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7. Il diritto penale nel codice del Il codice del diede compimento all auspicio espresso dal Wernz.

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7. Il diritto penale nel codice del 1917 Il codice del diede compimento all’auspicio espresso dal Wernz.

Al diritto penale canonico è appunto dedicato l’intero libro V che porta il titolo significativo «De Delictis et Poenis», con il quale si vuole indicare che i cardini di un diritto penale sono le nozioni di delitto e di pena.

Esso è relativamente lungo, rapportato alle altre parti dello stesso codice: va dal can.

2195 al can. 2414. A tali canoni va aggiunta anche la costituzione Sacramentum Poenitentiae di Benedetto XIV riportata in fondo al codice, con valore legale. Tutta la materia si articola in tre parti: la prima tratta dei delitti (cann. 2195-2214); la seconda delle pene, sia in genere (cann. 2214-2240) che in specie (cann. 2241-2313); la terza delle pene nei singoli delitti (cann. 2314-2414).

Le due prime parti costituiscono quello che viene chiamato il diritto penale fondamentale, in quanto viene precisato il concetto di delitto (can. 2195) e quello di pena (can. 2215); la terza parte invece contiene il diritto penale materiale, in quanto configura le diverse ipotesi di delitto con le relative pene.

Da un punto di vista dottrinale e scientifico, le prime due parti sono le più rilevanti.

Attorno alle nozioni tecniche di delitto e di pena, ruotano tutte le altre norme. Da una parte viene enunciato il principio del diritto «nativum et proprium» della Chiesa a punire (can. 2214 §1), dall’altra però viene subito aggiunta la precisazione del particolare significato di tale potestà in una comunità religiosa come la Chiesa cattolica, con il rinvio al noto testo del Concilio di Trento (can. 2214 §2) che ci permette di comprendere il significato che dobbiamo attribuire alla potestà coattiva della Chiesa e lo spirito che la anima.

L’esercizio della potestà coattiva riguarda propriamente il potere di governo. Essa può essere esercitata soltanto da chi è detentore di tale potere, sia nella fase costitutiva della pena, che in quella applicativa come in quella di cessazione. Tuttavia, a proposito di quest’ultima fase, abbiamo la commistione con il foro interno, sia sacramentale che extrasacramentale.

Viene recepito anche, nel codice pio-benedettino, almeno entro certi limiti, il principio di legalità e in specie il principio «nulla poena sine lege poenali praevia», in quanto la previsione della sanzione canonica, ossia della pena, è inclusa nella stessa nozione di delitto (can. 2195).

Allo stesso tempo occorre richiamare alcune peculiarità:

a) Anzitutto la sanzione penale non è né l’unico, né il principale rimedio al quale il legislatore canonico ricorre. Il diritto penale è all’interno di un codice che prevede tanti altri mezzi di ordine spirituale, sacramentale, morale e disciplinare, dei quali non è

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necessario fare menzione. Ciò emerge soprattutto dal fatto che le leggi della Chiesa, in linea di principio, non hanno una sanzione penale. Il legislatore le considera perfette in sé ed adeguate al fine, senza che debbano essere munite di una sanzione canonica.

La forza del diritto non sta nella coazione di fatto, ma nella esigenza intrinseca di affermarsi, nella forza della verità e della moralità, che può richiedere anche il servizio della costrizione. Questo è il senso della coercibilità. La Chiesa ricorre a tale possibilità solo in casi determinati e con molta prudenza, proprio perché la prima forza del diritto sta nel suo valore etico e quindi nell’appello che esso fa alla coscienza del destinatario della norma.

b) Nella Chiesa le sanzioni penali possono essere annesse non solo alla legge, ma anche al precetto penale (can. 2195 §1) e pertanto la pena può essere stabilita, irrogata e rimessa anche da chi ha soltanto il potere di governo esecutivo. Inoltre, le sanzioni previste dall’ordinamento canonico sono spesso facoltative e indeterminate; per di più possono essere irrogate sia per via giudiziale che per via amministrativa.

c)

d) Il significato eminentemente emendativo della pena fa sì che essa non possa essere applicata senza una previa ammonizione canonica, attraverso la quale risulti la contumacia (ossia la malattia, nel senso spirituale e morale) del delinquente (can. 2242

§2); tale pena deve altresì essere rimessa qualora consti della cessazione della contumacia (can. 2248 §2).

e)

f) Quanto al principio di legalità nell’ordinamento canonico non si deve misurare solo sul paragone con gli ordinamenti statali. Il principio di legalità negli ordinamenti statuali normalmente richiede che la pena sia stabilita solo dal legislatore e quindi per legge, che sia una pena determinata e obbligatoria, e per di più debba essere irrogata esclusivamente per via giudiziale. Se dovessimo valutare pertanto il principio di legalità in base a tutti questi elementi, si dovrebbe concludere che l’ordinamento canonico non lo recepisce e non lo applica nella sua pienezza. Ma la difficoltà è quasi insolubile quando si vogliano confrontare realtà tanto diverse, quali sono da una parte la Chiesa e dall’altra la Stato che sono chiamate a emanare leggi per situazioni così differenti sotto diversi profili.

Dall’analisi della struttura del diritto penale non è difficile risalire ad alcuni criteri guida che soggiacciono ad essa. La Chiesa nel perseguire il suo fine soprannaturale, la salvezza delle anime, oltre alla potestà legislativa, giudiziaria ed esecutiva o amministrativa in genere, gode anche di una potestà coattiva, come diritto (in senso soggettivo) di provvedere al bene pubblico attraverso la costituzione, l’applicazione e la remissione di pene.

Nell’attività legislativa in materia penale non si tratta semplicemente di enunciare alcuni principi di ordine teorico sulla base della filosofia del diritto penale in genere o

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della teologia sul peccato e sul crimine nella vita della Chiesa, ma di emanare delle norme concrete ad attuazione di tali principi, in modo che la vita sociale della Chiesa ne risulti disciplinata.

e) Il legislatore, nell’emanare la normativa, è certamente guidato da principi che scaturiscono dalla visione cristiana dell’uomo, quale emerge dal diritto naturale, dalla rivelazione, dalla tradizione e dal magistero. L’ordinamento penale però non si può limitare alla semplice enunciazione di tali principi: da soli sono insufficienti a regolare la disciplina della Chiesa. È necessario leggere la realtà concreta e servirsi della tecnica giuridica, per dare risposte normative adeguate, secondo anche le circostanze e i tempi.

È necessario trovare nozioni tecniche richieste dalle esigenze della chiarezza e della certezza del diritto, determinare in particolare il significato di alcune nozioni basilari, quali sono quelle del delitto e della pena, che non possono identificarsi con quelle vaghe e generiche del linguaggio comune o della sola filosofia o teologia. Il risultato di tutto ciò fa sì che le nozioni della teoria generale del diritto siano frutto di una positivizzazione e di una tecnica giuridica che, senza rinnegare i principi filosofici e teologici, li precisi e li determini all’interno dell’ordinamento proprio della Chiesa.

In questo senso il Libro V del CIC 17 fu oggetto di generale apprezzamento ma, ad una considerazione più attenta e sostanziale, apparve antiquato, in quanto la codificazione aveva pensato quasi esclusivamente a porre chiarezza, più che a rinnovare e a rispondere alle nuove esigenze. Di fatto esso risultò sempre più inadeguato alle istanze della disciplina ecclesiastica, al punto che venne sempre più disatteso e messo in vennero a galla, particolarmente nel diritto penale. Ci fu chi mise in discussione la stessa esistenza del diritto penale, affermando che doveva bastare alla Chiesa la sola norma disciplinare, senza la sovrapposizione di un diritto penale tecnicamente elaborato. Anche chi non arrivava a tali estremismi, non mancava di mettere in discussione anche punti appartenenti ad una lunga tradizione: si mise in discussione la distinzione tra foro esterno e foro interno, l’utilità delle pene latae sententiae, la nozione stessa di scomunica, ecc.

f) Eco di tali animate discussioni sono gli stessi principi direttivi per la revisione del Codice. Tra i dieci principi guida, alcuni riguardano il diritto penale, o direttamente, o indirettamente.

Toccano direttamente il diritto penale, i principi 9 e 2, che trattano rispettivamente il diritto penale in se stesso e la distinzione tra il foro esterno e quello interno.

Il principio nono richiama la necessità stessa del diritto penale, dal momento che la Chiesa non può essere privata della coercibilità, propria di ogni società perfetta.

Tuttavia si enuncia il principio della riduzione delle pene. Quanto all’abolizione delle pene latae sententiae, il principio direttivo è che le pene in genere siano ferendae sententiae; tuttavia non si possono abolire del tutto quelle latae sententiae, che dovrebbe essere ridotte però a pochi casi, anzi a pochissimi delitti che siano particolarmente gravi.

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Il principio secondo ribadisce la necessità del foro interno, come esso è venuto a configurarsi nella storia dell’ordinamento canonico. Il codice deve regolare i provvedimenti presi in foro interno; e si deve provvedere in modo particolare nel diritto sacramentario e nel diritto penale ad una legislazione che eviti o per lo meno riduca al minimo i conflitti tra il foro esterno e quello interno.

Toccano indirettamente il diritto penale anche altri principi direttivi: il primo che afferma la necessità di un vero ordinamento giuridico, non bastando semplicemente alcune direttive pastorali; il terzo sottolinea la necessità di altri mezzi pastorali per la correzione del reo e la protezione di certi beni giuridici; il quinto, per ciò che riguarda il principio di sussidiarietà; ed infine, il sesto, che, nella preoccupazione di salvaguardare la persona, esprime la necessità che siano definiti i diritti del singolo, in modo da evitare un uso arbitrario dell’autorità.

8. Il cammino di preparazione alla nuova codificazione La discussione previa

Il codice del 1917, anche per ciò che attiene il diritto penale, se poté ricevere un giudizio altamente positivo per la raffinata tecnica con cui era stato redatto, fu oggetto anche di tante critiche, per la ecclesiologia alla quale si ispirava e per la mancanza di coraggio nell’introdurre innovazioni.

Tuttavia, attorno ad esso si sviluppò anche un dibattito che toccò alcune questioni fondamentali come la natura stessa del diritto penale e l’introduzione o meno del principio di legalità. Altri osservarono che il diritto penale canonico in realtà non era altro che una precisa codificazione, ordinata e sistematica, di ciò che era stato elaborato nel passato. Si era quindi sostenuto che in realtà esso nasceva morto, comunque non rispondente alla nuova realtà ecclesiale alla quale doveva servire. «In effetti l’odierno diritto penale ecclesiastico vige soltanto nei riguardi di chierici e religiosi, ma è praticamente inesistente per i laici. Il cambiamento radicale del rapporto tra Chiesa e lo Stato ne è naturalmente il motivo principale, ma anche il fatto che le pene, in effetti, si sono spostate dal campo giuridico a quello della coscienza. La mescolanza storica tra prassi penitenziale e diritto penale ha fatto del diritto penale ecclesiastico un complesso ibrido che metodologicamente è quasi impossibile abbracciare. Il senso della pena, per non parlare della sua efficacia, si è in questa maniera oscurato. Oggi si svolge in tutto il diritto una discussione sul senso della pena».

Tali critiche diventarono più insistenti in occasione dell’avvio di revisione a cui fu sottoposto il codice pio-benedettino, a partire dall’annuncio che il Papa Giovanni XXIII ne fece il 25 gennaio 1959 nella Basilica di San Paolo fuori le mura. Numerose furono anche le proposte di cambiamento che vennero avanzate. Esse per altro erano molto disparate; spaziavano dall’abolizione dello stesso diritto penale, come branca specifica dell’ordinamento canonico, ad una richiesta di configurazione sempre più

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vicina al diritto penale delle comunità politiche, con il rispetto rigoroso, anche da un punto di vista formale, del principio di legalità nel campo penale. Tra gli studiosi più pensosi, si individuò il punto nodale del diritto penale consistente nel rapporto tra la via penitenziale e quella propriamente penale, tra il foro interno e il foro esterno. Si osservò che il cammino della storia portava ad una distinzione più chiara e più precisa. Il compimento di tale distinzione, che si era fatta sempre più strada nei secoli precedenti, doveva essere l’approdo alla netta separazione delle due vie e dei due fori. Campo del diritto penale doveva essere solo il foro esterno, togliendo così ogni legame con il sacramento della penitenza e liberando di un penoso gravame il confessore. L’attuazione di tale progetto avrebbe comportato numerose altre innovazioni, prima tra tutte alcune modifiche alla nozione di pena, di scomunica e di interdetto. La separazione sarebbe risultata impossibile finché la scomunica e l’interdetto avessero comportato anche la proibizione di ricevere i sacramenti della penitenza e dell’unzione degli infermi. Finché fossero rimaste tali proibizioni, sarebbe stato sempre necessario trovare una soluzione di emergenza con il conferimento al confessore del potere di rimettere la pena in foro interno sacramentale. Altra questione di un certo rilievo era la distinzione tra pene latae e ferendae sententiae, tra pene medicinali e pene vendicative-espiatorie.

Cammino di revisione

Gli elementi di maggiore rilievo nel cammino di revisione dell’ordinamento penale si hanno già nello «Schema documenti quo disciplina sanctionum seu poenarum in Ecclesia latina denuo ordinatur», inviato fin dal 1973 dalla Commissione per la revisione del codice a tutti gli organismi di consultazione. Tali elementi vengono messi in rilievo nei Praenotanda, che accompagnano lo schema legale e ne danno la ragione.

I Praenotanda hanno il chiaro scopo di presentare e spiegare i canoni del nuovo diritto penale.

a) La struttura dell’ordinamento penale: secondo lo Schema di revisione tutta la materia è racchiusa entro due parti. Una prima parte, che tratta dei delitti e delle pene in genere (diritto penale fondamentale) e una seconda parte delle pene nei singoli delitti (diritto penale materiale). La parte processuale è rinviata invece ai processi (diritto penale processuale o formale).

L’intento del legislatore è quello di dare una normativa accurata e completa per quanto riguarda soprattutto la prima parte. Si tratta dei principi fondamentali e necessari che devono essere uniformi in tutta la Chiesa, lasciando però la possibilità alla legislazione particolare, nel rispetto della legge universale, di apportare eventuali altri contributi. Lo spazio alla legislazione particolare si apre soprattutto per la seconda parte, ossia per le pene nei singoli delitti, attraverso la creazione di un diritto penale particolare che configuri ipotesi di reati e di pene, secondo le situazioni particolari.

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b) I principi generali del diritto penale: il legislatore esprime il suo intento di voler preparare un diritto penale che sia animato dallo spirito del Concilio Vaticano II, in modo che non contraddica in nulla lo stesso Concilio, ma esprima fedelmente le direttive e la mente dei Padri Conciliari stessi. Da questa affermazione principale, si fanno derivare i seguenti ulteriori principi. Tutto il diritto penale è stato limitato al solo foro esterno; è stato dato il più grande spazio alla misericordia cristiana; sono state tenute nella più alta considerazione le ragioni pastorali e si è fatto del tutto perché la punizione non risulti di danno ai fedeli, come pure sono state garantite la dignità della persona umana e la protezione dei diritti. In questa linea il nuovo diritto penale vuole presentarsi come applicazione del principio della riduzione delle pene nella Chiesa. In questa prospettiva si devono leggere non pochi canoni. In modo particolare le norme che tendono ad un uso limitato delle pene con l’invito invece a ricorrere piuttosto ad altri strumenti pastorali o giuridici; la proibizione di stabilire per legge particolare o per precetto pene gravissime; la norma che impone all’ordinario di esaminare attentamente se sia il caso di avviare o meno il processo penale; la riduzione delle pene latae sententiae a pochissimi casi; il moderato uso delle censure.

Lo stesso spirito di mitezza permea i canoni circa il delitto e la sua imputabilità; di fatto in linea di principio, la punizione è prevista solo per il delitto doloso; e la presunzione del dolo cede il passo alla presunzione della sola imputabilità. La dimensione di mitezza e di misericordia viene messa in luce anche nella parte riguardante le pene, particolarmente con l’abolizione di non poche pene vendicative/espiatorie. Ma ciò che ha maggiore rilievo circa le pene, riguarda la mitigazione degli effetti delle censure, particolarmente della scomunica. Allo scomunicato e all’interdetto non è più vietata la ricezione dei sacramenti della penitenza e dell’unzione degli infermi. In questo modo è stato possibile applicare con rigore il principio della irrogazione e della cessazione della pena soltanto in foro esterno.

La discussione più viva ebbe come oggetto proprio la questione che era stata proposta come la principale novità del diritto penale, ossia quella della separazione del foro interno dal foro esterno, con le modifiche apportate alle pene della scomunica e dell’interdetto. Essa fu considerata troppo innovativa rispetto alla tradizione e in qualche modo non ben armonizzabile con i principi teologici circa i sacramenti della penitenza e dell’Eucaristia. Prima della promulgazione del testo definitivo fu necessario ritornare alla nozione tradizionale di scomunica e di interdetto, con la conseguente necessaria relazione del diritto penale con il foro interno nel sacramento della penitenza.

9. La potestà coattiva nel codice del 1983

Il nuovo codice dedica al diritto penale il Libro VI, «Le Sanzioni nella Chiesa». Esso si articola in due parti. La prima, «Delitti e pene in genere» (cann. 1311-1399), unifica in un’unica parte quanto il codice del 1917 distribuiva in due (contiene cioè il diritto penale

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fondamentale). La seconda, «Le pene per i singoli delitti», (cann. 1364-1399) contiene il diritto penale materiale. Il diritto penale formale processuale è rinviato al Libro VII, particolarmente al processo penale (cann. 1717-1731), che a sua volta rinvia anche ai canoni che riguardano l’applicazione della pena (cann. 1341-1363).

La parte più significativa è evidentemente la prima proprio perché fondamentale. In essa infatti troviamo, anche se presupposta -in quanto il legislatore nella parte penale non ha voluto dare nessuna definizione- la nozione di delitto (can. 1321) e quella di pena (can.

1312); la determinazione dell’autorità competente a costituire le pene, sia per legge che per precetto (anche se con alcune limitazioni; cf. cann. 1313-1320), la determinazione delle singole pene, sia medicinali che espiatorie, previste per la punizione dei delitti; il cammino applicativo (cann. 1341-1363), sia per l’irrogazione che per la dichiarazione delle pene e quello per la cessazione delle stesse pene, sia in foro esterno che in foro interno, anche sacramentale (cann. 1354-1363).

Anzitutto è facile osservare che il legislatore non ha accolto la richiesta dell’abolizione dello stesso diritto penale come pure quello di trasformarlo semplicemente in un diritto disciplinare o in un cammino penitenziale. Ugualmente si deve dire circa la richiesta dell’abolizione del foro interno dall’ordinamento canonico e particolarmente dal diritto penale. C’è da osservare però che con il can. 130 il legislatore ha offerto un chiarimento di grande importanza circa la natura del foro interno.

Per il resto, sostanzialmente non si riscontrano novità di rilievo rispetto a quello precedente; né si sono realizzate le aspettative che erano preannunciate all’inizio del cammino della revisione; non è stato portato a compimento lo sviluppo del diritto penale rispetto al cammino penitenziale, indicato dalla dottrina come il nodo principale di tutto il sistema penale canonico.

Vanno ricordate anche le novità che hanno dato un maggiore respiro alla discrezionalità del superiore e quindi più spazio alla mitezza e alla misericordia nonché alla garanzia dei diritti della persona. In questa prospettiva è da rilevare soprattutto il can. 1341, ritenuto il canone dal quale traspare meglio lo spirito nuovo del diritto penale.

In relazione al principio di legalità, ci si è posta ancora una volta la domanda se il nuovo codice di diritto canonico ha conservato o meno tale principio. Va subito detto che ci ritroviamo di fronte a tutti i motivi di discussione che avevamo già avuto nel precedente codice. Non avendo più la definizione di delitto, rimane in qualche modo presupposta la necessità dell’elemento legale, ossia della sanzione annessa alla violazione perché si abbia un delitto. Di fatto questo elemento non appare più nel can. 1321, ma sembra indubbio che è richiesta. Di fatto lo stesso can. 1399, che risulta una nuova edizione del can. 2222 §1 del codice del 1917, presuppone tale necessità, altrimenti esso stesso non avrebbe senso. Ma è anche vero che proprio in questo caso è previsto, in casi di particolari gravità, che il superiore possa procedere ad una punizione anche senza una

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norma penale. Se lo intendiamo con tutte le implicazioni, anche formali, che esso comporta va detto chiaramente che nell’ordinamento canonico tale principio non è applicato. Di fatto la pena può essere costituita, ancora oggi, sia per legge che per precetto; ma ancora di più c’è da dire che le pene dell’ordinamento canonico sono nella grande maggioranza facoltative o indeterminate; per di più il superiore, in base al can.

1341, gode di un’amplissima discrezionalità sull’avvio del processo penale, sull’irrogazione della pena e sul tipo di pena (cann. 1343-1349).

Anche a riguardo della via da seguire, se amministrativa o giudiziale, il superiore e il giudice ecclesiastico hanno una grande possibilità di opzione (cann. 1342 e 1718).

Risulta indubbio che troppi e tanti sono gli elementi formali che mancano al principio di legalità, come esso è in vigore presso gli ordinamenti civili, perché si possa parlare dell’applicazione del principio della certezza del diritto nell’ordinamento canonico. Ma anche se ci limitiamo al solo aspetto sostanziale, ossia che non si può punire un fedele senza che esista una legge penale previa, rimane problematica la norma del can. 1399, che prevede la possibilità, sia pure solo in alcuni casi, di punizione senza la norma penale previa.

Il cammino di revisione fu lungo e faticoso. Una tappa di grande rilievo fu senza dubbio lo «Schema documenti quo disciplina sanctionum seu poenarum in Ecclesia latina denuo ordinatur», preparato dalla Commissione per la revisione del codice ed inviato per la consulta nel 1973. Esso, salve alcune modifiche, in qualche caso anche di rilievo, rimase, nella sua struttura di fondo, sostanzialmente intatto fino al testo definitivo del codice del 1983. Alcune osservazioni.

a) La materia del diritto penale è collocata nel nuovo codice nel Libro VI, prima dei processi (libro VII), diversamente dal codice precedente. La scelta sembra più razionale.

b) La materia risulta enormemente abbreviata: rispetto ai 220 canoni del codice precedente, oggi abbiamo soltanto 89 canoni. Le ragioni di questa brevità sono molteplici. Anzitutto si tratta dell’applicazione del principio di ridurre le pene nella vita della Chiesa. Un secondo motivo risiede nel principio di sussidiarietà: la nuova legislazione preferisce rinviare al diritto particolare una normativa penale, particolarmente per quello che riguarda la configurazione dei delitti con le rispettive pene. Un terzo motivo sta nel fatto che parecchi istituti, come quelli della riserva della pena, delle pene latae sententiae, della remissione delle pene, ecc, sono stati aboliti o semplificati. Infine, un quinto motivo è di ordine piuttosto tecnico: l’abolizione delle definizioni e una più ordinata distribuzione della materia hanno portato ad una drastica riduzione di canoni.

c) La struttura della materia, benché sostanzialmente sia quella del precedente codice, risulta anch’essa semplificata. Le prime due parti, i delitti e le pene in genere, sono state unificate in una. L’attuale materia pertanto risulta distribuita soltanto in due parti:

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la prima va dal can. 1311 al can. 1363, ed ha come titolo: «I delitti e le pene in genere».

La seconda, dal can. 1364 al can. 1399, ha come titolo «Le pene nei singoli delitti».

d) La materia della prima parte viene distribuita in quattro titoli che trattano successivamente della punizione dei delitti in genere (tit. I); della legge e del precetto penale (tit. II); del soggetto sottoposto a sanzioni penali (tit. III); delle pene e delle altre punizioni (tit. IV); della applicazione delle pene (tit. V) e della loro cessazione (tit. V).

Come si vede, si tratta delle tre fasi attraverso cui passa la legislazione penale: la fase costitutiva della pena (titoli I-IV), quella applicativa (tit. V) e quella della cessazione o remissione (tit. VI).

Quella costitutiva è senz’altro la più complessa e delicata. Essa implica che venga chiarito anzitutto il fondamento del diritto penale e siano precisate le nozioni fondamentali di delitto e pena, come pure sia regolata la potestà coercitiva stessa nella sua fase normativa e quindi si precisi l’imputabilità del delinquente e si descrivano correttamente le pene che possono essere applicate.

e) Il titolo del libro VI (De Sanctionibus) è nuovo. Il precedente codice più semplicemente diceva: «De delictis et poenis». Lo Schema del 1973 prevedeva la dicitura: «Disciplina sanctionum seu poenarum». In ogni caso il libro VI presenta un vero diritto penale, distinto dalle altre branche dell’ordinamento giuridico, che ha i suoi fondamenti nelle nozioni di delitto e di pena, nella configurazione delle diverse ipotesi di reati, con la previsione delle pene corrispondenti, nella regolamentazione della potestà coercitiva, in tutte le sue fasi.

f) La parola «sanzione» (sanctio), senza altra aggiunta, non ricorre frequentemente nel codice. Nel libro VI si trova solo nel titolo, altrove la si ritrova solo nel libro I, can. 96, e nel libro VII, can. 1457 §2. Con la qualifica «poenalis» ricorre soltanto nel libro VI, e precisamente nel can. 1311 e nel can. 1312 §1.

Il significato fondamentale della parola «sanzione» indica un intervento del superiore o della legge, per autenticare, per approvare, per controllare o per creare un vincolo giuridico o imporre una pena. Ora di tali diritti si può essere privati solo attraverso una sanzione canonica e in particolare penale. Altre «sanzioni», nel senso generale di legge o interventi, concedono oppure tolgono diritti a livello generale, ma non tolgono l’esercizio di diritti o doveri che già si possiedono.

g) Infine può essere utile un cenno sul significato della parola «disciplina» che troviamo nello schema del 1973. Tale parola però, particolarmente con l’aggiunta del termine

«ecclesiastica», la si ritrova frequentemente nel linguaggio corrente, anche giuridico (cf. cann. 326 §1; 342; 436 §1, 1; 445; 305 §1; 392 §2) e nel diritto penale ricorre specificamente nel can. 1317. Ha un significato molto ampio ed esprime semplicemente tutto il complesso delle leggi della Chiesa, sia universali che particolari. Questo è il senso con cui la usa il Papa nel titolo della Costituzione con cui è stato promulgato il nuovo codice: «Sacrae disciplinae leges». Il portato di tale espressione ha una lunga tradizione. La parola «disciplina» -da «discere» (imparare)- evoca lo stato del discepolo che va a scuola e che deve modellare la sua vita su una disciplina-norma, perché da essa la vita risulti ordinata e disciplinata. Trasponendo il

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concetto al discepolo cristiano, questi, proprio perché «discepolo», deve stare in ascolto del Maestro-Cristo, perché impari da Lui la norma del suo comportamento - la disciplina- e su di essa modelli la sua vita così che egli realizzi l’ideale del discepolato e tutta la sua vita ne risulti ordinata e disciplinata. Dal momento poi che il discepolo impara la disciplina del Maestro alla scuola della Chiesa, questa è chiamata a proporgli, a nome dello stesso Maestro, la disciplina che deve regolare la sua vita e la stessa Chiesa è anche chiamata a determinarla e a precisarla. La normativa della Chiesa è pertanto la disciplina con la quale essa regola la vita dei discepoli nella comunità cristiana, perché costoro, modellando su di essa la propria vita, realizzino la vocazione cristiana. Il campo di tale disciplina è amplissimo:

riguarda e comprende tutto il servizio che la Chiesa deve svolgere in favore dei fedeli per il raggiungimento del loro fine, la salvezza delle anime, sia che la Chiesa operi in funzione del bene comune nel foro esterno, così da creare le condizioni adatte perché i fedeli possano trovare le situazioni più idonee alla salvezza, sia che essa guidi personalmente il fedele, particolarmente nel foro interno, verso la meta della salvezza eterna. Precisando ulteriormente, possiamo dire che la disciplina della Chiesa riguarda sia il suo ministero di governo, che quello di magistero e di santificazione, secondo la triplice funzione di Cristo e della Chiesa. Dobbiamo dire anche che rientra nella disciplina ecclesiastica non solo il diritto positivo da essa costituito, ma anche quello divino, sia naturale che positivo, in quanto la Chiesa proclama questo non meno normativo per la vita dei fedeli. Anzi il diritto positivo ha valore soltanto in quanto non in contraddizione con quello divino. Spetta alla Chiesa «dichiarare autenticamente» il diritto divino naturale (cf. can. 1075 §1) e «annunciare sempre e dovunque i principi morali anche circa l’ordine sociale, e così pure pronunciare il giudizio su qualsiasi realtà umana, in quanto lo esigono i diritti fondamentali della persona umana o la salvezza delle anime» (can. 747 §2). Fanno dunque parte della disciplina della Chiesa anche le norme morali di diritto naturale che essa ha il compito di interpretare e di proporre in modo autentico all’osservanza dei suoi fedeli.

Si può pertanto riassumere tutto il nostro discorso dicendo che per tanti secoli la Chiesa ha chiamato disciplina tutto il complesso di norme sulle quali il discepolo -cioè il fedele- deve modellare la propria vita per realizzare la sua vocazione, sia a livello individuale che comunitario, sia direttamente e immediatamente nei suoi rapporti con Dio che con la Chiesa stessa.

La disciplina ecclesiale consiste in concreto in quell’insieme di norme e di strutture che danno una configurazione visibile e ordinata alla comunità cristiana, regolando la vita individuale e sociale dei suoi membri perché sia in misura sempre più piena, e in aderenza al cammino del popolo di Dio nella Chiesa, espressione della comunione donata da Cristo alla sua Chiesa. Nel suo senso più ampio essa può comprendere anche le norme morali, mentre in un significato più ristretto designa le sole norme giuridiche e pastorali». La Chiesa è stata sempre consapevole della peculiarità della sua natura e della sua missione, come pure degli strumenti idonei per raggiungere il suo fine. Per secoli ha rifiutato di chiamare leggi le norme che essa ha prodotto per regolare la sua vita ed ordinamento giuridico il complesso di esse; ha preferito così

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ricorrere al termine «disciplina». Questa, essendo chiamata a regolare la vita della comunità dei santi e dei fedeli stessi, partecipa alla dignità ed alla nobiltà del fine.

Giovanni Paolo II l’ha ricordata come «la grande disciplina della Chiesa [...] quale collaudata ricchezza della sua storia». Non si può dimenticare però che con il trascorrere del tempo, all’interno della stessa disciplina unica, intesa come ordinamento canonico, fu introdotta una distinzione, che rimane tuttora nel nuovo codice e che ha un grande rilievo. Furono distinte le norme puramente disciplinari da quelle di governo, penali o processuali. In questa distinzione le norme disciplinari vennero ad indicare quelle norme che regolano piuttosto la vita dei fedeli a livello sia personale che comunitario. Pensiamo che sia particolarmente per questo motivo che alcuni avrebbero preferito introdurre la parola «disciplinare» nel campo del diritto penale, fino al punto da desiderare di abolire lo stesso diritto penale come campo specifico, con tutte quelle precisazioni connesse con il delitto e la pena, di cui abbiamo fatto cenno. Non si trattava certo di abolire semplicemente l’esercizio della potestà coercitiva, ma ricondurla semplicemente all’interno di una normativa disciplinare, senza le categorie giuridiche strettamente penali. In realtà la parola disciplina non esclude un ordinamento giuridico penale specifico come campo o settore dell’unico ordinamento canonico, che può essere chiamato giustamente penale, con tutta quella forza evocativa cui abbiamo fatto cenno e che permea anche il diritto penale canonico. Ed è precisamente questo che conferisce al diritto penale canonico una sua inconfondibile peculiarità che sarà necessario fare emergere al momento della presentazione che ne dovremo fare nelle pagine successive; in modo particolare la pastoralità e la benignità o misericordia, che il legislatore ha voluto tanto sottolineare nella nuova legge penale della Chiesa. Volere abolire semplicemente il diritto penale per confonderlo con quello disciplinare in genere non sarebbe stato certo un progresso, ma avrebbe significato semplicemente abolire secoli di storia e di impegno teso a che la tecnica giuridica serva anch’essa alla protezione dei diritti, alla disciplina ecclesiastica e al bene delle anime.

10. Il Codice dei canoni della Chiese orientali (CCEO)

Per cogliere il senso della potestà coattiva nella Chiesa, è opportuno dare uno sguardo, anche se molto fugace, anche al diritto penale del codice dei canoni delle Chiese orientali. Esso è frutto dello stesso legislatore del codice latino; ed è espressione della stessa Chiesa cattolica. Esso pertanto va letto in complementarità con quello latino, particolarmente là dove si tratta di questioni che hanno una certa rilevanza dottrinale.

Effettivamente alcune proposte innovative, considerate nodali nel sistema penale latino, sono state viste nella prospettiva piuttosto dottrinale e accantonate, sotto la pressione di motivi dottrinali. Un accenno alla soluzione opposta adottata per le stesse questioni dal codice orientale ridimensiona senz’altro l’aspetto dottrinale di esse e le riconduce semplicemente e più correttamente all’aspetto giuridico e di giudizio di opportunità pastorale. Accenniamo alle seguenti: 1) la proibizione delle pene latae sententiae; 2) la irrogazione e la remissione della pena solo in foro esterno; 3) la procedura giudiziale come via normale; 4) l’esistenza di una pena che esclude dalla

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sola Eucaristia; 5) accettazione senza l’eccezione del principio «nulla poena sine lege poenali praevia».

Apre il titolo dedicato alla materia penale il can. 1401, che colloca la potestà coattiva all’interno di un’attività pastorale volta a ricondurre il peccatore all’ovile e che ricorre alla punizione soltanto quando non esistano altri mezzi pastorali atti, e vede la pena in funzione di medicina, di prevenzione e di ristabilimento della disciplina ecclesiastica.

Segue poi la materia riguardante l’applicazione della pena: comprende tre canoni (cann. 1402-1404).

Il can. 1402 afferma chiaramente anzitutto il principio che la pena canonica va irrogata per via giudiziale. Riconosce tuttavia la possibilità della via amministrativa solo là dove fanno da ostacolo «graves causae» e esistano prove «certae» del delitto. Il giudizio su tale possibilità deve essere emesso esclusivamente dalla Sede Apostolica, dal Patriarca, dall’Arcivescovo Maggiore, dal Vescovo Eparchiale e dal superiore maggiore di un istituto di vita consacrata con potestà ordinaria di governo. Da tale possibilità inoltre sono escluse le pene della privazione dell’ufficio, del titolo, delle insegne o della sospensione oltre un anno, della riduzione al grado inferiore, della deposizione e della scomunica maggiore.

Il can. 1403 regola il comportamento del gerarca prima di avviare il processo penale, anche là dove la legge preveda una pena obbligatoria. Egli, dopo aver udito il promotore di giustizia, può decidere di astenersi dalla procedura penale e dalla stessa irrogazione della pena, purché a suo giudizio concorrano le seguenti componenti: il reo, che non è stato ancora chiamato in giudizio, ha confessato in foro esterno il delitto al Gerarca, spinto da sincera penitenza ed ha già provveduto adeguatamente alla riparazione dello scandalo e del danno. Se si tratta però di un delitto che comporta una pena riservata all’autorità superiore, egli deve ottenere la licenza della stessa autority per astenersi dal processo giudiziale e dall’irrogazione della pena.

Il can. 1404 enuncia due principi fondamentali del diritto penale: la interpretazione benevola della pena, e la proibizione di produrre la pena da persona a persona o da caso a caso, anche se esiste la stessa, o anche più grave ratio legis.

I canoni 1405 e 1406 regolano la costituzione della pena, rispettivamente per legge o per precetto. Particolarmente carico è il can. 1405, che oltre a determinare la competenza di costituire le leggi penali, contiene anche norme pastorali sulla opportunità e necessità di stabilire leggi penali: «quatenus vere necessarium est ad aptius providendum disciplinae ecclesiasticae», o sulla necessaria unità nell’ambito di uno stesso territorio: «leges poenales iuris particularis in eodem territorio, quatenus fieri potest, uniformes sint». La costituzione della pena attraverso il precetto penale è regolata dal can. 1406: attraverso il precetto si possono imporre solo alcune pene determinate, in quanto quelle indicate nel can. 1402 §2 possono essere comminate per precetto solo dal Patriarca, con il consenso del Sinodo permanente. Viene equiparata al precetto penale l’ammonizione con la minaccia della pena mediante la quale in casi urgenti il Gerarca urge una legge non penale.

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Seguono ulteriori determinazioni sulla applicazione della pena (cf. cann. 1407-1411). Il can. 1407 regola l’ammonizione prima della irrogazione della pena. La necessità di tale previa ammonizione dipende dalla natura stessa della pena, a giudizio dello stesso Gerarca. L’ammonizione ha la funzione di far desistere dal delitto; la cessazione dal delitto si ha quando il reo sia sinceramente pentito, abbia riparato adeguatamente lo scandalo e il danno, o lo abbia seriamente promesso. Il can. 1408 stabilisce con solennità la esclusione della pena latae sententiae, salvo il diritto di introdurla da parte del Romano Pontefice o del Concilio Ecumenico, dal momento che si stabilisce che non si è sottoposti al vincolo della pena, se non dopo che sia stata emanata una sentenza o dato un decreto.

La remissione della pena è sempre e solo in foro esterno, e per di più in scritto (can.

1422). Tra le pene, esiste la excommunicatio minor che consiste nella sola esclusione della Eucaristia (can. 1431), e la scomunica maggiore (can. 1434).

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