cesena del 15 gennaio 1911, in Epistolario, cit., 354s. Poi sottolinea, crocianamente, "anche l'imperfezione e i difetti sono una parte naturale di ciò che è vivo, condizione perchè duri e diventi migliore".

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Ideale che non esaurisce la vita, perchè sappiamo che per il filosofo napoletano essa è, sì, rassegnazione, ma anche e soprattutto, pensiero e azione.

Innumerevoli le influenze, le derivazioni letterarie e i modelli utilizzati dal Carducci: la sua vastissima erudizione e le molteplici letture hanno lasciato, sì, delle tracce in lui, così come gli avvenimenti politici cui ha assistito, ma il suo animo poetico le ha assorbite e trasformate; la vera personalità poetica del Carducci risiede nella sua evocazione della storia, e l'Inno a Satana ne è la celebrazione, l'apoteosi della forza della ragione e del senso della vita.

"Carducciano impenitente"9 si autodichiara il Croce, pur non disdegnando di veder

precisate e ragionate le accuse rivolte al maestro, poichè è sempre utile avere un solido punto d'appoggio per la discussione, accanto a una serie di argomenti avversi, che, per contrarietà, ravvivano il ben diverso giudizio che si suol recare della poesia carducciana; infatti la critica 'definitiva', come pure la filosofia 'definitiva', non è che un sogno di coloro che non se ne intendono, perchè 'definitiva' non è mai l'opera di pensiero, ma soltanto l'opera d'arte.

Impossibile separare i vari aspetti dell'attività del Carducci (altro aspetto comune ai due), in cui convivono il filologo e il poeta, il letterato, il critico e lo storico, poichè lo spirito animatore è sempre il medesimo, e la grande poesia trae ispirazione dal passato e ad esso aspira, in una specie di corrispondenza senza fine.

Questo sacro rispetto (una specie di nostalgia) della storia e della bellezza antica costituisce il loro trait d'union, retaggio delle discussioni e delle polemiche romantiche del secolo decimonono, incentrate sulle questioni inerenti la poesia (più specificatamente quella storica), punctum saliens della formazione del poeta civile e nazionale: ecco perchè il Carducci non amava il Manzoni e il romanzo in quanto genere, perchè lo intendeva come fase decadente rispetto al linguaggio poetico: poesia come assoluta storicità degli avvenimenti, dunque, ove la storia è intesa, hegelianamente, come Spirito.

Il De Sanctis aveva detto che, morti gli dèi di Omero, era sopravvissuta la poesia eterna dell'Iliade, così come sarebbe sopravvissuta la Divina Commedia se l'Italia fosse morta: nel senso che il contenuto è sottoposto a tutte le vicende della storia, la forma no, e quindi non muore.

La critica letteraria è sintesi a priori, cioè l'intuizione logicamente elaborata di un'opera d'arte, in quanto, nel problema estetico, il sentimento (o lo stato d'animo o il contenuto) senza l'intuizione è cieco, e l'intuizione senza il sentimento è vuota, e i due sono uno, cioè unità sintetica vera e organica, (la forma desanctisiana), che è il contenuto esso medesimo, in quanto arte.

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Lo ha ben presente il poeta toscano nel sonetto dedicato a Dante, in cui evoca un passato che ritorna come momento presente: "Son chiesa e impero una ruina mesta / Cui sorvola il tuo canto e al ciel risona: / Muor Giove, e l'inno del poeta resta", un passato che viene esaltato nelle sue forme belle e non in quelle negative, e l'adesione alla storia è la "catarsi delle vicende umane in quanto accrebbero l'umano nel mondo, e il resto è ombra"10,

per cui resta la memoria dell'azione, della passione dell'uomo nella poesia che eternamente rinasce, a ritrarre un mondo sempre redimibile e sempre redento (e quindi vitale), perchè inteso nella sua positività; ogni evento diventa subito passato, perciò è nella morte, intesa come generatrice della storia, che risiede l'ideale della bellezza e della verità. "L'ora presente è in vano, non fa che percuotere e fugge; / sol nel passato è il bello, sol nel la morte è il vero", e la vita è lotta, azione incessante per non ricadere nella barbarie: altro motivo prediletto dal Croce11.

"Muor Giove, e l'inno del poeta resta": ovvero, il canto sorvola la teoria, e il cammino umano procede a grandi tappe verso un ideale di progresso indefinito: lo spirito non si esaurisce, se mai la questione è vedere se l'inno del poeta c'è realmente; concetto assai intenso della poesia, che conferisce immortalità al suo trapassare incessante il tempo umano.

Il Carducci, in qualità di maestro, è stato amato da una generazione di giovani che lo ha battezzato a sua guida spirituale, "il Carducci nostro, dico di me e dei miei compagni di scuola, che fu l'affetto più grande della nostra giovinezza": parole affettuose di Manara Valgimigli, pronunciate in occasione del centenario della nascita del maestro, nella malinconia come di un grande amore passato che si vorrebbe rivivere con la stessa concretezza e calore, o quella di un figlio che per tutta la vita si porta dentro l'immagine del padre12; un maestro che aveva scoperto da bambino sui giornali

letterari e di cui aveva mandato a memoria gli scritti, infiammato da quella poesia che pure intendeva solo parzialmente (simile all'attrazione crociana verso i testi hegeliani), e di cui non disdegna di rievocare il gusto, quasi la civetteria, di ostentare notizie erudite, vezzo che a taluni giovani non piaceva, specie a quelli che si erano da poco incapricciati di romanzi quali Il piacere o L'innocente, e che per questo lo guardavano

10 F. Flora, Carducci, in AA.VV. Carducci. Discorsi nel cinquantenario della morte, Bologna Zanichelli 1959, 191.

Tangibile in questa idea della storia la lezione vichiana che il poeta conobbe e sentì nella prima giovinezza. Il sonetto Dante è tratto dall'edizione Ricciardi delle poesie, II, Milano-Napoli 2011, 116.

11 Presso l'urna di P.B. Shelley, in Odi barbare, II, in Giosuè Carducci. Opere, t. II. Poesie, cit., 496. Il pensiero

storico-filosofico è nello stesso tempo preparazione all'azione e catarsi dell'azione. Cfr. La storia come pensiero e

come azione, cit., 21: "Noi siamo prodotto del passato, e viviamo immersi nel passato, che tutt'intorno ci preme.

Come muovere a nuova vita, come creare la nostra nuova azione senza uscire dal passato, senza metterci di sopra di esso? E come metterci disopra del passato, se vi siamo dentro, ed esso è noi? Non v'ha che una sola via d'uscita, quella del pensiero, che non rompe il rapporto col passato ma sovr'esso s'innalza idealmente e lo converte in conoscenza". La catarsi è un uscire dalla mischia per contemplarla serenamente e liberamente (ufficio simile a quello svolto dalla poesia). La storia e la conoscenza di essa non sono separabili, perchè è l'identificazione, ottenuta dall'atto del rivivere, che trasforma qualcosa in storia, ed è questo atto di identificazione che assicura la conoscenza della storia.

12 M. Valgimigli, Il nostro Carducci: maestri e scolari della scuola bolognese, Bologna Zanichelli 1935. Bibliotecario

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con sussiego, quando non lo contestavano apertamente; invece Valgimigli e compagni lo amavano ciecamente, e la critica veniva dopo, in modo da leggere i difetti alla luce delle virtù, e non accettavano che le sue opere venissero sezionate salvando ora questo, ora quell'elemento (aspetto rimarcato dal Croce, che sottolinea l'unità del poeta, dello storico e del filologo); e nonostante tutto, dalle difficoltà e dai limiti del temperamento, che il Carducci stesso amava sottolineare, "uscivano giudizi che tagliavano l'aria come lamine di luce"13, intransigenti e solenni, anche se il loro autore

mal sopportava di esser chiamato professore o, peggio ancora, poeta, rivendicando a sè stesso come unica professione quella di uomo.

Da parte sua, invece, il Croce è convinto che, se il Carducci è stato maestro alla nuova generazione, ciò è appunto in virtù del fatto di essere, sostanzialmente, poeta, inteso come creatore di una nuova poesia, di un RSTπος della storia d'Italia che si riflette nella storia del mondo14.

Coloro che amavano acriticamente il poeta di Valdicastello, però, mal sopportavano che il filosofo nei suoi scritti limitasse, per dir così, l'immagine quasi mitologica del loro idolo, abbassandola al livello della critica, se pur in cerca della verità, nell'ambito di un'indagine scaltrita e circostanziata che poneva un discrimine tra perfetto e imperfetto, artificioso e spontaneo, che poi era lo stesso modus operandi usato per distinguere ciò che era vivo e ciò che era morto della filosofia di Hegel, nell'idea che per ammirare davvero uno scrittore è necessario studiarlo profondamente, ed evidenziare le mancanze è utile a sottolineare i pregi.

Celebre la cosiddetta «polemica carducciana», che coinvolse letterati come Romagnoli e Bontempelli contro la Critica (con la C maiuscola e non) del Croce e che ebbe come palcoscenico le Cronache letterarie di V. Morello e del suddetto E. Romagnoli, insieme ad altri giornali: in particolare, ai devoti carducciani non andava giù il fatto che il filosofo facesse difetto alla critica del maestro di una salda dottrina estetica, di una coerente filosofia dell'arte, laddove, a loro dire, lo studio dell'opera d'arte è fine a sè stesso, restìi a fissare un principio fisso e quantomai ostili al criticismo filosofico, "pura e semplice rifrittura di oramai rancide dottrine tedesche"15: diametralmente opposte,

pressochè inconciliabili, posizioni che avrebbero portato al divorzio intellettuale dall'amico filosofo, nel quadro di una polemica sostanzialmente poco organica e feconda.

13 Ibid., 23.

14 "Solo uno spiegò in quel tempo ali d'aquila, e traeva dietro a sé noi giovani, e non fu un pensatore, ma un poeta

[...] E la sua grandezza fu sentita, se anche non compresa a pieno, dai contemporanei; e a lui, nella letteratura e poesia di quella età, si riconobbe sempre un posto in disparte e alto su tutti. [...] A quella poesia, come a fonte di etico vigore, si dovrà tornare e si tornerà, come si torna sempre alla poesia di Dante e di Tasso, di Alfieri e di Foscolo: a quella poesia, che è fin oggi l'ultima e classica - classica nel suo romanticismo - grande poesia italiana", in B. Croce, Storia d'Italia dal 1871 al 1915, Bari Laterza 1928³, 150s.

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Quella carducciana è stata l'ultima grande poesia italiana, classica e romantica insieme, perfetta sintesi di pensiero e azione, valida per amici e avversari, che gli riconoscevano tutti grande ingegno, oltre a a quel culto della verità e della giustizia destinato a informare di sè le generazioni successive di pensatori e scrittori, poeti, critici e politici, anche se, a detta del Valgimigli, il Carducci più vero non lo si sarebbe trovato nei libri, ma nella vita di tutti i giorni, atta a metterne in risalto l'atteggiamento agonistico di fronte alla propria epoca.

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