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CAPITOLO III Il riassorbimento osseo

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Academic year: 2021

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CAPITOLO III

Il riassorbimento osseo

3.1 Cause di riassorbimento osseo periprotesico

La perdita ossea periprotesica e, di conseguenza, il maggior rischio di fallimento delle protesi d’anca (mobilizzazione per cause non infettive dello stelo) è riconducibile principalmente a due meccanismi d’azione: Stress shielding e Wear debris.

Stress Shielding - le modificazioni della densità ossea periprotesica che si realizzano dopo un’artroprotesi d’anca sono l’espressione della risposta dell’osso all’alterazione della distribuzione dei carichi che l’impianto determina sull’ospite. Tale fenomeno è legato alle caratteristiche osso-impianto e il riassorbimento osseo che ne deriva è espressione della legge di Wolff. Quindi per Stress Shielding si intende la riduzione della densità ossea (BMD) periprotesica (valutabile con DEXA), risultante dalla perdita delle normali stimolazioni sull’osso che ospita l’impianto per un processo definito “Load Transfer” [51]: quando viene impiantata la protesi, i carichi sono trasmessi dallo stelo (maggiore rigidezza) e non più dalla porzione prossimale del femore, di conseguenza, nei primi mesi successivi all’impianto, si sviluppa un rimodellamento osseo che appare fondamentale per la fissazione e la stabilità, quindi per la longevità della protesi [52] (Figura 21).

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Figura 1: (a)Distribuzione fisiologica delle forze di carico. (b)trasferimento delle forze di carico alla protesi.

Nonostante il crescente interesse verso la definizione dei fenomeni alla base di questi meccanismi, non è ancora chiaro il rapporto tra le caratteristiche biomeccaniche della protesi, del femore che la ospita e della relativa perdita ossea. In particolar modo, l’attenzione è stata concentrata sul modulo di rigidezza del femore e delle componenti protesiche non cementate per individuare una correlazione tra queste e l’entità del rimodellamento osseo. A questo proposito, studi recenti hanno dimostrato che, negli impianti non cementati, la rigidezza assiale del femore è il principale fattore predittivo della perdita ossea: ciò potrebbe quindi dipendere dalla differenza che esiste tra la rigidezza assiale dello stelo e quella dell’osso ospite, mentre la rigidezza antero-posteriore e medio-laterale dello stelo e del femore sembrano essere molto più simili [53]. Nelle protesi cementate invece, la perdita ossea non è dovuta alla rigidezza assiale del femore più di quanto non lo siano gli altri parametri [54]. Per quanto riguarda i meccanismi di traduzione del segnale da meccanico (Stress shielding) in cellulare, l’ipotesi più credibile è che lo stimolo meccanico si traduca in segnale elettrico a livello degli osteociti i quali, lavorando come network intraosseo, andrebbero poi ad attivare le linee cellulari osteoblastiche a seconda delle necessità e delle caratteristiche dell’impianto. Attualmente sono stati meglio identificati alcuni aspetti di questo fenomeno, come i meccanismi cellulari alla base dell’attivazione dell’osteoclastogenesi, che sembra essere indotta dall’attivazione dell’asse RANK-RANKL (figura22).

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Figura 2: Schema dell’asse RANK-RANKL

La perdita ossea che si realizza, inizia dal terzo mese dopo l’intervento e tende a stabilizzarsi entro il primo anno ma, in realtà, modificazioni dell’organizzazione ossea periprotesica si svolgono in un tempo molto più lungo, fino a 3-5 anni dall’intervento. Infine, è bene precisare che, dopo il posizionamento dello stelo protesico le sollecitazioni che si tramettono e la distribuzione dei carichi (influenzata dai diversi moduli di elasticità) possono determinare, oltre che il fenomeno dello Stress shielding, anche altri meccanismi biomeccanici, come: il Load Sharing, detto anche condivisione di carico che è una ripartizione del peso tra l’osso e la protesi, in modo tale che la sua distribuzione sia funzione diretta della rigidità dei due materiali coinvolti e lo Stress bypass che è una situazione in cui il carico viene completamente trasferito distalmente per cui, oltre a determinare un riassorbimento prossimale, crea un effetto punta distale doloroso per il paziente (dolore di coscia).

Mobilizzazione asettica – è definita come reazione infiammatoria indotta da usura dei materiali. L’osteolisi periprotesica indotta dai materiali di usura ricopre, un ruolo dominante come fattore responsabile del fallimento clinico degli impianti, sia perché è la principale causa della mobilizzazione delle componenti sul versante acetabolare e su quello femorale, sia perché è il più importante processo correlato alle fratture patologiche del femore e dell’acetabolo dopo artroprotesi di anca; eventi, questi, che rendono imprescindibile una revisione chirurgica. I fenomeni ad essa correlati cominciano a manifestarsi, generalmente, a 5 anni dall’intervento chirurgico. La sua incidenza è in aumento progressivo ed è stato calcolato che oltre il 25%, di tutti gli impianti protesici,

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mostra segni di mobilizzazione asettica [55, 56]. In generale i materiali utilizzati per la costruzione delle protesi articolari e impiantati con funzione sostitutiva di parti dell’apparato locomotore sono inerti verso le cellule; infatti, prima dell’utilizzazione in campo clinico vengono testati per valutare la reattività biologica delle cellule e dei tessuti verso gli stessi (prove di biocompatibilità). Il problema della reazione da corpo estraneo non è, perciò, abitualmente collegato alla tossicità, nonostante per situazioni specifiche legate al rilascio ionico delle particelle metalliche, anche questo aspetto sia stato documentato in colture in vitro di fibroblasti [57]. Il punto principale attorno al quale si sviluppa tutta la problematica della reazione da corpo estraneo è rappresentato dalla fagocitosi, vale a dire dalla capacità dell’organismo d’includere, all’interno del citoplasma di specifiche cellule, sostanze o corpuscoli non riconosciuti come costituenti dell’organismo stesso. La finalità della fagocitosi è la degradazione enzimatica del materiale estraneo con l’eliminazione o la riutilizzazione delle subunità più semplici quali amminoacidi, zuccheri ecc. Nel caso delle particelle di usura prodotte dalle protesi, nessuna di esse può essere degradata o ridotta a unità semplici dagli enzimi delle cellule, pertanto esse attivano una produzione enzimatica che si autoalimenta e si amplifica nel tempo producendo la necrosi per autolisi delle stesse cellule deputate alla fagocitosi. La liberazione degli enzimi lisosomiali nell’ambiente pericellulare porta alla modificazione dei tessuti interessati dal fenomeno: nel caso del tessuto osseo, la risposta alla carica enzimatica è svolta dai macrofagi per autolisi e, il riassorbimento della matrice ossea che ne deriva (cui fa riferimento il termine “osteolisi”) è comunemente usato per descrivere i più tipici aspetti radiologici della mobilizzazione delle protesi articolari [58,59]. Questo meccanismo è, infatti, alla base della maggior parte delle mobilizzazioni asettiche e non ha nulla a che fare con il processo infiammatorio che caratterizza buona parte della patologia umana: infatti, lo studio dei tessuti periprotesici dopo revisione per mobilizzazione asettica evidenzia un’estesa proliferazione di macrofagi che hanno fagocitato le particelle d’usura e che infiltrano i tessuti connettivi periprotesici, siano essi l’osso, i vasi, il tessuto fibroso o quello adiposo, ma non si osservano le cellule tipiche dell’infiammazione, vale a dire i polimorfonucleati, neutrofili e i linfociti (Figura23).

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Figura 3: Fagocitosi delle particelle di usura e tentativo di digestione enzimatica da parte delle cellule fagocitarie (Macrofagi)

Quando, occasionalmente, si osservano accumuli locali di linfociti o franchi infiltrati purulenti, si deve sospettare un’infezione batterica sovrapposta, evento a rischio elevato negli accumuli di tessuto di granulazione da corpo estraneo. È possibile analizzare alcuni aspetti della reazione da corpo estraneo alle particelle di usura che permettono una comprensione più approfondita di quanto osservato in campo clinico:

 La possibilità da parte di un macrofago di fagocitare una particella e di includerla all’interno dei lisosomi per tentare la degradazione enzimatica è condizionata dalle dimensioni della stessa: infatti se questa supera le dimensioni del macrofago la si troverà inclusa nel citoplasma di una cellula gigante, ma comunque in posizione extralisosomiale. Se le sue dimensioni sono ancora superiori essa verrà incapsulata da una membrana fibrosa che in genere comprende anche cellule giganti. In entrambi i casi non vi è la stimolazione di produzione enzimatica. La conseguenza di tale osservazione è che solo le particelle di piccole dimensioni e compatibili con l’inclusione lisosomiale (dimensione < 0.5 μm) sono veramente attivatrici del processo osteolitico sull’osso.

 A parità di volume usurato delle componenti protesiche il numero di particelle è inversamente proporzionale alla loro dimensione, pertanto le particelle più piccole attiveranno un numero più alto di macrofagi.

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 Esiste un meccanismo di drenaggio tramite i vasi linfatici dell’ambiente periarticolare (protesizzato) ai linfonodi, alla milza e al fegato, per cui una limitata e lenta produzione di particelle di usura può essere compensata e drenata per via linfatica evitando l’accumulo locale, che è il responsabile dell’osteolisi e del deterioramento della fissazione meccanica.  Il meccanismo di produzione delle particelle di usura deve essere primariamente ricercato a livello delle superfici di scivolamento tra le componenti protesiche e segue le leggi della fisica. Tuttavia, l’elaborato assemblaggio delle componenti degli inserti e delle modalità di fissazione ha moltiplicato le possibili zone di origine di aree di usura o corrosione (quali: impigment del collo sulla componente acetabolare, cono tra collo e testina, tutti i giunti di parti modulari, superficie esterna inserti…), spesso non individuabili all’analisi radiografica anche più elaborata, ma che divengono evidenti all’osservazione delle componenti rimosse.  Una volta innescata, la produzione di particelle di usura in una protesi articolare è irreversibile; solo la riduzione dell’attività e delle sollecitazioni meccaniche potrebbero influire sull’evoluzione del processo. È evidente che tale soluzione non possa che restare teorica, visto il principale obiettivo della protesizzazione, che consiste proprio nel recupero della funzionalità articolare, poiché significherebbe annullare i vantaggi acquisiti con l’intervento.

Analizzando nel dettaglio il fenomeno della mobilizzazione asettica, provocata da reazione infiammatoria indotta da materiale di usura, è possibile definire:

Caratteristiche morfologiche ed istologiche: il tessuto presente nelle zone di osteolisi ha l’aspetto di una membrana simil-sinoviale sul versante a contatto con il polimetilmetacrilato, mentre è caratterizzato dalla presenza di macrofagi e cellule giganti da corpo estraneo sul versante che invade l’osso corticale [60]. La componente cellulare appare molto varia con presenza di istiociti, cellule giganti, linfociti, plasmacellule e neutrofili [61]. Le particelle di cemento acrilico e i frammenti di polietilene sono inglobati negli istiociti/macrofagi o nelle cellule giganti che realizzano foci di attività cellulare all’interno della membrana periprotesica [62]. Dalla continua fagocitosi dei frammenti di usura deriva la produzione, da parte delle cellule attivate, di citochine proinfiammatorie ed enzimi proteolitici, che si ritiene possano danneggiare l’osso e la cartilagine e attivare cellule del sistema

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immunitario, in particolar modo l’interleuchina 1 (IL-1) e il tumor necrosis factor α (TNFα), che sono potenti mediatori del riassorbimento osseo , e citochine attivate dal sistema immunitario più recentemente identificate come il PDGF e IL-11 [63, 64]. Queste citochine agiscono come segnali di attivazione per i linfociti, dai quali derivano interleuchina 2 (IL-2), interleuchina 6 (IL-6) e interferone β (IFN-β), che possono influenzare l’attività degli osteoclasti ed il rimodellamento osseo. Meccanismo cellulare: Normalmente la massa ossea è frutto di un equilibro esistente tra apposizione di osso (osteoblasti) e suo riassorbimento (osteoclasti). La regolazione dell’equilibrio che è alla base dell’accoppiamento tra cellule formanti e riassorbenti osso è stata recentemente chiarita con l’identificazione del ligando del recettore attivatore del fattore nucleare kappa B (RANKL) [65]. RANKL è espresso sulla superficie cellulare degli osteoblasti e delle cellule stromali midollari e svolge la funzione di stimolare direttamente la differenziazione dei precursori cellulari degli osteoclasti in osteoclasti maturi. Il segnale di questa attivazione diretta è mediato attraverso il recettore attivatore del fattore-nucleare kappa B (RANK), localizzato nella membrana cellulare dei precursori degli osteoclasti e degli osteoclasti immaturi. L’interazione tra il RANK ed il suo ligando (RANKL) regola l’accoppiamento tra formazione e riassorbimento d’osso. Il rilascio di mediatori pro-infiammatori, sviluppati nei tessuti a causa dei detriti di usura, determina uno stato di infiammazione cronica che altera il sistema RANKL e l’osteoclastogenesi, modificando in modo significativo il fissaggio dell’impianto. Si può, quindi, concludere che la perdita ossea periprotesica che si realizza a breve e a lungo termine con i fenomeni dello stress shielding e della lisi da detriti, è l’evento che maggiormente condiziona la “longevità” di un impianto protesico e di conseguenza la buona riuscita dell’intervento. La valutazione della ridistribuzione della densità minerale ossea è, dunque, un dato importantissimo per la diagnosi precoce dei processi, clinicamente silenti, che potrebbero condurre in futuro alla mobilizzazione delle componenti protesiche.

3.2 Fattori che influenzano il riassorbimento

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La perdita ossea periprotesica può essere considerata come un evento inevitabile che condiziona la durata dell’impianto. Tale rimodellamento è il risultato di una complessa interazione tra fattori meccanici intrinseci (legati all’osso), estrinseci (legati alla protesi) e fattori fisiologici.

Fattori estrinseci

 Materiali di costruzione (specialmente in termini di modulo di elasticità): tutti i materiali attualmente utilizzati in chirurgia protesica, polietilene (UHMWPE: materiale polimerico ottenuto dal monomero etilene), leghe metalliche e ceramica, hanno l’obiettivo di ridurre il particolato da usura, ottenere una immediata stabilità primaria e favorire l’osteointegrazione. Sono quindi caratterizzati da ottime qualità di resistenza meccanica e di usura, buona biocompatibilità e biofunzionalità tale da avvicinarsi il più possibile alla funzione dell’articolazione naturale. E’ comunque importante sottolineare che la rigidità dello stelo è il fattore maggiormente responsabile del fenomeno dello stress shielding, influenzando in maniera significativa il rimodellamento osseo periprotesico, in ragione del fatto che, assorbendo le forze di carico e trasferendole successivamente alla diafisi, esclude la porzione prossimale del femore.

 Design: nel processo evolutivo degli impianti protesici, il maggior numero di cambiamenti in termini di design è stato fatto a carico degli steli. La loro evoluzione ha permesso quindi di studiare gli effetti che ciascun disegno protesico è in grado di determinare sull’osso circostante. Bisogna tener presente però che il design influenza il riassorbimento osseo periprotesico solo negli impianti non cementati.

 Tipo di fissazione meccanica (cementate e non cementate): punto che assume un valore fondamentale specialmente per quanto riguarda il riassorbimento osseo periprotesico indotto dal fenomeno dello Stress Shielding, in quanto questo si verifica principalmente quando ci troviamo di fronte ad uno stelo non cementato. Negli impianti cementati, infatti, sia per la dimensione dello stelo usato (più piccolo e meno destruente a livello del canale midollare femorale), che per il modulo di elasticità del polimetilmetacrilato (inferiore sia all’osso che allo stelo), non si ha indebolimento dell’osso circostante l’impianto.

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 Tipi di rivestimento - la lega cobalto-cromo-molibdeno e quella titanio-alluminio-vanadio: l’elasticità della lega al titanio è più simile a quella ossea, quindi, teoricamente, dovrebbe produrre un minor grado di stress shielding e meno dolore di coscia, seppur si ritenga che questo non sia legato esclusivamente alla rigidità del metallo, bensì anche alla geometria e alla lunghezza dello stelo [66]. La superficie di rivestimento svolge un ruolo importante sia nel contesto della stabilità primaria, in virtù della rugosità che ne aumenta l’attrito, e quindi la tenuta, sia nel contesto della stabilità secondaria, che ne condiziona il successo a lungo termine. La tipologia delle superfici di rivestimento regola i due fenomeni di Ingrowth e Ongrowth relativi alla stabilità secondaria; esistono, infatti, superfici con lo scopo di aumentare l’ingrowth, (applicazione di grani di cobalto o titanio, rivestimento a fibre di titanio, utilizzo di metalli porosi) e superfici con lo scopo di aumentare l’ongrowth (plasma spray e sabbiatura dello stelo).

Fattori intrinseci  Caratteristiche meccaniche dell’osso: compendono

 Qualità dell’osso: secondo alcuni autori l’osteoporosi sarebbe una controindicazione all’impianto di steli non cementati, anche se alcuni studi prospettano la possibilità di utilizzare tali dispositivi anche in pazienti osteoporotici, purchè dotati di rivestimento con idrossiapatite, che determini un maggior livello di osteointegrazione [67].

 Forma delle componenti che dovranno ospitare: in base al tipo di femore del paziente, il chirurgo può orientare la sua scelta all’interno di un’ampia gamma di steli e, di conseguenza, l’uso di un impianto rispetto ad un altro può influenzare l’eventuale riassorbimento periprotesico. Nella scelta dello stelo più idoneo bisogna, infatti, considerare: l’angolo di antiversione, l’angolo di inclinazione, l’indice corticale e l’indice di svasatura femorale (ISF) [68]. In particolare l’ISF esprime il rapporto fra la larghezza endostale dellʼepifisi prossimale di femore e quella del canale diafisario, permettendo, in base ai risultati, di riconoscere tre tipologie (Figura 24):

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Figura 4: Le diverse tipologie di femore secondo l’indice di svasatura. ISF>4,7 femore tipo A; ISF<3 femore tipo C; 3<ISF>4,7 femore tipo B  Ipo e Iper reattività individuale.

3.3 Valutazione strumentale del riassorbimento osseo periprotesico

Lo studio e la valutazione dei processi di rimodellamento osseo periprotesico in soggetti sottoposti a sostituzione protesica d'anca (specialmente nella componente femorale) riveste un ruolo di elevato interesse scientifico in quanto può fornire utili elementi per migliorare le nostre conoscenze sulle interazioni tra fenomeni biologici e meccanici in modo tale da sviluppare impianti sempre meno invasivi e più duraturi. I primi studi sulla misurazione della massa ossea periprotesica sono iniziati alla fine degli anni '80. Gli apparecchi per assorbimetria a singolo raggio fotonico (SPA) furono presto abbandonati per la bassa risoluzione spaziale. Anche gli apparecchi per assorbimetria a doppio raggio fotonico (DPA) mostrano dei limiti in termini di risoluzione spaziale, tempi di scansione e scarsa precisione, pertanto l'applicazione in campo ortopedico si fermò dopo pochi studi [69]. L'avvento della Densitometria ossea a raggi X a doppia energia, segnò in questo campo una svolta fondamentale tantochè ben presto furono applicati a questi nuovi apparecchi, i primi software di analisi specifici per misurare il contenuto minerale osseo (BMC) e la densità minerale ossea (BMD) in segmenti ossei protesizzati [70]. Dopo i primi soddisfacenti risultati, la DEXA ha assunto notevole importanza diventando fondamentale per:

- Valutazione delle caratteristiche dell'osso nella fase del preimpianto. - Valutazione della reazione dell'osso all'impianto metallico.

- Valutazione del Bone Stock

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La DEXA quindi, rappresenta la metodica maggiormente accettata per misurare la massa ossea periprotesica femorale per la sua accuratezza, riproducibilità e scarsa invasività. La misurazione della massa ossea, sin dai primi studi è infatti risultata indice indiretto della ridistribuzione del carico meccanico indotto da un particolare disegno protesico e dalla conseguente risposta biologica dell'osso. Bisogna inoltre ricordare che la DEXA trova indicazione anche in fase preoperatoria in quanto è ampiamente documentato che l'efficienza di uno stelo protesico e il tipo di fissazione sono dipendenti dal grado di mineralizzazione dell'osso sul quale lo stelo viene applicato [71]. Nel caso infatti di un osso scarsamente mineralizzato risultano più idonee le protesi cementate mentre nell'osso ben mineralizzato sono indicate protesi non cementate che garantiscono una elevata stabilità primaria. Voglio precisare che gli esami radiografici standard che vengono classicamente eseguiti nel follow-up, risultano essere poco sensibili per la quantificazione del riassorbimento periprotesico in quanto consentono di evidenziare alterazioni solo per riduzioni della massa ossea superiori al 30%, per cui attualmente la RX si utilizzata per lo più per documentare le fratture patologiche da osteoporosi sia vertebrali, sia delle ossa lunghe. Quindi, lo studio in vivo dei fenomeni di rimodellamento periprotesico vede la DEXA come la metodica migliore per valutare variazioni di densità ossea periprotesica (epifenomeno del rimodellamento) già in fasi precoci. Già nel 1992 Bobyn et al ritenevano indispensabile la DEXA nella valutazione precoce del rimodellamento periprotesico[51]. I successivi lavori pubblicati hanno confermato tale validità, con coefficienti di variazione inferiori al 3-4%. Questo sta a significare che variazioni di densità ossea superiori, in plus o in minus, del 3-4% sono legate al processo di rimodellamento. Tenendo presente che l'occhio umano riesce a identificare variazioni di densità radiografica quando queste superano il 30-40% della densità iniziale (in plus o in minus), fatta salva la perfezione tecnica della esecuzione della radiografia, ben si comprende come la DEXA sia la metodica di scelta per valutare il rimodellamento periprotesico.

Mineralometria Ossea Computerizzata (MOC) con tecnica DEXA

È una tecnica quantitativa: misura quanta idrossiapatite (formula chimica: Ca5(P04)3(OH)) è presente per unità di volume del tessuto in esame. Essa si basa sull'assorbimento e sull'interazione

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di fotoni incidenti emessi dalla sorgente; la sorgente di raggi X è posizionata sotto il lettino e si muove in maniera sincrona con un sistema di rilevatori posti al di sopra del paziente; la proiezione è, quindi, postero anteriore(PA) (Figura 25).

Figura 5: Dexa Hologic Explorer Lunar

La DEXA utilizza un tubo a raggi x che emette un fascio "a pennello" a due diverse energie di 70 e 140 kev di energia massima. Dopo conversione analogico-digitale, i valori di attenuazione ottenuti alle due diverse energie vengono confrontati ed il risultato viene elaborato in modo da ricavare il contenuto minerale osseo (BMC: Bone Minerl Content) riscontrato in una determinata area di interesse che può essere l'intera superficie del singolo corpo vertebrale od opportuni segmenti del collo femorale. Viene quindi calcolato il rapporto tra BMC e l'area stimata di ciascuna superficie di interesse (considerando solo l'area della ROI occupata dall'osso) in modo da ottenere il valore di densità minerale ossea per unità di superficie (BMD: Bone Mineral Density) che consente di confrontare i risultati di soggetti con dimensioni corporee differenti. La risoluzione spaziale delle immagini è inferiore a quella della radiografia tradizionale, ma la precisione delle misure è comunque elevata. Essa può essere eseguita a livello dell'avambraccio, della colonna vertebrale lombare, del femore o dell'intero scheletro. Nella maggior parte dei casi si esegue a livello della colonna vertebrale e/o del femore. La DEXA sfrutta i raggi X, ma la dose di radiazione utilizzata per l'esame è bassissima (1-5 µSv contro i 0,02 mSv dell'esame radiografico standard del torace, che, ad eccezione della radiografia di arti ed articolazioni -eccetto l'anca-, rappresenta l'esame radiologico con la minor dose erogata), molto minore di quella di una normale radiografia, e infinitamente minore di quella di una TAC (Tabella 2).

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Tabella 1: schema dose effettiva di radiazioni a confronto tra varie metodiche strumentali

Pertanto, non ci sono problemi a ripetere la MOC nel tempo. In una persona adulta, la valutazione della densità ossea si esegue esaminando il T-score, cioè valutando di quanto il valore in esame si differenzia da quello del campione di riferimento (soggetti sani dello stesso sesso e di età pari a 25-30 anni, ossia esaminati nel momento in cui si raggiunge il picco di massa ossea). In termini più precisi, il T-score è la differenza, espressa in numero di "deviazioni standard", fra il valore individuale osservato e il valore medio della popolazione sana di riferimento. Valori di T-score compresi fra +1 e -1 indicano una mineralizzazione ossea nella norma. Secondo i criteri dell'Organizzazione Mondiale della Sanità (originariamente riferiti alle donne in menopausa, ma oggi utilizzati per gli adulti di ambo i sessi), si parla di osteopenia quando il valore del T-score è inferiore a -1, e di osteoporosi quando il T-score è inferiore a -2.5. Lo Z-score, invece, indica di quanto il valore in esame si differenzia da quello di una popolazione sana di riferimento composta da soggetti dello stesso sesso e della stessa età del soggetto in esame. Si deve sempre e solo usare lo Z-score quando si studiano bambini, adolescenti e in genere soggetti di età inferiore ai 30 anni. In linea di massima questo indice, anche se viene sempre automaticamente riportato nel referto MOC, non ha molto significato nello studio delle persone adulte o anziane, per le quali quello che conta è invece il T-score. Per il protocollo di valutazione periprotesica dello stelo femorale, sono stati descritti in

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letteratura diversi software di analisi "Metal Removal". Tali software sono stati applicati per studiare modelli protesici diversi, dai tradizionali steli lunghi tipo Zwelmuller fino a protesi considerate moderne (a risparmio di collo come lo stelo Parva). Nel nostro lavoro abbiamo utilizzato il modello proposto da Gruen per la suddivisione delle aree periprotesiche dello stelo in sette zone: 3 laterali (R1-3), 3 mediali (R5-7), ed una posta 1 cm distalmente alla punta dello stelo (R4). Abbiamo inoltre utilizzato il modello proposto da DeLee–Charneley per la suddivisione delle aree periprotesiche della coppa acetabolare in 3 zone: R1 periferica laterale, R2 periferica mediale, R3 zona centrale (Figura 26).

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