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Capitolo 3

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Capitolo 3

Opus doliare e aristocrazia romana

3.1. La classe materiale dell’opus doliare come documento storico

Spesso è possibile ricostruire le caratteristiche e l’ampiezza delle reti mercantili antiche basandosi sulle fonti letterarie, ma purtroppo bisogna tenere conto che esse tacciono sulla merce di uso corrente largamente commercializzata.

La maggioranza delle informazioni si ricavano dai prodotti stessi, tuttavia, data la loro natura deperibile perdiamo dati necessari per la ricostruzione del mondo produttivo e commerciale antico.

In questo può venire in aiuto la classe materiale dell’opus doliare, non soggetta a decadimento; le caratteristiche intrinseche consentono di ricavare notizie rilevanti sia per quanto concerne le attività produttive 1, sia per quanto riguarda la conoscenza delle dinamiche politiche e sociali scatenatesi all’interno del mondo romano a partire dagli anni della repubblica.

Tramite l’osservazione dei marchi impressi è possibile valutare e comprendere con maggior chiarezza il coinvolgimento dell’aristocrazia urbana e delle classi dirigenti locali in attività manifatturiere o commerciali, ovvero in ambiti non strettamente connessi ai possedimenti fondiari (basi che conferivano prestigio economico e sociale).

Si è già osservato nel precedente capitolo che l’industria edilizia fu oggetto d’interesse non solo dei piccoli produttori e proprietari terrieri, ma anche di molti personaggi appartenenti ai ranghi più elevati dell’aristocrazia romana (senatori, equites, ex liberti arricchiti) fino ad interessare esclusivamente la classe imperiale; quest’ultima ne ebbe il monopolio a partire dal III secolo d.C. al fine di regolarizzare il settore per le costruzioni private e pubbliche2. Le élites diedero un notevole impulso alla crescita della produzione in esame, poiché essa era tra le poche ad essere riconosciuta come legale; gli appartenenti alle classi abbienti non

1 I bolli con i nomi dei proprietari degli stabilimenti interessano gli storici dell’economia romana perché forniscono

importanti dati sulla qualità, sulla quantità e sulla diffusione dei prodotti.

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potevano concedersi di investire le proprie ricchezze in attività lucrative e non aderenti alla proprietà fondiaria. Era fatta eccezione per:

Costruzioni o attività destinate allo stato, alla città, atti di evergetismo3.

- Lavorazione della lana

- Attività legate al legname, agli animali da tiro

- L’opus doliare

- Attività legate all’agricoltura e quindi alla manifattura.

Si noti che l’equiparazione dell’agricoltura alla manifattura dell’ultimo enunciato non è frutto della struttura produttiva attuale, bensì rispecchia il modo di pensare dei romani4: gli agronomi latini consideravano l’attività industriale come un naturale complemento dell’agricoltura; quest’ultima presso gli antichi aveva un primato indiscusso poiché essa risponde a bisogni indispensabili legati alla sopravvivenza, mentre la manifattura produce un utile totalmente slegato dai beni di necessità vitale5 e per questo viene vista come pratica speculativa.

La coltivazione del terreno produce ricchezza da sé, si nutre della sua stessa natura, al contrario la manifattura, così come il commercio, sfrutta risorse esterne. L’agricoltura è ritenuta un’arte nobile ed appare come la giusta occupazione dell’uomo libero; tutte le altre produzioni, come l’artigianato e il commercio sono attività da mettere su un piano di subordinazione e quindi da considerare inferiori.

La connessione tra attività agricole e industriali è supportata dalle evidenze epigrafiche: nella Tabula Veliensis” (vd. oltre), un terreno venne registrato come “fundus Iulianus cum

figlinis” e un altro come “Saltus Avega Veccius Debuli cum figlinis”.

Le fonti scritte fanno apparire i centri produttivi direttamente dipendenti dall’agricoltura6 poiché strettamente collegati ai praedia su cui sorsero, ma le fonti archeologiche rendono lampante il livello di autonomia raggiunto da alcune grandi manifatture, come la produzione di contenitori ceramici per prodotti alimentari o liquidi (ad esempio i forni di anfore a Cosa e a Fondi, ad Albinia)7. La subordinazione del lavoro “non agricolo” rispetto

3 Fondi pubblici e donazioni private furono impiegati per la costruzione di terme; l’edificio simbolo di atti evergetici si

diffuse nell’Etruria di II - III secolo d.C. (CIAMPOLTRINI 1993 b), pp. 430-431; ECK 1996, pp. 206 – 208).

4

MOREL 1996, pp. 181-198.

5 CARANDINI 1979, p. 183; AUBERT 1994, p. 204. 6 Dig. XXXIII, 7, 25, 1.

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a quello agricolo permane solo nell’ambito della distribuzione: in base a ciò che viene restituito dalla terra e riemerge dalle profondità del bacino mediterraneo, si tende a sopravvalutare la merce che si preserva nel tempo dimenticando che il commercio antico era giustificato dallo scambio dei beni di prima necessità, le merci artigianali occupavano nei relitti gli interstizi lasciati liberi da quelle agricole8.

Dal quadro fatto si deduce che in realtà non si può parlare di attività minori dipendenti da quelle considerate maggiori, ma piuttosto di fusione di una nell’altra, e fu proprio l’integrazione dell’attività manifatturiera con quella agricola ad assicurare un’alta redditività delle proprietà fondiarie.

Conferma di quanto appena detto si ottiene dal caso degli Eumachii dove la fonte di rendita iniziale, prima della viticoltura, fu la produzione di laterizi e di anfore, o quello dei

Sestii9, in cui alla produzione di vino e alla fabbricazione di anfore e laterizi, si affiancò il

commercio a lunga distanza: i Sesti esportavano il vino versato nelle anfore prodotte dalla stessa famiglia, trasportate a lunga distanza dalle navi di loro proprietà10.

8

THÉBERT 2000, pp. 341 -342.

9 Sui Sestii e le figlinae Sext(ianae): STEINBY 1974 – 1975, pp. 87 – 88; MANACORDA 1981, pp. 1 - 40; Id. 1985,

pp. 101 – 106; CAMILLI – TAGLIETTI 1994, pp. 322 -333.

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3.2. L’attività manifatturiera: fonte di guadagni-arte da dissimulare

E’ stato già sottolineato come di fronte ad alcuni laterizi bollati sia difficoltoso leggere e riconoscere i nomi celati da alcune sigle e abbreviazioni11.

E se l’indeterminatezza delle informazioni non fosse da imputare solo a dinamiche legate al ciclo produttivo, ma fosse la conseguenza di alcuni preconcetti morali relativi alle attività manifatturiere? Di esse le testimonianze antiche ne danno un giudizio negativo pur essendo fonti di ingenti guadagni.

Se si tentasse di ricostruire i fenomeni storici affidandoci completamente alla lettura degli autori antichi dovremmo necessariamente concludere che i ceti elevati non parteciparono in alcun modo alla creazione e alla crescita del mercato legato all’artigianato.

Nelle Epistulae Cicerone ammonisce i senatori che tentavano di far fruttare i propri

praedia tramite l’installazione di centri produttivi; l’unica forma di sfruttamento ammessa

era la costruzione sui terreni di proprietà per scopi residenziali.

Quaestus hominis patribus indecorus visus12 è quanto viene affermato da Livio (59-17 a.C.): egli vede nella ricerca di profitto mediante forme d’artigianato un’attività indegna per un senatore. Seneca stigmatizza le attività artigianali perché da esse non scaturisce virtù13.

La condanna per le attività manifatturiere – commerciali era più forte presso i nobili romani molto vicini al mondo greco poiché influenzati dalle parole di Platone (Leggi, XII, 952 d, 953) e Aristotele (Politica, 1, 256, b 26, 1257 b 39).

Alla base della “repulsione” verso il guadagno ottenuto tramite il commercio vi era la convinzione dell’incompatibilità con i valori di dignitas e fides tanto cari alla nobilitas romana: l’astensione dalla suddetta occupazione da parte di un senatore doveva essere un atto più che doveroso per non mettere a repentaglio la credibilità e l’onorabilità della carica ricoperta, in quanto il mercato era visto come un mondo governato dalla menzogna, dalla falsificazione, dalla manomissione, pratiche condivise e portate avanti dai mercanti. Questo è quanto afferma in proposito l’Arpinate:

11 Sui bolli recanti sigle e abbreviazioni vd. cap. 2. par. 3. 12 Livio, XXI. 63. 3.

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<<Sordidi etiam putandi, qui mercantur a mercatoribus, quod statim vendant; nihil enim proficiant, nisi admodum mentiantur; nec vero est quicquam turpius vanitate>>14.

Inoltre il coinvolgimento in attività “extrasenatoriali” comportava spostamenti prolungati in zone lontane dalla città, un’indisponibilità del tutto contraria all’otium, spazio che il laticlavio doveva dedicare alla partecipazione politica e non solo.

Un atteggiamento più tollerante e pragmatico viene manifestato da Varrone il quale sostiene che le attività extragricole hanno un posto appropriato all’interno del fundus sulla base della loro produttività economica, ma la distinzione dagli agri coltura permane netta: se le cave di argilla necessarie all’attività di un’officina si trovano all’interno del fundus, è ammissibile la possibilità di trarre benefici economici dalle circostanze vantaggiose:

<< Sed ut neque lapidicinae neque harenariae ad agri culturam pertinent, sic figilinae. Neque ideo non in quo agro idoneae possunt esse non exercendae, atque ex iis capiendi fructus >>15.

Raccogliendo le citazioni degli autori antichi si perviene alla conclusione che era diffuso un sentimento di disprezzo verso le fonti produttive, ma ciò nonostante nulla indebolì gli affari. Sebbene ci fossero remore morali-etiche, queste non hanno mai impedito ai commercianti di commerciare e ai notabili di accrescere i propri interessi16. E’ sintomatica la considerazione di Cicerone espressa nel De Officiis:

<<Mercatura autem, si tenuis est, sordida putanda est; sin magna et copiosa,

multa undique apportans multisque sine vanitate impertiens, non est admodum vituperanda; atque etiam si satiata quaestu vel contenta potius, ut saepe ex alto in portum, ex ipso se portu in agros possessionesque contulit, videtur iure optimo posse laudari 17».

14 “Sono da considerare ignobili anche coloro i quali comprano dai commercianti al minuto quello che possano

rivendere subito (la merce da rivendere); infatti niente potrebbero guadagnare se non mentissero molto; né in vero c'è qualcosa di più turpe della menzogna” (De Officiis I, 150).

15 “ Né le cave di pietra, né le cave di sabbia, così come le figlinae sono da connettere all’agricoltura. Ciò non esclude

che queste possano trovarsi all’interno del fundus e che da esse si possa trarre guadagno” (De re rustica, I, 22 – 23).

16 PAVIS D’ESCURAC 1977, pp. 339 – 355; LEVEAU 1985 pp. 87 – 111; NARDUCCI 1985 pp. 93 – 119.

17 “Anche il commercio, se esercitato su piccola scala, è da ritenersi sordido: ma, se è esercitato su vasta scala,

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Dunque il negotium non era incompatibile con la dignitas, soprattutto se condotto al fine di un investimento nella proprietà fondiaria.

Nonostante le giustificazioni e le attenuanti morali, nessun personaggio appartenente alle

élites si sarebbe definito mercator.

Era diffusa la pratica di “camuffare” il coinvolgimento dei signori dell’aristocrazia romana nell’attività commerciale tramite l’utilizzo di termini sostitutivi o affiancando il nome della prima attività con uno di maggior rilievo.

Basti citare il caso di Eurysace: sulla lastra parte del suo monumento funerario si legge: <<Est hoc monimentum Marcei Vergilei Eurysacis pistoris, redemptoris, apparet>>. Il padrone del sepolcro si definisce non solo pistor (fornaio), ma anche redemptor (appaltatore) 18. L’accostamento delle due qualifiche è un indizio della preoccupazione di nobilitare il lavoro artigianale con un’attività legata alla fortuna fondiaria19.

Un esempio icastico e vicino all’argomento oggetto di studio è l’incisione sui laterizi del sostantivo praedia, equivalente del termine figlina con il sottinteso intento di conferire dignità alla fonte di reddito; chiaramente la parola possedimento, terreno, nobilita maggiormente rispetto a quello indicante la cava d’argilla o lo stabilimento produttivo, in più rivela la volontà da parte del dominus di sottolineare la sua qualità di proprietario fondiario20.

Cicerone che nel De Officiis disprezzava pratiche non strettamente agricole, produceva tegole, così come fecero altri personaggi d’alto rango romano: Asinio Pollione, Livio Agrippa Postumus, Poppea e famiglie di rango più modesto legate alle élite municipali21. Chiaramente i profitti connessi alla produzione di laterizi dovevano essere elevati se a partire dal II secolo d.C. molti personaggi eminenti investirono in tale attività, inoltre dalla lettura dell’editto di Diocleziano (301 d.C.) si deduce che il materiale da costruzione aveva un valore elevato 22.

lodare a giusto titolo, se chi lo pratica, sazio o piuttosto soddisfatto del guadagno ottenuto, allo stesso modo che spesso si ritirava dall’alto mare in porto, si ritira dallo stesso porto nelle sue proprietà terriere” (De Officiis, I, 151).

18 COARELLI 2005, pp. 246 – 247. 19 MOREL 1988, pp. 87-102. 20 SETALA 1977, p. 9. 21

MOREL 1989, p. 245.

22 L’edictum de pretiis rerum venalium, emanato nel 301 venne realizzato con l’intenzione di mettere un freno alla

lievitazione arbitraria dei prezzi. Oltre a numerose testimonianze letterarie di questo importante documento si conservano frammenti provenienti da Afrodisia e da Pettorano sul Gizio presso Sulmona. La rilevanza del testo sta

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negli elenchi di nomi in latino e in greco riferibili a cibi, vetri, strumenti, professioni, onorari, tariffe e noli che consentono di ricostruire l’ambiente economico e sociale del tardo impero romano (GIACCHERO 1962).

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3.3.

Procurator,

officinator,

insistor:

anello

tra

attività

manifatturiera e l’aristocrazia romana

L’ “obliquità del linguaggio” costituisce solo una parte del mascheramento della realtà. L’aristocrazia romana dissimulò il coinvolgimento all’interno delle catene produttive legate alla distribuzione tramite la sostituzione con intermediari a cui veniva conferito il compito di prendere in mano le redini delle attività manifatturiere: le botteghe erano affidate a uomini di confidenza (procurator, officinator, o institor), schiavi che lavoravano sotto concessione di denaro23.

Secondo quanto viene tradito dai testi giuridici, l’operato poteva essere svolto tramite due vie:

- lo schiavo scelto dal dominus in qualità d’institor, veniva messo a capo di un’attività commerciale o di uno stabilimento produttivo. Il guadagno era convogliato nelle mani del dominus il quale provvedeva a ripagare il servo tramite una donazione o tramite un compenso fisso.

- in alternativa lo schiavo poteva percepire una somma di denaro, anche cospicua, tale da permettergli lo svolgimento dell’attività. In questo caso il dominus aveva esclusivamente il ruolo di finanziatore.

Furono elaborate norme legislative col fine ultimo di limitare l’ingerenza dei senatori negli affari. Il primo provvedimento risale al 219 a.C. e viene ricordato come Plebiscitum

Claudianum: con esso si proibiva ai senatori di possedere un’imbarcazione con capacità

superiore alle 300 anfore (cioè di otto tonnellate)24. La disposizione proposta da C. Flaminius Nepos nel 287 a.C rimase in vigore fino all’età dei Severi.

Cicerone fece ricorso a tale legge nel processo contro Verre: l’accusato si era macchiato della colpa di aver ricevuto una nave in cambio di una villa a Messina.

<< Noli metuere, Hortensi, ne quaeram qui licuerit aedificare navem senatori; antiquae sunt istae leges et mortuae, quem ad modum tu soles dicere, quae vetant>>.

Cesare nel 59 a.C. riprese la legge del 219 a.C. e la inserì nella Lex Iulia de repetundis. La norma si conosce tramite la lettura di un paragrafo scritto dal giurista Q. Cervidius

23

VEYNE 1985, pp. 105- 108; MOREL 1991, p. 190.

24 << Ne quis senator cuive senator pater fuisset, maritimam navem, quae plus quam trecentarum amphorarum esset,

haberet. It satis habitum ad fructus ex agris vectandos>> (Liv. XXI, 63). YAVETZ 1962, pp. 325-326; PAVIS

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Scaevola contenuto nel Digesto25: in esso s’indicano le condizioni secondo le quali i

navicolari potevano smerciare i prodotti municipali. Inoltre in esso viene precisato inequivocabilmente che i senatori erano interdetti dalle attività mercantili. Si deduce che la classe senatoriale partecipava attivamente al commercio tanto che fu necessario adottare un sistema di misure che controllasse le manovre economiche.

Il plebiscito del 219 venne emanato anche con l’intento di limitare l’accesso nel corpo dei cavalieri equo privato di publicani26, banchieri e commercianti che durante i primi anni del III secolo erano prevalenti numericamente.

Con il Plebiscitum Claudianum venne loro impedito l’ingresso al senato ed alle più alte magistrature. Si creò così una scissione netta tra mondo degli affari e quello delle cariche di rappresentanza politica, almeno dal punto di vista formale.

Da questo momento in poi il collegamento tra terra e denaro avvenne tramite intercessione di agenti.

Considerando che durante l’età di Cesare era più radicata che mai la convinzione che la proprietà dovesse essere un mezzo e non un fine, il Plebiscitum Claudianum può essere interpretato come un provvedimento economico con risvolti in campo sociale e morale poiché esso si prefiggeva “collateralmente” di salvaguardare i precetti del mos maiorum.

25 Dig. L. 5, 3.

26 Il publicano era colui che prendeva in appalto le imposte; il compito gli veniva assegnato solitamente dai consoli che

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3.4. I riflessi della Tabula Veliensis

Le limitazioni rivolte alle attività imprenditoriali dei senatori vennero meno in un periodo in cui la regione italica imperversava in uno stato di degrado, a causa della crisi del sistema villa, della viticoltura e per finire del sistema produttivo schiavistico27. La politica di colonizzazione si era rivelata per un insieme di motivi inidonea a promuovere la ripresa economica e demografica delle regioni centromeridionali. Inoltre la spietata concorrenza delle vicine province, la pressione fiscale che aumentava proporzionalmente all’espansione dei confini dell’impero, le spese militari, andavano a gravare pesantemente sulle casse della regione italica tale da farla degradare a livelli secondari di rendimento rispetto alle aree adiacenti.

Per sollevare la fase di stagnazione e di impoverimento delle regiones vennero attuati alcuni provvedimenti statali al fine di aiutare gli strati di popolazione più bisognosi28. Al principato di Traiano va ascritta la diffusione di un programma d’assistenza pubblica, creato durante il principato di Nerva 29 che furono gli alimenta.

E’ ancora dibattuto lo scopo effettivo di questo tipo di disposizioni: alcuni studiosi ritengono fossero finalizzati alla crescita demografica, altri a sostenere e incrementare l’agricoltura; sicuramente l’aumento della produttività agricola avrebbe migliorato le condizioni di vita della popolazione italica.

Non è chiaro se il provvedimento legislativo fosse aperto a tutte le regiones italiche: dai ritrovamenti epigrafici e dalle testimonianze letterarie si è arrivati alla conclusione che le prime beneficiarie furono le città dell’Italia centrale, mentre pochissime furono quelle dell’Italia settentrionale e delle estreme regioni meridionali30.

I documenti che consentono di apprendere il contenuto delle istituzioni alimentarie sono la

tabula dei Ligures Baebiani31 e l’altra più celebre di Veleia32; esse costituiscono

un’importantissima fonte per lo studio del meccanismo del prestito fondiario.

27 LO CASCIO 2000 b), p. 282. Per approfondimenti sulla nascita e sviluppo dei sistemi di produzione schiavistici:

CARANDINI 1981, pp. 249 – 260.

28 ECK 1996, pp. 175-208.

29 Epitome de Caesaribus (12.4).Si fa riferimento all’istituzione degli alimenta anche nelle Epistulae di Plinio (XXVIII.

4 - 5).

30 LO CASCIO 2000, p. 251.

31 CIL IX, 1455; VEYNE 1957, pp. 84– 90; CRINITI 1991, p. 56; DAL CASON 1997, p. 538; M.R. TORELLI 2002,

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Fig. 22 - Tavola di Veleia (esposta al Museo Archeologico di Parma).

Il procedimento finanziario prevedeva che l’imperatore devolvesse un prestito ai proprietari terrieri che davano in garanzia dei terreni; i beneficiari della somma erano poi obbligati a versare gli interessi ad un magistrato cittadino, il quale impiegando l’utile proveniente dall’affitto dei terreni pagava i sussidi degli indigenti33.

Sul documento di Veleia sono riportate le obbligazioni di circa 400 fundi, stipulate dai loro proprietari per accedere all’offerta di prestito imperiale.

Di ciascun terreno vengono riportati il nome del proprietario, il nome dell’intermediario incaricato della descrizione, il nome e la stima del valore della proprietà, la somma corrisposta, il nome dei due confinanti, l’uso del suolo, la collocazione nel pagus 34 e in

alcuni casi nel vicus 35.

Un collegamento viene spesso istituito tra la diffusione in Italia del programma alimentare e la norma che Traiano avrebbe emanato nel 105 d.C. e che imponeva ai senatori impegnati nei focolai di guerra localizzati al di fuori della penisola ad investire nella proprietà

32 La tavola è stata rinvenuta nel 1747 a Veleia, in prossimità di una basilica a cui era affissa anticamente. Si tratta di

una tavola bronzea non perfettamente regolare (m 1,38 x 2,86), formata da sei lamine, circondata da una cornice bronzea. Sulla tavola di Veleia: CRINITI 1991; CRINITI 2008; ECK 1996; LO CASCIO 2000; SORICELLI 2002.

33

DAL CASON 1997, p. 531.

34 Nel lessico amministrativo romano il termine pagus indicava una circoscrizione territoriale rurale, cioè al di fuori dei

confini della città (CAPOGROSSI COLOGNESI 2002, pp. 5 - 48).

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fondiaria; essi erano obbligati a trasferire un terzo del loro patrimonio in terreni appartenenti al suolo italico36.

Le motivazioni alla base del provvedimento legislativo traianeo sono contenute tra gli scritti di Plinio il Giovane37:

<< Deforme arbitratus — et erat — honorem petituros urbem Italiamque non

pro patria sed pro hospitio aut stabulo quasi peregrinantes habere >>.

La manovra legislativa provocava un aumento del valore dei terreni a causa dell’incrementata domanda così da spingere i nuovi proprietari ad un massimo sfruttamento del terreno per poterne ricavare degli utili tali da giustificare la spesa di partenza.

Nella stessa misura dell’obligatio praediorum dell’istituzione alimentare, anche il provvedimento traianeo indirizzato ai magistrati creava le condizioni perché capitali monetari tornassero ad essere investiti nella terra. Il decreto legislativo estirpò i limiti morali del passato che imponevano ai senatori di estraniarsi dalle attività manifatturiere. L’annientamento dei limiti morali e la messa in atto della manovra legislativa che imponeva un adeguato sfruttamento delle proprietà fondiarie possono spiegare la nascita e lo sviluppo delle figline doliari urbane ed extraurbane a partire dal II secolo d.C.

Concludendo:

Seppur non manchino i dati per poter provare che grandi proprietari terrieri, senatori e imperatori romani avessero legami con le attività manifatturiere, bisogna ammettere che la “borghesia italica” non ebbe mai la spinta per evolversi in una “borghesia industriale”38.

In questo capitolo si evidenzia come siano di centrale importanza le informazioni ricavabili dall’opus doliare: non solo ci forniscono dati relativi all’organizzazione produttiva (e questo è un aspetto che verrà analizzato con maggior attenzione nel capitolo successivo), ma permettono di scorgere le dinamiche politiche, sociali che interessarono il popolo romano.

Dallo studio del materiale, con l’apporto degli studi prosopografici, si perviene ad un quadro che permette di conoscere chi impiegò risorse nell’industrie manifatturiere, nonostante i limiti etici e legislativi.

I membri dell’élite municipali hanno praticato, o piuttosto fatto praticare talvolta, accanto all’agricoltura, il commercio, il prestito, tutte quelle attività che detto da Cicerone, non erano legate all’ingenuum39.

36 ECK 1997, pp. 175 – 208; LO CASCIO 2002, pp. 250 – 251. 37 Plin. Ep. VI,19.

38 VEYNE 1983.

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Figura

Fig. 22 - Tavola di Veleia (esposta al Museo Archeologico di Parma).

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