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Capitolo 3 – La disciplina contemporanea dell’art. 500 c.p.p.: la rinascita del principio del contraddittorio

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Capitolo 3 – La disciplina contemporanea dell’art. 500

c.p.p.: la rinascita del principio del contraddittorio

Sommario

3.1 La legge 267 del 1997 e la sentenza costituzionale 361 del 1998: il “braccio di ferro”

fra politica e magistratura 80

3.2 Il principio del contraddittorio a seguito della riforma costituzionale del 1999 87 3.3 La riformulazione dell’art. 500 c.p.p. ad opera della l. n. 63/2001 c.d. legge sul giusto

processo 105

3.1 La legge 267 del 1997 e la sentenza costituzionale 361 del 1998: il “braccio di ferro” fra politica e magistratura

Nel 1997, in un’atmosfera che nulla ha a che vedere con quella destatasi nel 1992, si hanno i primi tentativi di recupero del principio del contraddittorio. Quella sorta di timore reverenziale che provava il Parlamento nei confronti della Consulta costituzionale è ormai caduto nel dimenticatoio; la politica vuol ristabilire il suo primato nelle decisioni contenutistiche delle fonti legali primarie.

Così, per l’appunto, il primo intervento a salvaguardia del contraddittorio si ha con la legge n. 267/1997. Questa riformula completamente l’art. 513 c.p.p., che, come abbiamo visto, era già stato dichiarato parzialmente incostituzionale dalla sent. cost. 254 del 1992. Sicché, ai sensi del nuovo comma primo dell’art. 513, resta la possibilità, laddove l’imputato sia assente o contumace ovvero rifiuta di rispondere, per il giudice di disporre la lettura, a richiesta di parte, delle dichiarazioni dell’imputato verbalizzate durante l’indagine oppure durante l’udienza

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preliminare, ma, ed è qui la svolta, «tali dichiarazioni non possono essere utilizzate nei confronti di altri senza il loro consenso». Al contempo, per evitare un’eccessiva dispersione di contributo probatorio, al comma 3 si prevede che laddove tali dichiarazioni fossero state rese durante l’incidente probatorio, si sarebbero applicate le disposizioni di cui all’art. 511 c.p.p.: il giudice, anche d’ufficio, avrebbe potuto disporre la lettura, integrale o parziale, e decidere di utilizzare le dichiarazioni ai fini della sua decisione, anche nei confronti di altri, senza necessario consenso. «Sarebbe un’iniziativa meritoria, se a guastarla non concorressero due fattori, indici di ‘garantismo selettivo’», sottolinea Ferrua. In primis, «la settorialità» e l’«incoerenza di una legge che riafferma il valore del contraddittorio […] disinteressandosi del regime inquisitorio prevalso sul terreno della prova testimoniale, con l’efficacia probatoria delle contestazioni e la testimonianza indiretta della polizia» (1). In effetti, è andata sprecata una valida occasione per riformare sistematicamente tutto il settore del contraddittorio: se il vero fine della legge in esame era quello di recuperare le garanzie limitate con le sentenze del 1992, non si coglie il motivo per il quale solo uno degli articoli passati sotto la “scure” della Corte costituzionale abbia meritato una riformulazione. In secundis, «la disposizione transitoria che, deviando dalla regola del tempus regit

actum, suscita il sospetto di mirate interferenze sui processi in corso» (2).

1 FERRUA, Il giusto processo, cit., 9. 2 Idem.

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Invero, l’art. 6 della l. n. 267/1997 sulla transitorietà della legge in discussione, specifica al comma 2 che «nel giudizio di primo grado in corso, quando è stata disposta la lettura, nei confronti di altri senza il loro consenso, dei verbali delle dichiarazioni, rese dalle persone indicate nell'articolo 513 del codice di procedura penale al pubblico ministero, alla polizia giudiziaria da questi delegata o al giudice nel corso delle indagini preliminari o dell'udienza preliminare, ove le parti la richiedano, il giudice dispone la citazione delle predette persone per un nuovo esame». Ordinariamente, l'atto processuale è soggetto alla disciplina vigente al momento in cui viene compiuto, sebbene successiva all'introduzione del giudizio. È però vero che il principio del tempus regit actum non è statuito in Costituzione (bensì all’art. 11, primo comma, delle disposizioni sulla legge in generale), sicché la legge può eccepire a tale ordinaria situazione; ciò non toglie il sospetto di interessi personali di taluni politici indagati in quegli anni.

Il secondo tentativo si ha a livello costituzionale, con l’inserimento del tema sulla giustizia processuale fra quelli affidati alla Commissione bicamerale per le riforme costituzionali, presieduta dall’on. Massimo D’Alema, istituita con la legge costituzionale n. 1 del 1997. I risultati della Bicamerale furono fallimentari su tutti i fronti; le ragioni furono prettamente politiche: la variegata partiticità dei partecipanti non poteva

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che portare a giochi di potere e di accordi, che si conclusero con l’impossibilità di progredire nella discussione (3). Non tutto il lavoro della Bicamerale fu, però, inutile; i principi del “giusto processo” saranno invero ripresi, seppur modificati, dalla riforma costituzionale dell’art. 111.

Il nuovo testo dell’art. 513 c.p.p. venne immediatamente “bombardato” da questioni di legittimità da parte di plurimi giudici di merito. In particolare, la magistratura lamenta lesioni dei principi di cui agli artt. 3 e 24 Cost., giacché vi sarebbe disparità di trattamento, poiché come testé menzionato è necessario il consenso del coimputato, sicché determinati elementi probatori dipendono dalla volontà delle parti «comportando la perdita, ai fini della decisione, di quanto acquisito prima del dibattimento e che sia oggettivamente irripetibile in tale sede, per via della decisione di non rispondere a dibattimento di persone che avevano precedentemente scelto di non avvalersi di tale facoltà rendendo dichiarazioni indizianti nei confronti di altri - pone il giudice nell'impossibilità di emettere una giusta decisione e viola ad un tempo i principi di uguaglianza, legalità, esercizio dell’azione penale, funzione conoscitiva del processo, indefettibilità della giurisdizione ed

3 Per un approfondimento sulla questione, si veda l’articolo di giornale di BUZZANCA,

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essenzialmente lo stesso diritto al contraddittorio» (4); peraltro, ogni questione sollevata fa riferimento alla pregressa giurisprudenza costituzionale, in particolare alla sentenza 254 del 1992. È facilmente immaginabile la conclusione della Corte costituzionale. Con la sent. cost. n. 361 del 1998, l’art. 513 viene dichiarato illegittimo «nella parte in cui non prevede che, qualora il dichiarante rifiuti o comunque ometta in tutto o in parte di rispondere su fatti concernenti la responsabilità di altri già oggetto delle sue precedenti dichiarazioni, in mancanza dell’accordo delle parti alla lettura si applica l’art. 500, commi 2-bis e 4, del codice di procedura penale» (5). Sostanzialmente, secondo la Corte, quando il coimputato restava in silenzio, era possibile utilizzare l’istituto delle contestazioni al testimone, acquisendo comunque al fascicolo del dibattimento le dichiarazioni rese nelle fasi antecedenti. Per concludere in tal senso, la Corte ha effettuato una complessa ricostruzione dei rapporti tra esigenze di ricerca della verità e quelle di tutela del diritto di difesa. Tanto per cominciare, «non ha più ripetuto l’affermazione intransigente del principio di “non dispersione della prova” […]. Al contrario, la Corte ha sostenuto che la funzione di accertamento della verità deve trovare il suo limite nel diritto di difesa dell’imputato» (6). Si tratta di un punto di vista del tutto innovativo ed interessante da parte

4 Corte cost., sent. 14 ottobre 1998, n. 361. 5 Idem.

6 TONINI, Una sentenza additiva molto discussa: a) il diritto a confrontarsi con

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della Consulta, sicuramente apprezzabile. V’è però da sottolineare come il ragionamento sotteso sia in qualche modo pretestuoso. Il fine, infatti, è comunque quello di recuperare materiale probatorio dalla fase antecedente. Se il coimputato nel ragionamento della Corte viene paragonato al testimone, perché limitarsi ad applicare la disciplina delle contestazioni senza estendere in tutto e per tutto la disciplina del teste? Contestazioni che, inoltre, fanno acquisire al dibattimento affermazioni a cui il difensore dell’imputato accusato non aveva avuto modo di assistere e quindi poter scalfire col controesame. Se lo scopo fosse stato tutelare il diritto alla difesa allora è evidente che quanto previsto dalla corte sia «non sufficiente»; «non è così che si tutela il diritto alla prova, e cioè il diritto a confrontarsi con colui che accusa» (7). Insomma, la decisione della Corte segue una logica di applicazione analogica dove forse l’analogia è veramente forzosa. Il risultato è l’aver creato una matassa che solo il legislatore con un intervento ad hoc, mirato e sistematico, avrebbe potuto sciogliere. Sebbene formalmente in sentenza non ve n’è riferimento, a me pare che nuovamente la Corte costituzionale abbia fondato, sia pur più o meno indirettamente, la sua decisione sul principio di “non dispersione della prova”; s’è persa una nuova occasione per mettere fine al “braccio di ferro”, sul tema del contraddittorio, fra magistrati e politici (8). «Senza

7 Ibidem, 1508.

8 Più transigente FERRUA, che sottolinea la «difficoltà di ripudiare i principi fissati

nelle precedenti sentenze» nonché il fatto che «il rifiuto di rispondere del coimputato è già di per sé una sconfitta del contraddittorio», in Il giusto processo, cit., 12.

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dubbio, si può imputare alla Corte di non avere adeguatamente valorizzato il mutato contesto processuale, che offriva alle parti la possibilità di prevenire il rischio del silenzio, assumendo la deposizione del coimputato in incidente probatorio. Ma, contrariamente a quanto di solito si afferma, la nuova dichiarazione di illegittimità non è affatto ‘politica’; essa è semmai troppo ‘impolitica’, per non avere colto che, quanto alla Corte era stato consentito all’epoca della svolta inquisitoria, non sarebbe stato tollerato a sei anni di distanza nel clima sempre più arroventato dei rapporti tra potere politico e magistratura» (9).

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87 3.2 Il principio del contraddittorio a seguito della riforma

costituzionale del 1999

La sentenza costituzionale n. 361 del 1998 scatenò non poche critiche nei confronti della Corte costituzionale. Immediata è la reazione da parte del mondo politico che, seccatamente, accusa i giudici della Consulta di essersi appropriati della funzione legislativa. In sostanza, ciò che doveva levarsi nel 1992 a seguito delle sentenze costituzionali già viste, esplode con forza raddoppiata nel ’98, nei confronti di una sentenza che di fatto ne è corollario (10). Le Camere penali deliberano una settimana di astensione dalle udienze; il Parlamento presenta dodici progetti di legge costituzionale. Lo scopo è chiaro: immettere in Costituzione i principi del giusto processo, in particolar modo quello del contraddittorio, che la Corte costituzionale aveva abbattuto con i suoi precedenti interventi. In tale modo, si voleva mettere in ginocchio i giudici della Corte costituzionale per impedir loro di decidere, pro futuro, sulla base di principi di dubbia derivazione costituzionale. Le varie proposte confluiranno così nella l. cost. n. 2/1999; si noti come, in poco meno di un anno, venga approvata la riforma costituzionale con una maggioranza superiore a due terzi, tale da metterla a riparo dalla richiesta di referendum. La politica gongola soddisfatta; le Camere penali esultano; critica si mantiene, invece, la magistratura.

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Certo, il legislatore avrebbe potuto reagire in altro modo; era veramente necessaria una riforma costituzionale o sarebbe stato sufficiente reintrodurre una modificata disciplina dell’art. 513? Se si tenesse solo di conto il contesto in cui tale riforma si è sviluppata, si dovrebbe concludere che essa è frutto esclusivamente di una calcolata mossa politica; ciò, tuttavia, non è che una visione limitata della faccenda. Una analisi completa della vicenda normativa ci porta a concludere che l’immissione nella carta fondamentale dei principi cardine su cui si doveva fondare il processo era necessaria; invero, il proposito di fondo a cui rispondeva tale riforma era «di pervenire ad una vera e propria costituzionalizzazione dei diritti dell’accusato […], attraverso una operazione di trasferimento nel testo costituzionale […] della maggior parte delle disposizioni dettate nell’art. 6 n. 3» (11) CEDU. Certo, ogni volta in cui si voglia modificare la Costituzione bisogna fare particolare attenzione. Occorrono «prudenti e accurate verifiche su tutte le possibili ricadute riferibili alla modifica di un testo, come quello costituzionale, nel quale anche le virgole, e tanto più le parole, contano» (12). E non si può certo affermare che il legislatore si sia concentrato esclusivamente sugli effetti della riforma dell’art. 111; anzi, dai lavori preparatori si evince come questo dato sia quasi residuale. Peraltro, il fatto di aver

11 Cfr. GREVI, Garanzie soggettive e garanzie oggettive nel processo penale secondo

il progetto di revisione costituzionale, in Riv. it. dir. proc. pen., 1998, 735 ss.

12 Sul punto, GREVI, Quelle rigidità del “giusto processo” che portano a risultati

paradossali, in Guida al diritto, 2000, 11, che riteneva “sospetta” la rapidità

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previsto regole ed eccezioni nel nuovo art. 111 Cost. ha fatto storcere il naso a non poca parte della dottrina, in particolare a chi ritiene che «la disciplina costituzionale» debba «comunque volare alto, contenendosi nella propria portata prescrittiva e, tuttavia, fissando, in modo quanto più possibile inaggirabile, talune statuizioni di base» (13). D’altro canto non si può neppure ammettere che la riforma è solamente frutto di un gioco di potere fra il Parlamento e la Corte costituzionale: sarebbe una bieca falsità. Era altresì impercorribile la soluzione di chi suggeriva di procedere con legge ordinaria alla ricostruzione del contraddittorio piuttosto che con una riforma costituzionale: in primis, poiché si sarebbero comunque dovute seguire le indicazioni della consulta costituzionale, a pena di future e nuove declaratorie di incostituzionalità;

in secundis, poiché le tempistiche non avrebbero permesso una adeguata

e sistematica legge di riforma processuale. Invero, come testé anticipato, la cristallizzazione di principi processuali nella Carta fondamentale era non solo necessaria ma, a mio modo di vedere, doverosa; quanto meno per evitare ricadute dettate dallo spettro, niente affatto scomparso, del processo inquisitorio. «In realtà, il motivo della modifica relativa all’art. 111 va individuata, soprattutto, nel fatto che – quando la Costituzione repubblicana venne elaborata – risultò ignorata la funzione euristica del

13 RUGGERI, Dottrine della costituzione e metodi dei costituzionalisti (prime

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contraddittorio» (14). Secondo ancora troppi giuristi di metà novecento, infatti, il contraddittorio era più un intralcio alla giustizia che un supporto; sicché in Assemblea costituente si preferì non specificare principi processuali, che vennero rilasciati alla competenza del legislatore ordinario. Solo nel corso nel tempo sì riuscì a smuovere i più nel capire che il contraddittorio è efficiente anche nel raggiungere la verità fattuale. Tale considerazione è raggiungibile se si tiene di conto che «nel contraddittorio si scontrano le opposte ragioni, le ipotesi si urtano contro le confutazioni; ma alla fine, attraverso la libera discussione, la verità vien fuori da quest’urto e il problema è risolto» (15). Insomma, a fine anni ’90, specificare in Costituzione che il contraddittorio doveva essere il cardine del processo italiano appariva, ormai, indispensabile ed inevitabile: da un lato, al fine di chiarire definitivamente quale fosse il modello processuale da seguire in Italia; dall’altro lato, per concludere la lotta fra Parlamento e Corte costituzionale sul tema.

Passiamo all’analisi del testo del nuovo art. 111 Cost. Questo esordisce riferendosi, nei primi due commi, a tutti i tipi di processi: «La giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge» (comma 1); «Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in

14 FANUELE, Le contestazioni nell’esame testimoniale, cit., 90.

15 CALAMANDREI, La dialetticità del processo, in Processo e democrazia, Padova,

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condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale. La legge ne assicura la ragionevole durata» (comma 2).

Nel primo comma si è quindi fatto ricorso ad una formula, quella del “giusto processo”, con la quale da tempo la dottrina aveva cercato di rendere in italiano le espressioni usate dalla Convenzione di Roma. Ma cosa comporta questo “innovativo” aggettivo? La dottrina è divisa circa il significato da assegnare alla locuzione. Da un lato, troviamo chi ritiene che detta formula sia incerta nel significato giuridico poiché, effettivamente, nulla aggiungeva rispetto alle concezioni del passato (16); dall’altro lato, invece, vi è chi ritiene tale concetto come un limite, il quale ha come scopo quello di instradare il legislatore nella scelta delle possibili soluzioni per costruire l’architrave del processo (17). Tuttavia, già da tempo la giurisprudenza utilizzava siffatto termine che, come or ora menzionato, sembra aggiungere ben poco nei contenuti: «sia perché esso non può, meccanicisticamente e in senso retroattivo, configurare come ingiusto ogni processo che si sia svolto antecedentemente alla promulgazione della norma costituzionale, sia perché è la legge costituzionale stessa a riservare alla legge ordinaria la attuazione del principio, con ciò presupponendo che le leggi processuali precedenti […]

16 Per Riccio, ad es., «risulta indiscutibile che il principio del contraddittorio è già

fortemente dichiarato dal raccordo tra gli artt. 24 comma 2 e 27 comma 2 Cost.», RICCIO, Diritto al contraddittorio e riforme costituzionali, in Politica del diritto 3, 1999, 494.

17 In questo senso SPANGHER, Il “giusto processo” penale, in Studium iuris, 2000,

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fossero anche esse “giuste”» (18). Inoltre, se il concetto di un processo giusto deve desumersi dai principi costituzionali, allora qualsiasi legge ordinaria, purché non sia incostituzionale, che preveda un sistema processuale, deve dar luce ad un processo giusto (19); inoltre, il neo aggettivo non consente di considerare in via retroattiva, ovviamente, tutti i processi del passato come ingiusti. È preferibile, dunque, intendere l’epiteto «nel senso di un imperativo rivolto al legislatore ordinario, affinché predisponga un sistema di garanzie» (20), già poi specificate nei successivi commi dell’art. 111. Non solo; per aversi giusto processo, questo deve essere «regolato dalla legge». Trattasi di una vera e propria riserva di legge in materia processuale: legittimo chiedersi se assoluta o relativa. Sembra troppo pretenzioso considerarla assoluta poiché andare a prevedere con legge le minuzie e le problematiche che derivano dall’impianto processuale non è cosa agile. Naturalmente la riserva è chiara nell’imporre che lo scheletro del processo giusto sia impostato dal legislatore con fonte primaria, ma ciò non toglie che altri soggetti possono collaborare nel “costruire” la giustizia processuale. Mi riferisco in particolar modo all’organo della Magistratura e, soprattutto, alla Corte costituzionale: interpretandola in via relativa, la riserva di legge dovrebbe

18 GALEOTA, Sul nuovo articolo 111 della costituzione e sul “vecchio” processo

contabile di responsabilità, consultabile all’indirizzo web

http://www.amcorteconti.it/111_cost.htm

19 In questo senso, MARZADURI, Commento all’art. 1 legge cost. 23 novembre 1999

n. 2, in Leg. pen., 2000, 763.

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ricreare una sorta di collaborazione e non una tensione fra quei soggetti che hanno plasmato il codice del 1988.

Il secondo comma pone la base del principio del contraddittorio per tutti i tipi di giurisdizione. V’è da notare come il principio venga ripetuto al comma 4°, ma una precisazione è d’obbligo: al secondo comma il contraddittorio è inteso nella sua accezione più generale e ampia; al quarto comma, invece, come vedremo, è da intendersi solo limitatamente alla formazione della prova nel processo penale. Successivamente, il comma 2° sancisce i principi della par condicio e della terzietà e imparzialità del giudice, nonché la ragionevole durata del processo. Per quanto riguarda il primo di questi, a noi interessa sottolineare come nel processo penale sia più difficile da raggiungere, data la diversità delle parti in causa. V’è però da dire come effettivamente, almeno dinnanzi al giudice, si poteva già considerare sussistente una effettiva parità di condizioni fra pubblico ministero e imputato; parità che per la disposizione costituzionale doveva esistere anche nella fase antecedente al dibattimento, e in questo senso si è mosso nel corso degli anni il legislatore, potenziando la possibilità di partecipazione del difensore alla fase delle indagini preliminari. Il secondo principio cardine previsto dal comma 2 è quello del giudice terzo ed imparziale. La previsione, ancora una volta, non porta niente d’innovativo, giacché anche prima del 1999 si faceva discendere tali caratteristiche dell’organo giudicante dagli altri

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principi costituzionali; tuttavia la specificazione all’interno dell’art. 111 ci permette di comprendere come giusto sia quel processo dove il rispetto di tale principio è garantito. «L’esigenza di un giudice imparziale si presenta sia come un diritto delle parti ad un “giusto processo”, sia come necessaria caratteristica della funzione giurisdizionale oggettivamente intesa» (21). Invero, tale principio è diverso da quello dell’indipendenza del magistrato, il quale si riferisce all’organo rispetto agli altri poteri di Stato, quali il Governo e il Parlamento. Il principio di imparzialità «fa riferimento al magistrato come persona fisica, vista nel momento del concreto esercizio della propria funzione giurisdizionale. […] Il giudice (deve) non solamente essere, ma altresì apparire come imparziale, pur se questo non può spingersi sino ad invadere la sfera della vita privata del magistrato o addirittura a limitare diritti fondamentali che la Costituzione riconosce a tutti i cittadini» (22). Ecco che l’indipendenza del magistrato non è conseguenza, ma premessa alla sua terzietà ed imparzialità. Sono poi plurimi gli strumenti che hanno la finalità di garantire questo status del giudice. Si pensi per cominciare all’art. 25 comma 1 Cost: «nessuno può essere distolto dal giudice naturale precostituito per legge». La disposizione vieta, in sostanza, i giudici costituiti post factum, poiché sarebbe influenzati dal conoscere già gli avvenimenti e di conseguenza

21 ROMBOLI, Le fonti del diritto e gli organi di garanzia giurisdizionale, in Aa. Vv.

Manuale di diritto costituzionale italiano ed europeo, vol. III, a cura di ROMBOLI, Torino, 2009, 253.

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non sarebbero imparziali. Oppure, per tornare a temi processuali basti ricordare l’istituto dell’astensione e quello della ricusazione, dove allorché si concretizzino talune fattispecie, scatta una presunzione di parzialità del giudice, per la quale il giudice può essere “sostituito” nel procedimento. L’ultimo principio stabilito dal comma 2 è quello della ragionevole durata prevista dal legislatore. Evidente è il richiamo al comma 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo. Quello che i colleghi inglesi definiscono “speedy trial” però, in Italia, non ha mai avuto grande successo: come sottolinea buona parte della dottrina «garanzie processuali e celerità del processo sono valori non facilmente compatibili, ed anzi per lo più obiettivamente alternativi, nel senso che spesso ai fini della rispettiva realizzazione si pongono tra loro in un rapporto di inversa proporzionalità» (23). La teoria si scontra con una realtà malata e con uno schizofrenico legislatore che più volte si contraddice intervenendo, talvolta, in modo deflativo sulle pene o depenalizzando singoli reati, talaltra, allungando il termine per la prescrizione (e di conseguenza rallentando il processo penale). La ragionevole durata dovrebbe così essere intesa come una forte limitazione all’attività del legislatore ordinario volta alla ricerca di un nevralgico

23 GREVI, Spunti problematici sul nuovo modello costituzionale di giusto processo

penale (tra ragionevole durata, diritti dell'imputato e garanzia del contraddittorio), in Politica del diritto 3, 2000, 435.

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punto di incontro fra esigenze di tutela dell’imputato e di celerità nell’essere giudicati.

Proseguendo, il terzo comma specifica che: «Nel processo penale, la legge assicura che la persona accusata di un reato sia, nel più breve tempo possibile, informata riservatamente della natura e dei motivi dell’accusa elevata a suo carico; disponga del tempo e delle conoscenze necessari per preparare la sua difesa; abbia la facoltà, davanti al giudice, di interrogare o di far interrogare le persone che rendono dichiarazioni a suo carico, di ottenere la convocazione e l’interrogatorio di persone a sua difesa nelle stesse condizioni dell’accusa e l’acquisizione di ogni altro mezzo di prova a suo favore; sia assistita da un interprete se non comprende o non parla la lingua impiegata nel processo». L’ispirazione che il comma 3 del nuovo art. 111 Cost. ha dall’art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo è manifesta e non necessita quindi di particolari riflessioni, se non nel precisare che, rispetto alla disposizione della Convenzione di Roma, l’art. 111 contiene alcune variazioni: per quanto riguarda il diritto a confrontarsi col proprio accusatore, infatti, usando il termine «persone», la disposizione non può riferirsi isolatamente ai testimoni, ma anche agli indagati e agli imputati (24).

24 Così, MARZADURI, Commento all’art. 1 legge cost. 23 novembre 1999 n. 2, cit.,

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È evidente però che non è solo il processo che deve essere giusto, ma anche la sentenza. Questa, essendo l’atto conclusivo del processo, non può che ricomprendersi nello stesso, cosicché per essere corretta deve fondarsi sulla verità: «predisporre un sistema di garanzie non significa, infatti, privare il processo della sua destinazione naturale alla ricerca della verità» (25). Così, il quarto comma dell’art. 111 prevede il modus

operandi per il raggiungimento di questa verità: «il principio del

contraddittorio nella formazione della prova». La formula è sì solenne e perentoria, ma è da sottolineare che va limitata, come da testo, alla formazione della prova; sicché tale riaffermazione risulta come «“politicamente” saggia» (26). Ciò significa che ogni processo penale sarà considerato giusto se, nel momento della formazione della prova, vi sia stato contraddittorio, cioè che ambedue le parti, in par condicio, abbiano potuto esprimere le proprie ragioni davanti al giudice. Ricordiamoci tuttavia che il contraddittorio è un diritto e non un obbligo né una imposizione: in tutti i casi in cui l’imputato rifiuti di partecipare attivamente a contraddire la pubblica accusa, rifiuti di difendersi o di portare prove, non si può definire il processo come ingiusto. Così, è logico escludere che un rito a contraddittorio eventuale e differito, come il procedimento speciale per decreto penale di condanna, si ponga in contrasto con la Costituzione: laddove l’imputato non si opponga al

25 FANUELE, Le contestazioni nell’esame testimoniale, cit., 102. 26 RICCIO, Diritto al contraddittorio e riforme costituzionali, cit., 494.

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decreto disinteressandosene, non si potrà ritenere ingiusta la condanna e di conseguenza incostituzionale il procedimento. Il comma quarto può quindi anche essere inteso a contrario, cioè che nessuno può essere obbligato a partecipare al contraddittorio, ma ognuno dev’essere messo in possibilità e condizioni di farlo, se ne ha volontà. Se tutto questo è vero, però, il rischio che si corre è quello sì di garantire il contraddittorio ma di sfasarlo, anticipandone gli effetti alla fase delle indagini o all’udienza preliminare con la pericolosa conseguenza che molti processi possono venire a risolversi nella fase preliminare, non in quella dibattimentale (27). È questo un problema non da poco che il legislatore, dal 1999 in poi, dovrebbe considerare ogni volta in cui attua una riforma al codice di procedura penale. Tuttavia, ancora una volta non credo che la specificazione del modello accusatorio in Costituzione sia stata superflua, anzi deve accogliersi positivamente quanto stabilito poiché finalmente il contraddittorio «torna alleato e non nemico della verità» (28). Il quarto comma dell’art. 111 è stato evidentemente quello che più ha sottolineato la volontà del legislatore di porre fine all’eterna lotta con la Corte costituzionale in quel rimbalzante “ping-pong” di modelli processuali.

27 GREVI, Spunti problematici sul nuovo modello costituzionale di giusto processo

penale, cit., 439 ss.

28 FERRUA, Il processo penale dopo la riforma dell’art. 111 della Costituzione, in

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Ad ogni modo, per evitare una estrema inflessibilità del sistema processuale, il legislatore ha previsto, al comma 5°, delle eccezioni al principio del contraddittorio. L’art. 1 della legge costituzionale n. 2 del 1999, infatti, si chiudeva all’ultimo comma prevedendo che «la legge regola i casi in cui la formazione della prova non ha luogo in contraddittorio per consenso dell'imputato o per accertata impossibilità di natura oggettiva o per effetto di provata condotta illecita». Tre sono dunque le eccezioni alla formazione della prova nel contraddittorio tra le parti.

La prima ipotesi è quella che desta, sicuramente, più discussioni.

Prima facie sembra che la norma rilasci alla volontà di parte la facoltà di

non partecipare a quel sistema di garanzia che dovrebbe essere il migliore per ricercare la verità nel processo penale (appunto il contraddittorio). È «un apparente paradosso: prescritto il principio, per salvarne l’applicabilità pratica lo si rinnega auspicando un forte ricorso alle eccezioni» (29). In realtà non è proprio così; la disposizione non prevede che con la mera volontà dell’imputato ciò che non è formatosi in contraddizione divenga prova. Invero, «si prevede soltanto che la legge possa regolare delle fattispecie astratte nelle quali, una volta acquisito il consenso dell’imputato, la formazione della prova non deve avvenire in contraddittorio; il che presuppone un’attività del legislatore nella quale lo

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stesso dovrà quantomeno tener conto di tutti gli interessi di rango costituzionale eventualmente coinvolti dalla specifica situazione, ai fini della relativa disciplina» (30). E così è nella maggior parte dei procedimenti speciali: emblematico il giudizio abbreviato, nel quale l’imputato manifestando la propria opzione alla pronuncia di una sentenza di merito in udienza preliminare, rinuncia al metodo dialogico per la costituzione della prova, integrando i presupposti del consenso ex art. 111 comma 5. È poi vero che il consenso di un soggetto che invero avrebbe dovuto contraddire la controparte «sta ad attestare che portatori di interessi contrapposti ritengono che l’elaborazione dialettica della medesima prova non sarebbe stata in grado di produrre risultati apprezzabilmente diversi» (31), creando altresì vantaggi in ottica dell’economia processuale richiesta dal comma 2 del medesimo articolo in esame. Ed è per questo che rilevante dovrebbe essere anche la volontà del p.m. all’utilizzo di un atto unilateralmente formato, giacché questi, anche in via etica, dovrebbe sincerarsi dell’utilità della prova a fondamento della tesi accusatoria. Inoltre, «il “non dissenso” genera sulle linee ricostruttive del fatto cospicue mutazioni sul terreno del diritto alla prova. […] il fatto pacifico consente di utilizzare ai fini della decisione gli stessi elementi che, essendo frutto di un’indagine unilaterale […], non

30 MARZADURI, Commento all’art. 1 legge cost. 23 novembre 1999 n. 2, cit., 800.

31 GIOSTRA, Quale contraddittorio dopo la sentenza 361/1998 della Corte

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sono in sé dotati di dignità di prova, ma vengono dal giudice utilizzati quali equivalenti della prova provocati dal consenso delle parti» (32). Interpretata così, quindi, la disposizione assume connotati molto meno drammatici di quelli immaginati.

La seconda eccezione si ha in tutti i casi in cui non si possa, per accertata impossibilità di natura oggettiva, fruire del contraddittorio. Si noti però come la deroga sia qui espressa in modo assai vago; il concetto di impossibilità di natura oggettiva, benché sia specificatamente da doversi accertare di volta in volta, lascia spazio ad ampi margini contenitivi. Il rischio che si corre è di interpretare troppo lievemente la disciplina, sì da consentire una estrema dilatazione delle maglie poste a filtro per far prendere a conoscenza il materiale probatorio al giudice in assenza di contraddittorio. Sarebbe stato meglio specificare ulteriormente la deroga, aggiungendo aggettivi quali “assoluta” e/o “sopravvenuta” così da legarla «all’idea di un imprevisto che, quando si manifesta, coglie di sorpresa, preclude la “ripetizione” dell’atto nell’udienza pubblica» (33). Per questo l’interpretazione che si è via via data è stata quanto di più restrittiva: capostipite dell’impossibilità oggettiva è considerato, infatti, la lettura di atti per sopravvenuta impossibilità di ripetizione ex art. 512

32 DI CHIARA, Il catalogo delle eccezioni al contraddittorio per la prova: l’art. 111,

comma 5, Cost., in FIANDACA – DI CHIARA, Una introduzione al sistema penale: per una lettura costituzionalmente orientata, Napoli, 2003.

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c.p.p. (cioè quando non si ha modo diverso per riprodurre la prova dinnanzi al giudice se non leggendola).

Infine, l’ultima deroga prevista al comma 5° è quella della provata condotta illecita. Prima di capire quale sia la condotta illecita rilevante, occorre soffermarsi sul termine “provata”. È seriamente realistico pensare di poter eccepire al contraddittorio solo quando effettivamente la sussistenza del fatto tipico è provata, e quindi dimostrata, in un eventuale ulteriore processo penale? Interpretare letteralmente così la norma comporterebbe una cristallizzazione di una infinità di procedimenti: è impensabile interrompere ogni processo per aprirne un altro e attendere la sentenza che giudichi la sussistenza o meno della condotta illecita. È preferibile allora interpretare nel senso che il giudice accerti la provata condotta illecita «sulla base di indizi che conducano ad una tesi di “rilevante probabilità”» (34). Per quanto riguarda la condotta illecita, deve intendersi quel comportamento contra ius finalizzato ad indurre il dichiarante a sottrarsi al contraddittorio; non già il comportamento tenuto dal teste stesso. «Il problema del teste falso non può essere risolto attraverso il recupero processuale di dichiarazioni assunte in mancanza del contraddittorio, bensì, eventualmente, sul piano del diritto penale sostanziale, elevando i limiti edittali previsti per il reato di falsa testimonianza; nonché confidando nella volontà individuale dei cittadini

34 TONINI, Il contraddittorio: diritto individuale e metodo di accertamento, in Dir. pen.

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di collaborare con lo Stato nell’esercizio della funzione giurisdizionale» (35).

Sulla riforma costituzionale del 1999 le critiche sono state variegate ma, schematizzando, esse sono rapportabili a due opposti fronti: da un primo angolo visuale, vi è chi ritiene che la riforma è stata il simbolo di introduzione in Costituzione di esemplari principi di civiltà processuale, da altro angolo visuale, c’è chi la iscrive in un piano di «rivincita» (36) del legislatore nei confronti della magistratura. Mi pare lampante che sulla riforma dell’art. 111 Cost. «l’esprit de ressentiment» (37) abbia spinto la politica ad agire con rapidità ed energia, ma ciò non significa che la riforma sia stata inutile o superflua, anzi. È molto probabile che essa sia stata l’unica soluzione per superare il conflitto fra Legislatore e Corte costituzionale, riaffermando al contempo il principio ispiratore del codice Vassalli, e cioè il contraddittorio che è il perno su cui ruota il sistema accusatorio. Vero è che l’articolo 111 per essere una disposizione costituzionale è molto dettagliata e specifica; sarebbe stata preferibile una previsione più generica di principi che avrebbero, pro futuro, lasciato più ampio margine d’azione allo stesso legislatore. Se tuttavia si considera che non solo il legislatore, ma anche e soprattutto la Corte si sarebbe

35 FANUELE, Le contestazioni nell’esame testimoniale, cit., 111. 36 Efficacemente FERRUA, Il giusto processo, cit., 16.

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dovuta piegare all’art. 111, non posso che esprimere un parere positivo sull’azione legislativa. «Così, ciò che, a torto, la Corte si ostinava a ritenere costituzionalmente non tollerabile, si è convertito in costituzionalmente obbligatorio» (38).

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105 3.3 La riformulazione dell’art. 500 c.p.p. ad opera della l. n.

63/2001 c.d. legge sul giusto processo

Nel 2001, durante l’iter di approvazione della legge di attuazione della riforma costituzionale del 1999, assai dibattuta fu la nuova formulazione che si sarebbe dovuta dare all’art. 500 del codice di procedura penale. Era chiaro che la norma, come “sopravvissuta” a seguito degli interventi della Corte costituzionale (sent. n. 255 del 1992) e della successiva legislazione d’emergenza (l. n. 356 del 1992), contrastava col principio del contraddittorio come previsto dal nuovo comma 4° dell’art. 111 Cost., ma non fu facile raggiungere un accordo fra le camere parlamentari per individuare un testo che, di comune accordo, fosse rispettoso del concetto di “giusto processo”. Si ebbe «un vero e proprio “stillicidio” di riformulazioni, dovute alla paziente tessitura e ritessitura» del contenuto dell’art. 500, come «una sorta di “tela di Penelope”» (39). Il primo testo proposto dal Senato nel novembre del 1999 non presentava, in pratica, alcun elemento di innovazione rispetto alla disciplina delle contestazioni per come risultante a seguito della novella del 1992. Al contrario, nella proposta approvata dalla Camera nell’ottobre del 2000, a quasi un anno di distanza, si prevedeva che «le dichiarazioni lette per la contestazione possono essere valutate ai fini della credibilità del teste», mentre potevano essere acquisite al fascicolo

39 Per questa efficace espressione, BARGIS, Commento all’art. 16 l. 1/3/2001, n. 63, in

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del dibattimento solo se vi erano «elementi concreti per ritenere che il testimone [fosse] stato sottoposto a violenza, minaccia, offerta o promessa di denaro o di altra utilità, affinché [deponesse] il falso». Una parte della dottrina subito sottolineò come l’eccezione fosse ben poco felice, giacché pareva consentire, nelle ipotesi suddette, l’automatica acquisizione al fascicolo per il dibattimento, a prescindere dall’effettivo utilizzo come contestazione al testimone esaminato (40). Diversamente, per dare una forte indicazione di rotta al legislatore, il Progetto Tonini-Ferrua (41) prevedeva che «le dichiarazioni utilizzate per le contestazioni non possono costituire prova dei fatti in esse affermati», ma soltanto «essere valutate per stabilire la credibilità della persona esaminata»; fatta eccezione per i casi di violenza, minaccia e offerta di denaro o altra utilità. Sebbene tale progetto non venne poi effettivamente seguito dal Parlamento, giacché si poneva in alternativa al disegno di legge che poi divenne la legge n. 63/2001, esso fu sicuramente di ispirazione per il testo definitivo: si noti infatti come la proposta di Tonini-Ferrua si muoveva nel senso di escludere il valore probatorio delle contestazioni (regola di esclusione che sarà ripresa dal testo definitivo approvato nel 2001, poiché sembra meglio garantire il principio del contraddittorio). Nel dicembre

40 FERRUA, Dalla Camera soluzione equilibrata sui limiti all’utilizzo delle

dichiarazioni. Il “111” inserito nel codice diventa criterio legale di valutazione, in Dir. e Giust., 2000, n. 40/41, 11.

41 Il Progetto, pubblicato con il titolo Testimonianza volontaria dell’imputato e tutela

del contraddittorio, è stato presentato a Firenze nel novembre del 1999 in un Incontro

di studio su “Testimone e imputato connesso: recupero del sapere investigativo e diritto

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del 2000, il Senato presentò un emendamento col quale si proponeva di consentire una valutazione delle dichiarazioni utilizzate per le contestazioni come prove dei fatti congiuntamente alle dichiarazioni rese in giudizio, se fossero sussistiti ulteriori elementi che ne avessero confermato l’attendibilità. L’emendamento fu respinto dalla Camera che approvò un’ultima versione del testo: le dichiarazioni dovevano servire solo a valutare l’attendibilità del teste, facendo salve le eccezioni in caso di violenza, minaccia, offerta di denaro o di altra utilità al testimone. Questa versione fu, finalmente, riapprovata dal Senato, che quindi venne accolta con la legge n. 63 del 1° marzo del 2001.

La legge d’attuazione sul giusto processo «“ripristina” e non “introduce”» (42) regole in tema di formazione della prova, tali da tutelare il contraddittorio. Prima di andare ad analizzare la norma occorre fare una premessa. Invero, non è mancato un orientamento incline a considerare l'uso probatorio delle precedenti dichiarazioni difformi del tutto compatibile col nuovo quadro costituzionale. Si faceva leva sul divieto ex art. 111 comma 4 secondo periodo Cost., che prescrive che «la colpevolezza dell'imputato non può essere provata sulla base di dichiarazioni rese da chi, per libera scelta, si è sempre volontariamente

42 FRIGO, La rinascita del modello accusatorio figlia dello scandalo di un codice

ripudiato, in Guida al dir., 2001, 32; allo stesso modo, FERRUA si esprime in un senso

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sottratto all'interrogatorio da parte dell'imputato o del suo difensore», sostenendo che tale disposizione consentirebbe ex adverso l'uso probatorio delle dichiarazioni precedentemente rese da chi accetti di essere sottoposto al controesame (43). A tale considerazione s'è obiettato, giustamente, che tale uso si potrebbe considerare legittimo solo se del divieto di cui al comma 4 si dia «lettura isolata dal contesto, una ipotesi che andrebbe esclusa, essendo quel medesimo divieto solo la puntuale traduzione “in negativo” della regola generale che impone il contraddittorio come metodo di formazione della prova» (44). Perciò, la riforma dell’art. 500, ai più, è parsa come inevitabile.

La modifica che si ha all’art. 500 c.p.p. è corposa e d’importanza fondamentale; per tali motivi è necessaria una dettagliata analisi sul punto, cominciando naturalmente dal testo per poi arrivare a sceverare le varie questioni dottrinali.

Il comma primo dell’art. 500 è rimasto inattaccato dalla riforma del 2001: semplicemente i primi due commi della vecchia disposizione vengono uniti nel nuovo comma primo. «Fermi i divieti di lettura e di

43 In questo senso CONTI, Principio del contraddittorio ed utilizzabilità delle

precedenti dichiarazioni, in Dir. pen. e proc., 2001, 592; GREVI, Alla ricerca di un processo penale “giusto”: itinerari e prospettive, Milano, 2000; TONINI, Riforma del sistema probatorio: una attuazione parziale del giusto processo, in Dir. pen. e proc.,

2001, 272.

44 Letteralmente PAULESU, Giudice e parti nella "dialettica" della prova testimoniale,

Torino, 2002, 231; nello stesso senso FERRUA, La regola d'oro del processo

accusatorio: l’irrilevanza probatoria delle contestazioni, in Il giusto processo, tra contraddittorio e diritto al silenzio, Aa.Vv., a cura di KOSTORIS, Torino, 2002, 10 e

RUSSO, Considerazioni sulla legge n. 63 del 2001 nella testimonianza di uno dei suoi

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allegazione, le parti, per contestare in tutto o in parte il contenuto della deposizione, possono servirsi delle dichiarazioni precedentemente rese dal testimone e contenute nel fascicolo del pubblico ministero. Tale facoltà può essere esercitata solo se sui fatti o sulle circostanze da contestare il testimone abbia già deposto». Il primo presupposto richiesto dall’art. 500 c.p.p., dunque, è la presenza di un testimone «loquace» (45). Invero, se la contestazione serve a valutare la credibilità del teste, deve esservi una affermazione, difforme, da valutare. «Di difformità può parlarsi sia nel caso di negazione dell’esistenza di una determinata circostanza che in precedenza si è data come esistente […] sia nel caso di mancata o parziale rappresentazione di circostanze in precedenza descritte […]» (46). Il secondo presupposto è ricollegato direttamente al primo. Sul “quando” contestare, infatti, l'art. 500 contiene una sola indicazione: cioè che il teste abbia già deposto sul fatto. Una lettura anticipata, chiaramente, svuoterebbe di significato l'art. 500 stesso. Ci si chiede però se l'avverbio «dopo» debba riferirsi alla dichiarazione contrastante o all'intera deposizione: «la norma sembra ammettere una lettura elastica, così da non precludere alcuna strategia nella conduzione dell'esame» (47), poiché «ad esempio, nel corso del controesame la parte potrà differire le contestazioni dopo aver esplorato un certo tema di prova

45 PROCACCIANTI, Le contestazioni nell’esame testimoniale, in Ind. Pen., 2002, 1068.

46 APRILE – SILVESTRI, La formazione della prova penale, dopo le leggi sulle

indagini difensive e sul “giusto processo”, in Teoria e pratica del diritto, Milano, 2002,

280.

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in relazione al quale vuol fare emergere l'inattendibilità del testimone» (48). Se si tiene però conto dell'effettivo fine dell'istituto in esame, dovrebbe preferirsi una visione restrittiva del suo uso: giacché la contestazione vuol far valutare la credibilità del teste, è molto più proficuo contestare, se non immediatamente dopo che questi ha dichiarato difformemente sul fatto, per lo meno una volta finito di rispondere a tutte le domande riguardanti lo stesso thema probandi; più tardi si contesta, meno efficace sembra essere la contestazione. Tuttavia, bisogna concludere che il momento in cui rilevare la contestazione è rimesso per intero alla volontà della parte: in effetti, questa è una questione di «mera opportunità tattica» (49). Per quanto riguarda il contenuto della lettura in contestazione, occorre chiedersi, infine, se essa possa essere integrale ovvero parziale, rectius limitatamente all’affermazione diversa.Oggi, rispetto alle varie riforme del passato, il dettato normativo induce ad una duplice interpretazione. Quando si mina alla credibilità del teste, sembra sufficiente la lettura della dichiarazione contrastante; quando invece in via eccezionale la contestazione viene aggiunta al fascicolo del dibattimento, sembra possibile dare lettura intera del verbale (50).

48 CORBETTA, Principio del contraddittorio e disciplina delle contestazioni nell'esame

dibattimentale, in Aa.Vv., Giusto processo. Nuove norme sulla formazione della prova,

a cura di TONINI, Cedam, 2001, 464.

49 MAMBRIANI, Art. 500, in Commento al codice di procedura penale, a cura di

CORSO, Piacenza, 2004, 1869.

50 In questa doppia logica PROCACCIANTI, Le contestazioni nell’esame testimoniale,

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Le novità in tema di contestazioni sono, in effetti, concentrate nel comma 2 e ss. Il comma 2°, infatti, si fa subito capo di portare un’importante rivoluzione, rectius ritorno, in tema di valutazione della contestazione: «le dichiarazioni lette per le contestazioni possono essere valutate ai fini della credibilità del teste». Tali dichiarazioni, dunque, «non possono diventare risultanze di prova sui fatti da accertare, ma restano solo strumenti di valutazione della prova testimoniale» (51). Il giudice può usare quindi la dichiarazione precedente solo per valutare la credibilità del testimone, ma a quest’ultima non può sostituirla per poi usarla a fondamento della sua decisione finale. Possiamo, dunque, finalmente affermare la recezione da parte del codice di procedura penale dell’esclusione del valore probatorio delle contestazioni? Sì, sebbene v’erano pareri avversi (52) fondati su argomenti scarsamente convincenti: da un lato, si sosteneva che l’art. 500 c.p.p., pur finalizzando le contestazioni al controllo della credibilità, non dice che questo sia il solo uso consentito; dall’altro, l’art. 526, comma 1-bis, c.p.p., ribadendo il precetto costituzionale relativo alla sottrazione per libera scelta, autorizza implicitamente l’uso probatorio delle dichiarazioni rese in precedenza da chi accetti il controesame. Ma tale discorso «è insostenibile, perché l’irrilevanza probatoria delle dichiarazioni contestate al testimone deriva

51 GIARDA, Giusto processo, prove penali e diritto di difesa, in Aa.Vv., Giusto

processo e prove penali, Ipsoa, 2001, 13.

52 Ad es. Trib. Foggia, 12 luglio 2001, in Cass. Pen., 2001, 3546 ss., per il quale le

contestazioni, anche dopo la l. n. 63/2001, sono «valutabili come prova ai fini della decisione e non solo per valutare la credibilità del dichiarante».

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dal fatto stesso che l’art. 500 c.p.p. non ne preveda l’acquisizione al fascicolo dibattimentale, tranne i casi eccezionali già contemplati dal dettato costituzionale; e nessun atto dell’indagine preliminare può convertirsi in prova se non per il tramite della sua acquisizione al fascicolo dibattimentale» (53). Ad ogni modo, «sembra che il legislatore, pur scegliendo di limitare l’efficacia della contestazione, non abbia voluto rinunciare a considerare quest’ultima almeno come argomento di prova» (54). Nonostante la giurisprudenza in argomento sia molto elastica, l’argomento di prova, per la più autorevole dottrina, non è considerato, da solo, come idoneo a far «ritenere esistente un certo fatto, ma può essere usato come strumento per valutare, e, se del caso, integrare i mezzi di prova in senso proprio» (55). La dichiarazione contestata, dunque, può valere come argomento di prova nel senso che il comportamento del testimone contestato, può essere utilizzato per valutarne la sua stessa credibilità. Al di fuori del comma quarto, sesto e settimo dell’articolo in esame, che vedremo meglio fra poco, dunque, la documentazione extra-dibattimentale rimane legata al fascicolo del pubblico ministero, non costituendo prova dei fatti in essa affermati. Se ciò fosse altrimenti vero, si ritornerebbe, sostanzialmente, alla prassi vigente durante il codice Rocco ampiamente criticata: l’utilizzo diretto, da parte del giudice, dei

53 FERRUA, Il giusto processo, cit., 143.

54 FANUELE, Le contestazioni nell’esame testimoniale, cit., 133.

55 LUISO, Diritto processuale civile, vol. II, Il processo di cognizione, Milano, 2015,

83, il quale prosegue poi definendo l’argomento di prova come uno “strumento di contorno”.

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verbali contenenti le dichiarazioni provenienti dalla fase antecedente; tuttavia, è evidente che in tale situazione nascerebbe un vulnus all’art. 111 Cost. tale che la situazione sarebbe, o almeno dovrebbe, essere immediatamente eliminata sul nascere.

Nell'attuale disciplina non è stato riprodotto, poi, quel comma 2-bis, inserito nel 1992, per il quale si poteva procedere a contestazione anche quando il teste rifiutasse o omettesse di rispondere. Nonostante sulla questione la dottrina sia divisa, si preferisce ritenere che sia comunque possibile effettuare le contestazioni quando il testimone rifiuti ovvero ometta, in tutto o in parte, di rispondere (56). Secondo la dottrina contraria, non si potrebbe contestare il teste che tace poiché, letteralmente, il testo legislativo non prevede nulla al riguardo, anzi il dato a sostegno sembra essere che il testo pretenda che sul fatto il teste «abbia già deposto»; non di meno, il fatto che il legislatore non abbia reintrodotto il testo del vecchio comma 2-bis, suggerisce la volontà dello stesso di superare tale possibilità. Entrambi gli argomenti appaiono però come superabili. Invero, dal punto di vista letterale, basta considerare che il “rifiutarsi di

56 In questo senso si veda DI CHIARA, Dichiarazioni erga alios e letture acquisitive: i

meccanismi di recupero del sapere preacquisito dall’imputato in un procedimento connesso, in Il giusto processo, tra contraddittorio e diritto al silenzio, Aa.Vv., a cura

di KOSTORIS, Torino, 2002, 56; POTETTI, Le contestazioni al testimone reticente o

che non ricorda, in Cass. Pen., 2003, 2611; APRILE – SILVESTRI, La formazione della prova penale, dopo le leggi sulle indagini difensive e sul “giusto processo”, cit.

283. In senso contrario MURONE, Il regime delle dichiarazioni nel processo penale, Milano, 2001, 293; SCAGLIONE, Dichiarazioni procedimentali e giusto processo, Torino, 2005, 109; RUSSO, Considerazioni sulla legge n. 63 del 2001 nella

testimonianza di uno dei suoi protagonisti, in Il giusto processo, tra contraddittorio e diritto al silenzio, cit., 343.

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rispondere” esprime una diretta volontà del teste che, in un certo qual modo, è paragonabile all’aver già deposto; inoltre, l’eliminazione del comma 2-bis dimostra semplicemente la volontà di impedire l’uso delle precedenti dichiarazioni come prova, e null’altro: oggi la contestazione al teste reticente «serve soltanto per indurlo a parlare» (57), giacché le stesse non saranno trasferite automaticamente al fascicolo del dibattimento (grazie al neo comma 2, che non era presente nella disciplina del 1992). Per tali motivi sembra giustificabile la possibilità di contestazione al testimonio silenzioso. Più complessa è, poi, la questione relativa alla possibilità di procedere a contestazione nel caso in cui il teste dice di non ricordare. Tale situazione è molto comune e dipende non solo dai tempi e dalle lungaggini processuali ma, purtroppo, anche dalla memoria umana che fisiologicamente, a lungo andare, tende a dimenticare gli avvenimenti (58). Tale ipotesi è più complessa della previa per il semplice fatto che, effettivamente, il teste non sta deponendo: non si rifiuta di rispondere ma non riesce proprio a ricordare gli avvenimenti passati. Ci pare dunque improprio utilizzare la contestazione in tali situazioni: «in ipotesi simili, in effetti, venendo meno la funzionalità dell’operazione contestativa per inesistenza dell’oggetto da valutare, ogni

57 FANUELE, Le contestazioni nell’esame testimoniale, cit., 150.

58 Per una disamina dei fattori che influenzano la memoria del testimone, si veda

CAVEDON – CALZOLARI, Come si esamina una testimonianza, in Collana di

psicologia giuridica e criminale, diretta da GULOTTA, Milano, 2001, 6 ss.; più in

generale DE CATALDO NEUBURG, Psicologia della testimonianza e prova

testimoniale, in GULOTTA, Collana di psicologia giuridica e criminale, Milano, 1988,

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manovra diretta a rendere noto il resoconto investigativo andrebbe irrimediabilmente arrestata: dinanzi al silenzio o al totale oblio servirebbe a poco una integrale contestazione diretta a resuscitare la memoria» (59). Ci si trova, quindi, di fronte ad un problema visionabile da due punti contrapposti: se si consente la contestazione, il teste finisce col dire che, anche se non si ricorda bene, è probabilmente vero quanto letto dal contestatore; se non si consente la contestazione, il teste che persiste nell’ammettere di non ricordare, rischierebbe d’essere indagato per reticenza. Per queste ragioni, l’unica soluzione adottabile per superare l’impasse sembra quella di autorizzare il teste, ex art. 499 comma 5, «a consultare, in aiuto della memoria, documenti da lui redatti». Tuttavia, sembra preferibile escludere l’applicazione di detta disciplina laddove il vuoto di mente sia assoluto; in questo caso, invero, la lettura non appare come utile a richiamare niente alla memoria, poiché questo è stato del tutto dimenticato. Ad ogni modo, una volta ricordato l’evento, l’esame deve riprendere con le domande ordinarie e nel contraddittorio fra le parti; non è tollerabile, salvo discrepanze e quindi ulteriori contestazioni, persistere nel leggere ovvero utilizzare il verbale.

Sebbene, dunque, letteralmente il testo nulla dice sul teste reticente, il nuovo comma 3 va a prevedere una situazione innovativa di “reticenza parziale” che finora non veniva considerata, infatti: «se il teste rifiuta di

59 SCALFATI, Aspetti dell’acquisizione dibattimentale di fonti dichiarative, in L’Indice

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sottoporsi all’esame o al controesame di una delle parti, nei confronti di questa non possono essere utilizzate, senza il suo consenso, le dichiarazioni rese ad altra parte, salve restando le sanzioni penali eventualmente applicabili al dichiarante». L'elemento caratterizzante il suddetto comma è un «contraddittorio zoppo» (60): il testimone, invero, non rifiuta l’esame nella sua totalità, ma solo quello di una delle parti. Il teste sa e si ricorda, ma non vuol essere esaminato. La disposizione non pone problemi laddove il teste risponda all'esame del pubblico ministero ma rifiuti il controesame del difensore: salvo che l'imputato acconsenta, non potranno essere usate nei suoi riguardi le affermazioni deposte. Al contrario, qualora un testimone a difesa rifiuti il controesame del pubblico ministero, qualche problema si pone: invero, «l’aspetto di singolarità che, casomai, persiste nella disposizione sta nell’aver accomunato – perlomeno in base alla lettera della norma - la pubblica accusa alle altri parti, il che suona piuttosto anomalo sotto il profilo delle conseguenze, e potrebbe suggerire proprio per tali motivi un’interpretazione “riduttiva” che escluda il p.m. dal novero dei soggetti nei cui confronti le dichiarazioni non possono essere utilizzate» (61); seguendo tuttavia la preferibile logica della par condicio, e quindi la

littera legis, si deve ritenere come parte anche il pubblico ministero e che

60 Efficacemente PROCACCIANTI, Le contestazioni nell’esame testimoniale, cit.,

1076.

61 MANZIONE, Nuove contestazioni per un reale contraddittorio, in Guida al dir.,

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almeno le dichiarazioni favorevoli all'imputato rese nell'esame del difensore non potranno essere usate in assenza del consenso del p.m. che non ha potuto controesaminare il teste (62). Nulla quaestio circa le parti eventuali: queste, una volta costituitesi in processo, sono “parti” a tutti gli effetti. La norma è alquanto infelice, poi, poiché l'assenza dell'avverbio «precedentemente» prima delle «dichiarazioni», contenuti negli altri comma, sembra indirizzare alle dichiarazioni rese in dibattimento, ma ciò non può essere poiché comunque di contestazioni si parla. Il problema è dato dal fatto che il controesame è già finalizzato a sottrarre credibilità a quanto affermato nell'esame, sicché se il teste si rifiuta di rispondere al primo, si svuoterebbe altresì di contenuto anche il secondo (63). La norma è sicuramente imprecisa nella sua formulazione, tuttavia appare pensata nell'ottica del «rifiuto al solo controesame difensivo» (64). In realtà, varie ragioni sostengono la tesi opposta che è la preferibile. Innanzitutto, il testo letterale, che nomina le parti in generale anziché le persone cui le dichiarazioni si riferiscono. In secondo luogo, il fatto che quando il testimone si sottrae alle domande di una qualsiasi delle parti, viene leso il principio del contraddittorio. Infine, cosa accade se il teste, risposto all'esame del p.m., durante il controesame della difesa,

62 BARGIS, Commento all’art. 16 l. 1/3/2001, n. 63, cit., 296.

63 Sul nesso che lega il controesame all'esame si veda LEONE, Sull'ammissibilità del

controesame o della controprova nell'ipotesi della rinuncia all'esame principale, in Cass. Pen., 1997, 11523.

64 FERRUA, La regola d'oro del processo accusatorio: l’irrilevanza probatoria delle

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risponde soltanto con riguardo a taluni fatti riferiti nell'esame? «Anche in tal caso, la soluzione migliore e più rispettosa del principio del contraddittorio nella formazione della prova pare quella dell'inutilizzabilità nei confronti dell'imputato, salvo il suo consenso» (65), limitatamente però alle dichiarazioni rese nell'esame alle quali poi l'avvocato dell'imputato non ha potuto contraddire, dato il rifiuto del teste di rispondere (66). Per concludere sul terzo comma, occorre sottolineare come tale norma possa essere facilmente strumentalizzata, giacché potrebbe diventare, invero, «una prodezza tattica non farsi rispondere» (67).

Il comma quarto risulta come eccezione della regola generale di cui al comma 2°: «quando, anche per le circostanze emerse nel dibattimento, vi sono elementi concreti per ritenere che il testimone è stato sottoposto a violenza, minaccia, offerta o promessa di denaro o di altra utilità, affinché non deponga ovvero deponga il falso, le dichiarazioni contenute nel fascicolo del pubblico ministero precedentemente rese dal testimone sono acquisite al fascicolo del dibattimento e quelle previste dal comma 3 possono essere utilizzate». Quindi, quando risulta nei casi elencati dal comma, da considerarsi come numerus clausus, che il teste non è libero nel deporre, è possibile acquisire al fascicolo del dibattimento quanto

65 BARGIS, Commento all’art. 16 l. 1/3/2001, n. 63, cit., 296 ss.

66 Cfr. CONTI, Principio del contraddittorio e utilizzabilità delle precedenti

dichiarazioni, cit., 602.

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anzitempo dichiarato dallo stesso. Fondamentale è qui la nozione di «elementi concreti» che, come specificato dalla disposizione, possono essere ricavati anche dalle circostanze emerse in dibattimento. La dottrina si è chiesta se saranno ritenuti integrativi degli elementi concreti anche «i segni di una plurisecolare fisiognomica», come «occhi allarmati, bassi dietro al microfono, sudori e simili, parole mozze» (68). «Quest'ultima eventualità pare da escludersi, considerando che non è stata più riprodotta quella parte del previgente 5° comma dove si faceva riferimento anche alle “modalità della deposizione”; tuttavia è possibile che la prassi tenda a “sfilacciare” i presupposti, specialmente nei processi di criminalità organizzata dove è difficile da provare la pur usuale intimidazione» (69). Secondo Ferrua, comunque, non è importante «solo ciò che si dice, ma anche come lo si dice. Il modo in cui si depone costituisce una sorta di linguaggio secondario di cui l’osservatore attento può avvalersi per interpretare, talvolta, per smentire il linguaggio principale» (70). Tale ultima tesi sembra avvalorata dal dettato legislativo che permette l’uso delle «circostanze emerse nel dibattimento» al fine della valutazione. Sebbene permetta l’utilizzo pieno della contestazione, il comma quarto appare come una disposizione ragionevole. Invero, se il testimone è stato coartato, «il metodo del contraddittorio, inteso come strumento migliore

68 NOBILI, Giusto processo e indagini difensive: verso una nuova procedura penale?,

in Dir. pen. e proc., 2001, 118.

69 BARGIS, Commento all’art. 16 l. 1/3/2001, n. 63, cit., 299; Cfr. MANZIONE, Nuove

contestazioni per un reale contraddittorio, cit., 56.

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per la ricerca della verità, non può proprio funzionare. Infatti, se il teste non è libero di parlare o di rispondere liberamente la verità non può emergere» (71). Peraltro, la disposizione non specifica se le dichiarazioni precedentemente rese dal testimone, e contenute nel fascicolo del pubblico ministero, debbano o meno essere state previamente utilizzate per le contestazioni: il fatto che nulla è specificato, suggerirebbe la non necessarietà della previa contestazione (72). Tuttavia, la collocazione sistematica all’interno dell’art. 500 c.p.p., dovrebbe condurre a concludere che, anche nei casi eccezionali previsti dallo stesso articolo, la previa contestazione resti condizione imprescindibile per l’acquisizione delle dichiarazioni al fascicolo del dibattimento.

Allo scopo di varare la sussistenza o meno della violenza, minaccia oppure offerta in denaro, il successivo comma 5 prevede un procedimento incidentale volto all'accertamento di tali situazioni inquinanti. «Sull’acquisizione di cui al comma 4 il giudice decide senza ritardo, svolgendo gli accertamenti che ritiene necessari, su richiesta della parte, che può fornire gli elementi concreti per ritenere che il testimone è stato sottoposto a violenza, minaccia, offerta o promessa di denaro o di altra utilità». Il fatto che si debba decidere «senza ritardo», si giustifica per evitare al giudice procedente di sospendere il giudizio principale: la

71 FANUELE, Le contestazioni nell’esame testimoniale, cit., 160.

72 In questo senso, SCAGLIONE, Dichiarazioni procedimentali e giusto processo, cit.,

113, il quale ritiene, però, necessaria la contestazione «se il soggetto risponde alle domande» postegli durante l’esame dibattimentale.

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