• Non ci sono risultati.

CAPITOLO TERZO L’excursus filosofico della VII Lettera

N/A
N/A
Protected

Academic year: 2021

Condividi "CAPITOLO TERZO L’excursus filosofico della VII Lettera"

Copied!
39
0
0

Testo completo

(1)

CAPITOLO TERZO

L’excursus filosofico della VII Lettera

(2)

1. La VII Lettera: una presentazione preliminare1.

A nome di Platone ci è giunto un corpus di tredici epistole, inserito all’interno della IX tetralogia, ovvero la nona ed ultima sezione in cui nel primo secolo a.C il grammatico Trasillo divide gli scritti platonici.

Se gli antichi, in linea di massima, considerano autentiche tutte e tredici le lettere, in età moderna iniziano a sorgere alcuni dubbi e in particolare proprio sulla VII Lettera. Come spiega Trabattoni, a questa è stata spesso rivolta grande attenzione in quanto “in essa compare, all’interno di un quadro storico-biografico in cui Platone ripercorre brevemente la sua vita e in dettaglio le recenti vicende siracusane, una breve sezione di carattere filosofico (il cosiddetto excursus), apparentemente difficile da interpretare e da armonizzare con il pensiero platonico così come risulta dai dialoghi.”2

Tali difficoltà interpretative e di armonizzazione con il pensiero contenuto nei dialoghi hanno portato o a ritenere spuria l’intera lettera oppure a considerare spurio esclusivamente l’excursus. Quest’ultima posizione è sostenuta, in particolare, da Harold Tarrant, per il quale l’excursus “così come noi lo possediamo risente in maniera pesante delle manipolazioni “medioplatoniche” che vi avrebbe operato Trasillo.”3

Ma nel testo possiamo trovare veramente delle tracce di una eventuale manipolazione successiva e lontana dal pensiero autentico di Platone? In altre parole, nell’excursus sono veramente presenti degli elementi difficilmente armonizzabili con il pensiero platonico deducibile dai dialoghi e/o ivi espresso?

1 Per la stesura di questo capitolo mi sono basata su Trabattoni, op. cit., pp. 103 – 107. 2 Ivi, p. 103.

(3)

Prima di rispondere a queste domande è però necessario un piccolo inquadramento storico della lettera in questione.

La VII Lettera è indirizzata agli amici ed ai familiari di Dione, un nobile siracusano che era stato discepolo di Platone. In particolare, è stato proprio Dione a convincere il filosofo a recarsi, nel 366, a Siracusa presso il tiranno Dionisio II. “Scopo di questo viaggio era la possibilità di verificare se, come sosteneva Dione, Dionisio era davvero interessato alla filosofia, nel qual caso si sarebbe forse potuta attuare la felice contingenza che un tiranno diventasse filosofo, auspicata nella Repubblica (499 c) come il mezzo più rapido ed efficace per creare uno stato buono.”4

In realtà il tentativo fallisce e Platone torna in patria. Nel 361, però, Dionisio invia ad Atene un secondo invito e Dione riesce di nuovo a convincere Platone a recarsi a Siracusa, “per proseguire il programma di tirannia filosofica bruscamente interrotto la prima volta.”5 Come

era immaginabile, anche questo secondo tentativo fallisce, ma Dione non si arrende. Qualche anno dopo, nel 357, con l’appoggio diretto di alcuni membri dell’Accademia, Dione entra con la forza a Siracusa e si insedia al posto di Dionisio. Il nuovo governo, però, non appare molto diverso dal precedente, né meno tirannico, così nel 354 Dione viene spodestato ed ucciso dall’accademico Callippo. A distanza di un anno Callippo viene a sua volta spodestato, da Ipparino, e qualche anno dopo, come racconta Diodoro, Callippo viene ucciso a Reggio dai suoi stessi ufficiali con l’identico pugnale con cui era stato ucciso Dione.

4 Trabattoni, op. cit., p. 106. 5 Ivi, p. 107.

(4)

Molto probabilmente la VII Lettera è stata scritta nel 353, ovvero un anno dopo la morte di Dione e, per la precisione, quando il breve governo di Callippo era già stato sostituito da quello di Ipparino.

Come si può capire, dato che all’intera vicenda siracusana avevano preso parte sia Platone in persona che la scuola da lui fondata, cioè l’Accademia, “poteva facilmente sorgere l’impressione che la filosofia e la scuola di Platone, anziché preparare al governo buono e sapiente della città, fossero una fucina di tiranni. La cosa per Platone fra tutte più preoccupante era probabilmente proprio quest’ultima, e cioè che il suo pensiero filosofico venisse valutato alla luce delle vicende siciliane, e si considerasse la drammatica parabola personale di Dionisio, Dione e Callippo come l’esito naturale a cui è condotto chi impara ed applica la filosofia platonica.”6 Per questo la lettera, anche se formalmente

indirizzata agli amici ed ai familiari di Dione, “sembra quasi costituire una specie di epistula defensoria destinata in primo luogo all’opinione pubblica ateniese.”7

Qui, infatti, emerge, come una delle principali preoccupazioni di Platone, quella di mostrare come il tiranno Dionisio, che in un certo senso possiamo considerare il personaggio alla base di tutta la vicenda siracusana, fosse in realtà bel lontano dall’essere considerato un allievo modello. In questo modo Platone dissocia se stesso ed il proprio insegnamento dagli atti e dalla politica del tiranno, facendo intendere, implicitamente, che un ragionamento analogo valga anche per gli atti di Dione, Callippo e Ipparino.

6 Trabattoni, op. cit., p. 108. 7 Ivi, p. 107.

(5)

2. La prova.

“Dopo il mio arrivo, ero convinto di dover in primo luogo esaminare se davvero Dionisio fosse acceso dalla filosofia come da una fiamma o se invano questa notizia più volte avesse raggiunto Atene. C’è senza dubbio un metodo per svolgere una prova (peira) su tali fatti, un metodo non di basso livello, anzi del tutto adeguato ai tiranni, particolarmente a quelli pieni di dottrine mal recepite: di questa condizione subito, al mio arrivo, anch’io mi accorsi che Dionisio era vittima, e in modo grave. Dunque, bisogna esporre loro cosa mai sia tutta la ricerca (to pragma8) e quali caratteristiche abbia, in quanti obiettivi poi si articoli e quanto sforzo (ponos) richiede.” (VII Lettera9, 340 b – c)

Questo passo della VII Lettera testimonia la cautela con la quale Platone si approccia a Dionisio, dopo gli esiti negativi del loro primo incontro. In particolare, appena giunto nuovamente a Siracusa, l’intento di Platone è quello di mettere alla prova il tiranno, così da poter saggiare se questi si sia realmente infiammato per la filosofia. Ma definire Dionisio “pieno di dottrine mal recepite”, non solo ci permette di capire fin dall’inizio che per lui la peira ha avuto un esito negativo, ma sottolinea anche come l’intento platonico sia, fin da subito, prendere le distanze da un’anima tirannica che recepisce la dottrine filosofiche in modo errato.

Ma in cosa consiste la prova? Questa, in realtà, consiste nell’ascoltare un discorso, un discorso di Platone sulla ricerca stessa, su quel cammino di ricerca

8

“La frase ruota sull’uso gergale di pragma. Nell’Apologia (20c) pragma è l’attività di Socrate, nel

Teeteto (168 a – b) e nel Fedone (61 c) la sfera d’interesse del philosophos. Analoghe alcune fra le

ulteriori, numerose ricorrenze nella VII Lettera (339 d – e, 340 c – 341 a, 341 c – d, 344 a – b). Con pan to

pragma oion te Platone allude quindi alla ricerca in sé, definita nell’insieme dalle sue caratteristiche,

prima fra tutte la dialettica.” Tulli, M., Dialettica e scrittura nella VII Lettera di Platone, Pisa, Giardini Editori, 1989, p. 27.

9 Tutti i passi della VII Lettera riportati in questi paragrafi seguono la traduzione data da Mauro Tulli in

(6)

che solo chi è realmente filosofo desidera e può intraprendere. Questo, infatt i, non è un cammino facile, in quanto richiede un certo sforzo (ponos), uno sforzo costante e quindi sopportabile solo da coloro che nutrono un sincero interesse per la ricerca.

“Quelli che invece non sono davvero filosofi, ma sono dipinti da uno strato superficiale di opinioni (doxais d’epikechrosmenoi), come chi ha il corpo scottato dal sole, considerando quante cose sia necessario apprendere, quale sia lo sforzo (ho ponos) e quanto una prassi quotidiana severa sia conforme alla ricerca, giudicano ciò gravoso e insopportabile per loro e nemmeno risultano capaci di applicarsi. Alcuni si convincono addirittura di aver ascoltato a sufficienza il tutto e di non aver più bisogno di altri esercizi. Questa prova dunque ha un esito chiaro, decisivo per quanti si dedicano ai piaceri e no n riescono a tollerare uno sforzo continuo: chi non è capace di applicarsi a tutto ciò che serve alla ricerca non accuserà per tanto la guida, ma se stesso.” (340 d5 – 341 a6)

Come commenta Tulli, “dopo la peira pochi, grazie a misteriosi doni di natura, riescono a seguire il processo di ricerca fino ad una piena maturità, se non fino al suo compimento. I più, ontos men me philosophoi, colorati solo in superficie dalla doxa, vanno via, consapevoli di non poter sopportare privazioni ed un ponos gravoso. Ma, fra costoro, alcuni peithousin autous hos hikanos akekootes eisin to holon e rinunciano senza perplessità, come se il sapere filosofico fosse nelle loro mani (340 c – 341a).”10

La peira, quindi, può suscitare tre reazioni, una positiva, le altre due negative. La prima reazione negativa è la più semplice da spiegare, in quanto tipica di coloro che, prendendo consapevolezza soprattutto degli sforzi necessari per

(7)

intraprendere il cammino della ricerca, decidono di abbandonarlo, sentendosi inadatti al compito. La seconda reazione, invece, è più complessa da spiegare; in questo caso, infatti, l’inadeguatezza verso la filosofia non è resa evidente attraverso l’ammissione di una personale mancanza, bensì, al contrario, attraverso un atteggiamento volto ad ostentare una presunta superiorità. E’ difficile, a mio avviso, comprendere se coloro che ritengono “di aver ascoltato a sufficienza il tutto e di non aver più bisogno di altri esercizi” siano realmente convinti della loro affermazione o se questa non sia altro che una reazione all’incapacità di accettare un dato di fatto. In entrambe le eventualità, però, la situazione di fondo non cambia: non accettare di non possedere una natura filosofica e/o ritenere, superbamente, di “aver ascoltato a sufficienza” sono segnali di chiusura, di un’anima chiusa alla ricerca e quindi impossibilitata ad intraprendere proprio quel cammino che Platone descrive per comprendere se colui che ha davanti sia realmente caratterizzato da un’anima filosofica.

E’ vero che qui Platone fa esplicitamente riferimento alla peira ma, ragionando in astratto, possiamo immaginare la situazione di chi, per aver ascoltato o letto qualcosa a proposito di alcune dottrine filosofiche, pensa di essere egli stesso un sapiente. Di un tale atteggiamento possiamo trovare risconto nel Fedro, nel passo in cui Socrate chiede al giovane quale giudizio un medico come Erissimaco darebbe a chi crede di essere medico solo perché a conoscenza degli effetti che, in generale, alcuni trattamenti possono provocare nel corpo. La risposta di Fedro, in proposito, è significativa: “Diremmo quasi certamente che gli ha dato di volta il cervello e che per aver casualmente ascoltato qualcosa dio sa da qual libro o per aver bazzicato con dei palliativi s’illude d’essere diventato medico mentre di medicina non ne capisce nulla.” (Fedro, 268 c – 3)

(8)

La situazione delineata nel passo della VII Lettera sopracitato mi sembra tutto sommato analogo: in entrambi i casi, infatti, abbiamo a che fare con individui che si ritengono sapienti solo perché in possesso di conoscenze preliminari, acquisite attraverso la lettura o l’ascolto dei logoi di qualche sapiente. Un discorso, come ormai sappiamo, è soltanto un contenitore di informazioni, e l’informazione non è conoscenza, bensì solo un rimando, una traccia, il cui scopo è indicare una strada da percorrere. La mera lettura o il mero ascolto, quindi, di per sé non garantiscono l’acquisizione di alcuna conoscenza. La peira platonica, a sua volta, non descrive i risultati della ricerca, ma si limita a descrivere un percorso di ricerca e gli sforzi necessari per percorrerlo. Di conseguenza colui che, dopo aver ascoltato questo discorso, si illude “di aver ascoltato a sufficienza” scambia un possibile mezzo finalizzato all’acquisizione del sapere per il sapere stesso, così come il falso medico scambia le conoscenze preliminari all’arte medica per l’arte stessa. Un ulteriore parallelo può essere posto tra questo passo della VII Lettera e il passo del Fedro in cui il re Thamus definisce doxosophoi gli allievi di Theuth. Questi, infatti, ritenendosi sapienti solo per aver imparato mnemonicamente e meccanicamente le informazioni contenute nei libri, non fanno altro che scambiare un oggetto che, se usato bene, può essere utile per l’acquisizione della conoscenza, per la conoscenza stessa. Ma doxosophoi, del resto, è anche il termine generale co n il quale poter etichettare tutti coloro che, impossibilitati ad alzare lo sguardo dal mondo della doxa, non conoscono la dialettica e, quindi, non sanno né cosa sia il vero sapere né come l’anima possa acquisirlo.

Ora, se lo scopo della peira non è diffondere conoscenze filosofiche, ma solo individuare coloro in grado di intraprendere il percorso di ricerca, allora è ovvio

(9)

supporre che la disposizione alla filosofia sia qualcosa di naturale, di innato. Quindi “chi non è capace di applicarsi a tutto ciò che serve alla ricerca” non può accusare il maestro, che si è limitato a saggiare un’eventuale disposizione naturale, “ma se stesso”, in quanto impossibilitato per natura a seguire qualsiasi insegnamento.

Ma perché la disposizione naturale è così importante al fine della scelta dei discepoli? “La regola di Platone”, spiega Trabattoni, “è quella di attenersi alle dinamiche della persuasione (come abbiamo visto anche analizzando il Fedro). Perciò la prima cosa da fare è quella di verificare se la persuasione può fare breccia, cioè se la persona a cui si vuole insegnare è disposta a lasciarsi persuadere, o avanza delle resistenze pregiudiziali. E se così stanno le cose, il filosofo dovrà rassegnarsi a tacere. Dunque il silenzio del filosofo, come del resto tutti i suoi atteggiamenti, è regolato dalla persuasione.”11

Come abbiamo visto analizzando il Fedro, lo scopo del dialettico, cioè del filosofo, è quello di condurre l’anima degli allievi verso la conoscenza. Ma condurre l’anima significa persuaderla e, dato che non tutte le anime sono uguali, è necessario che il dialettico adatti il proprio logos al tipo di anima che si trova davanti. Ora, se Socrate afferma che il discorso orale, a differenza di quello scritto, “sa a chi gli convenga parlare e a chi tacere” (276 a5 – 6), significa che per Platone è piuttosto frequente il caso di imbattersi in anime impossibilitate ad essere persuase, ovvero in anime che nessuna tipologia di logos può condurre sulla via della conoscenza. Di conseguenza, qualora il filosofo ritenga di essersi imbattuto in un’anima impossibilitata a sollevare lo sguardo dal mondo della doxa, non potrà fare altro che chiudersi nel silenzio.

(10)

In particolare, la presunzione di sapere può essere considerato uno degli ostacoli, se non l’ostacolo principale verso la conoscenza: colui che ritiene di saperne già abbastanza considera terminata la propria ricerca, quindi la sua anima si chiude ad ogni possibilità di insegnamento. In altre parole, l’anima di chi ritiene di possedere già il sapere non è disposta a lasciarsi persuadere dal logos del maestro, quindi per lei è impossibile intraprendere un qualsiasi percorso di apprendimento.

Tornando al testo, qual è il giudizio di Platone sul tiranno Dionisio?

All’inizio della lettera, come già sottolineato, Platone afferma che il tiranno è vittima di una condizione particolare, l’esser pieno di dottrine mal recepite (340 b). Se questa è la premessa, significa che fin da subito il tiranno viene identificato come non idoneo alla filosofia, quindi fin dalle prime righe emerge che il tiranno non è degno di essere un allievo di Platone. In particolare, è legittimo pensare che anche Dionisio sia tra coloro che si illudono “di aver ascoltato a sufficienza il tutto e di non aver più bisogno di altri esercizi.” Una conferma di tale supposizione ci viene data nel passaggio immediatamente successivo.

“Così quindi anche a Dionisio allora tenni questo discorso. Io senza dubbio non esposi tutto e Dionisio non mi pregò di farlo: in verità si vantava di conoscere nonché di possedere a sufficienza numerosi frutti della ricerca, persino i migliori, grazie a ciò che aveva mal recepito dagli altri.” (341 a6 – b2)

(11)

Il fatto che Platone affermi di “non aver esposto tutto” significa che Dionisio non ha superato la prova, di conseguenza possiamo supporre che, oltre al discorso iniziale, che costituisce la peira, in questo secondo loro incontro Platone no n tenga davanti a Dionisio nessun altro discorso di spessore filosofico.

In breve, quindi, Platone riconosce in Dionisio una di quelle anime verso le quali sarebbe inutile qualsiasi tipologia di logos filosofico e per le quali, quindi, l’unica soluzione possibile è il silenzio. Ma questo, in realtà, non interessa al tiranno, che ritiene “di possedere a sufficienza numerosi frutti della ricerca”. Questa affermazione precisa in maniera decisiva la natura del tiranno: egli non solo è “pieno di dottrine mal recepite”, ma possiede persino la presunzione di potersi già definire sapiente. O meglio, per essere più precisi: non solo Dionisio no n riesce a comprendere in maniera corretta le dottrine filosofiche udite o lette, ma non viene neanche sfiorato dal dubbio di aver mal interpretato tali dottrine. Per di più, si ritiene sapiente solo per aver udito o letto delle dottrine altrui, come se la sapienza fosse qualcosa di acquisibile attraverso il mero ascolto o la mera lettura. Dionisio, quindi, commette lo stesso errore degli allievi di Theuth, ovvero scambiare uno strumento utile per acquisire conoscenza per la conoscenza stessa. Dionisio, in altre parole, non è altro che un doxosophos.

Come sintetizza Trabattoni, “Dionisio fallisce l’esame. Perciò Platone, che già gli aveva detto ben poco, a questo punto tace del tutto, non per il motivo esoterico-aristocratico che le sue dottrine siano troppo elevate per essere esposte ad una mente volgare come quella di Dionisio; ma perché Dionisio crede di sapere già quanto basta, e perciò non è in condizione di imparare.”12

(12)

3. Techne e syggramma.

“Per di più mi dicono che in seguito ha scritto sui problemi che sentì allora discutere, che ha composto e rivendicato a sé un manuale (techne), del tutto lontano, secondo lui, da ciò che sentì. Ma io non so nulla di queste cose. Certo, so che altri hanno scritto su questi medesimi problemi, non so però chi siano e anche loro non conoscono se stessi.” (341 b3 – 6)

Dionisio, quindi, oltre a ritiene di aver già appreso abbastanza, decide di mettere per iscritto quelle poche cose udite da Platone, spacciandole per idee proprie. Particolare attenzione merita il termine techne, utilizzato da Platone per descrivere l’opera scritta dal tiranno e tradotto da Tulli con “manuale”. Il termine, infatti, evoca “i numerosi manuali sull’arte retorica, le retorikai technai, diffuse dalla metà del V secolo, in ritmo crescente fino alla summa di Aristotele. Degli autori di technai logon parla Platone stesso, con toni ostili, nel Fedro (271 b c). Ma techne fu nome generico per gli opuscoli che, in forma tendenzialmente concisa ed esaustiva, raccoglievano consuetudini o regole su ben distinti settori di conoscenza. Le Leggi (796 a – b) così citano quattro technai note al grande pubblico, relative a lotta e pugilato. Dionisio vide forse nella sua opera una

techne.”13

L’errore di Dionisio, a questo punto, appare duplice. Non solo egli ritiene “di possedere numerosi frutti della ricerca”, e in particolare di quella platonica, ma pretende di poter ridurre tali frutti ad una serie di regole, così da creare una

(13)

sorta di vademecum. Ma questo secondo errore, in realtà, non è che specchio del primo: Dionisio non ha compreso ed è impossibilitato a comprendere il senso platonico della ricerca.

“L’indagine speculativa non era per lui – Platone – qualcosa di statico da disporre con eleganza entro rigide strutture letterarie, ma un esercizio continuo, dagli esiti provvisori e incerti. Anche nei discorsi più estesi di Socrate, i dialoghi rivelano, in modo costante, una specifica natura di anti-trattato (…) Nella scelta dei dialoghi emerse il rifiuto di fissare le varie conquiste in sintesi valide per chiunque, in ogni tempo.”14

Oltre a Dionisio, Platone fa riferimento anche ad altri, alloi, ma “i contorni della polemica sfuggono. Forse Platone accusa le cerchie siracusane, i remoti seguaci che, parakousmaton tinon emmestoi, avevano spinto Dionisio verso la filosofia.”15

In ogni caso la polemica platonica si allarga: da un caso particolare, quello del tiranno, si passa ad un riferimento non precisato verso “altri” che hanno scritto “su questi medesimi problemi”, per terminare con “tutti quelli che hanno scritto o scriveranno”.

“Ho poi da fare una sola considerazione su tutti quelli che hanno scritto o scriveranno, su quanti affermano così di conoscere ciò di cui mi occupo (peri hon ego spoudazo), sia dopo aver ascoltato me o altri, sia grazie a personali scoperte: non è possibile, a mio parere almeno, che costoro capiscano qualcosa della ricerca. Su questi problemi non esiste un mio scritto complessivo (syggramma) e non vi sarà mai.” (241 b6 – c4)

14 Tulli, op. cit., p. 17. 15 Ivi, p. 18.

(14)

Come osserva Trabattoni, Platone “come può affermare con sicurezza che tutti quelli che hanno scritto o scriveranno pensando di conoscere ciò di cui egli si occupa non ne hanno capito nulla? E in particolare, che cosa intende dire Platone con “ciò di cui mi occupo” (peri hon ego spoudazo), frase che si può tradurre anche in modo pregnante come “ciò che mi sta a cuore”? Che cosa sta a cuore a Platone?”16

Ovviamente, Platone non può avere alcuna informazione a proposito di coloro che in futuro decideranno di scrivere, se non il semplice fatto che scriveranno. Di conseguenza, l’unica conclusione possibile è che il suo biasimo sia rivolto all’attività stessa della scrittura. In altre parole, il mettere per iscritto gli esiti delle ricerche, udite o svolte in prima persona, è tipico di chi non ha compreso cosa sia, in realtà, la ricerca. Per questo Platone afferma di non aver mai redatto uno scritto su ciò che gli sta a cuore.

Ora, a prima vista tale affermazione può sembrare incoerente, in quanto Platone, nell’arco della propria vita, non si è affatto tenuto lontano dalla scrittura. Come mai, quindi, Platone afferma di non aver mai scritto niente di ciò che gli sta a cuore? Dobbiamo dedurre che i dialoghi non contengono ciò che sta realmente a cuore al filosofo? Oppure i dialoghi non sono compresi nella polemica presente nel passo della VII Lettera sopracitato? Qui, infatti, il termine usato è sygramma, non dialogos. Ma cosa intendeva Platone per syggramma? Per i sostenitori dell’interpretazione esoterica il termine deve essere tradotto semplicemente con “opera scritta in prosa”. Come sottolinea, tra gli altri, Szlezák, “il concetto di syggramma non si oppone, in greco, a quello di dialogo (dialogos), bensì a quello di opere scritte in forma di poesia (poiema), e perciò

(15)

indica tutto ciò che è scritto, purché non in linguaggio legato alla metrica. Nello stesso Platone è spesso documentato, in modo chiaro, questo significato consueto di syggramma come “scritto in prosa”, e una volta il termine include anche la poesia (Leggi, 858 c10): la tendenza che si riscontra è quella di un’estensione dell’area concettuale. Non è mai attestata, invece, né prima né dopo Platone, una limitazione del termine che ne faccia un concetto opposto a “dialogo”.”17

Intendere il termine syggramma nel senso di scritto in prosa significa sostenere che nella VII Lettera Platone stia dichiarando, in prima persona, di non aver mai scritto nessuna opera su ciò che gli sta a cuore. E se consideriamo quest’ultima espressione come sinonimo di timiotera, ecco confermata l’interpretazione esoterica: per Platone esistono delle dottrine, “di maggior valore” e che “gli stanno a cuore”, che non possono essere messe per iscritto, ma che possono essere solo riservate all’insegnamento orale all’interno dell’Accademia.

Sulla non legittimità di una tale interpretazione abbiamo già detto qualcosa nella sezione di questa tesi dedicata all’analisi del Fedro. Adesso è opportuno affrontare la questione basandosi anche sulla VII Lettera, così da sottolineare come la lettura esoterica sia incompatibile con il concetto platonico di filosofia. A tal proposito ho utilizzato, come imprescindibile punto di partenza, l’analisi di Tulli, volta a smentire il fatto che il termine syggramma venisse impiegato esclusivamente per riferirsi, in maniera generica, ad un’opera scritta in prosa. “Nelle Leggi (810 b – c) e nel Liside (204 d) Platone con syggramma definisce le opere aveu rythmon tmematon, in prosa, diverse dal poiema. La successiva presenza di syggramma nella VII Lettera (344 c – d) invita però a cogliere un

(16)

sottile rapporto con l’attività del nomothetes. Analogo l’uso nel Fedro (277 d, 278 b – c) e nel Politico (297 d, 299 d – 300 c, 301 d – e), ancora nelle Leggi (858 c – d), nello spurio Minosse (316 e – 317 a): syggramma figura quale corpus di nomoi, veloce compendio di regole per la vita quotidiana. Ci si avvicina molto alle caratteristiche osservate per techne.”18

In altre parole, Tulli sottolinea come lo stesso Platone utilizzi il termine syggramma in un senso ben preciso: il termine, infatti, indica sì le opere scritte in prosa, ma non tutte le opere in prosa bensì, in particolare, quelle stilate sotto forma di compendio, cioè di manuale19. Se questo è anche il senso attribuibile al termine syggramma presente nella VII Lettera, allora qui Platone starebbe affermando di non aver mai scritto gli esiti della propria ricerca sotto la forma di un manuale, ovvero di un mero elenco di regole. In quest’ottica, quindi, se techne e syggramma hanno un significato analogo, in quanto indicano entrambi un testo redatto in stile manualistico, è facilmente intuibile il senso della critica platonica verso Dionisio e verso tutti coloro che hanno scritto o scriveranno un’opera analoga alla sua; se Platone ritiene che la propria ricerca non possa e non debba essere costretta entro delle rigide e statiche strutture letterarie, coloro che, al contrario, lo hanno fatto, come Dionisio, o lo faranno non possono che essere accusati di non aver compreso la sua filosofia.

In breve, quindi, Platone non sta condannando l’attività della scrittura in sé, bensì la scrittura in forma sistematica, manualistica.

18

Tulli, op. cit., p. 19.

19

Senza entrare nel merito della questione, è comunque necessario far presente che anche nella Lettera

II viene fatto riferimento al termine ed al concetto di syggramma.

“La Lettera II (pseudo) platonica mostra che è possibile riferirsi in greco, in modo del tutto ovvio, ai dialoghi come a syggrammata; essa cerca di ammorbidire l’affermazione della Lettera VII secondo cui non esiste nessun syggramma di Platone sulle cose per lui più serie, spiegando che quello che ora si chiama così – cioè le cose che ora si chiamano Platonos syggrammata -, appartiene a un Socrate risorto. (Lettera II, 314 c)” Szlezák, op. cit., p. 435.

(17)

Ma perché ciò che sta a cuore al filosofo non può essere né scritto né espresso in forma sistematica?

4. La scintilla.

“La conoscenza non si può assolutamente comunicare in formule, come accade per altre discipline, ma dopo averne fatto l’unico scopo di un lungo rapporto (synousia), di un periodo trascorso insieme (syze), all’improvviso nasce nell’anima, simile ad una luce accesa da una fiamma che balza (apo pyros

pedesantos exapthen phos), e da quel momento nutre se stessa.” (341 c4 – d2)

Come evidenzia Trabattoni, in questo passo “c’è anzitutto un problema di traduzione, perché gli studiosi sono indecisi se intendere che la scienza platonica non è insegnabile, a differenza di tutte le altre scienze (che lo sono), oppure che è insegnabile, ma non nel modo in cui sono insegnabili le altre scienze. Ma dal mio punto di vista del senso questo non è essenziale, perché la cosa più importante è cogliere la differenza, che in ogni caso esiste, tra il modo in cui può essere insegnato il sapere “platonico” e quello adatto alle altre scienze.”20

Innanzitutto, il sapere filosofico non può essere trascritto in formule, quindi no n può essere acquisito attraverso la lettura o l’apprendimento mnemonico e meccanico di un manuale. Nel Fedro, come già ricordato, il maestro deve condurre l’anima dell’allievo attraverso il logos, quindi l’insegnamento viene presentato nei termini di un rapporto diretto tra maestro e allievo, incentrato

(18)

sullo scambio di logoi. Detto questo, è legittimo supporre che i termini

synousia21 e syzen, usati nel passo sopracitato della VII Lettera, abbia no

proprio lo scopo di alludere a quel rapporto diretto e dialogico tra il maestro e l’allievo che, nell’ottica platonica, rappresenta l’unica modalità d’insegnamento. Di conseguenza, “la synousia e il syzen diventano le opportune cornici dell’esercizio dialettico. Su questo terreno si genera, en te psyche, un’improvvisa scintilla, poi la piena luce del sapere che nutre se stesso (341 d).”22

Per farci capire il proprio concetto di insegnamento, Platone utilizza l’evocativa immagine del fuoco. Per comprendere il senso di tale immagine, Trabattoni propone, per contrasto, l’esempio della costruzione di una casa.

Una casa si costruisce pian piano, gradualmente, così che “a metà del processo la casa è costruita a metà, mentre alla fine è costruita per intero. Una volta costruita”, però, “la casa non ha una vita sua propria, e non è certo in grado di costruire, a sua volta, altre case. Del tutto diverso è il caso del fuoco (…) Si può lavorare per parecchio tempo, o sfregare il fiammifero molte volte, e ciononostante, se non è divampata la scintilla, non si è fatto ancora nessun passo avanti (…) Quando poi il fuoco si accende, l’obbiettivo è raggiunto, improvvisamente: in un brevissimo attimo si passa dal punto di partenza, in cui nulla è stato fatto, al punto di arrivo, in cui non c’è più nulla da fare. Infatti, scrive Platone che il fuoco, una volta divampato, si nutre di se medesimo; no n

21 Come sottolinea Tulli, “l’ Ateniese, nelle Leggi (968 c – e), crede vano, sciocco ev grammasin leghein,

dettare, i periodi necessari per la formazione del consiglio notturno prima del cammino verso

l’episteme, l’episteme dell’hen. Queste cose , panta ta peri tauta, sono aprorreta, indicibili prima, non

aporreta, segrete. Assume rilievo quindi la synousia, lo spazio per la didache. Nel Protagora (338 c) synousia introduce dialogoi.” Tulli, op. cit., nota 38, p. 22.

(19)

ha più bisogno di altro lavoro, ed anzi può accendere per contatto anche altre cose, cioè può trasmettere ad altro la scintilla di cui si nutre.”23

Una casa si costruisce gradualmente, mattone su mattone, quindi ad ogni mattone posto possiamo affermare di aver fatto un passo avanti verso il nostro obiettivo. L’acquisizione della conoscenza, al contrario, non è paragonabile alla costruzione di un edificio, bensì all’accensione del fuoco, che è qualcosa di istantaneo. Certo, è necessario sfregare la legna, ma finché non appare la scintilla non abbiamo compiuto nessun passo verso il nostro obiettivo.

Possiamo pensare all’atto dello sfregamento della legna necessario per accendere il fuoco come metafora del rapporto diretto tra maestro e allievo. Dato che un dialogos è caratterizzato dall’incontro-sconto dei logoi del maestro e dell’allievo, metaforicamente questo processo può essere paragonato allo sfregamento dei bastoncini di legno; così come da questi può prodursi, improvvisamente, la scintilla, dallo “sfregamento” dei logoi può prodursi, improvvisamente, la conoscenza.

“Se il passaggio dal non sapere al sapere avviene in un attimo, identico all’attimo in cui improvvisamente sprizza la scintilla, come potrebbe questo sapere, ossia ciò che davvero sta a cuore al filosofo, essere espresso in una dottrina? (…) Una dottrina può essere tranquillamente espressa in un modo qualsiasi, orale o scritto che sia. Quello che non può essere espresso è l’atto con cui la dottrina persuade chi la riceve, cioè viene capita e assimilata. Si può leggere cento volte un teorema e impararlo a memoria senza capirlo mai, cosicché esso non diventerà mai un sapere, e ovviamente chi lo ha assimilato in questo modo fasullo non può riprodurlo, non può insegnarlo agli altri; no n

(20)

potrà usare parole sue, per adattarlo a sua volta alla comprensione e alla persuasione di altri. Esattamente come un libro, continuerà a ripetere la stessa cosa.”24

Abbiamo già sottolineato come Platone non critichi la scrittura in sé, bensì la scrittura in forma sistematica, ovvero la compilazione di una techne o di un syggramma a proposito della ricerca e dei suoi esiti. Adesso, attraverso la metafora del fuoco, ne capiamo la motivazione.

Nel Fedro l’acquisizione della conoscenza è descritta come il risultato della persuasione dell’anima e la persuasione può essere pensata come quel consenso, quell’adesione che l’anima dà ai contenuti proposti dai logoi del maestro. Ora, finché l’anima dell’allievo non dà il proprio consenso, non si può parlare di persuasione e quindi non si può parlare di conoscenza. Ma il consenso è qualcosa di immediato, di improvviso, che nasce spontaneamente e improvvisamente dal dialogos con il maestro, quindi è qualcosa di cui il testo scritto non può render conto. E se il testo scritto non può descrivere l’attimo del riconoscimento, né può spiegare ciò che in ogni anima fa scattare il riconoscimento, allora il testo scritto ha ben poco a che fare con l’acquisizione della conoscenza. Certo, un testo può permetterci di leggere una dottrina, ma oltre a questo non può fare altro, quindi di per sé la trascrizione e la lettura di una dottrina filosofica non è garanzia di acquisizione di alcuna conoscenza. Nella sezione di questa tesi dedicata all’analisi del Fedro abbiamo sottolineato come la pericolosità della scrittura sia eliminare il carattere temporaneo e prospettico di ciò che viene scritto, spacciandolo per episteme, ovvero per una conoscenza stabile e dotata di una validità universale. Questa illusione è le gata

(21)

alla falsa credenza che per diventare sapienti basti leggere o imparare a memoria ciò che è contenuto nel testo scritto. Ma l’apprendimento mnemonico è qualcosa di meccanico, di superficiale, che non ha niente a che fare con quel consenso attivo che l’anima, per apprendere, deve dare ai contenuti proposti. Ora, l’illusione di cui la scrittura è portatrice viene realizzata al massimo grado da un testo manualistico, ovvero da un testo in cui l’autore dà alla conoscenza un aspetto sistematico, come se la conoscenza e la sua acquisizione fossero qualcosa di riducibile ad un elenco di regole o formule. E’ la riduzione della conoscenza in una forma rigida a generare, quindi, l’illusione che la conoscenza sia qualcosa di rigido e quindi acquisibile in maniera meccanica.

Anche i dialoghi platonici sono opere scritte, ma il dialogos, al contrario della techne e del syggramma, non presenta una dottrina in maniera sistematica, bensì non fa altro che riprodurre quella condizione ottimale per l’insegnamento, caratterizzata dall’incontro-scontro dei logoi degli allievi e del maestro. In questo modo il dialogo ha minori probabilità di suscitare l’illusione che la conoscenza sia qualcosa di meccanico e, soprattutto, qualcosa di esprimibile e di acquisibile attraverso lo scritto.

Chi pretende, come Dionisio, di poter costringere la conoscenza entro la rigida forma del manuale dimostra di essere vittima della scrittura e di non aver compreso la reale essenza della conoscenza, che ha la natura della scintilla. Ma in ogni caso, neanche la struttura dialogica permette, di per sé, di ottenere il sapere. All’interno di una conversazione orale il maestro può solo adattare il proprio logos all’anima dell’allievo, ma non ha alcuna garanzia che il proprio

logos farà scoccare, nell’allievo, la persuasione e quindi la conoscenza. La

(22)

attivo, la cui realizzazione dipende da un moto spontaneo dell’anima. Il logos, quindi, anche se orale, può essere solo uno strumento di persuasione e il

dialogos, nel suo insieme, può essere solo una traccia, “una piccola

indicazione” (smikra endeixis) di quella meta, la conoscenza, che ognuno deve trovare da solo (341 e). Come sintetizza Tulli, “il sapere si tramanda per mezzo di una smikra endeixis e ogni discepolo, invece di prenderne atto, lo conquista.”25

Risulta ormai ovvio come una tale prospettiva risulti lontana da quella di coloro che pretendono di poter tramandare e/o acquisire il sapere attraverso la scrittura e, in particolare, attraverso una scrittura rigida e sistematica.

5. I fattori della conoscenza.

“C’è un argomento decisivo che condanna chi ha il coraggio di scrivere sia pur in breve su tali problemi, un argomento da me già esposto più volte in passato: mi sembra tuttavia opportuno ripeterlo anche qui.

Per ciascuno degli esseri si hanno tre fattori grazie ai quali di necessità emerge la conoscenza, il quarto è la conoscenza stessa e bisogna porre come quinto ciò che del sapere costituisce infine l’oggetto e ha di per sé una realtà vera.”

Dopo aver esposto il proprio biasimo verso coloro che pretendono di tramandare e di acquisire la filosofia attraverso lo scritto e dopo aver paragonato l’acquisizione della conoscenza all’accensione del fuoco, adesso Platone si concentra sulla natura del sapere in quanto tale. Il celebre excursus

(23)

filosofico ha inizio con l’affermazione dell’esistenza di tre fattori in base ai quali è possibile ottenere la conoscenza di un oggetto.

“Dunque, il primo è il nome (onoma), il secondo la frase (logos), il terzo è l’immagine (eidolon), il quarto la conoscenza (episteme).” (342 b – 2)

Il nome, il logos e l’immagine sono quei tre fattori grazie ai quali è possibile ottenere la conoscenza di un oggetto. Tale conoscenza viene elencata per quarta, mentre per quinto viene posto l’oggetto in sé.

Per capire la differenza tra i primi tre fattori, Platone utilizza l’esempio del cerchio. Il termine cerchio costituisce l’onoma, ovvero il nome, mentre una frase a proposito del cerchio, come “ciò che ha dovunque una distanza identica dai punti estremi al centro” costituisce il logos. In altre parole, se l’onoma è rappresentato dal semplice nome “cerchio”, il logos è l’unione del nome e dei predicati. Infine, l’eidolon è costituita da una qualsiasi rappresentazione grafica o materiale del cerchio (342 b2 – c2).

Ora, il quarto fattore, cioè la conoscenza, ci è stato presentato, a 342 b, come un fattore in sé unitario. Adesso, però, Platone specifica la cosa: “formano il quarto fattore la conoscenza dianoetica (episteme), la conoscenza intuitiva (nous) e l’opinione vera (alethes doxa).” (342 c4)

Tale precisazione deve intendersi nel senso dell’esistenza di tre tipologie di conoscenza, la conoscenza propriamente detta o dianoetica (episteme), la conoscenza intuitiva o intelletto (nous) e l’opinione vera. Tali forme di conoscenza, però, possono essere pensate come un unico fattore poiché tutte sono lontane dalla materia ed hanno sede nell’anima (342 c4 – 5).

(24)

In altre parole, in questo passo dell’excursus Platone sta distinguendo tre semplici fattori di conoscenza dalla conoscenza stessa, che ha sede nell’anima. Ovviamente, però, le tre forme di conoscenza non sono affatto uguali tra loro, ma si caratterizzano per un diverso grado di chiarezza o di vicinanza al quinto fattore, cioè l’oggetto in sé: “il grado più vicino al quinto è la conoscenza intuitiva, gli altri sono più lontani” (342 d – 2). Episteme e alethes doxa non possono prescindere da quel processo discorsivo che è la dianoia, quindi si dimostrano strettamente legate all’onoma ed al logos.26

Ma ciò che più interessa sottolineare a Platone è che questi quattro fattori “provano a far luce sulla qualità intorno a ciascun oggetto come sull’essere di ciascun oggetto, con la debolezza delle parole. A causa di ciò, mai nessun uomo accorto avrà il coraggio di affidare alle parole i frutti del suo pensiero e di collocarli per di più nella dimensione immobile che distingue appunto un’opera scritta con i segni.” (342 e2 – 343 a3)

In questo passo il fine di Platone è sottolineare l’intrinseca debolezza della conoscenza umana. Questa, infatti, è legata al logos, ma il logos non può esprimere l’essere se non in maniera imperfetta. Il logos non è l’essere, ma solo un discorso sull’essere; di conseguenza, in quanto altro rispetto all’essere, il

logos non può che riferirsi all’essere in maniera imperfetta. Se questo è il

quadro, un uomo giudizioso non affiderà i frutti della propria ricerca alla parola per timore che la debolezza del proprio discorso sull’essere non venga colta e, a maggior ragione, non li metterà per iscritto.

Questo passo ci fa capire come l’interesse platonico non sia quello di opporre in maniera netta la situazione di oralità e la situazione di scrittura. Certo, a più

(25)

riprese Platone mette in risalto le limitazioni ed il potere illusorio della scrittura, soprattutto di una scrittura sistematica, ma ciò che, ancora più di questo, costituisce l’interesse platonico è sottolineare la debolezza intrinseca della conoscenza l’umana, una conoscenza esprimibile attraverso i logoi ed ottenibile attraverso il logos.

A questo punto, però, lo stesso Platone si accorge della necessità di un’ulteriore precisazione.

“Ciascun cerchio, fra quelli tracciati nella realtà materiale o anche prodotti con il tornio, è pieno di ciò che nega il quinto fattore, perché aderisce dovunque alla linea retta. Il cerchio in sé, diciamo, non racchiude invece mai, né in piccola quantità né in grande, la natura contraria. Per nessuna di queste cose, inoltre, diciamo che il nome è stabile. Nulla impedisce di chiamare dunque rette le linee chiamate ora tonde o di chiamare tonde le linee rette (…) Ma lo stesso discorso vale anche per la frase, poiché la compongono sia nomi che verbi: non ha nulla di stabile ad un livello adeguatamente stabile (…) Il problema più grave, però, è quello che abbiamo ricordato poco prima. Fra i due termini, l’essere (on) appunto e la qualità (poion ti), mentre l’anima cerca di conoscere non la qualità, ma l’essere, ciascuno dei quattro fattori le offre, con la parola o in base ai gesti, ciò che non cerca.” (343 a3 – c)

Il desiderio dell’anima è la conoscenza dell’essere, dell’on, ma ognuno dei quattro fattori risponde all’esigenza non mostrando all’anima ciò che l’essere è, bensì soltanto alcune caratteristiche dell’essere. In breve, l’anima chiede il “che”, mentre i quattro fattori le mostrano solo il “come” di ciascuna cosa.

Trabattoni sottolinea che in questo passo “vi è una scoperta allusione alla domanda socratica, il cui carattere distintivo era appunto quello di chiedere il “che”, e non il “come”, di ciascuna cosa (…) Il fatto che gli interlocutori di

(26)

Socrate falliscano sempre la prova, d’altra parte, non è casuale o contingente, né deriva dalla loro cattiva indole (come potrebbe sembrare ad un lettura superficiale), ma dipende piuttosto dalla natura della domanda in quanto tale. La domanda socratica è una domanda difficile; anzi una domanda tanto difficile che risulta impossibile rispondere. L’excursus della VII Lettera è l’unico luogo in cui Platone scopre le carte, e rivela il motivo teoretico di questa difficoltà strutturale.”27

I quattro fattori non rispondono alla domanda dell’anima, al “come”, semplicemente perché non possono. Se questo è il quadro, allora c’è un divario insuperabile tra l’essere in sé e la possibilità umana di raggiungerlo e di esprimerlo.

6. La debolezza dei logoi e la dimensione del dialogos.

In ogni caso, Platone non cessa di sottolineare l’importanza della figura del maestro.

“La guida del maestro, che li percorre tutti – i quattro fattori - e investe ciascuno nei due sensi, produce, anche se con sforzo, in ciò che ha natura buona la conoscenza di ciò che ha natura buona.” (343 e – 3)

Il riferimento alla capacità di percorrere “in entrambi i sensi” mi pare un’allusione ai due procedimenti dialettici descritti da Socrate nel Fedro, la

synopsis e la diairesis (265 d – e). Se il possesso della capacità dialettica è ciò

che contraddistingue il filosofo, non è fuori luogo il fatto che Platone, all’interno

(27)

di questo excursus, senta la necessità di accennarvi. Del resto, la capacità dialettica è preliminare per l’acquisizione di qualsiasi conoscenza, quindi anche per l’acquisizione di quella conoscenza dell’anima e delle anime necessaria per adattare il proprio logos agli allievi. E nel passo sopracitato della VII Lettera l’attenzione è posta proprio sugli allievi, in quanto il maestro, ovvero colui che ha ottenuto la conoscenza, è in grado di “produrla” anche nelle anime di quegli allievi dotati di “natura buona”.

In tale affermazione ritorna il tema affrontato all’inizio, ovvero l’importanza dell’adeguatezza dell’allievo. Solo chi è in possesso di una buona natura, di una natura idonea alla ricerca ed alla riflessione, può raggiungere la conoscenza “di ciò che ha natura buona”.

Ma affermare che la conoscenza è ottenibile percorrendo in entrambi i sensi i fattori, significa affermare “che la conquista dell’on deriva purtroppo dalla rete infida e gravosa del poion ti, da onoma, logos, eidolon, dalle forme di conoscenza.”28

“Se ciascuno di questi fattori, nomi, frasi e immagini offerte dalla vista e dai sensi, viene sfregato con gli altri a fatica, se viene discusso in confutazioni benevole, prive d’invidia, fra coloro che intrecciano domande a risposte, per ciascun problema rifulge all’improvviso la fiamma della saggezza e del pensiero (exelampse phronesis peri hekaston kai nous), con lo slancio più grande possibile nei limiti delle capacità umane.” (345 b4 – 7)

(28)

A questo punto dell’excursus abbiamo, finalmente, una descrizione esplicita del processo d’insegnamento e di apprendimento. Dalla lettura del passo risulta evidente che nell’ottica platonica lo scenario ottimale per la possibilità dell’acquisizione della conoscenza è il dialogos, ovvero la conversazione orale, viva. Qui gli allievi, non solo hanno a che fare con nomi, frasi e immagini, ma grazie alla dimensione viva ed estemporanea hanno la possibilità di porre domande e formulare risposte, sfregando, in questo modo, i vari fattori fra loro. L’attività dello sfregamento, quindi, può essere letta come metafora di quell’attività dialettica che è possibile apprendere ed esercitare, grazie anche all’esempio del maestro, all’interno della dimensione dialogica.

Da tale sfregamento nasce, improvvisamente, la scintilla della conoscenza. Ma è essenziale soffermare la propria attenzione sull’affermazione “con lo slancio più grande possibile nei limiti delle capacità umane.” Qui, ancora una volta, viene sottolineata l’imperfezione della conoscenza umana.

Detto questo, e tenendo presente i passi e le riflessioni precedenti, possiamo affermare che nell’ottica platonica la conoscenza alla quale l’uomo può aspirare non è una conoscenza completa e perfetta. Innanzitutto viene raggiunta attraverso lo sfregamento dei logoi, di per sé strumenti imperfetti per descrivere l’essere; anche qualora la scintilla della conoscenza possa accendersi nell’animo umano, ciò che viene ottenuto non è una visione piena dell’essere, perché questa, come leggiamo nella Palinodia, è possibile, eventualmente, solo per l’anima nel suo viaggio celeste; in ogni caso, comunque, l’uomo, per esprimere la conoscenza ottenuta, ha a disposizione soltanto il logos, ma questo, come già accennato, è solo un mezzo imperfetto, limitato, che non solo non può esprimere in maniera esaustiva l’essere, ma non ha neanche a

(29)

disposizione nessuna parola in grado di descrivere quell’attimo in cui la conoscenza viene raggiunta, né per descrivere ciò che ha permesso alla scintilla di accendersi.

“Dopo ciò che si è detto, se qualcuno vede opere complessive (syggrammata) scritte da chiunque, sia raccolte di leggi scritte da un legislatore, sia opere di ogni tipo in altro campo, deve subito desumere che i contenuti per chi le ha scritte non erano i più seri (ouk …spoudaiotata), almeno se chi le ha scritte, a sua volta, è una persona seria, ma che risiedono, i contenuti più seri, nella parte più nobile che ha: se invece derivano davvero dal suo impegno i contenuti poi disposti nelle opere scritte, “a lui senza dubbio allora”, non gli dei, ma i mortali “distrussero la mente”.” (344 c2 – d2)

La persona seria citata in questo passo può essere paragonata al contadino giudizioso del Fedro, immagine del dialettico.

Questo, infatti, “scriverà, quando scriverà, solo per gioco, al fine di raccogliere un tesoro di ricordi per suo uso, contro “la vecchiaia che porta oblio” quando essa giunga, e per uso di chiunque si metta sulla sua stessa orma.” (276 d – 5) Il dialettico, che conosce la debolezza del logoi e soprattutto di quelli scritti, no n affida alla carta il proprio sapere, bensì soltanto delle tracce, dei rimandi a questo sapere, che in sé rimane custodito all’interno dell’anima. Una conferma ci viene data da un passo successivo, in cui si legge che “in ogni opera scritta su qualsivoglia soggetto, v’è necessariamente una gran parte di svago e non è mai stata scritta né in metro né in prosa un’opera degna di seria cura, e

(30)

neppure mai recitata (…) In realtà, le più riuscite di queste opere rinnovano solo la memoria di coloro che già sanno.” (277 e5 – 278 a)

Nel passo sopracitato della VII Lettera troviamo una precisazione, resa evidente dal termine syggramma: la persona seria, giudiziosa, che è consapevole dei limiti della scrittura e del logos, non cerca di dare una forma sistematica al proprio sapere, di conseguenza coloro che si dedicano alla scrittura di syggrammata o technai non sono persone serie, oppure la loro trattazione no n riguarda argomenti seri, come per l’appunto gli esiti della propria ricerca.

Il fatto che uno scritto non sia in grado di contenere degli argomenti seri no n conferma la tesi esoterica. Per prima cosa, lo scritto al quale Platone fa riferimento non è un qualsiasi scritto, bensì un syggramma, cioè uno scritto sistematico, che pretende di ridurre la ricerca ed i suoi frutti nella rigidità di formule e regole. Nel dialogo scritto, al contrario, non è presente un tale grado di rigidità, in quanto il dialogo non ha lo scopo di descrivere gli esiti della ricerca, bensì quello di riprodurre, sulla carta, il movimento stesso della ricerca, ovvero quel movimento dialettico del logos, essenziale per il raggiungimento della conoscenza. In ogni caso, però, qualsiasi opera scritta deve essere considerata nei termini della paidia, in quanto ciò che costituisce la spoude dell’uomo giudizioso è la ricerca stessa, cioè quel movimento vivo del logos di cui il suo scritto ha lo scopo di dare solo un’immagine, una traccia approssimativa.

Detto questo, è necessario fare un piccolo passo avanti: se la parola è, in sé, un mezzo imperfetto per la trasmissione del sapere, allora questo vale anche per la condizione di oralità, di conseguenza, anche volendo, il maestro no n potrebbe riferire in maniera esaustiva gli esiti della propria ricerca. L’allievo

(31)

devo usare il logos del maestro solo come traccia, così da poter ottenere da solo la conoscenza. Questo è lo scenario d’insegnamento e di apprendimento descritto da Platone nella VII Lettera, nel Fedro e negli altri dialoghi e da ciò è necessario concludere che all’interno dell’Accademia Platone non riferisse alcuna dottrina, bensì si dedicasse, insieme ai propri allievi, alla ricerca, così come ce la delinea nei dialoghi.

“Dominati dal metodo di ricerca diffuso nell’Accademia, i dialoghi riducono la distanza fra le due sfere. Ad ogni pagina si coglie l’eco di un pensiero in continuo sviluppo che lascia le risposte ambigue, i singoli problemi aperti.”29

In altre parole, le concezioni di logos, del sapere e della ricerca che emergono dalla VII Lettera, così come quelle che emergono dal Fedro e da qualsiasi altro scritto platonico, non fanno che contraddire la possibilità di intendere l’insegnamento e la ricerca filosofica nei termini di un insegnamento dottrinale, indipendentemente dal fatto che questo sia scritto o orale. Detto ciò, anche la

VII Lettera non può che confermare lo stesso giudizio emerso dall’analisi del

Fedro: una lettura come quella esoterica è incompatibile con il pensiero platonico.

7. Giudizio finale su Dionisio.

“Chi ha seguito questo mio discorso, questa mia divagazione, comprenderà bene che, se Dionisio, o un altro meno capace o più capace di lui, ha mai scritto circa le realtà superiori e prime della natura, non ha recepito né appreso nulla di sano, a mio parere, su ciò che ha scritto: poiché avrebbe sentito per quelle cose il timore sacro che sento io (esebeto) e non avrebbe certo avuto il coraggio di affidarle poi ad un testo disorganico e inadeguato. Non ha scritto, dunque, per

(32)

dare un aiuto alla memoria: non c’è infatti nessun pericolo che qualcuno le dimentichi, se una volta le ha fermate nell’anima, poiché sono espresse nelle frasi più brevi. Ha scritto invece, se ha scritto, per una turpe vanità (philotimia), o come autore dell’insieme o dichiarandosi davvero partecipe di un’educazione della quale non era degno, nel desiderio di ottenere la fama che deriva dal possederla.” (344 d3 – 345a)

Dopo l’excursus a proposito della natura del sapere, l’attenzione di Platone torna su Dionisio e, in generale, su tutti coloro che non solo si illudono di aver appreso le conoscenze maggiori, ma decidono di metterle per iscritto e soprattutto in forma sistematica. Ora, dato il ragionamento precedente, si può concludere che uomini come Dionisio in realtà non hanno intrapreso il cammino verso la conoscenza. Se l’avessero intrapreso e se fossero veramente sapienti, allora avrebbero acquisito la consapevolezza del fatto che gli esiti della ricerca non possono essere ridotti in un elenco o in un sistema di formule e regole, e questo per due ragioni: prima di tutto perché la parola è un me zzo imperfetto, incapace di dare una descrizione esauriente ed esaustiva dell’essere e inoltre nessuna parola, sia scritta che orale, è in grado di spiegare o descrivere quel qualcosa che nell’anima di ognuno fa nascere la scintilla della conoscenza. In altre parole, quindi, se Dionisio fosse veramente un sapiente, non avrebbe mai dato agli esiti della propria ricerca una forma statica e rigida, perché ciò avrebbe alimentato, negli allievi e nei lettori, la falsa speranza che la conoscenza sia qualcosa di acquisibile in maniera semplice e meccanica.

In particolare, Platone utilizza il verso sebo per esprimere quel sentimento di reverenza e timore che dovrebbe tener lontano il sapiente dall’affidare alla parola ed alla scrittura i frutti della propria ricerca. A tal proposito Tulli afferma che nell’ottica platonica “la ricerca merita il sebas, afflato religioso e timore. Qui,

(33)

nel sebas, il grave senso dell’on e del poion ti ha una mirabile sintesi: l’afflato religioso è diretto all’on, il timore nasce dal poion ti. La dialettica è il sebas di Platone, il sebas capace di governare ad un tempo l’oralità e lo spazio meno duttile della scrittura.”30

La conclusione ipotizzata da Platone è che Dionisio, lungi dall’aver intrapreso il cammino della ricerca, abbia deciso di intraprendere la strada più breve: simulare la sapienza attraverso la scrittura. Ma questo non solo è illusorio, ma anche rivelatore di un interesse falso per il sapere, un interesse generato no n dall’amore per il sapere stesso, bensì dall’amore per la fama.

8. Il carattere soggettivo della conoscenza umana.

A questo punto della nostra riflessione ci rimane da analizzare un punto di particolare importanza: perché nella VII Lettera Platone cita anche la doxa tra le tipologie di conoscenza? Un tale accostamento ha dei precedenti nelle opere platoniche?

“La concezione platonica della doxa”, spiega Trabattoni, “non può essere ridotta a quella di conoscenza relativa al sensibile. Esiste infatti anche un secondo significato di doxa, che ha carattere per così dire trascendentale, e identifica l’assenso che l’anima concede a determinati giudizi o proposizioni, relativi a qualunque tipo di conoscenza (non solo quella sensibile).”31

A tal proposito si può riportare nuovamente un passo del Teeteto, già citato una volta in questa tesi.

30 Tulli, op. cit., p. 41. 31 Trabattoni, op. cit., p. 119.

(34)

Socrate: Con il termine pensare (to dianoeisthai), dunque, intendi ciò che intendo io?

Teeteto: E tu cosa intendi?

Socrate: Il discorso (logos) che l’anima svolge tra sé e sé riguardo a ciò che prende in esame (…) Secondo me, questo suo pensare non assomiglia a nient’altro che a un dialogare, ponendo a se stessa domande, e traendo da sé le risposte, affermando e negando. E quando, nello stabilire una definizione, sia che vi arrivi con lentezza, sia che la colga di slancio, l’anima raggiunge una conclusione ormai costante e non abbia più esitazioni, allora noi stabiliamo che quella sia la sua opinione (doxa). Sicché io definisco l’avere opinioni un discorrere e l’opinione un discorso pronunciato (Host’egoge to doxazein legein

kalo kai ten doxan logon eiremenon), non certo rivolto a un’altra persona, né

detto a voce alta, ma in silenzio, rivolto a se stessi. (189 e6 – 190 a6)

Tenendo presente questo, si deve affermare che “la prossimità di retta opinione, conoscenza e intellezione non sta solo nel fatto che tutti e tre sono materialmente nel soggetto, ma piuttosto nel fatto che in qualunque genere di giudizio è compresa una componente doxastica, che consiste appunto nell’atto di assenso personale e soggettivo concesso dall’anima. Dire che le facoltà conoscitive sono attributo del soggetto non è dunque solo un’indicazione topologica, che lascia impregiudicato il grado di certezza della conoscenza di cui si parla, ma è un riconoscimento della relativa soggettività, sia pure di grado diverso, di qualunque genere di sapere.”32

Possiamo citare anche un passo tratto dal libro IX della Repubblica in cui, proprio come nella VII Lettera la retta opinione è accostata alla conoscenza e all’intelletto.

(35)

Qui Socrate spiega a Glaucone che così come la fame e la sete possono essere pensati come lacune dell’organismo, l’ignoranza e la stoltezza possono essere pensati come vuoti nella struttura dell’anima. In particolare, se i vuoti dell’organismo si possono colmare con il cibo e le bevande, i vuoti dell’anima si possono riempire acquistando intelletto (585 b3 – 7).

Detto questo, ecco la domanda socratica: “quale delle due categorie partecipa di più della vera essenza? Quella, per esempio, del pane, della bevanda, del companatico e in genere degli alimenti, oppure la specie che comprende la vera opinione (doxa alethe), la scienza (episteme), l’intelletto (nous), insomma ogni virtù (pas arete)? Ecco, giudica così: a tuo parere, dove c’è più essere? Nelle cose inerenti a ciò che è sempre simile e immortale e alla verità, che sono esse stesse tali e insite in un soggetto di uguale natura? Oppure in quelle inerenti a ciò che non è mai simile e che è mortale, tali esse stesse e insite in un soggetto di uguale natura?” (585 b12 – c5)

In questo passo della Repubblica, quindi, non solo l’opinione vera viene accostata alla conoscenza, all’intelletto e ad ogni altra virtù, ma viene anche specificato che anche l’opinione vera, proprio come la conoscenza e l’intelletto, ci permette di approssimarci a ciò che è sempre uguale, immortale e vero. Detto questo, qual è la conclusione che possiamo trarre?

“Nell’epistemologia platonica”, spiega ancora Trabattoni, “il divario tra episteme e doxa è netto e irriducibile, sia sul piano teoretico sia su quello pratico, solo laddove la doxa sia intesa come conoscenza della realtà sensibile. Qualora invece con doxa si intenda il piano trascendentale del consenso e del giudizio dell’anima, il divario rimane altrettanto netto sul piano teoretico ma si riduce notevolmente su quello pratico, dal momento che l’intuizione diretta delle idee,

(36)

che sola potrebbe fondare l’episteme, non è più disponibile. Al suo posto subentra il metodo dell’interrogazione dell’anima e delle sue doxai, la pretesa di una conoscenza infallibile (sophia) indipendente dal consenso dell’anima si ridimensiona nella misura più debole della philo-sophia (con tutta la carica di slancio soggettivo che Platone attribuisce a questo concetto), il filosofo ammette che gli è inaccessibile il livello delle verità incontrovertibili e si attesta sul piano delle rette opinioni, argomentabili con buone ma sempre provvisorie ragioni.”33

In breve, Platone cita l’alethe doxa tra le tipologie di conoscenza, poiché all’uomo è preclusa la possibilità di una conoscenza infallibile dell’ov, ovvero una conoscenza indipendente dal consenso dell’anima e dalla dimensione discorsiva. L’uomo, ovviamente, può accedere alla conoscenza, ma nessun contenuto di verità ha per lui senso prescindendo dal consenso che la propria anima gli accorda. In altre parole, quindi, il sapere dell’uomo può avere gradi diversi di soggettività, ma non può prescindere né svincolarsi dalla soggettività. Ma se la comprensione umana non può prescindere dall’interrogazione dell’anima e delle sue doxai, perché tra le forme di conoscenza viene citato anche il nous? O meglio, il nous citato da Platone deve essere inteso nel senso di intuizione intellettuale? Per Trabattoni la risposta è negativa.

“Per buona parte dell’excursus”, spiega, “Platone mostra l’incapacità dell’intelletto umano di produrre un’intuizione intellettuale diretta al quinto – al quinto fattore – poiché il pensiero ha carattere discorsivo. Esso procede infatti necessariamente attraverso i logoi, e dunque ne condivide la debolezza.”34

Detto questo, “il momento in cui scocca la scintilla segnala in primo luogo la

33 Trabattoni, op. cit., p. 120. 34 Ivi, p. 134.

(37)

convinzione-comprensione del fatto che l’analisi della realtà sensibile non è in grado di trovare dentro questa stessa realtà tutte le risposte ai problemi che pone, e che risulta dunque necessario postulare l’esistenza di principi intelligibili qualitativamente diversi da essa (…) Questa ipotesi è in qualche modo resa obbligata dalla constatazione, a mio avviso difficilmente contestabile, che tutta la struttura teoretica dell’excursus si muove nella direzione di attribuire all’intelletto umano il solo pensiero discorsivo, e che dunque l’illuminazione improvvisa difficilmente può essere intesa come un’intuizione intellettuale.”35

Nell’ottica di Trabattoni, quindi, quando Platone utilizza la metafora della scintilla non vuole riferirsi all’intuizione intellettuale delle idee, bensì alla convinzione-comprensione che al di là delle realtà sensibili devono esistere delle realtà intelligibili, eterne e immutabili.

Ma comprendere e convincersi dell’esistenza delle idee significa, in qualche modo, già iniziare a descriverle. “La filosofia non può dimostrare l’esistenza dei suoi oggetti se non iniziando in qualche modo a descriverli. E’ precisamente per questo motivo che la via regia del sapere filosofico, per Platone, è sia dialogica che dialettica, senza che questi due metodi apparentemente diversi possano essere distinti (come invece spesso si tende a fare): è dialogica, perché solo attraverso il dialogo si può produrre la persuasione che le idee esistano; è dialettica, perché solo attraverso l’indagine dei rapporti che legano le idee tra loro si può in qualche modo conoscere la loro natura.”36

35 Trabattoni, op. cit., p. 135. 36 Ibidem.

Riferimenti

Documenti correlati

experiences and traditions regarding ethnic and religious diversity: western European states with a long experience in receiving and incorporating immigrant minorities; ‘new’

Article 19 of the 2008 Law provides that foreign citizens and stateless persons residing in Vietnam may be granted Vietnamese citizenship if they are capable of

By leveraging the Service-Dominant Logic framework and its way of presenting innovation, value propositions and value co-creation, I was able to eliminate the

The scope of the thesis is limited to issues in European Community Law and European Union Law regarding immigration from third countries and regarding nationals from

Un raggio di luce bianca orizzontale attraversa un prisma con indice di rifrazione n e apertura α = 4 deg, colpisce uno specchio verticale e successivamente uno schermoc. l’angolo

Nel caso a), la luce riflessa dallo specchio risulta essere ancora polarizzata circolarmente, ma con verso opposto. La lamina a λ/4 la rende di nuovo polarizzata linearmente, ma

Most trafficking cases registered in Armenia over recent years dealt with the sexual exploitation of women (including minors), both abroad and in Armenia, and the labor

che, secondo il ricorrente, tale disposizione víola l’art. 117, secondo comma, lettera e), della Costituzione – il quale attribuisce allo Stato la legislazione esclusiva