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Israele e Iran

1947 – 1979: gli anni dell'alleanza

Il primo punto di contatto rilevante tra Iran e Israele risale a prima della nascita dello Stato di Israele stesso. L’Iran, infatti, fu selezionato come uno degli undici Paesi facenti parte dell’UNSCOP (United Nations Special Committee on Palestine), un comitato speciale delle Nazioni Unite creato con il compito di ascoltare le parti in causa (l’Alto comitato arabo, che pure inizialmente boicottò i lavori del comitato, e l’Agenzia ebraica)1 ed elaborare una proposta di risoluzione da presentare in Assemblea Generale. Alla fine dei lavori del comitato, otto membri su undici presentarono un piano di divisione della Palestina e la contestuale creazione di due Stati, uno arabo e uno israeliano, con Gerusalemme posta sotto amministrazione internazionale. L'Iran non era tra questi otto Stati e, insieme a India e Jugoslavia, si oppose alla spartizione presagendo un esito violento: l'unica soluzione possibile per assicurare la pace, secondo lo Shah Mohammad Reza Pahlavi2, sarebbe stata la «creazione di un singolo Stato federale formato da due componenti autonome, una ebraica e una araba»3. Il rappresentante iraniano presso l'Onu si comportò conseguentemente il 29 novembre 1947, giorno in cui venne messa ai voti, in Assemblea generale, la Risoluzione 181 sulla Palestina, sommando il proprio dissenso alla lista degli altri dodici voti contrari alla partizione, e sancendo una posizione di mancato riconoscimento de iure dello Stato di Israele che sarebbe rimasta immutata per tutto il regno dello Shah, fino al 1979 quindi, e che viene portata avanti anche oggi4. Questo primo approccio alla questione della sistemazione della Palestina si sarebbe dimostrato rivelatore di una tendenza caratterizzante l'atteggiamento dell'Iran dello Shah nei confronti di Israele, ossia quella di guardare con interesse e favore alla nascita di un nuovo Stato proprio al

1 T. G. Fraser, Il conflitto arabo-israeliano, Bologna, Il Mulino, 2009, pp. 41-43.

2 Mohammad Reza Pahlavi successe al padre Reza Shah nel 1941 per gentile concessione degli Alleati, che avevano occupato nel settembre dello stesso anno l'Iran spartendoselo secondo aree di influenza ben delimitate. Reza Shah, che aveva fondato la dinastia dei Pahlavi, dopo aver detronizzato, nel 1921, l'ultimo sovrano della dinastia Qajar, e che aveva tentato di salvaguardare l'indipendenza del suo Paese, fu costretto ad abdicare il 16 settembre e mandato in esilio in Sud Africa dove trovò la morte nel 1944: cfr. E.L. Daniel, The history of Iran, London, Greenwood Press, 2012, pp. 143-145.

3 T. Parsi, op. cit., p. 20.

4 La negazione del riconoscimento del diritto di Israele di esistere da parte iraniana è talmente netta che l'attuale ministro degli esteri iraniano Zarif, membro del governo del “moderato” Rouhani, si vede costretto a smentire categoricamente voci e ipotesi che vedrebbero il riconoscimento iraniano subordinato alla sistemazione della questione palestinese. In altre parole, il messaggio che passa è che Israele, per la leadership iraniana, è un'entità illegittima a prescindere da eventuali progressi in Palestina: A.B.Solomon, Iranian FM denies reports hinting at

recognition of Israel if conflict with Palestinians settled, in The Jerusalem Post, 2 aprile 2014:

http://www.jpost.com/Diplomacy-and-Politics/Iranian-FM-denies-reports-hinting-at-recognition-of-Israel-if-conflict-with-Palestinians-settled-340315

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centro del Medio Oriente arabo in funzione di bilanciamento, appunto, del potente blocco arabo che, tradizionalmente, non aveva mai visto di buon occhio la vicina Persia. A tale costante si sarebbe però sempre affiancata l'impraticabilità di un riconoscimento formale di Israele da parte di Teheran. La Persia, storicamente, si era sempre dimostrata abbastanza refrattaria alla colonizzazione e civilizzazione araba, tanto da mantenere una distinzione linguistica (con la conservazione del farsi, lingua di origine indoeuropea) ma anche culturale in senso complessivo, con festività proprie (come il Nowruz – il nuovo anno) perfino più sentite di quelle religiose comuni a tutto il mondo musulmano5; la stessa – presunta – comunanza religiosa con gli arabi (basata sulla comune fede islamica) va relativizzata, in quanto in Iran si è affermato nel tempo6 il ramo dello sciismo7, detto duodecimano8, mentre la corrente maggioritaria dell'Islam, diffusa e nettamente prevalente negli Stati arabi (come in tutti gli Stati musulmani in Asia centrale e orientale) è il sunnismo9. Ecco che il nuovo Stato di Israele avrebbe «assorbito l'attenzione e le risorse degli Stati arabi, da sempre i rivali tradizionali dell'Iran nella regione»10; allo stesso tempo, però, e sempre nell'ottica del bilanciamento di potere, un riconoscimento de jure di Israele sarebbe risultato impraticabile, innanzitutto per non far infuriare le masse musulmane e per non attirare su di sé tutto il biasimo che invece lo Stato ebraico stava e avrebbe in futuro canalizzato11. Insomma, Israele come parafulmine e contrappeso geopolitico. Fu così che l'Iran sotto lo Shah percorse sempre una strada insidiosa e piena di ambiguità e ipocrisie – di pura Realpolitik possiamo dire – intermedia «tra aperta ostilità e aperta alleanza»12.

Il governo israeliano formalizzò la sua richiesta di riconoscimento presso il governo iraniano una prima volta nel giugno del 1948. Una seconda richiesta fu avanzata nove mesi dopo, ancora senza successo. Come si è accennato, pur non arrivando mai un riconoscimento de jure di Israele, il 6 marzo del 1950 il gabinetto del Primo ministro iraniano Mossadeq si decise per un riconoscimento de facto di Israele e aprì le frontiere dell'Iran agli ebrei iracheni che da tempo cercavano di

5 Il Nowruz, nuovo anno iraniano che segna anche il primo giorno di primavera, è stata addirittura riconosciuta come festività internazionale dall'Onu nel 2010: http://www.un.org/en/events/nowruzday/index.shtml

6 «In Iran lo sciismo si diffuse molto rapidamente, ma vi rimase per secoli una minoranza; solo nel XVI secolo, una dinastia sciita, i Safavidi, avrebbe avviato la sciitizzazione sistematica della regione»: H. Halm, L'Islam, Roma-Bari, Laterza, 2003, pp. 53-54.

7 Da "shīʿat ʿAlī", cioè «gruppo dei partigiani di ʿAlī»: S. Mervin, L'Islam. Fondamenti e dottrine, Milano, Bruno Mondadori, 2004, p. 71.

8 «Quello che comunemente si designa con il termine “sciismo” […] corrisponde più precisamente allo sciismo duodecimano […], denominazione relativa al numero degli imam venerati. Esso è altresì noto come sciismo imamita […], in relazione alla teoria dell'imamato che ha elaborato. Si tratta del secondo ramo dell'islam per numero di adepti, dopo il sunnismo»: S. Mervin, ivi, p. 87. Gli sciiti in Iran ammontano all'89% della popolazione, secondo i dati del Cia World Factbook: https://www.cia.gov/library/publications/the-world-factbook/geos/ir.html

9 L'Islam sunnita è quello «di coloro che chiamano se stessi ahl as-sunnah wa l-jamāʻah, “la gente della tradizione e della comunità”, dove forse più importante che sunna è quell'altra parola jamāʻah, indice di un atteggiamento sunnita per cui l'autorità religiosa non è concentrata in persone (se si esclude il Profeta) ma in un Libro e nella interpretazione “comunitaria” del medesimo attraverso tutto un lavorìo di generazioni di dotti e di giuristi»: A. Bausani, L'Islam. Una religione, un'etica, una prassi politica, Milano, Garzanti, 1999, p. 94.

10 T. Parsi, op. cit., p. 20. 11 ibidem.

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espatriare in Israele tramite l'Iran; Teheran quindi riconobbe lo Stato ebraico come una realtà di fatto nella regione, senza però avviare relazioni diplomatiche di alcun tipo con esso13. Le leaderships dei due Paesi non tardarono comunque a trovare fattori di vicinanza nello scacchiere mediorientale e mondiale, ovvero la comune avversione verso il blocco sovietico14 e i suoi alleati arabi. In Israele, infatti, dopo i primi anni di incertezza nei confronti della scelta tra blocco occidentale e orientale e di diffusa simpatia nei confronti dell'Unione sovietica – visto anche il predominio del partito socialista laburista Mapai nelle elezioni legislative israeliane fino al 197715 e il gran numero di ebrei di origine slava - l'orientamento cominciò a virare nettamente verso il mondo occidentale guidato dagli Stati Uniti d'America, con cui i legami divennero via via più solidi e fruttuosi: questa definitiva “chiarificazione” e scelta di campo spianò la strada a un'intesa, quella tra Iran e Israele, che la geopolitica del Medio Oriente rendeva naturale. Al comune nemico sovietico si aggiunse presto l'Egitto di Nasser16, il cui panarabismo e attitudine a porsi a capo delle masse arabe17 erano visti con sfavore non solo dall'acerrimo nemico israeliano, ma anche dallo Shah, che soffriva il presunto accerchiamento arabo18. A complicare ulteriormente la situazione e disturbare i sogni del sovrano iraniano si aggiunse prestissimo l'orientamento filo-sovietico adottato da Nasser per l'Egitto. Oltre alle compatibilità geostrategiche, a far avvicinare Iran e Israele concorsero anche diversi altri fattori. Innanzitutto le strette necessità energetiche di quest'ultimo, ovvero una sete crescente di petrolio, dovuta all'ovvio embargo arabo sulla vendita di greggio al nemico sionista, sete accresciuta dal boom economico israeliano e dal contemporaneo aumento del fabbisogno energetico.

La questione della fornitura di petrolio iraniano a Israele merita un breve excursus e sarà trattata qui di seguito.

13 Cfr. C. Jones, T.T. Petersen (a cura di), Israel's clandestine diplomacies, New York, Oxford University Press, 2013, pp. 73-79. Sempre dal 1950 fu istituito un ufficio per gli interessi iraniani presso l'ambasciata svizzera di Tel Aviv: B. Souresrafil, Khomeini and Israel, England, I Researchers Inc., 1988, p. 33.

14 L'Iran, dal 1955, faceva parte del Patto di Baghdad insieme a Stati Uniti, Gran Bretagna, Turchia, Iraq e Pakistan con il fine di «costituire una solida barriera difensiva per bloccare ogni spinta espansionistica sovietica verso il Mediterraneo e il Medio Oriente»: R. Redaelli, L'Iran contemporaneo, Roma, Carocci, 2011, p. 24.

15 Anno della vittoria del Likud di Menachem Begin nelle elezioni del 17 maggio: Cfr. C. Henderlin, Paix ou guerre.

Les secrets des négociations israélo-arabes 1917-1995, Paris, Fayard, 2004, p. 404.

16 Gamal Abd el-Nasser, colonnello dell'esercito egiziano e capo della congiura degli “Ufficiali liberi”, spodestò nel luglio 1952 il re Farouk, la cui dinastia, fondata da Mehmet Ali, regnava nel Paese dal 1805. Dal 1952 al novembre 1954 resterà formalmente al potere il generale Neguib, eroe della guerra del 1948; il 14 novembre 1954 verrà dato il benservito anche a Neguib e Nasser prenderà direttamente il potere, che manterrà fino al 28 settembre 1970, giorno della sua morte: Cfr. C. Henderlin, Paix ou guerre..., cit.

17 Le origini dell'ampio consenso di Nasser nel mondo arabo sono da rinvenire nelle vicende legate alla crisi di Suez del 1956, che lo videro emergere come il campione della resistenza al potere coloniale e al sionismo. «Nasser non credette mai in un mondo arabo politicamente unito, tuttavia il presidente egiziano si considerava la voce accreditata delle aspirazioni arabe e l'artefice di una posizione del tutto originale negli eventi mondiali» T. G. Fraser, op. cit., p. 81.

18 Dal punto di vista territoriale, in Iran si temevano le ambizioni arabe sulla provincia iraniana del Kuzhestan, ricca di petrolio, confinante con l'Iraq e con una chiara presenza arabo-sunnita: Cfr. T. Parsi, op. cit., p. 22; Cfr. R. Redaelli,

op. cit., p. 26. Quando l'Egitto era una monarchia, tra i due Paesi esisteva, invece, una solida alleanza sia politica

che matrimoniale, dato che Mohammed Reza Pahlavi aveva sposato la figlia di re Fuad I d'Egitto: Cfr. A. Amir-Aslani, op. cit., p. 175.

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Fino alla prima metà degli anni '50 Israele poté contare sulle forniture provenienti soprattutto da Unione Sovietica, Venezuela, Kuwait, e compagnie petrolifere internazionali. In seguito alla crisi di Suez del 1956 e per via degli alti prezzi del petrolio americano tali legami e forniture cessarono19 del tutto e si ripresentò più forte di prima il bisogno di approvvigionamenti stabili e consistenti di petrolio. Nel 1952 Israele importava petrolio per il 70% dal Venezuela e per il 30% dall'Iran: in pochi anni si arrivò a una completa dipendenza dall'Iran (con percentuali del 90% sul totale delle forniture)20. Sotto questo aspetto, già nell'estate del 1957 si arrivò a un accordo con gli iraniani per la costruzione di un oleodotto del diametro di quaranta centimetri (finanziato dalla famiglia di banchieri Rothschild)21 che andasse dal porto di Eilat sul golfo di Aqaba fino alla cittadina di Ashkelon sul Mediterraneo, la cui costruzione fu terminata molto rapidamente (nel tempo record di cento giorni) entro la fine dello stesso anno. Tale oleodotto, che serviva sia gli interessi iraniani (bypassando il sensibilissimo canale di Suez in mano a Nasser), sia il fabbisogno energetico israeliano, venne raddoppiato nel 195822. Per tenere nascosto l'accordo e soprattutto la partecipazione iraniana, nel 1959 venne poi creata un'apposita società in Liechtenstein chiamata Fimarco, di cui l'Iran deteneva il 10%. Verso la metà degli anni '60, però, a causa dell'accresciuto fabbisogno israeliano, il condotto preesistente diventò insufficiente: vennero quindi avviati negoziati segreti tra i governi dei due Paesi per costruire un nuovo oleodotto. Inoltre, la guerra dei sei giorni del 1967 ebbe come conseguenza la chiusura del canale di Suez, il che obbligava le petroliere cariche di greggio destinato all'Europa di ritornare alla circumnavigazione dell'Africa: «l'idea di israeliani e iraniani [fu] allora di far venire [tutto] il petrolio [iraniano] a Eilat e di inviarlo attraverso l'oleodotto verso i porti di Haifa e Ashkelon. Le compagnie petrolifere vi avrebbero fatto scalo per prendere il greggio e Israele avrebbe incassato una percentuale sui volumi transitanti sul proprio territorio»23. Lo Shah si convinse quindi ad accettare una partnership paritaria tra il governo israeliano e la National Iranian Oil Company (NIAC): nel 1968 venne quindi creata in Svizzera un'apposita compagnia, la Trans-Asiatic Oil24 (che gestisce tuttora il condotto) e furono trovati i fondi per finanziare il progetto (grazie alla Deutsche Bank). Già nel corso del 1969 l'oleodotto – di un metro di diametro – era completato e a dicembre divenne operativo, trasportando ingenti quantità di greggio iraniano verso Israele e l'Europa per quasi dieci anni (fino alla caduta dello Shah).

Un ulteriore e importante fattore di riavvicinamento tra i due Paesi era costituito dalla numerosa comunità ebraica residente in Iran, che i governi di entrambe le parti erano interessati a far

19 Y. Melman, Inside Intel / The story of Iranian oil and Israeli pipes, in Haaretz, 11 ottobre 2007:

http://www.haaretz.com/print-edition/features/inside-intel-the-story-of-iranian-oil-and-israeli-pipes-1.230884

20 Cfr. A. Amir-Aslani, op. cit., p. 205. 21 ivi, p. 206.

22 Cfr. T. Parsi, op. cit., p. 23. 23 A. Amir-Aslani, op. cit., p. 206.

24 «La Trans-Asiatic aveva all'epoca una flotta di 30 petroliere e trasportava nei suoi anni d'oro fino a 54 milioni di tonnellate di greggio»: ibidem.

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transitare dall'Iran ad Israele. L'interesse di quest'ultimo risiedeva innanzitutto nella volontà di popolare il proprio Stato cercando così di controbilanciare la preponderanza demografica arabo-palestinese25.

Dal punto di vista iraniano, il riavvicinamento era giustificabile dal bisogno delle conoscenze tecniche avanzate che Israele aveva già sviluppato in termini di irrigazione e coltivazione di suoli particolarmente ostici come quelli desertici. Allo stesso tempo si pensava di sfruttare il più possibile l'influenza israeliana (spesso ingigantita nella sua importanza, e non solo dall'Iran ma, si vedrà, anche dalla Turchia) sulle scelte politiche di Washington, per cercare di avvicinare e ingraziarsi gli Stati Uniti d'America26. Una collaborazione importante, in funzione principalmente antisovietica e anti-nasseriana, accomunava poi i servizi segreti di Israele, Iran e Turchia: stabilito nel 1958, il patto chiamato Trident si basava sulla cooperazione in tema di scambio di informazioni di intelligence sui movimenti di truppe, l'invio di convogli e le operazioni militari di Unione Sovietica, Egitto e Iraq27. Il primo pericolo agli occhi dello Shah restò comunque la percezione della minaccia sovietica, che si manifestava attraverso un possibile attacco sia “esterno” con il sostegno (politico, economico, militare) al panarabismo e alle sue varie realizzazioni nei diversi Paesi arabi (di cui l'Egitto di Nasser rappresentava l'esempio principale) sia proveniente dall'interno, con il sostegno e finanziamento ai vari gruppi e partiti di opposizione al regime dello Shah, tra cui, soprattutto, il partito comunista Tudeh28. In tale ottica di prevenzione dell'avanzata sovietica, Israele si rivelava un alleato utile alla causa ma non decisivo. Diversa invece la posizione di quest'ultimo, secondo la quale l'Iran, «il più forte Stato alla periferia di Israele, era un fattore chiave nella grande strategia politica israeliana»29, basata sulle alleanze periferiche. La necessità politica di mantenere segreta la collaborazione con Israele consigliò e costrinse lo Shah a eludere molto spesso il ministero degli affari esteri e ricorrere direttamente alla Savak, la temutissima polizia segreta del regime30.

25 Ciò detto, e nonostante il fatto che tra 1948 e 1955 più di 30'000 ebrei abbiano lasciato l'Iran per trasferirsi nel neonato Stato di Israele, va precisato che, tra tutti gli Stati musulmani, «l'Iran è stato il solo dove il numero di ebrei è aumentato in maniera significativa dopo la creazione dello Stato d'Israele, essendo passato dalle 50'000 persone del 1948 alle 80'000 del 1968 […]. Sopo a partire dalla rivoluzione islamica del 1979 tale numero è diminuito, proporzionatamente alle varie ondate di emigrazioni che hanno interessato molti altri iraniani»: A. Amir-Aslani, op. cit., p. 53; «Nel 2000 c'erano ancora 40'000 ebrei in Iran»: ivi, p. 135. In generale, si nota la tendenza degli ebrei iraniani (e non) a preferire il trasferimento negli Stati Uniti piuttosto che in Israele: ivi, pp. 135-136.

26 Cfr. T. Parsi, op. cit., pp. 23-24.

27 Cfr. E. Kahana, M. Suwaed, The A to Z of middle eastern intelligence, Plymouth, Scarecrow Press, 2009, pp. 303-304.

28 «Il partito comunista iraniano (il Tudeh, Masse) era molto popolare fra gli studenti universitari, gli intellettuali, i lavoratori delle industrie e negli ambienti urbani. Considerato uno dei più forti partiti comunisti del Medio Oriente, il Tudeh si era formato poco dopo la forzata abdicazione di Reza Shah nel 1941. L'occupazione dell'Iran da parte degli Alleati durante il secondo conflitto mondiale e l'appoggio fornitogli dall'Unione Sovietica avevano fatto di questo partito una forza che spaventava lo shah e gli stessi Stati Uniti, favorendo la deriva autoritaria e illiberale del governo di Teheran»: R. Redaelli, op. cit., pp. 34-35.

29 T. Parsi, op. cit., p. 24.

30 La Savak venne creata nel 1957: «i servizi segreti statunitensi e, in seguito, quelli israeliani, svolsero un ruolo fondamentale nell'addestramento di questa polizia segreta. Nata per prevenire principalmente l'infiltrazione comunista e la diffusione delle ideologie marxiste, la SAVAK divenne uno strumento di repressione di ogni forma di

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Le visite dei funzionari iraniani erano tenute all'oscuro e avvenivano via Turchia, senza alcun timbro sul passaporto al loro arrivo in Israele; venne creata pure una ambasciata iraniana “ombra”, a cui ci si riferiva con il nome di “Berna 2” perché, per coprire il segreto della sua esistenza (comunque nota agli statunitensi, nonostante gli sforzi iraniani), tutti i suoi dipendenti risultavano residenti e impiegati in Svizzera. Allo stesso modo le visite di funzionari del governo di Israele (e, a maggior ragione, dei primi ministri)31 seguirono tutte un protocollo di particolare segretezza, nonostante il desiderio israeliano di rendere il più possibile pubblico e visibile il rapporto con l'Iran dello Shah, per ovvie ragioni politico-diplomatiche. L'ambasciata segreta di Israele a Teheran non fu mai riconosciuta, i suoi dipendenti non parteciparono mai a eventi ufficiali, così come mai la bandiera con la stella di David poté sventolare sopra l'edificio adibito alla rappresentanza diplomatica, e tutto questo sebbene si trattasse di una ambasciata operante a tutti gli effetti e “l'ambasciatore” avesse diretto contatto con lo Shah32.

La fine degli anni '60 e l'inizio dei '70 videro significativi cambiamenti nella geopolitica del Medio Oriente: Israele vinse in maniera impressionante contro gli Arabi nella guerra dei sei giorni del 1967; la minaccia a Iran e Israele da parte dell'Iraq aumentò; il rapporto tra le due superpotenze passò dal “contenimento” alla “distensione”; l'Egitto abbandonò la sua alleanza con l'Unione Sovietica e si spostò verso lo schieramento occidentale dopo la guerra dello Yom Kippur del 1973; l'Iran sperimentò una crescita economica rapida e senza precedenti che gli assicurò un'accresciuta influenza nella regione; i britannici decisero di ritirare la flotta dal Golfo Persico, il che permise allo Shah di giocare un ruolo dominante negli affari della regione e anche oltre. Tutti questi cambiamenti misero alla prova l'equilibrio sul quale era fondata l'intesa israelo-iraniana33.

La lampante dimostrazione di forza israeliana nella Guerra dei sei giorni, con annesse conquiste territoriali e netto ridimensionamento delle ambizioni arabe, preoccupò lo Shah, che desiderava un Israele né troppo debole – per non rinforzare troppo il blocco arabo attirandone le attenzioni – né troppo forte – per evitare una minaccia alle ambizioni egemoniche iraniane sulla regione e rendere troppo amara e indigeribile per gli arabi l'intesa dell'Iran con Israele. In seguito al rifiuto di quest'ultimo di restituire i territori conquistati durante le operazioni di guerra, l'attitudine e i toni dello Shah, almeno pubblicamente, cambiarono in peggio, assumendo un carattere più duro e intransigente verso Israele: il monarca Palhavi in particolare insisté sul non riconoscimento di queste annessioni e sulla necessità di ricorrere alle Nazioni Unite. Tale atteggiamento verso lo Stato ebraico si spiegava con il costante timore dello Shah di attirarsi le critiche dei Paesi arabi, specialmente dopo la dura presa di posizione di questi ultimi nei confronti

dissenso». R. Redaelli, op. cit., p. 25.

31 Nel corso degli anni, numerosi ministri e primi ministri di Israele fecero visita in Iran: David Ben Gurion, Moshe Dayan, Levi Eshkol, Golda Meir, Yitzhak Rabin, Menachem Begin: Cfr. A. Amir-Aslani, op. cit., p. 120.

32 Cfr. T. Parsi, op. cit., pp. 26-27. 33 ivi, pp. 29-30.

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di Israele contenuta nella “Khartoum Resolution” del 1967. In questo documento, siglato a Khartoum (capitale del Sudan) al termine di una riunione della Lega Araba, vennero formulati i famosi “tre no”: no alla pace, no al riconoscimento, no alle trattative con Israele34. In seguito all'approvazione all'unanimità della Risoluzione del Consiglio di Sicurezza ONU n° 242 del 22 novembre 1967, in cui si chiedeva a gran voce il «ritiro dell'esercito israeliano dai territori occupati»35 e si enfatizzava «l'inammissibilità dell'acquisizione di territori attraverso la guerra»36, l'Iran si dichiarò apertamente a favore di tali principi e soluzioni, non solo per la già citata volontà di ingraziarsi i Paesi arabi, ma anche per ragioni interne, ovvero la necessità di scongiurare l'alienazione dei propri territori (es. Baluchistan e Kuzhestan) interessati da ambizioni separatiste e dalla bramosia dei Paesi vicini37. Un altro fattore chiave nell'influenzare le relazioni israelo-iraniane fu il mutato clima tra Iran e Egitto. Le relazioni diplomatiche tra i due Paesi erano state interrotte nel luglio 1960, per decisione di Nasser38. Un Nasser indebolito accettò e annunciò il ripristino delle piene relazioni diplomatiche, con un comunicato congiunto, nell'agosto 197039. Il 6 luglio 1972 il nuovo presidente, Anwar Sadat, stanco della lentezza dei rifornimenti militari sovietici richiesti e desideroso di maggiore libertà strategica, effettuò la radicale scelta di passare al campo occidentale ordinando a più di quindicimila consiglieri ed esperti militari sovietici presenti in Egitto di lasciare il Paese entro una settimana40.

Nonostante la distensione tra Egitto e Iran potesse lasciar pensare a un venir meno definitivo delle basi su cui Iran e Israele avevano costruito la loro intesa segreta, l'emergere dell'Iraq come principale nemico e minaccia di entrambi i Paesi fornì il motivo a Tel Aviv e Teheran per continuare a coltivare i rapporti segreti tra di loro, in quanto – insieme alla Turchia – unici Stati non arabi della regione. Un campanello di allarme importante suonò in particolare il 9 aprile 1972, quando l'Iraq firmò un trattato di amicizia con l'Unione Sovietica, sostituendo l'Egitto come principale esempio della longa manus sovietica in Medio Oriente41. Inoltre, uno dei frutti più rilevanti della distensione ovest-est fu il minore interessamento delle superpotenze, ma soprattutto degli Stati Uniti, a occuparsi in prima persona delle faccende concernenti i propri alleati e potenze regionali. Tra gli anni '60 e '70, poi, gli americani avevano il problema del Vietnam che bastava a prosciugare la gran parte delle loro energie e risorse, ragion per cui «la nuova incertezza sull'affidabilità americana nel controbilanciare l'influenza sovietica e araba nella regione rese la cooperazione israelo-iraniana

34 http://www.cfr.org/world/khartoum-resolution/p14841

35 http://unispal.un.org/UNISPAL.NSF/0/7D35E1F729DF491C85256EE700686136

36 ibidem.

37 Cfr. T. Parsi, op. cit., p. 31. 38 ivi, p. 27.

39 ivi, p. 32.

40 Cfr. C. Henderlin, Paix ou guerre..., cit., p. 326.

41 Cfr. S. Chubin, S. Zabih, Foreign relations of Iran: developing state in a zone of great power conflict, London, University of California Press, 1974, p. 265.

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ancora più importante»42.

Sotto la presidenza Nixon del resto venne coniata la strategia detta Twin Pillar policy, per designare la nuova politica di «“coinvolgimento indiretto” nella regione del Golfo»43, tesa a promuovere i due più potenti alleati mediorientali degli Stati Uniti – l'Iran e l'Arabia Saudita – come guardiani degli interessi statunitensi nella regione e «pilastri di contenimento anticomunista»44: per rendere più attraente tale strategia, venne proposta all'Iran la possibilità di acquistare qualsiasi tipo di armamento di fabbricazione americana che non fosse di tipo nucleare45. L'Iran pensò subito di approfittare di questa libertà e responsabilità, gettandosi in una folle corsa al riarmo: finanziata soprattutto grazie all'aumento vertiginoso delle rendite da petrolio e gas naturale, la sua spesa militare triplicò in tre anni, dai 6.10 miliardi di dollari del 1973 ai 18.07 del 1976; le dimensioni dell'esercito passarono dalle 225'000 unità del 1972 alle 385'000 del 1975; dal 1972 al 1975 l'Iran acquistò, da solo, circa un terzo delle esportazioni di armi americane46. Questa spesa in armamenti si giustificava sia con l'inquadramento nella Twin Pillar policy, sia, soprattutto, con le accresciute ambizioni dello Shah, che vedeva finalmente la concreta possibilità di fare dell'Iran «il “Guardiano del Golfo” per l'Occidente nonché elevarlo al rango di prima potenza militare regionale»47. Come si sa, il ruolo di potenza dominante, a livello globale o regionale, non è tanto conquistato quanto riconosciuto dagli altri Stati confinanti: di qui la necessità che veniva percepita negli ambienti di governo dell'Iran di ricevere il consenso degli Stati arabi e la loro accettazione del predominio iraniano sulla regione. Al riguardo, l'ottenimento di tale riconoscimento si dimostrò più difficile del previsto, nonostante gli sforzi dello Shah e gli aiuti economici indirizzati ai Paesi arabi confinanti: apparve presto chiaro, agli occhi del monarca iraniano, che i rapporti con Israele, alla conoscenza di tutti seppur tenuti nella maggiore segretezza possibile, impedivano nel presente e avrebbero impedito in futuro un vero e sincero avvicinamento tra la potenza persiana e gli Stati arabi48, e tanto meno un pacifico riconoscimento da parte di questi ultimi della supremazia politico-militare di Teheran in Medio Oriente. «Più l'Iran cresceva, più lo Shah aveva bisogno dell'accettazione da parte araba delle aspirazioni politiche dell'Iran, più egli diventava sensibile alle critiche dei vicini arabi»49. Il peso di queste critiche fece sì che, durante la guerra dello Yom Kippur50, Teheran mantenesse una linea ufficiale di neutralità ma in realtà aiutasse gli Stati arabi, inviando petrolio all'Egitto, piloti e aeroplani in Arabia Saudita, assicurando assistenza sanitaria ai soldati siriani feriti

42 T. Parsi, op. cit., p. 35. 43 R. Redaelli, op. cit., p. 24. 44 ibidem.

45 Cfr. T. Parsi, op. cit., p. 37.

46 K.M. Pollack, The persian puzzle: the conflict between Iran and America, New York, Random House, 2004, p. 108. 47 R. Redaelli, op. cit., p. 29.

48 Cfr. T. Parsi, op. cit.. 49 ivi, p. 44.

50 Scoppiata il giorno dello Yom Kippur, cioè dell'espiazione, il 6 ottobre 1973 con un attacco a sorpresa di Egitto e Siria. Cfr. C. Herzog, op. cit., pp. 229-230.

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e impedendo, al contempo, a volontari ebrei provenienti dall'Australia di raggiungere in aereo Israele passando per Teheran. L'aiuto iraniano andò perfino all'Unione Sovietica, sotto la forma del permesso di sorvolare lo spazio aereo iraniano per l'invio di materiale militare all'Iraq51.

Ciononostante, l'Iran non partecipò all'embargo petrolifero contro Israele e, anzi, continuò a rifornire lo Stato ebraico anche durante il conflitto52 ed estendendo il suo aiuto all'invio di armi53. Insomma, Teheran tenne i piedi su due staffe, per acquisire i maggiori vantaggi possibili. Il cambio di campo dal blocco sovietico a quello occidentale dell'Egitto, avvenuto nel 1972, non aveva modificato di una virgola la pericolosità del vicino mediorientale agli occhi di Israele che, anzi, aveva subito un pesante attacco nel 1973; l'Iraq, poi, stava rapidamente aumentando le sue capacità militari difensive e offensive grazie al trattato di amicizia con l'Unione Sovietica, che ne aveva fatto il successore dell'Egitto come primo Paese per importanza in Medio Oriente ad essere legato al mondo comunista: con uno scenario del genere, «nonostante l'atteggiamento più freddo da parte iraniana, lo Stato ebraico aveva se possibile ancora più bisogno dell'Iran in seguito alla guerra [dello Yom Kippur] rispetto a prima. Israele, semplicemente, non aveva altra scelta che reinvestire nelle proprie relazioni con Teheran, dal momento che mancava di spazio di manovra per perseguire altre politiche e/o alleanze»54. L'Iran, nel frattempo, stava cercando strade alternative – rispetto all'oleodotto Eilat-Ashkelon – per esportare il proprio petrolio verso l'Europa; inoltre, lo Shah adottò una posizione piuttosto rigida e filo-egiziana circa le trattative che seguirono la fine della Guerra dello Yom Kippur, premendo per il ritorno dei territori occupati da Israele all'Egitto e facendo ulteriori pressioni per interrompere la cooperazione militare israelo-iraniana e l'acquisto di armamenti israeliani da parte iraniana55. Un ulteriore brutto colpo ai sogni di alleanza di Israele venne dal ritiro del sostegno iraniano alla guerriglia curda in Iraq, troncato nel marzo 1975. Fin dal maggio 1965, infatti, Israele e Iran avevano siglato un accordo con il leader dell'insurrezione curda in Iraq, Mustafa Barzani, per la fornitura, attraverso il territorio iraniano, di armi, istruttori militari, medici provenienti da Israele, in cambio della promessa che tali rifornimenti sarebbero stati usati per lanciare un'offensiva di larga scala contro il governo centrale iracheno e tenerne impegnato l'esercito, con ovvi vantaggi sia per Israele (da sempre preoccupato di un possibile attacco iracheno attraverso la Giordania) sia per l'Iran (desideroso di operare come leader regionale indiscusso e fortificare le proprie posizioni nel Golfo Persico e quindi interessati a un indebolimento del vicino iracheno). Anche se le riluttanze iraniane erano state vinte a fatica, visti i sospetti che si nutrivano circa le tendenze filo-sovietiche di Barzani (che aveva trascorso dodici anni in Russia come rifugiato politico), per una decina di anni agenti della Savak e del Mossad operarono fianco a fianco

51 Cfr. A. Amir-Aslani, op. cit., p. 181. 52 Cfr. R. Redaelli, op. cit., p. 29.

53 Cfr. S. Sobhani, The pragmatic entente: israeli-iranian relations 1948-1988, New York, Praeger, 1989, p. 89. 54 T. Parsi, op. cit., 2007, p. 50.

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in territorio iracheno in sostegno dei curdi. Tale presenza in territorio curdo permise anche agli israeliani di rimpatriare molti ebrei iracheni attraverso il territorio iraniano (e la città di Rezaieh, in particolare), sempre con la collaborazione della Savak. Con il tempo si arrivò al dispiegamento di alcuni battaglioni, sia iraniani che israeliani, con il beneplacito degli statunitensi che avevano cominciato essi stessi a inviare aiuti ai curdi iracheni. L'operazione segreta terminò improvvisamente nel marzo 1975 a seguito della firma dell'accordo di Algeri56, patrocinato dal presidente algerino Boumédienne, tra lo Shah e Saddam Hussein. Tale accordo sancì la divisione tra i rispettivi Stati del controllo sullo Shatt al-Arab/Arvand Rud, una via d'acqua navigabile anche dalle petroliere e quindi di estrema importanza per raggiungere il Golfo Persico e poi l'Oceano Indiano, ponendo fine (o, almeno, così credeva lo Shah) a decenni di dispute frontaliere tra Iran e Iraq. Inoltre, i termini dell'accordo privilegiarono l'Iran, per la gioia dello Shah che finalmente vedeva sancita e accettata la predominanza iraniana sulla regione del Golfo da uno dei suoi principali contendenti. Né Israele né gli Stati Uniti furono precedentemente informati degli accordi, ma ne vennero a conoscenza a cose fatte, anche perché, probabilmente, la decisione stessa di sedersi intorno a un tavolo e stipulare un'intesa fu piuttosto estemporanea. Sta di fatto che il 7 marzo 1975 lo Shah ordinò di interrompere il sostegno iraniano all'insurrezione curda in Iraq e a nulla servirono le vibranti proteste israeliane57. Nonostante le previsioni ottimistiche dello Shah, l'Iraq sarebbe rimasto la più grande minaccia ai confini dell'Iran a causa del suo continuo riarmo finanziato e sostenuto dei sovietici e del sostegno ai principali leaders e movimenti di opposizione al regime iraniano, tra cui soprattutto l'Ayatollah Khomeyni58.

A stretto giro di posta, sempre nel 1975 arrivò un altro brutto colpo per Israele da parte iraniana, ovvero il voto positivo alla Risoluzione n° 3379 del 10 novembre dello stesso anno59, che equiparava il sionismo al razzismo e spingeva per la sua eliminazione (insieme all'apartheid)60. Anche in questo caso, le ragioni di una tale scelta sarebbero da ricondurre alle ambizioni di

56 Cfr. A. Amir-Aslani, op. cit., p. 195. 57 Cfr. T. Parsi, op. cit., pp. 52-58.

58 L'Ayatollah Ruhollah Khomeyni, «nato nel 1902 da una famiglia di religiosi sciiti e a sua volta indirizzato agli studi teologici – per anni seguì […] l'indirizzo quietista […] Solo nel 1963, infatti, Khomeyni emerse come il più risoluto avversario dello shah, in seguito alla promulgazione di una serie di riforme da parte del governo di Teheran, conosciute come la Enhghelab-e sefid (Rivoluzione bianca) […] La maggior parte del clero sciita si era opposta con veemenza a queste riforme. […] Khomeyni si rivelò uno degli ayatollah più decisi nel condannare la Rivoluzione bianca […]: le sue critiche si concentrarono […] sui caratteri anti-islamici delle riforme e l'introduzione forzosa di pratiche aliene dalla tradizione islamica. […] La sua voce infiammò le proteste, che scoppiarono nel mese sacro di Muharram; dopo nuovi suoi attacchi contro lo stesso sovrano, Khomeyni venne arrestato per alcuni mesi, fatto che ne aumentò la popolarità negli ambienti dell'opposizione e fra la popolazione. Nell'ottobre del 1964, la decisione di Mohammad Reza Pahlavi di concedere l'immunità diplomatica a tutto il personale statunitense presente in Iran scatenò nuove proteste. […] Ancora una volta, la voce di Khomeyni fu quella che sferzò più duramente il governo di Teheran, accusandolo di aver violato la propria sovranità e indipendenza. La reazione dello shah fu questa volta più radicale: nuovamente arrestato, Khomeyni fu esiliato dal paese, prima in Turchia per un breve periodo, poi in Iraq, presso la città di Najaf (dove si trattenne fino al 1978)»: R. Redaelli, op. cit., p. 41.

59 Cfr. A. Amir-Aslani, op. cit., p. 45.

60 «Zionism is a form of racism and racial discrimination» :

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leadership regionale dello Shah che rendevano praticamente inevitabile un voto positivo a fianco dei Paesi arabi di cui si voleva guadagnare il sostegno61. Ovviamente e nuovamente, le proteste israeliane non poterono nulla per cambiare la posizione iraniana in proposito.

A rendere il quadro dei rapporti bilaterali tra Iran e Israele ancora più complicato concorsero le elezioni politiche del giugno 1977 in Israele, che segnarono la vittoria del Likud di Menachem Begin, la cui visione politico-territoriale a favore dell'annessione dei territori occupati e soprattutto della Cisgiordania (chiamata Giudea e Samaria)62 ponevano una seria ipoteca sui rapporti con l'Iran, vista la posizione dello Shah apertamente contraria al controllo e all'annessione israeliana di Sinai, Cisgiordania e Golan e, al contrario, favorevole al ritiro dello Stato di Israele dagli stessi e al loro ritorno agli Stati arabi (Egitto, Siria e Giordania). Significativa, a tale proposito, una sua intervista63 del 1976 in cui sollecitava una effettiva applicazione delle Risoluzioni dell'Onu 242 del 196764 e 338 del 197365. Dopo il 1973, lo Shah aveva chiesto al generale Hassan Toufanian66, a capo del programma iraniano di acquisto e approvvigionamento di armi, di raffreddare i rapporti con Tel Aviv sul piano della collaborazione militare67. Tuttavia, le forti preoccupazioni iraniane legate al riarmo dell'Iraq (e in particolare all'acquisizione dai sovietici dei missili Scud, che avrebbero ampliato notevolmente le capacità offensive di Baghdad) e la ritrosia degli Stati Uniti di Carter a vendere missili Pershing a Teheran (per via della capacità di questi missili di ospitare testate nucleari)68 costrinsero ben presto lo Shah a rivedere tale politica per tornare a rivolgersi a Israele: queste le premesse e cause scatenanti di una serie di accordi militari tra cui il controverso “Project Flower”69.

«Lo Shah diede istruzioni al gen. Toufanian di rivolgersi agli israeliani per acquisire tecnologie missilistiche. La 61 Nonostante le valide ragioni geopolitiche dietro alla scelta di votare a favore della risoluzione, secondo quanto riferisce T. Parsi, sembra che lo Shah fosse più indeciso di quanto sembra riguardo alla posizione da prendere all'Onu. Reza Pahlavi, ormai fuori tempo massimo e a voto avvenuto, avrebbe addirittura dato istruzione di opporsi alla risoluzione, più per paura della reazione statunitense che di quella israeliana. Pare, quindi, che la spinta a votare a favore non venisse tanto da Teheran, più propenso all'astensione, quanto dalla delegazione iraniana all'Onu e soprattutto nei suoi ranghi inferiori: Cfr. T. Parsi, op. cit., pp. 64-65.

62 «Il Likud di Begin era l'erede diretto delle tradizioni e dell'ideologia dell'Irgun, di Jabotinskij e dei revisionisti d'anteguerra, per i quali l'integrità territoriale dell'area chiamata “Grande Israele” non era mai stata oggetto di discussione. Mentre il partito laburista aveva avuto un approccio pragmatico nei confronti della questione dei territori occupati, per Begin la Cisgiordania rappresentava i “territori liberati” di Giudea e Samaria che non avevano mai smesso di far parte dell'eredità ebraica; il suo interesse per Gaza era invece scarso. Secondo la linea politica del Likud, la sovranità di Israele si estendeva dal Mediterraneo fino al fiume Giordano»: T. G. Fraser, op. cit., p. 128. 63 Cfr. T. Parsi, op. cit., pp. 69-71.

64 La risoluzione 242 chiedeva il ritiro dell'esercito israeliano dai territori occupati:

http://unispal.un.org/UNISPAL.NSF/0/7D35E1F729DF491C85256EE700686136

65 La risoluzione 338 chiedeva l'implementazione della risoluzione 242 e l'avvio di negoziazioni concernenti la

sistemazione territoriale della Palestina:

http://unispal.un.org/UNISPAL.NSF/0/7FB7C26FCBE80A31852560C50065F878

66 Il generale Hassan Toufanian, vice ministro iraniano della guerra e degli armamenti, era un informatore della CIA: Cfr. R. Bergman, op. cit., p. 5.

67 Cfr. T. Parsi, op. cit., pp. 71-72. 68 Cfr. A. Amir-Aslani, op. cit., p. 212.

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risposta israeliana andò ben oltre la semplice vendita di missili di fabbricazione americana. Tel Aviv propose una collaborazione che avrebbe utilizzato fondi iraniani e know-how israeliano per lo sviluppo di un missile con una gittata di 200 miglia. […] Le discussioni preliminari erano già cominciate sotto il governo Rabin. Lo Shah e l'allora ministro della Difesa Shimon Peres firmarono un accordo nell'aprile del 1977 a Teheran, insieme a cinque altri contratti petrolio-per-armi per un totale di un miliardo di dollari. L'obiettivo era estendere il raggio di azione di un missile israeliano esistente e rimpiazzare parti e componenti di fornitura americana in modo che Israele potesse legalmente esportarle senza l'approvazione americana. Il missile israeliano includeva un sistema di navigazione inerziale e un sistema di guida fabbricati in America che Tel Aviv aveva il divieto di rendere disponibili ad altri Paesi. […] L'Iran inviò, come caparra, 280 milioni di dollari in petrolio […] e Israele cominciò la costruzione di un impianto di assemblaggio vicino a Sirjan, nell'Iran centro-meridionale, e un centro di test missilistici vicino a Rafsanjan»70

I missili sviluppati in collaborazione avrebbero potuto ospitare testate nucleari e venne discussa anche l'ipotesi di adattarli al lancio a partire da sottomarini. Il “Project Flower” (Perah in ebraico) era solo uno di sei accordi, che andavano sotto la dicitura di “Operazione Tzor”, siglati nel 1977, e che prevedevano la fornitura all'Iran di missili Jericho di fabbricazione israeliana e capaci di trasportare testate nucleari71, la produzione congiunta di mortai e pezzi di artiglieria e il progetto di un aereo da caccia chiamato “Lavi” (o “Young Lion”)72. Il progetto di più ampia portata riguardava un missile balistico terra-terra di fabbricazione israeliana che avrebbe dovuto avere una gittata di 700 chilometri. Le trattative per arrivare alla firma degli accordi e la gestione delle collaborazioni venne affidata a Uri Lubrani, “ambasciatore” di Israele in Iran e, per parte iraniana, al generale Toufanian. Per evitare qualsiasi sospetto e mantenere la più completa segretezza era prevista la creazione di società di copertura in Svizzera, di proprietà di altrettante società con sede legale alle isole Vergini: insomma, un sistema di scatole cinesi necessario a sviare l'attenzione internazionale e coprire la partecipazione diretta dei vertici di entrambi gli Stati. Gli ambiziosi progetti di collaborazione, comunque, non arrivarono mai a conclusione per via dello stop imposto dalla rivoluzione khomeinista del 197973.

70 T. Parsi, op. cit., p. 75.

71 Cfr. A. Amir-Aslani, op. cit., p. 209.

72 «Dopo l'embargo deciso dal generale De Gaulle nel 1967, Gerusalemme tocca con mano la sua dipendenza nei confronti dei costruttori di aerei francesi e americani. Quando Parigi decreta l'arresto dell'invio di Mirage V, Israele decide a sua volta di studiare la produzione di un aereo da caccia, il Lavi. Da parte sua, lo Shah desidera che la sua aviazione sia dotata di mezzi di nuova fabbricazione. Disporre di un aereo prodotto dal suo Paese con l'aiuto di Israele avrebbe consolidato la sua indipendenza e facilitato il suo disegno di fare dell'Iran il gendarme della regione e più specificamente del golfo Persico. Dipendente dalle forniture estere come Israele, l'Iran desidera nel breve periodo limitare questa dipendenza, in seguito avere una propria industria aeronautica. L'Iran finanzia dunque il Lavi con l'obiettivo in seguito di produrre in proprio i suoi aerei. Molto presto questo caccia si ritrova al centro delle polemiche. Gli americani si oppongono al progetto. Se Israele era capace da un punto di vista scientifico di concepire un mezzo del genere, questo non valeva dal punto di vista delle sue capacità finanziarie. Il 17% dell'aiuto militare a Israele era segretamente indirizzato al progetto del Lavi (ovvero 400 milioni di dollari all'anno). Di fronte a questi obblighi finanziari e alle pressioni americane, queste ultime derivate dal fatto che si vedeva in questo progetto una concorrenza sleale finanziata in parte da crediti e aiuti gentilmente concessi a Gerusalemme, il governo israeliano cede e abbandona definitivamente il Lavi il 30 agosto 1987»: A. Amir-Aslani, ivi, pp. 211-212. 73 E. Sciolino, Documents detail israeli missile deal with the Shah, in The New York Times, 1° aprile 1986:

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1979 – 1992: un periodo di transizione

«I rapporti tra Israele e l'Iran cambiarono radicalmente nel 1979, così come quelli tra Stati Uniti e Iran. Con il regime rivoluzionario i due più utili alleati del Paese divennero i suoi più acerrimi nemici»74. Il regno dello Shah Reza Pahlavi stava finendo: spese di corte faraoniche, altrettanto folli spese militari, disomogeneità nella distribuzione delle pur abbondanti risorse del Paese, diffuse inefficienze, sprechi e una corruzione dilagante spiegano in parte il cattivo andamento dell'economia iraniana e dell'insoddisfazione popolare. Se alla sciagurata gestione delle finanze pubbliche appena descritta aggiungiamo la dura repressione politica75 portata costantemente avanti dalle forze armate e dalla Savak, la spietata polizia segreta del regime, che impediva di fatto uno sbocco legale del malcontento popolare, appare chiaro come le condizioni per un rivolgimento politico in Iran fossero mature già ben prima del ritorno di Khomeyni dall'estero76. L'ayatollah in esilio, già negli anni '70 era diventato l'esponente di spicco dell'opposizione al regime77, cosicché, quando egli rientrò in patria il 1° febbraio 1979 dal breve e finale esilio parigino con un volo della Air France, «fu accolto da milioni di persone all'aeroporto di Teheran e, senza sparare un colpo, sconfisse il sesto più forte esercito del mondo»78. Lo Shah, peraltro malato, al momento del ritorno di Khomeyni dall'esilio non era nemmeno più in patria avendo lasciato il Paese il 16 gennaio 197979 per l'Egitto80 dopo aver affidato le chiavi del governo a Shahpour Bakhtiar. Costui, uno degli oppositori del regime, sarebbe restato in sella per poco meno di un mese81. A nulla valsero per prevenire la deriva islamica del Paese alcuni provvedimenti populistici del suo governo, come la rottura dei rapporti con il Sud Africa dell'apartheid (storico alleato di Tel Aviv) e la sospensione dei rifornimenti di petrolio a Israele82.

Nel frattempo, prima della definitiva caduta dello Shah, Israele aveva cominciato a richiamare in patria gran parte dei membri della delegazione segreta israeliana a Teheran83 e della stessa comunità

74 R. Bergman, op. cit., p. 7.

75 Si ricorda, in particolare, la giornata del “Venerdì nero”, ossia venerdì 8 settembre 1978, quando «la polizia uccise centinaia di persone in piazza Jaleh a Teheran; subito dopo venne imposta la legge marziale, aumentando ulteriormente il ruolo delle forze armate quali garanti della sopravvivenza della monarchia»: R. Redaelli, op. cit., p. 47.

76 ivi, pp. 30-31.

77 «Secondo le stime del Mossad, entro la fine del 1978 erano state distribuite in Iran più di 600'000 audiocassette contenenti registrazioni dei sermoni di Khomeyni. [Si calcola che] Ognuna di queste sia stata ascoltata in segreto da un gruppo di dieci o più persone, cosicché almeno sei milioni di iraniani su una popolazione complessiva di quarantotto milioni sarebbero entrati in contatto con le prediche dell'ayatollah»: R. Bergman, op. cit., p. 11.

78 ivi, pp. 10-11.

79 Cfr. R. Redaelli, op. cit., p. 49.

80 Accolto come un capo di Stato dall'amico Anwar Sadat: Cfr. M. Wooallacott, Embittered Shah leaves for Egypt,

and exile, today, in The Guardian, 16 gennaio 1979:

http://www.theguardian.com/world/1979/jan/16/iran.martinwoollacott

81 Bakhtiar fuggì in maniera rocambolesca travestito da steward della Air France: Cfr. R. Bergman, ivi, p. 27.

82 Cfr. H. Paolucci, Iran, Israel, and the United States: an american foreign policy background study, Wilmington, Delaware, U.S.A., Griffon House Publications, 1991, p. 208.

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ebraica della città, a cominciare dagli esperti dell' “Operazione Tzor”84. A testimonianza del fatto, durante il brevissimo interregno di Bakhtiar, i voli della compagnia di bandiera israeliana El Al erano rimasti gli unici a collegare Teheran con il resto del mondo85. La caduta di Reza Pahlavi, in ogni caso, non aveva sorpreso più di tanto gli israeliani, i cui servizi segreti si basavano su una fitta rete di informatori e la cui spina dorsale era costituita dalla ben integrata comunità ebraica a Teheran; inoltre, durante i non infrequenti incontri al vertice di alti funzionari dello Stato e dell'esercito di entrambe le parti, la verità di un regime scricchiolante era emersa ampiamente in superficie, spesso per stessa ammissione degli iraniani, che più volte avevano cercato addirittura l'aiuto e il consiglio dei colleghi israeliani, nella vana speranza di far rinsavire lo Shah86. L'ex-generale Moshe Dayan, a quel tempo ministro degli Esteri, decise di mantenere una pur minima presenza israeliana e tenere in funzione il più a lungo possibile l' “ambasciata” a Teheran, nella speranza mal riposta che si sarebbe potuto convincere il nuovo governo a prolungare i rapporti con Israele. Tuttavia, a inizio 1979 il clima era ormai deteriorato e le condizioni per garantire la presenza israeliana nella capitale iraniana andavano svanendo. Il 10 febbraio, addirittura, la sede della missione diplomatica di Tel Aviv venne assaltata dalla folla e data alle fiamme, costringendo il personale ancora presente a cercare frettolosamente rifugio presso abitazioni private di ebrei-iraniani. Il giorno dopo, il governo voluto da Khomeyni era ormai in carica: ciononostante venne fatto un ultimo sforzo da parte israeliana, con la richiesta dell'autorizzazione a poter restare, ma la risposta da parte del governo rivoluzionario fu negativa e l'ingiunzione a partire perentoria. Il 18 febbraio vennero definitivamente rotti tutti i rapporti tra Iran e Israele, compresa la vendita di petrolio e i collegamenti aerei diretti87. Cominciava in questo modo una nuova era nei rapporti bilaterali tra i due Paesi, segnata da una profonda discontinuità rispetto al passato, una frattura che ha portato, soprattutto a partire dagli anni '90, a una rappresentazione dicotomica e manichea dei rapporti reciproci e all'emersione di giudizi netti e spesso estremamente duri e bellicosi da entrambe le parti. Eppure, per tutto il decennio degli anni '80, per il persistere di uno scenario geopolitico immutato, le condizioni che avevano reso possibile una collaborazione anche stretta tra i due Paesi rimasero e fecero in modo da controbilanciare la veemenza delle dichiarazioni di intenti e le

membri del personale dell' “ambasciata”, del Mossad, dell'esercito, dell'Agenzia ebraica e della compagnia aerea El Al; tutti i documenti più importanti erano stati inviati per tempo in Israele nel novembre 1978: Cfr. R. Bergman, op.

cit., p. 27-28. Durante i primi due anni dalla rivoluzione, visti anche i primi segni di antisemitismo, il Mossad riuscì

ad evacuare (attraverso tappe intermedie in Europa) circa 40'000 ebrei su un totale di circa 100.000 attraverso una complessa operazione clandestina chiamata Shulhan Arukh: ivi, pp. 35-36.

84 Da allora, l'Iran chiede il ritorno dell'ingente quantità di denaro anticipata direttamente o sotto la forma di forniture petrolio per l'acquisto delle armi facenti parte dello scambio e che, invece, non sono mai arrivate in Iran. Nel 1983 è iniziato un arbitrato internazionale sulla faccenda, ma la posizione israeliana è sempre rimasta la stessa: poiché gli accordi sono stati siglati con lo Shah, il cui regime è stato sollevato con una rivoluzione, è necessario un ritorno allo status quo ante per poter ripagare l'Iran: ivi, pp. 21-22.

85 Cfr. T. Parsi, op. cit., p. 80. 86 ivi, pp. 79-80.

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antitetiche prese di posizione politiche. Israele e l'Iran, quindi, continuarono a tendersi la mano per un po', o meglio, fu ancora una volta Israele che, in ossequio all'imperitura strategia delle alleanze periferiche, cercò più di una volta di “recuperare” il regime rivoluzionario islamico che aveva messo piede a Teheran, credendolo abbastanza ingenuamente una manifestazione passeggera della rabbia covata per molto tempo dal popolo iraniano nei confronti del suo precedente monarca assoluto. L'Iran, per parte sua, avrebbe dimostrato di non disdegnare, in un'ottica di pura Realpolitik, le ripetute profferte di Israele ma, come e più che in passato, avrebbe confinato questi rapporti clandestini nella cornice del più completo segreto e vi avrebbe fatto ricorso solo nel momento dell'estremo bisogno. L'Iran filo-occidentale dello Shah e l'Iran islamico e rivoluzionario di Khomeyni, benché separati da profonde divergenze di ordine ideologico, avevano gli stessi obiettivi strategici e gli stessi nemici di prima, ovvero «Paesi arabi ostili a sud e ovest e l'aggressiva superpotenza russa [che nel 1979 aveva invaso l'Afghanistan] a nord»88. L'ambizione della nuova leadership religiosa restò quella di fare dell'Iran il Paese leader del Medio Oriente. Le modalità per ottenere un tale risultato, invece, cambiarono: mentre lo Shah aveva cercato il riconoscimento della supremazia iraniana attraverso l'alleanza con Washington e l'aiuto economico e militare ai Paesi arabi, per Khomeyni questa supremazia regionale sarebbe dovuta e potuta arrivare solo nel momento in cui l'intero scenario politico mediorientale fosse mutato, quindi attraverso l'esportazione della rivoluzione islamica in tutti i Paesi a maggioranza musulmana, in modo da sollevare i regimi filo-occidentali che ne reggevano le sorti, irrimediabilmente corrotti nei costumi, per instaurare veri governi islamici. «La situazione si era rovesciata: la minaccia panaraba all'Iran era stata rimpiazzata con una minaccia islamica – e specificamente sciita – agli Stati arabi [di rito sunnita]»89. Per Israele, nonostante l'apparente venir meno del suo più acerrimo nemico sul fronte occidentale (ovvero l'Egitto) in seguito alla firma della pace nel 197990 e all'avvio di piene relazioni diplomatiche l'anno successivo, il mantenimento della collaborazione con l'Iran restava non meno di prima un fattore chiave della propria visione strategica, modellata attorno alle alleanze periferiche. Già nel 1980, nonostante la retorica accesa e infiammata di Teheran contro Israele e la sua stessa esistenza, molto presto le due parti ricominciarono a parlarsi, per la gioia dello Stato ebraico. La

88 T. Parsi, op. cit., p. 92. In Afghanistan, sia Israele che Iran sostennero il comandante Massud contro i comunisti: Cfr. A. Amir-Aslani, op. cit., p. 201.

89 T. Parsi, op. cit., p. 93.

90 La firma del Trattato di pace tra Egitto e Israele fu preceduta dagli accordi di Camp David, conclusi il 17 settembre 1978 (dopo 13 giorni di intensi negoziati) tra Begin e Sadat sotto il patrocinio di Carter e che si svolsero nella residenza di campagna del presidente degli Stati Uniti d'America. Gli accordi erano due: un primo aveva come argomento lo status della Cisgiordania e di Gaza, il secondo riguardò invece i rapporti tra Egitto e Israele, prevedendo la stipula in breve tempo di un trattato di pace tra i due Paesi. In particolare, Israele riconobbe la sovranità egiziana sul Sinai e promise il ritiro delle proprie truppe; l'Egitto, per parte sua, promette di non utilizzare gli aeroporti militari israeliani nel Sinai a fini militari, di rispettare la libertà di navigazione delle imbarcazioni israeliane attraverso il golfo e il canale di Suez, lo stretto di Tiran e il golfo di Aqaba. Il 26 marzo 1979 viene firmato, sul prato di fronte alla Casa Bianca, lo storico trattato di pace tra Egitto e Israele: «per la prima volta dalla sua creazione nel 1948, lo Stato ebraico stabilisce delle relazioni con uno Stato arabo»: Cfr. C. Henderlin, Paix ou guerre..., cit., pp. 441-450.

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rottura dei rapporti tra Stati Uniti e Teheran in seguito all'assalto all'ambasciata statunitense, alla cattura degli ostaggi e al loro mantenimento in prigionia per ben 444 giorni91 aveva privato l'Iran dei rifornimenti di armi e ricambi fondamentali per il suo esercito e messo sotto pressione il regime attraverso un pesante embargo internazionale; Saddam (diventato nel 1979 presidente dell'Iraq, nonostante fosse de facto l'unico uomo al potere da tempo)92, era sempre più minaccioso ai confini e, nel settembre 1980, avrebbe attaccato penetrando a fondo in territorio iraniano; l'Urss aveva invaso l'Afghanistan e minacciava l'Iran sia da nord che da ovest; le monarchie del Golfo si stavano dimostrando nettamente ostili al regime degli ayatollah. Tutti questi fattori spinsero nuovamente l'Iran a cercare l'aiuto a Israele, aiuto che si tradusse da subito nella fornitura di pezzi di ricambio per gli aerei da caccia iraniani di fabbricazione americana (come 4 Phantom, 5 Tiger e l'F-14), così come di armi per l'esercito; vennero anche rispediti in Iran carri armati che lo Shah aveva inviato in Israele per manutenzione93. Al momento dell'attacco iracheno all'Iran, quest'ultimo si trovava in una situazione assai deteriorata e pericolosa, isolato e/o minacciato non solo dalle due superpotenze, Usa e Urss, ma anche dagli Stati arabo-musulmani della regione; i suoi profitti petroliferi erano in caduta libera a causa dei tagli alla produzione in seguito al caos post-rivoluzionario; lo stato di salute del suo esercito era pessimo, in seguito a fughe in massa e/o purghe tra i ranghi degli ufficiali94, alle spese militari in picchiata e al crollo degli effettivi95. L'Iraq invece era in piena ascesa, con un esercito sempre più numeroso, spese militari in crescita esponenziale da anni e un ampio sostegno internazionale – e in particolare da parte dei vicini arabi96 e dell'Unione Sovietica. L'Iraq aveva al contempo molto da guadagnare: il possesso della via d'acqua dello Shatt al-Arab, fondamentale per collegare i campi petroliferi al Golfo Persico, e della regione del Khuzestan, ricca di petrolio, avrebbe fatto dell'Iraq la potenza leader della regione97.

«Dopo aver interrotto le relazioni diplomatiche con l'Iran nel giugno 1980, l'Iraq dichiarò lo Shatt al-Arab parte del 91 In realtà, la presa dell'ambasciata americana avrebbe dovuto essere un gesto simbolico, della durata di non più di 48 ore: Cfr. S.A. Arjomand, After Khomeini: Iran under his successors, New York, Oxford University Press, 2009, p. 134.

92 Cfr. A. Dawisha, Iraq: a political history from independence to occupation, Princeton, New Jersey, Princeton University Press, 2009, p. 229.

93 Cfr. T. Parsi, op. cit., pp. 92-96.

94 «Entro la fine del 1979, circa tredicimila ufficiali iraniani, inclusi quelli con rango di brigadiere o più alto, avevano rassegnato le dimissioni o erano stati cacciati. Di circa ottanta generali che avevano servito ai vertici sotto lo Shah, almeno settanta vennero giustiziati, insieme a duecento altri comandanti»: R. Bergman, op. cit., p. 33.

95 Cfr. T. Parsi, op. cit., p. 87.

96 Cfr. A. Amir-Aslani, op. cit., p. 200. «La sola Arabia Saudita – particolarmente timorosa di una vittoria iraniana e della spinta che essa avrebbe fornito allo zelo ideologico del regime iraniano – tra il 1980 e il 1982 fornì all'Iraq un miliardo di dollari al mese. Grazie al denaro dei Paesi arabi del Golfo, l'Iraq spese diversi miliardi di dollari in più in armi durante questo periodo rispetto a quanto fecero Iran e Israele messi insieme. Nella regione, le spese militari irachene furono seconde solo a quelle dell'Arabia Saudita per tutti gli anni '80, e le dimensioni del suo esercito aumentarono di dieci volte in meno di un decennio, raggiungendo il milione nel 1988 e il milione e quattrocentomila effettivi nel 1990. Le capacità offensive di Baghdad crebbero conseguentemente»: T. Parsi, op.

cit., pp. 98-99.

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proprio territorio il 17 settembre 1980, di fatto invalidando gli accordi di Algeri. Saddam lanciò un'invasione su larga scala dell'Iran il 22 settembre, adducendo a pretesto un presunto tentativo iraniano di assassinare il ministro degli esteri iracheno Tareq Aziz.»98

Dopo i primi successi e l'invasione irachena del Khuzestan, l'esercito di Saddam dovette arrestarsi di fronte alla strenua resistenza delle pur male organizzate truppe iraniane: ben presto

«l'andamento del conflitto finì per capovolgersi e le operazioni militari si spostarono in territorio iracheno. Rigettate da Teheran nel 1981 le offerte di pace avanzate dall'Iraq, lo scontro si trasformò in un'insensata guerra di posizione. […] Fino al 1988, infatti, l'imam rifiutò sempre ogni offerta di armistizio e ogni mediazione internazionale.»99

Il 13 luglio 1982 l'esercito iraniano respinse per la prima volta le truppe di Saddam di nuovo in territorio iracheno, dichiarando di mirare, come ultimo obiettivo, a Gerusalemme100. Dal 1984 gli attacchi aerei e missilistici vennero intensificati, con bombardamenti sulle città, sulle principali infrastrutture, quindi sui campi petroliferi e perfino sulle petroliere. L'Iraq arrivò a fare ripetutamente un uso massiccio di gas letali, in spregio ai divieti imposti dall'Onu. Finalmente Khomeyni «acconsentì ad accettare la Risoluzione Onu 598, che imponeva il cessate il fuoco»101. Il 20 luglio 1988 si interruppero finalmente le operazioni militari. La rapida avanzata irachena dei primi mesi preoccupò Israele, per cui una vittoria di Baghdad rappresentava una prospettiva decisamente da evitare102, perché avrebbe creato una potenza regionale – da sempre ostile ad Israele – «con le terze riserve petrolifere al mondo e un esercito grande più di quattro volte quello israeliano»103; una vittoria iraniana invece non impauriva lo Stato ebraico, innanzitutto a causa della distanza geografica che impediva a Teheran di portare un attacco credibile al territorio israeliano e anche perché la maggioranza degli analisti e membri del governo, tra cui Yitzhak Rabin, «continuavano a credere che l'Iran fosse un “naturale alleato” di Israele»104, secondo la sempreverde strategia delle alleanze periferiche. La comune e storica ostilità nei confronti dell'Iraq, poi, faceva sì che Israele e Iran avessero il forte obiettivo comune di indebolire Baghdad105.

Poco tempo dopo lo scoppio delle ostilità tra Iran e Iraq, e in barba alla presunta ostilità radicale e irriducibile tra Teheran e Tel Aviv, si tennero incontri segreti, in Svizzera, tra alti membri dell'esercito israeliano e iraniano, per discutere di fornitura di armi, pezzi di ricambio,

98 ivi, p. 98.

99 R. Redaelli, op. cit., pp. 55-56. 100 Cfr. S.A. Arjomand, op. cit., p. 135 101 R. Redaelli, ivi, p. 63.

102 In una dichiarazione pubblica del maggio 1982, il ministro della Difesa di allora, Ariel Sharon, diceva: «L'Irak è nemico di Israele e noi speriamo che le nostre relazioni diplomatiche con l'Iran ritorneranno al loro precedente livello» A. Amir-Aslani, op. cit., p. 130.

103 T. Parsi, op. cit., p. 104. 104 ibidem.

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addestramento; allo stesso tempo, cominciava a Washington un'intesa operazione di lobbying da parte israeliana in favore dell'Iran,

«per ammorbidire il rigido atteggiamento dell'amministrazione Carter [sebbene ormai a fine mandato] sulla vendita di armi a Teheran ed esprimere i timori di Tel Aviv sulle implicazioni di una vittoria irachena […] La [nuova] amministrazione Reagan, per parte sua, mantenne in vigore l'embargo ma chiuse un occhio sulle vendite di armi israeliane [all'Iran]. Il segretario di Stato Alexander Haig, noto per le sue posizioni filo-israeliane, diede il suo informale via libera per andare avanti con le vendite di armi […] In tutto, grosso modo l'80% degli armamenti acquistati da Teheran immediatamente dopo lo scoppio della guerra vennero da Israele»106

Una delle prime e più fruttuose operazioni di vendita di ingenti quantitativi di armi all'Iran da parte di Israele e il complesso sistema di spedizione e trasporto degli stessi andarono sotto il nome di “Operation Seashell”. Gli ordini arrivavano dall'Iran a Israele attraverso una serie di intermediari, commercianti di armi e compagnie fittizie di copertura e gli armamenti desiderati erano associati a semplici codici. «La spedizione via mare era fuori di questione. Ragioni di segretezza richiedevano l'ideazione di un complesso sistema di trasporti aerei, eseguiti interamente di notte tramite aerei privi di contrassegni per assicurare che né Israele né l'Iran fossero associati all'operazione.»107: per garantire ancora maggior sicurezza ed evitare che fosse consentito a piloti non israeliani di sorvolare lo spazio aereo dello Stato ebraico, si decise di dividere i vari viaggi in due tappe, Tel Aviv-Larnaca (tratto affidato esclusivamente a piloti israeliani) e Larnaca-Teheran. Di tale operazione si venne però a conoscenza quando, durante il nono volo, il cargo (argentino) che trasportava gli armamenti si schiantò al suolo in territorio armeno, costringendo Iran e Israele a smentire il “diabolico” accordo per cercare di bloccare lo scalpore provocato dalla notizia108. Il ruolo tenuto da Israele non si limitò alla fornitura di armi e pezzi di ricambio, ma assunse anche una connotazione di aiuto attivo e in prima persona all'Iran. Nel giugno 1981, poco meno di un mese dalla creazione del Consiglio per la cooperazione nel Golfo (composto da Arabia Saudita, Oman, Bahrein, Qatar, Kuwait, Emirati Arabi Uniti109 e sostanzialmente creato in funzione di bilanciamento anti-iraniano)110, Israele decise di attaccare e distruggere il sito nucleare iracheno di Osirak111:

106 T. Parsi, op. cit., p. 105. 107 R. Bergman, op. cit., p. 45. 108 ivi, pp. 43-48.

109 Cfr. Atlante Storico: cronologia della storia universale, Milano, RCS Quotidiani (su licenza di Garzanti Libri), 2006, p. 647.

110 Cfr. C. Marshall, Iran's Persian Gulf policy: from Khomeini to Khatami, London and New York, Routledge, 2003, p. 72.

111 Il reattore “Osirak” (acronimo di Osiris-Iraq), era stato fornito all'Iraq dalla Francia in seguito all'accordo di cooperazione in ambito nucleare siglato nel 1975: Cfr. C. Herzog, op. cit., pp. 339-346. «Durante la guerra tra Irak e Iran, l'Irak riceve da parte della Francia l'equivalente di 17 miliardi di dollari in armamenti, tra il 1980 e il 1986, ovvero l'equivalente di un terzo delle esportazioni francesi in tale ambito. […] Durante il conflitto con irano-iracheno, la Francia è il primo sostegno per Baghdad»: A. Amir-Aslani, op. cit., p. 197.

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«Il 7 giugno 1981 otto F-16 e sei F-15 israeliani lasciarono la base aerea di Etzion in quella che fu conosciuta come Operazione Opera. […] Lo squadrone aereo distrusse rapidamente il sito del reattore, spostando indietro di diversi anni il programma nucleare iracheno. Tutti i jet tornarono senza danni alla base dopo un'operazione giudicata impeccabile. Secondo il londinese Sunday Telegraph, Israele fu aiutato da fotografie e mappe dell'installazione nucleare fornite dagli iraniani. L'attacco a Osirak era stato discusso da un funzionario israeliano e un rappresentante del regime di Khomeyni in Francia solo un mese prima […] A quell'appuntamento, gli iraniani esposero i dettagli del loro infruttuoso attacco al sito nucleare del 30 settembre 1980 e diedero il permesso agli aerei israeliani di atterrare sulla pista di Tabriz, in Iran, in caso di emergenza»112

L'annuncio del successo dell'operazione venne dato dalla radio israeliana, il giorno dopo, 8 giugno113.

Un altro evento di fondamentale importanza nel disegnare lo scenario mediorientale degli anni '80 fu l'intervento israeliano in Libano nel 1982114. Il 6 giugno 1982 le forze armate israeliane iniziarono le operazioni di guerra in Libano, in quella che venne chiamata Operazione Pace in Galilea:

«la ragione dell'invasione era la presenza dei guerriglieri dell'OLP nel Libano meridionale, al confine con Israele, e i razzi Katyusha che venivano usati per bombardare i villaggi nel nord di Israele. Begin dichiarò pubblicamente che l'obiettivo della guerra era di avanzare “solo quaranta chilometri” oltre il confine, precisamente la gittata dei razzi, al fine di rimuovere la minaccia. Ma il vero scopo dell'esercito, tenuto parzialmente celato perfino a Begin stesso, era diverso. Il ministro della difesa Ariel Sharon diede istruzioni alle forze armate israeliane di prepararsi ad espellere le forze dell'OLP e i siriani dall'intero territorio libanese. Particolarmente seccante per Israele era l'impiego in Libano, da parte siriana, dei sofisticati sistemi missilistici anti-aereo di fabbricazione sovietica»115

I guerriglieri dell'OLP, nonostante una strenua resistenza, si ritirarono a Beirut che venne poi assediata dagli israeliani e da cui i palestinesi – in seguito a un accordo negoziato da Philip Habib, inviato speciale del presidente statunitense Reagan – furono poi costretti a lasciare il Libano, in

112 T. Parsi, op. cit., p. 107. 113 Cfr. C. Herzog, op. cit., p. 458.

114 Il Libano, nel corso degli anni '70, era diventato la sede dei guerriglieri palestinesi, insediatisi nella regione meridionale del Paese dei cedri e confinante con Israele dopo i sanguinosi fatti del “settembre nero” in Giordania. Nel frattempo, i rapporti tra le comunità cristiana, sunnita e sciita libanesi si erano inaspriti, portando allo scoppio della guerra civile nel 1975; nella primavera del 1976 anche la Siria (intenzionata principalmente a mantenere il fragile equilibrio previgente ed evitare che uno schieramento prevalesse sull'altro) era intervenuta nel conflitto a sostegno dei cristiani maroniti, che in quel momento stavano rischiando la sconfitta. La Siria, in particolare, era interessata a tenere sotto controllo i porti libanesi attraverso i quali arrivava la maggior parte delle proprie importazioni e a gestire il lucroso traffico di droga che partiva dal Libano; a livello politico-ideologico, il presidente Assad sosteneva l'idea della “Grande Siria”, che includeva il Libano e una parte di Israele. Dopo diciannove mesi, nel novembre 1976, si era arrivati a una tregua precaria ma che sarebbe sostanzialmente durata cinque anni: all'OLP di Arafat andò il controllo sul Libano meridionale e su Beirut ovest, i cristiani mantennero le roccaforti nel nord e a Beirut est, la Siria si assestò nella valle della Beqaa come guardiano dell'equilibrio raggiunto: Cfr. M. Heikal, Secret channels. The inside story of arab-israeli peace negotiations, London, Harper Collins, 1996, pp. 335-337.

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