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LO SCENARIO GENERALE DEI MERCATI E DEL CICLO ECONOMICO

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5 giugno 2016 – Profumo e Padoan. Stato e Banca in disaccordo.

LO SCENARIO GENERALE DEI MERCATI E DEL CICLO ECONOMICO LO SCENARIO DI BREVISSIMO/BREVE TERMINE

Analisi delle notizie della settimana

Ulteriori dati economici "freddini" americani (ma sull'affidabilità dei dati sull'occupazione nelle fasi di transizione ci sarebbe da discutere a lungo) inducono i commentatori a rinviare ulteriormente (luglio, anzi settembre - qualcuno straparla di dicembre, e resterà sorpreso) le attese del prossimo aumento dei tassi d'interesse ufficiali americani.

Questo abbassa decisamente i tassi dei titoli di Stato USA e frena seccamente il dollaro, il cui calo però, insieme a quello dei tassi, non riesce a sostenere le materie prime e le Borse.

Perché?

Perché il posto del dollaro, nel ruolo di "moneta forte che salendo segnala deflazione e stretta del credito" viene immediatamente preso dallo yen, che infila rialzi del 3.43% contro dollaro, 2.3% contro euro, 1%

contro oro.

E quindi, sui mercati c'è qualche serio dubbio che il rallentamento del dollaro significhi "monete complessivamente più facili".

Secondo, perché i titoli azionari bancari, e alcuni settori dei mercati obbligazionari (titoli corporate, alcuni emergenti), prendono malissimo le prospettive di continuazione dello scenario di "tassi zero".

Non ci credono più.

Già domenica scorsa avevamo discusso questo "cambio di prospettiva", evidente in alcuni commenti di mercato: ma vedere Citigroup perdere il 5%

in qualche minuto, reagendo "a tassi in calo" in modo opposto a quello che aveva seguito per sette anni, è stato una conferma importante.

Cosa succede?

Perché mai, dopo anni in cui i "tassi zero" venivano acclamati da tutta la comunità degli analisti bancari,

solo adesso sentiamo e leggiamo bancari (da Profumo a, appunto, gli operatori USA in questi giorni) che finalmente ricordano che le Banche lucrano sullo spread fra tassi a brevissimo e tassi a medio/lungo, e che se entrambi sono a zero la fonte di reddito delle Banche si annulla?

Ci sono almeno cinque spiegazioni tecniche e economiche, e le abbiamo discusse per anni (dal fatto che una popolazione che invecchia esige rendimenti, alla contrazione dei volumi e al deleveraging, che impediscono di aumentare i profitti semplicemente aumentando il volume delle operazioni a leva, ecc.),

ma ce n'è una che voglio evidenziare oggi perché non è al centro dell'attenzione, ma ha dimensioni e implicazioni giganteschi.

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Dopo la crisi bancaria del 2008, la strategia dei "tassi zero" non era stata scelta perché fosse la più conveniente e adatta per le Banche, in quanto tali e tecnicamente.

Era la più "conveniente" per sostenere contemporaneamente Banche e Stati.

Teneva alti i prezzi dei titoli, proteggeva i bilanci bancari da uno choc, consentiva di rinviare per anni la soluzione di problemi strutturali, ma contemporaneamente abbassava il costo di finanziamento di Stati che erano chiamati a aiutare un sistema bancario che a sua volta comprava generosamente titoli di debito pubblico.

Immaginiamo che uno Stato rifinanzi le Banche del suo Paese acquistandone obbligazioni, e che chieda poi loro di acquistare suoi bond. La gestione del problema è più semplice se 1) i prezzi dei due bond non fluttuano, e 2) se un ambiente di rendimenti bassissimi rende conveniente per tutti i "terzi" tenere in portafoglio i titoli per decenni.

I tassi zero, insomma, non risolvevano né i problemi strutturali delle Banche, né quelli degli Stati, ma avevano il vantaggio di rimandare per anni qualsiasi discussione sui rapporti fra Banche e Stati.

L'economia reale, nel mezzo, è stato ovviamente sottoposta a stress (inflazione, fasullo recupero delle materie prime fino al 2012/2013, poi la brusca frenata e il nuovo tonfo delle commodities, il dollaro forte, eccetera).

Sono le solite conseguenze destabilizzanti del "credito facile".

E questo stress "filtra" anche nei dati economici misti/freddini di questi mesi anche in America (per non parlare della lunga agonia europea, giapponese e del rallentamento cinese).

Lo stress imposto all'economia reale va a colpire la politica e la stabilità degli Stati (populismi europei, Brexit, il fenomeno Trump in America),

le Banche vengono chiamate in causa sul fronte politico (tramite casi concreti come le "piccole tragedie" di Vicenza o Montebelluna o Arezzo o Ferrara, o tramite deliri complottisti),

e da qui il problema di rapporti fra Banche e Stato, fra tasse e credito, cacciato dalla porta, rientra dalla finestra.

I tassi zero sono di comune beneficio a Banche e Stato soltanto in specifiche condizioni.

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ma "soltanto" nella buona vecchia copertura politica alle condizioni giuridiche anomale in cui le Banche svolgono la loro attività.

Questo mette in conflitto, o quantomeno fa divergere, gli interessi di Banche e Stati.

E' così che accade che, nel giro di due giorni, sentiamo Padoan e Profumo dire cose opposte sulle Banche italiane, sui tempi del loro ritorno alla stabilità e alla profittabilità (che non sono esattamente la stessa cosa).

Quindi: il "cambio di opinione" degli operatori finanziari (e delle Banche - intese come titoli bancari e non come produttore di comunicati stampa e lobbysta politico),

oltre che a differenti condizioni di scenario economico,

è legata a un tema (cambiamenti che la crisi bancaria del 2008 e seguenti ha prodotto nei bilanci degli Stati e nel rapporto Stati/finanza) che ha ancora ampio spazio per produrre sorprese per i mercati.

Ne riparleremo. Basta sapere, da subito, che sarà possibile vedere reazioni dei mercati non esattamente identiche a quelle cui siete abituati [dato economico negativo --> dollaro debole --> euforia in Borsa. In questi giorni, non ha funzionato].

E questo vale anche per le contro-reazioni delle Banche centrali, a cominciare dalla FED. Fra gli episodi di questi giorni, cito fonti FED che venerdì hanno cercato di convincere i mercati che i tassi continueranno a salire, e prima di quanto gli operatori si fossero messi a scommettere.

E' il colmo, no? E' una bella svolta, rispetto alle puntuali meticolose rassicurazioni di Bernanke e soprattutto di Yellen, che

"in caso di difficoltà dell'economia reale, la FED avrebbe evitato di stringere troppo".

E già da lunedì vorrò vedere se davvero i mercati confermano in modo così netto il "nuovo paradigma" che li vede ostili ai tassi zero.

Soprattutto importa vedere: 1) se le Banche continueranno e estenderanno una correzione che in America fin qui è inoffensiva, ma che sotto 300/280 si farebbe sentire globalmente, 2) se la frenata del dollaro segni davvero, come sembra in questi giorni, il definitivo avvio del decollo dello yen, 3) quanto le materie prime reggano a quest'ultimo segnale di deflazione.

Ma vediamo un po' in dettaglio i mercati.

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I principali movimenti di mercato

La prevalenza dei temi monetari lascia in secondo piano in questi giorni il greggio (-1.44% a 48.62), che aveva dilagato nelle scorse settimane, e che in questi giorni è invece ridotto a seguire con piccoli movimenti

"l'aria che tira" (e quindi: rallenta leggermente il rialzo "perché l'economia non è così forte", ma poi regge perché "il dollaro sarà debole". Vabbe').

Invece avrebbe notizie fresche di cui occuparsi: il nuovo ministro saudita (Al-Falih) nel vertice OPEC di questi giorni cerca di ricucire almeno formalmente i rapporti con l'Iran. Da seguire: il conflitto d'interessi fra Sauditi e Persiani ha a lungo impedito un recupero dei prezzi.

L'ambiguità fra "economia in frenata" e "dollaro beneficamente debole"

lascia in sostanziale stallo le materie prime: rimbalzicchi di quelle che erano state recentemente più deboli, fiacchezza generale e delle più importanti, due soli movimenti sostanziali: un altro tonfo dell'acciaio cinese (-7.30%) e un rimbalzo del metano (+10.5%):

indice GSCI delle materie prime +0.58% a 374.02, rame -0.51% a 4697 (resta in allarme ribassista), zinco +4.63% a 1989,

metano +10.6% a 2.40 (impressionante, ma fino a 2.50 avrà solo "smesso di scendere in picchiata"),

nickel +0.91% a 8455,

continua il tonfo delle scorse settimane l'acciaio cinese (1904),

lo mantengono i noli (+0.66% a 610), confermando che anche i rari acquisti

"da entusiasmo per il dollaro" sono ancora "cartacei".

Rimbalza modestamente dal tonfo di dieci giorni fa l'oro (+2.62% a 1,244.20, sempre vicino al possibile allarme da crollo di 1200), che però continua a slittare contro yen (-0.14% a 4287), segnalando che le condizioni monetarie non sono più facili nonostante il rallentamento del dollaro.

Con questa avvisaglia (che ripeterò parlando dello yen), indubbiamente il dollaro ha una reazione "ottimista" ai dati economici lenti americani:

cioè, frena il rialzo (e frena soprattutto contro monete emergenti e a alto rendimento, dando un segnale "reflattivo"). Sono le solite speranze che la deflazione globale possa essere affrontata, se non con una nuova espansione monetaria americana, quantomeno con un sostanziale rinvio della stretta al credito USA. No: una breve pausa è possibile, ma il ciclo di stretta del credito è avviato e irreversibile.

Il dollaro non promette ribassi di lungo termine. Ma dopo un rimbalzino dieci giorni fa, torna piatto com'era stato nell'ultimo mese:

il dollaro contro euro (-2.27% a 1.1367) abbandona le velleità rialziste

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Invece la sterlina inglese minaccia addirittura di riprendere a scendere contro dollaro (-0.72% a 1.4518). Ho detto "minaccia": non intacca ancora 1.43. Rallenta tuttavia leggermente anche contro euro (-2.99% a 0.7829).

Discorso a parte l'Asia: rimbalzicchia, ma solo quanto basta a evitare un sostanziale allarme ribassista (6.60), lo yuan cinese (6.549). Appare evidente la necessità di sostenere la Borsa (che rimbalza, +4.17% a 2939, ma resta ancora sotto l'allarme ribassista di 3000). E recupera poco anche il won coreano (-0.37% a 1,183.61).

E, soprattutto, appena rallenta il dollaro, diventa subito fortissima (cioè, "asciuga" la liquidità che il dollaro debole dovrebbe creare) l'altra grande "moneta di finanziamento facile", lo yen.

Dopo una breve tregua lo yen riprende a salire (dollaro/yen -3.43% a 106.53, yen/euro +1.24% a 121.09) con un deciso e rapido (molto rapido:

verifichiamo lunedì che il ritmo sia sostenibile) strappo verso e oltre 108, e avvicina 105, definitivo allarme rialzista di lungo termine. A questo si aggiunge la forza di yen/oro (vedi sopra), un rimbalzo vivace di yen/oro [vedi sopra].

Per adesso quindi le monete "deflattive" sono ancora complessivamente forti, con in prospettiva una probabile alternanza fra dollaro e yen, ma non un "benefico" affondamento né del dollaro né dello yen capace di sostenere Borse e commodities.

E appunto le Borse: rallentano, ma non drammaticamente (anche il Nikkei giapponese fa perdite solo marginali), dopo che la settimana precedente era stata addirittura euforica:

Nikkei -1.14% a 16642 (ma valeva 20.000 due mesi fa, e sotto 17000 è ancora in allarme),

Dow Jones (-0.37% a 17807), come sempre la Borsa più forte, ma ancora piantato davanti agli ostacoli (18000) che da un anno tengono la Borsa americana ferma/instabile (massimi a 18000/18500, stallo, ripetuti tonfi a 15500),

Francoforte (-1.78% a 10103) riesce a reggere sopra 10000: lì ha messo fine, finalmente, almeno alla fase acuta del ribasso.

Londra (-0.98% a 6210) continua lentissimamente a cercare di annullare definitivamente l'allarme ribassista di 6000/6200. Fino a 6500 è ancora fragile.

Fra gli emergenti, merita menzionare il Brasile (+3.2% a 50620), che addirittura risale e annulla un recente segnale di allerta a 50000.

Shanghai (+4.17% a 2939) fa una giornata di vivace rialzo ma resta tuttora sotto l'allarme ribassista di 3000 che ha annunciato una nuova stagione di

"freddo cinese". E solo ben sopra 3300/3600 smetterebbe di essere una spina nel fianco per tutto lo scenario.

Ma il problema questa settimana sono le Banche (oh, sorpresa!), e lo sono su scala globale, e lo sono anche in America, anzi il problema comincia in America:

l'indice bancario S&P (-1.29% a 316.29, solo 300/280 darebbero un serio allarme) non segna perdite massicce, ma la sbandata è "del tutto inattesa", sgambetta operatori che erano decisamente al rialzo, e al suo interno ci sono perdite intorno al 5% su colossi come Citigroup e Bank of America. Soprattutto: tutto questo conferma l'inversione di tendenza logica che gli operatori avevano mostrato la settimana scorsa [vedi

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analisi del 29 giugno]: dopo anni, un calo del dollaro e un rinvio del rialzo dei tassi non vengono considerati positivi per le Banche, che proprio cavalcando i "tassi zero" erano risalite, in America più che altrove, negli anni scorsi.

Non parliamo poi delle banche tedesche (-7.00% a 52.73), che ripiombano verso l'allarme-choc di 50 che avevano appena evitato.

Banche europee -5.26% a 140.23.

Negativa perché associata alle Banche anche Milano (-3.80% a 17495) che rinnova l'allarme da crollo di 18000.

Una ennesima prova (ne abbiamo avuto parecchie quest'anno) che i tassi in calo non funzionano più da panacea sul fronte più delicato della crisi - quello che l'ha originata, quello bancario e finanziario.

E attenzione: il Paese che ha insegnato al Mondo (o avrebbe dovuto insegnare, se il Mondo ascoltasse) che i tassi zero non funzionano, il Giappone, è al centro dell'attenzione.

Quindi: "economia rallenta, quindi i tassi resteranno bassi, quindi il dollaro sarà debole e abbondante, quindi l'economia ripartirà"... oppure magari: "tutte le inflazioni si pagano sempre con una recessione e una deflazione, e infatti guarda lo yen che sale - e il dollaro al massimo rallenterà un lungo rialzo"?

Ma se le Banche si affrettano subito a dire che non apprezzano tassi troppo basi, i titoli di Stato, a fronte di tensioni recessive e deflattive evidenti, rimbalzano nettamente annullando la sbandata delle scorse settimane:

T-Bond americani +2.25% a 168.00, rendimento 2.51%, Bund tedeschi +0.67% a 165.10, rendimento 0.07%, OAT francesi +0.59% a 159.63, rendimento 0.41%, BTP italiani 0.22% a 139.89, rendimento 1.33%, Bonos spagnoli -0.11% a 130, rendimento 1.47%, Gilt inglesi +1.24% a 122.61, rendimento 1.28%,

JGB giapponesi invariati a 152.21, rendimento sempre negativo a -0.10%.

In sintesi e operativamente:

Finché lo scenario vede materie prime sostanzialmente deboli con l'eccezione di un greggio sostenuto da manovre politiche e non da domanda, Banche ancora deboli, banchieri centrali globali messi alle strette dalla deflazione, non ritengo che lo scenario stia andando verso una fase di "benefica" debolezza del dollaro, che legittimi una ripresa delle commodities, un decollo delle Borse, e che annunci un sostanziale e efficace allentamento del credito.

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Sugli altri mercati: * resto indebitato in euro a tasso fisso. * Ho, oppure acquisto, opzioni put sui titoli di Stato USA [raccomando la base 155 per settembre]. * Non ho scorte di materie prime. * Ero e resto completamente fuori dalle Borse. * Investo in liquidità in dollari USA (successivamente: yen, vedi sopra).

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