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Cenni sulle trasposizioni animate

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Academic year: 2022

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Cenni sulle trasposizioni animate

Come già accennato in precedenza, le animazioni a cartoni animati rappresentano un fenomeno di notevole importanza nel panorama culturale ed economico giapponese. Negli ultimi vent’anni, il numero delle trasposizioni animate di opere apparse in formato cartaceo è andato crescendo in maniera esponenziale, divenendo il logico completamento di un circolo produttivo che coinvolge un numero sempre più alto di consumatori.

Dagli anni Novanta in poi, inoltre, le animazioni sembrano aver raggiunto una condizione d’apparente indipendenza dal manga:

non sono pochi i casi in cui esse sono realizzate a partire da zero, senza fare riferimento a testi preesistenti, con il vantaggio di presentare una sceneggiatura elaborata ad hoc, e quindi adeguata ai ritmi narrativi dell’immagine in movimento. Per quanto riguarda le opere di maggior successo tra il pubblico, è stato anzi deciso di realizzarne in seguito il fumetto, ovviamente seguendo una precisa politica commerciale. Nell’ultimo decennio,

specie per quanto riguarda i prodotti destinati all’infanzia, ci si trova sempre più frequentemente di fronte ad opere create appositamente per il commercio di merchandising, come giochi di carte, videogames e giocattoli in forma tradizionale: in questi casi il cartone animato diviene un ibrido tra pubblicità ed intrattenimento, come è accaduto nel caso dei Pokemon, il più eclatante fenomeno di mercato degli ultimi anni.1

1 Il fenomeno Pokemon nasce in Giappone nel 1996, con il lancio dei videogiochi “Pocket Monster Rosso” e

“Pocket Monster Blu” (presto abbreviati in Pokemon) per Game Boy, creati da Satoshi Tajiri e Tsunekazu Ishikawa. “Pokemon Giallo”, uscito nel 1998, ha riscosso sul territorio nipponico e mondiale un successo sbalorditivo, vendendo più di seicentomila copie in una sola settimana. Lo scopo di questo gioco consiste nel catturare più Pokemon possibili, addestrandoli e facendoli combattere tra loro, per diventare “maestro di Pokemon”. Il merchandising relativo ha creato, ad oggi, un giro d’affari di oltre quindici miliardi di dollari; basti pensare che il cartone animato tratto dal videogioco viene trasmesso in più di sessantotto paesi, mentre le carte da gioco hanno generato vendite globali per 13 miliardi di esemplari.

Il gioco di carte dei Pokemon

Un velivolo delle Nippon Airways con disegni dei Pokemon

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Il primo lungometraggio a riscuotere un certo successo fu

“Hakujaden” (“La leggenda del serpente bianco”), prodotto nel 1958 dalla casa d’animazione Toei e destinato alle sale cinematografiche. Il primo cartone animato, ancora in bianco e nero, creato per il mercato televisivo fu invece “Tetsuwan Atomu”, di Osamu Tezuka, che venne trasmesso in Giappone a partire dal gennaio 1963: quest’ultima opera ebbe il merito di aprire la strada ad altre produzioni per il piccolo schermo, incanalando gli sforzi degli autori di anime verso questo tipo di comunicazione massmediatica.

Per l’industria d’animazione giapponese, nata cinquant’anni dopo quella americana, non fu facile inizialmente delineare una propria identità, anche se due importanti caratteristiche separavano il mercato nipponico da quello d’oltreoceano: il fatto che l’anime nascesse appositamente per il mezzo televisivo e che fosse una realizzazione animata del manga, un prodotto di spessore, e per questo differente rispetto alle brevi strip americane.

Se si considera che il cartone giapponese stava avviando il proprio sviluppo in un periodo di particolare crisi per il mercato mondiale dell’animazione, risulta facile comprendere come alcune scelte furono direttamente influenzate dal fattore economico. Disponendo, infatti, di un budget piuttosto limitato, la realizzazione di dodici disegni al secondo – lo standard della Disney, vale a dire il numero necessario per una resa ottimale del movimento – diventava un obiettivo fuori portata per l’industria dell’entertainment giapponese.

Pertanto, passando da due fotogrammi per disegno a ben cinque, fu necessario accantonare l’idea di riuscire ad ottenere una fluidità nel passaggio da un’immagine ad un’altra: il risultato era dunque un’animazione che procedeva necessariamente a scatti. Si dovette quindi risparmiare sui movimenti intermedi a favore di quelli estremi, su cui era necessario soffermarsi per vari istanti; naturalmente l’effetto di staticità risultava molto accentuato ed i personaggi – come spesso avviene nei manga – finivano per rimanere congelati in pose estreme, conclusive, che rimandano all’estetica tipica del teatro kabuki.

Per bilanciare la staticità delle immagini, nel corso degli anni sono state elaborate tecniche elusive che utilizzano elementi extragrafici, come musiche e voci fuori campo, per compensare il problema della carenza cinetica. Oltre a ciò, il poco diffuso utilizzo del riciclaggio di alcune scene – a volte dissimulato tramite un ribaltamento speculare dei disegni che permette ulteriori risparmi – si è trasformato a sua volta in un elemento valorizzante. A volte vennero realizzati episodi utilizzando interamente scene di puntate precedenti,

Locandina di Hakujaden

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giustificandone la presenza quasi si trattasse di un’introspezione psicologica del personaggio principale, che si trovava come in un flashback, a ricordare ciò che gli era successo in precedenza. Nelle versioni italiane, inoltre, la Mediaset decise di abusare ulteriormente di quest’espediente, così da porre rimedio ad eventuali tagli apportati per andare incontro alle esigenze del palinsesto televisivo.

Questi espedienti, evolvendosi di pari passo al nuovo linguaggio, si sono trasformati col tempo in punti di forza e peculiarità dell’animazione giapponese. Così se l’inquadratura fissa del volto di un personaggio lo ritrae nell’attimo di tensione, caratterizzato dall’immancabile goccia di sudore sulla fronte e dalla bocca esageratamente spalancata, altri possono essere gli elementi di contorno che agiscono: una voce fuori campo o gli stessi pensieri del personaggio possono dare, infatti, un senso di coerenza alla scena; si potrà inoltre zoomare, avvicinandosi all’immagine, ed utilizzare come sottofondo rumori ambientali o musiche coinvolgenti.

La lentezza che sembra caratterizzare alcune scene, inoltre, rimanda ad una concezione di matrice buddhista, secondo la quale ci si può astrarre dalla realtà esterna, lasciando fluire il tempo intorno a sé: tale approccio consente, a livello narrativo, di cedere spazio a quel mondo di riflessioni, che generalmente precedono i momenti fondamentali dell’esistenza. Si potrebbe citare a questo proposito una frase de “La tigre e il dragone”, il noto film di Ang Lee, che racchiude in sé il significato di tutto il film:

“Come la verità è nel silenzio, la forza è nella quiete: non c'è lotta senza pace interiore”.

Capita spesso negli anime che la fissità dell’attesa di un evento sia vissuta in maniera intensa, attraverso l’accurato sviluppo di tutte le fasi precedenti e nella piena consapevolezza del climax. La capacità dei personaggi di esprimere fisicamente le proprie emozioni attraverso occhi sgranati e gremiti di stelle, raggi di luce e fuochi che simboleggiano l’ardore e la passione che li animano, testimonia come l’anime sia riuscito a rielaborare il dialogo in maniera inconsueta ed originale. Contrariamente al genere americano, ricco d’azione e di movimento, il cartone animato giapponese si basa sulla presenza,

Short Program di Mitsuru Adachi: una storia breve interamente senza dialoghi

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ugualmente importante, di “pieni” e di “vuoti”, di momenti di dinamismo estremo a momenti di un silenzio quasi metafisico. Il silenzio arriva a diventare a volte molto più pregno di significato di quanto non lo sarebbero mille parole: anche nella versione cartacea, infatti, esistono storie brevi completamente prive di battute, ma non per questo meno coinvolgenti, in cui tutto è incentrato su piccoli dettagli solo in apparenza privi di valore, dando grande spazio al pensiero, all’introspezione.

In quest’ottica, in questo modo ermetico di narrare, di comunicare, ogni gesto, ogni sguardo, ogni parola riacquistano significato e valore. Lo sguardo di una ragazza racconta la sofferenza indicibile e l’amore profondo e sincero meglio di qualsiasi effetto speciale, meglio di qualsiasi scena truculenta, meglio di qualsiasi racconto dettagliato e minuzioso.

Nel complesso gli eroi nipponici appaiono molto più umani dei loro corrispettivi americani, caratteristica che induce lo spettatore a simpatizzare con essi. E’ evidente come alcuni cartoni animati non abbiano alcuna intenzione di presentare ai propri spettatori un mondo irreale e falsamente edulcorato: in primo luogo perché vogliono parlare apertamente dei problemi che la vita spesso riserva, agli adulti come ai bambini; in secondo luogo poiché hanno scelto di non rivolgersi solo ai più piccoli, cercando in tal modo di creare una produzione differenziata, in grado di soddisfare i gusti di tutti.

Come già accennato, esiste un enorme mercato che ruota attorno a queste produzioni, e poiché i cartoni animati a puntate e i lungometraggi sono di solito tratti da manga di successo, essi sono già noti al grande pubblico e seguiti da fans affezionatissimi; è essenzialmente merito di questi adepti se un tale giro d’affari si alimenta, attraverso vendite vertiginose di un merchandising ricavato dall’immagine dei personaggi più amati:

pupazzetti, gomme, matite, quaderni, asciugamani, giocattoli, ed addirittura i rodovetri originali usati per la realizzazione animata. Oltre ciò, gode di ottima salute anche il mercato delle colonne sonore, quello degli home video e quello degli anime comics, fumetti a colori ricavati dai fotogrammi presi dalle puntate televisive.

Anche per gli anime va sfatato un mito negativo, creato da persone poco inclini a documentarsi: gli anime non vengono realizzati al computer, come insinuano le

accuse; al contrario, sono il frutto del minuzioso lavoro manuale di équipes di professionisti.

L'anime comics di Sailormoon

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Il problema della censura

Perfino nel mondo dei fumetti la censura non è un fenomeno nuovo: in America, durante l’epoca maccartista2, si arrivò ad istituire una Comics Code Authority (Cca) che fece approvare un cervellotico codice di regolamentazione per gli albi a fumetti. Il compito della Cca era quello di limitare drasticamente le scene d’aperta violenza, e di localizzare ed eliminare i messaggi ideologici, reali o presunti, di propaganda comunista. In Italia ed in gran parte del mondo occidentale, seppure in assenza di una simile legge liberticida, è di fatto praticata una bizzarra forma di censura, che penalizza soprattutto gli anime trasmessi dalle reti tv pubbliche e private. Alla base di quest’assurdo processo è la convinzione, da parte di quasi tutti i dirigenti di palinsesto, che il senso del pudore nipponico sia nettamente inferiore a quello nostrano. Alla luce di queste considerazioni, moltissimi cartoni animati subiscono un ridoppiaggio in italiano che comporta, spesso, stravolgimenti radicali del soggetto originale e della sceneggiatura. È molto frequente, inoltre, il taglio di lunghe scene o d’intere puntate che siano in qualche misura giudicate inadatte al pubblico di adolescenti di età inferiore ai sedici anni cui i cartoni sono destinati.

Come accennavamo in precedenza, alle origini di questo problema riguardante la censura sta il fatto che in Italia e, in generale, in tutto l’Occidente i cartoni animati sono considerati come un prodotto da destinarsi esclusivamente ai bambini. Al contrario, in Giappone, gli anime sono considerati alla stregua di veri e propri prodotti artistici al pari dei film o di qualsiasi altro prodotto dell’industria dello spettacolo; una vera e propria conferma, in questo senso, proviene dalla comparazione tra gli orari di trasmissione degli anime nei vari paesi del mondo: in Italia, infatti, i cartoni animati sono mandati in onda principalmente durante la mattina o il pomeriggio, laddove, a Tokyo, vengono spesso trasmessi in prima o, addirittura, in seconda e terza serata. Come spesso accade in risposta ad un’iniziativa proibizionista sistematica, anche nel mondo dei fumetti è sorto un movimento anticensura di nome “Adam” che si batte per salvaguardare le versioni originali degli anime trasmessi in Italia.

Questo movimento è particolarmente attivo in rete, dove è, infatti, possibile firmare una petizione di protesta contro la censura, riconoscibile dall’immagine di un fiocco blu, simile a quello del movimento in sostegno dell’AIDS.

2 Campagna anticomunista condotta negli Stati Uniti negli anni Cinquanta dal Comitato per le attività antiamericane, che prese il nome dal senatore repubblicano Joseph McCarthy che l’aveva promossa.

Il logo di ADAM Italia

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Ogni prodotto televisivo, proveniente dall’estero, presenta delle esigenze di adattamento alla realtà locale. Più la cultura d’origine del prodotto è distante da quella del paese in cui avviene l’importazione, maggiori saranno gli accorgimenti necessari per rendere comprensibile il prodotto, ad un pubblico che spesso non ha mai avuto alcun contatto con quella cultura. Un esempio evidente quanto discutibile di questo processo, per quel che riguarda l’Italia, è rappresentato dal doppiaggio dei film e degli anime giapponesi. La comodità di poter ascoltare i propri beniamini esprimersi in italiano, comporta, alle volte, lo stravolgimento dell’opera originale. Nei cartoni animati questi adattamenti sono molto più frequenti che nei film: un primo caso riguarda la sostituzione delle sigle originali degli anime, anche se gli episodi di censura sono, purtroppo, assi più numerosi. Si vedano solo alcuni dei possibili esempi:

Soppressione di gran parte delle musiche di sottofondo, specie se vocalizzate;

Tagli di carattere nazionalistico, con conseguente cancellazione di tutte le scritte in giapponese, da quelle in sovrimpressione a quelle inerenti alle singole scene del cartone;

Tagli per motivi di programmazione: se lo spazio a disposizione al netto degli inserti pubblicitari è di 20’ e la puntata ne dura 24’, vengono sistematicamente censurati quei 4’ in eccesso, senza badare che il significato della puntata resti inalterato;

Traduzioni a libera interpretazione sia dei titoli delle serie (Orange Road, ossia “Via degli Aranci”, è stato tradotto con “E’ quasi magia Johnny”) sia dei nomi dei personaggi (ad esempio Kaori di “City Hunter” è diventata Kreta in italiano).

La politica del “maggiore adattamento possibile” inaugurata dalle reti Mediaset – che spesso sfocia in una forma di stravolgimento dell’opera originale, quando non addirittura in aperta censura – ha trovato nella Rai una degna seguace. Nella versione originale di Sailor Moon, ad esempio, veniva trattato il tema dell’omosessualità, del tutto scomparso nella versione italiana, a causa di una psicologa che sosteneva che il cartone originale potesse causare turbe di natura sessuale sui bambini. Esempi di tagli sono, ad esempio, l’anime “Rossana” (“Kodomo no omocha”), “E’

quasi magia Johnny”, “Piccoli problemi di cuore”

(“Marmalade Boy”), Sailor Moon, Georgie, Lady Oscar e via dicendo.

Una scena di Georgie che venne censurata

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Il cosplay

Il termine cosplay nasce dalla sintesi del termine inglese

“costume playing”, che indica il passatempo di vestirsi come il proprio personaggio preferito di manga, anime e videogames.

Il mercato dei videogames ha acquisito sempre più importanza nel panorama mondiale, al punto che il suo fatturato complessivo ha superato addirittura quello dell’industria cinematografica. E’ quindi facile intuire quale siano la popolarità e la diffusione dei videogiochi nel mondo, e quanto alcuni personaggi siano conosciuti ed idolatrati ormai al pari degli attori cinematografici. Il fatto che si tratti di entità virtuali, infatti, sembra non implicare alcun disagio ai fans: anche il personaggio di un film, infatti, è pur sempre frutto di una fantasia, sebbene interpretato da un individuo in carne ed ossa. I soggetti femminili, in maniera particolare, hanno riscosso un grande successo, forti del fatto che, almeno nel passato, la stragrande maggioranza del pubblico videoludico fosse costituita da individui di sesso maschile.

Il fenomeno nipponico detto kosupure (cosplay, appunto) nacque dall’esigenza dei fans più sfegatati che, non appagati dal solo

possesso di gadgets raffiguranti i propri beniamini, vollero imitarne anche l’aspetto, cominciando ad organizzarsi per riprodurre i costumi stravaganti che li caratterizzano.

La maggior parte dei costumi vengono prodotti artigianalmente dagli stessi indossatori, ma la maniacalità e la cura del dettaglio con cui vengono realizzati non ha nulla da invidiare a produzioni

Himemiya Anthy, di Utena

Il trio di Occhi di Gatto

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industriali e seriali.

Il termine cosplayer (contrazione di “costume player”, “coloro che giocano con i costumi”) indica, di conseguenza, tutti coloro che amano abbigliarsi come i propri eroi, durante feste e raduni occasionali. Quello del kosupure è un fenomeno diffusissimo nel paese del Sol Levante, che

coinvolge individui delle più svariate estrazioni sociali, diventando così dilagante che gli stessi mangaka arrivano ad inventare costumi e divise sempre più elaborati e caratterizzanti, per andare incontro alle esigenze dei fanatici. Con l’avvento dei videogiochi e della crescente popolarità dei loro eroi, moltissimi cosplayers hanno cominciato a travestirsi da personaggi “elettronici”, facendo dilagare il kosupure a macchia d’olio anche al di fuori del Giappone. Il divertimento dei cosplayers sta nel realizzare con le proprie mani i costumi nella maniera più fedele possibile all’originale, facendo orgogliosamente sfoggio del proprio lavoro.

Non si tratta di un fenomeno simile al carnevale, perché lo spirito che anima il cosplayer – tornando al termine

“player” inteso nel suo significato più squisitamente etimologico – risulta simile a quello di un attore professionista. Per convincersene basterà partecipare ad una qualsiasi fiera giapponese, sperimentando in prima persona quanto sia facile fingere di essere qualcun altro, assumendone le movenze, la gestualità e perfino le pose plastiche davanti a centinaia di obiettivi fotografici.

I luoghi più amati e frequentati dai cosplayers sono ovviamente le conventions d’animazione diffuse in tutto il territorio del Sol Levante e presenti specialmente nella capitale Tokyo (si pensi al

Comiketto, la più grande convention sui manga Maron, testimonial del personaggio di Felicia

Vash de Stampede di Trigun

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nipponica).

Il fenomeno cosplay è condiviso in gran parte da fans giovani e di sesso femminile, estendendosi spesso anche a delle vere e proprie “ragazze-idolo” che hanno raggiunto fama nazionale, venendo scritturate da alcune ditte come testimonial per i loro prodotti.

Non va trascurato, inoltre, il fatto che in Giappone sono assai diffusi punti vendita dedicati esclusivamente ai cultori del cosplay, che riproducono fedelmente i costumi e l’oggettistica di molti dei personaggi manga o elettronici di maggior successo, e che effettuano vendite anche in internet a costi che, per noi italiani, sono ancora piuttosto proibitivi.

Se in un primo momento i personaggi prediletti dai cosplayers erano stati indubbiamente gli eroi degli anime, col trascorrere degli anni e con l’evoluzione dei gusti, dovuta soprattutto ad un non trascurabile ricambio generazionale, le scelte si sono differenziate e ampliate, venendo a comprendere anche numerose categorie e generi di costumi in precedenza trascurate.

Sarà sufficiente prendere visione di alcuni reportage delle ultime fiere di Tokyo per rendersi conto della strabiliante popolarità dei protagonisti di videogiochi, specie di quelli di recente produzione (basti pensare ai protagonisti della saga di Final Fantasy), ma anche dei divi di pellicole di gran successo commerciale, come il recente “La Maledizione della prima luna”, “Matrix”, “Il Signore degli anelli” ecc. nonché di alcuni personaggi di serie televisive, come “coram populo”

o “evergreen”. Stiamoparlando delle ben note guerriere di ”Sailor Moon”, piuttosto che dei famosi

“Cavalieri dello zodiaco” (“Saint Seiya”) o di personaggi che hanno fatto un nuovo “exploit” dopo anni di oblio da parte dei cosplayers, come la serie

“Cutey Honey Flash”, datato successo di Go Nagai.

Negozio di vestiti per cosplay

Sailor Mercury

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Molto in voga è anche quel sottogenere del cosplay che appartiene alla categoria “J- rock” – molti cosplayers sono specializzati unicamente in travestimenti appartenenti a questa categoria – vale a dire quella dei numerosi idoli del rock giapponese, personaggi spesso gotici e “dark” sia per quanto concerne l’abbigliamento che il trucco, tra cui annoveriamo i Malice Mizer.

Un altro interessante elemento che caratterizza le cosplayers dagli occhi a mandorla è quello di interpretare spesso ruoli maschili di personaggi belli e decisamente effeminati: i personaggi più imitati, oltre ai succitati Cavalieri dello Zodiaco, sono Grifis, il comandante della squadra dei Falchi nel manga di “Berserk”, successo di Kentaro Miura, ed un nutrito stuolo di personaggi malvagi di serie robotiche, prettamente maschili, che annoverano tra i loro personaggi i classici “belli e dannati”.

Un aspetto che spesso lascia interdetti i gaijin – termine dal lieve accento dispregiativo col quale vengono indicati gli stranieri – che prendono parte a queste manifestazioni, è costituito dal fatto che, contrariamente a quanto accade in Occidente, sia assolutamente proibito fotografare i cosplayers presenti, dal momento che numerosi addetti alla sicurezza controllano che ciò non si verifichi; solo quando il cosplayer assume una

determinata posa – generalmente confacente al proprio personaggio – è consentito scattare fotografie.

Un aspetto del tutto assente nelle conventions nipponiche è la competizione: non vengono organizzate gare di sorta, ma semplicemente passerelle che consentano la visione al pubblico.

In conclusione, dunque, sembra proprio che nessuno scopo di lucro e nessuna ambizione induca i cosplayers a realizzare costumi così dispendiosi e laboriosi: essi sembrano animati esclusivamente da una grande passione nei confronti del personaggio incarnato e, soprattutto, da un sano ed innocuo desiderio di esibizionismo.

Da pochi anni si può parlare di fenomeno cosplay anche in Italia, da quando, in altre parole, fecero la loro timida comparsa alla

Il gruppo j-rock dei Malice Mizer

Miaka di Fushigi Yuugi

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“Lucca Comics” – la più grande fiera del fumetto in Italia – ragazzi vestiti come gli eroi del momento, soprattutto Dragonball e Sailormoon; il fenomeno si è poi diffuso, in perfetta sintonia con la cospicua diffusione di manga ed anime di derivazione nipponica.

Col trascorrere degli anni la qualità tecnica dei costumi sembra essere migliorata, soprattutto grazie alla diffusione di notizie e foto di cosplayers internazionali e grazie al desiderio di perfezionare quello che, da semplice hobby, ha oggi assunto i caratteri di una vera e propria passione.

Oggi il cosplay non è un fenomeno limitato solamente alla fiera di Lucca – che ha dovuto recentemente ridurre le due edizioni di marzo e novembre ad una sola – ma

interessa anche nuove e promettenti realtà fieristiche che si prodigano nell’allestimento di valide competizioni a tema, talvolta agevolando il prezzo d’ingresso per i partecipanti in costume.

Tra queste nuove fiere va ricordata la “Comiconvention”, che si tiene l’ultimo weekend di settembre al Quark Hotel di Milano e che riscuote sempre maggiori adesioni, e la fiera “Romics” che, invece, ha luogo nella capitale italiana a metà ottobre.

Numerose sono piccole realtà ancora in crescita come il “TorinoComics”, che si tiene a fine aprile nel capoluogo piemontese.

Talvolta sono gli stessi proprietari di noti negozi

“japan related” a prendere l’iniziativa e organizzare dei cosplay contests, com’è accaduto nel settembre del 2001 a Bologna presso la fumetteria “Fat’s dream” o, ancora, nel marzo 2003 in concomitanza con l’inaugurazione del nuovo negozio “Yamato shop” a Milano.

In Italia, diversamente dal Giappone, il concetto di cosplay è spesso abbinato a delle competizioni, ed è

Un fantastico Gatsu nostrano

Ulala interpretata da Hitomi

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261 esattamente durante le gare che i

partecipanti inscenano interpretazioni – solitamente parodie farsesche, ma anche canti e balli – prima improvvisate all’ultimo momento, ora sempre più spesso preparate con largo anticipo, che danno luogo a performance davvero esilaranti, suscitando l’entusiasmo di un pubblico sempre più numeroso.

Le categorie di premio solitamente presenti in queste gare sono le seguenti:

–Miglior cosplay maschile;

–Miglior cosplay femminile;

–Miglior gruppo di cosplay;

–Miglior interpretazione;

–Premio simpatia o eventuale premio speciale (spesso in merito all’alta

qualità dei costumi e al gran numero di partecipanti).

Per cercare di dare una certa coerenza ed omogeneità alle regole di partecipazione alle gare in questione, nonché ai premi da assegnare, alcune associazioni di cosplayers si stanno attivando per creare uno statuto unico di riferimento, da consultare in caso di difficoltà e problemi da parte delle giurie di gara.

La scelta dei personaggi da interpretare è ancora molto varia in Italia, e, sebbene la presenza di videogiochi e di alcuni anime “cult” come “One Piece”, “Angel sanctuary” e l’opera omnia di Ai Yazawa sia sempre più inflazionata, sopravvivono con dignità anche i vecchi classici, che in Giappone sono stati invece pressoché dimenticati. Questo accade perché, nel nostro paese, chi si dedica al cosplay lo fa spesso per immedesimarsi con gli eroi che hanno costellato i sogni della propria infanzia. Va infatti considerato che in Italia la realtà dei cosplayers è assai varia, coinvolgendo ragazzi dai tredici ai vent’anni, fino ad arrivare al limite massimo dei trent’anni.

I protagonisti della Maledizione della Prima Luna

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Esistono, tuttavia, anche cosplayers che imitano i supereroi americani: anche se sporadicamente, a volte capita di intravedere alcuni “Il corvo” o “X- Men” tra uno stand e l’altro durante le varie conventions; sono inoltre presenti numerosi estimatori del genere fantasy e dei giochi di ruolo.

Recentemente va poi ricordata anche la presenza di eroi di film e di protagonisti di telefilm. Ai primi cosplayers storici si stanno velocemente aggiungendo sempre nuovi adepti: lo dimostra l’elevato numero di siti monotematici o personali che appaiono, di recente, in rete.

A livello europeo, l’Italia e la Francia guidano il fenomeno cosplay, sia per numero d’eventi che per livello tecnico raggiunto, seguiti a breve distanza dalla Spagna; notevolmente in secondo piano si trovano inoltre Portogallo, Germania e Inghilterra; negli altri stati, invece, il fenomeno è totalmente ignorato.

Anche i siti tematici dei cosplayers d’oltralpe sono molto numerosi, e presentano delle innovazioni proponendo costumi sempre originali ed insoliti. Anche la principale fiera francese, “Cartoonist”, rappresenta un’iniziativa assai inconsueta e ricca di spunti interessanti, ed è dotata perfino di una grande sala simile a quelle cinematografiche, con sedili ascensionali, effetti speciali ed immensi schermi, che proiettano immagini e giochi di luce.

Anche in America si parla ormai del fenomeno cosplay: i vari contests, data la vastità del territorio, vengono organizzati settimanalmente in molte città di diversi stati. I concorsi più prestigiosi si tengono in grandi centri congressuali o in lussuosi hotel e conferiscono al vincitore il premio di un viaggio in Giappone, organizzato in accordo con la Jal-Japan Airlines.

Due cosplayers americane

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263 Conclusioni

Al termine di questo lungo percorso, risulta più chiaro e definito quanto il manga sia parte integrante della cultura nipponica: la traduzione stessa di questo termine con “fumetto” non rende giustizia alla complessità del fenomeno, per via della minuziosa rete di legami che lo uniscono alla realtà socio-culturale del paese. Al di là della semplice trattazione di alcuni temi specifici, infatti, il manga si pone come mezzo attraverso cui è possibile comprendere le innovazioni ed i cambiamenti di tendenza di un panorama eterogeneo come quello del Giappone contemporaneo.

Risulta dunque importante considerare come i progressi della comunicazione giapponese, sempre più indirizzati verso un eccesso d’informazioni, abbiano generato nuovi metodi di utilizzo. In particolare, il continuo rinnovamento dei mezzi tecnologici sembra aver favorito l’interattività individuale: ci si trova, infatti, nella condizione di poter selezionare liberamente le informazioni di cui si ha bisogno, rielaborandole in maniera del tutto personale. Allo stesso modo il lettore non riceve più passivamente le informazioni del “prodotto manga”, ma le decodifica in modo estremamente soggettivo, nella libertà più assoluta.

La fruibilità cartacea, però, resta soggetta alle leggi del mercato e della produzione, che sono a loro volta condizionate non più dalla necessità d’accumulo ma da quella di consumo. Nel presente lavoro abbiamo avuto modo di notare come il rapido cambiamento economico abbia avuto come inevitabile conseguenza l’acquisto di beni superflui, determinando quindi la nascita di un nuovo target privilegiato: quello cioè dei giovani e, in particolare, delle ragazze.

Riconducendo queste dinamiche al campo specifico del fumetto, risulta chiaro quanto il manga nasca come prodotto di massa “usa e getta”1, e sia riciclato e riciclabile, leggero e divertente, facilmente comprensibile a qualsiasi tipo di lettore.

Banana Yoshimoto, una delle scrittrici giapponesi di maggior successo, definisce la sua generazione “[…] allevata a manga

1 Il tipo di carta che viene utilizzata per le pubblicazioni manga è poroso e scadente.

La coloratissima copertina di una rivista di manga shōjo,

Hana to Yume

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e televisione. E’ per questo che noi comprendiamo solo le cose che vanno veloci”.2

Questa tendenza all’utilizzo di un piacere consumistico non sfugge all’occhio scrutatore dei mangaka e degli autori di anime: non c’è da stupirsi, dunque, se i giovani protagonisti di fumetti ed animazioni manifestino una vera e propria passione nei confronti dei luoghi adibiti a tali piaceri, nella fattispecie: centri commerciali, negozi di fumetti e sale giochi, che, come si è visto, proliferano numerose in ogni metropoli giapponese.

Nemmeno l’attuale logica edilizia caratteristica delle aree urbane nipponiche sembra sfuggire alla pratica “usa e getta” tipica dei manga: secondo Günter Nitschke, direttore dell’Istituto d’Architettura ed Urbanistica Orientale a Kyoto, infatti, la città giapponese può definirsi una vera e propria “città manga”:

“La città manga è uno scenario urbano giapponese altamente competitivo, efficiente e di breve durata, costruito rapidamente e rapidamente abbattuto quando necessario. E’

altrettanto reale quanto le storie descritte nelle riviste manga. In realtà, sfogliare le pagine di un manga è proprio come andare in centro […]. La città giapponese non è un collage, dato che ciascuno di questi sarebbe ancora il risultato di un gesto cosciente di composizione globale, fosse anche per scopi provocatori o cacofonici. L’attuale paesaggio cittadino discontinuo, è il risultato diretto di volontà diverse che progettano i propri spazi lavorativi o abitativi perché si accordino alle proprie necessità, senza curarsi di ciò che i vicini hanno costruito, creando una realtà sociale frammentata”.3

Nitschke pone dunque l’accento sulla vera e propria “schizofrenia architettonica e costruttiva”

propria delle città giapponesi, attribuibile, a suo giudizio, non solo alla rapidità dei cambiamenti economici, ma anche alla necessità sempre più insopprimibile di progettare liberamente gli spazi pubblici. L’utilizzo smaliziato dello spazio e la fantasia di forme, propri dei manga, possono quindi essere facilmente individuate in quell’insieme di elementi

2 Citato in: Treat, op.cit. p.359.

3 Günter Nitschke, La città manga, di Atsushi Ueda (a cura di), Electric Geisha. Tra cultura pop e tradizione in Un negozio di fumetti giapponesi

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265 discordanti che costituiscono le metropoli giapponesi.

Analogamente alle immagini di un manga, infatti, esse sono organizzate in maniera tale da favorire una lettura immediata attraverso un rapido colpo d’occhio, per poi passare subito alla pagina successiva, rimandando al principio del michiyuki, (“camminare avanzando con gli occhi lungo una certa scenografia”).4 Effettivamente, una certa

“teatralità urbana”, favorita dai cartelloni pubblicitari, dalle insegne al neon, dalle sale di pachinko, oltre che da un sistema di scrittura estremamente versatile – che può essere fatto scorrere in eguale misura orizzontalmente da destra verso sinistra, o verticalmente da sinistra verso destra – sembra adeguarsi perfettamente alle esigenze di consumo in continua mutazione, rimandando in qualche modo alla logica visiva tipica di manga e videogames.

Persino il Governo nipponico sembra aver ormai accettato il predominio assoluto che il manga ha assunto a tutti gli effetti in ogni settore comunicativo.

A tutt’oggi si sta persino diffondendo l’uso di manga volti a pubblicizzare ordinanze cittadine, nuove leggi fiscali o misure di evacuazione in caso di disastri naturali: “Nello stile e nel

contenuto, i manga dominano la pubblicità, le telecomunicazioni e l’architettura. Il “manghese”

potrebbe essere il nuovo linguaggio per la nuova era dell’informazione”.5

Considerando, quindi, il gran numero di implicazioni che legano manga e società, si è cercato, in questa sede, di rintracciare alcuni moduli interpretativi utili alla comprensione degli aspetti fondamentali di una società dinamica ed in continua trasformazione come quella nipponica. L’importanza assunta dal fumetto come medium di massa che articola il suo linguaggio all’interno di vasti processi sociali, culturali ed economici, lo rende infatti una chiave di lettura ideale ed alternativa per un’interpretazione articolata del panorama giapponese.

4 Ivi, p. 175.

5 G.Nitschke, op.cit., p.171

Una suggestiva veduta di Tokyo

L'utilizzo del manga sul sito giapponese delle poste

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Cenni storiografici sul Giappone

Secondo le leggende tradizionali, l’Impero giapponese venne fondato nel 660 a.C.

dall’imperatore Jimmu, il presunto discendente di Amaterasu, la dea del sole. Gli archeologi, tuttavia, concordano nell’esistenza di due culture neolitiche, la più recente delle quali si collocherebbe intorno agli inizi dell’era volgare. Il periodo definito “protostorico”, compreso tra gli inizi del II sec. d.C. e la metà del V sec. d.C., testimoniò grandi progressi a livello tecnico, specialmente riguardo all’uso dei metalli: essi sono la conseguenza dei sempre più frequenti contatti con la Cina, che all’inizio avvennero principalmente col passaggio attraverso la Corea. All’interno dei testi cinesi, viene menzionata l’esistenza di una confederazione di regni, abitati da un popolo organizzato in clan a struttura fortemente gerarchica, intelligente e bellicoso. Alcuni clan si erano stabiliti nella parte settentrionale di Kyushu, altri sulle coste del mare interno: uno di questi, che agli inizi del V sec. d.C.

dominava la regione di Yamato, elevò il proprio capo al rango di Supremo Augusto Imperatore (Sumera no Mikoto), quindi iniziò a costruire, nella pianura di Nara, uno Stato basato sul modello continentale (Riforma di Taikwa, 646 d.C.).

L’assimilazione della cultura cinese: epoca Nara (710-794) e Heian (794-1185)

Dopo essersi installato al potere, il clan imperiale fu costretto a giustificare tramite principi politici e morali il proprio predominio politico, comprese le istituzioni che gli avrebbero consentito di instaurare nell’arcipelago una prima embrionale amministrazione. Per il conseguimento di questo duplice scopo, esso si rifece ai testi confuciani e ai sutra1 buddhisti, e furono prese a modello le istituzioni cinesi. Nell’arco di sei secoli, periodo in cui venne introdotto il buddhismo, si compì nell’arcipelago una rivoluzione culturale, politica ed economica, che inserì il Giappone nella sfera d’influenza cinese. Il capo del clan imperiale si convertì al buddhismo, assumendo il titolo cinese di tenno2: l’antica aristocrazia alleata al clan imperiale non rinnegò la propria origine divina, ma rafforzò il suo potere sacrale attraverso i concetti di lealtà e di responsabilità derivanti dal confucianesimo cinese.

1 Libri canonici.

2 In giapponese significa “imperatore”.

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L’epoca di Nara, così chiamata dal nome della prima capitale fissa, che venne costruita nel 710, fu caratterizzata dalla preminenza dell’antico clan dei Fujiwara e dall’assimilazione della cultura cinese, tramite l’introduzione della scrittura ideografica, la redazione di cronache nazionali (Nihongi), di un codice di leggi (Taiho), ed una riforma agraria.

Nel 794, con il trasferimento della capitale a Heian Kyo (l’antico nome di Kyoto), si aprì la cosiddetta epoca di Heian, che durò fino al 1185. Questo periodo fu contrassegnato dalla graduale perdita d’influenza del clan Fujiwara, i cui capi avevano esercitato dall’866 all’882 il potere imperiale; sul piano religioso, venne introdotta una “versione giapponese” del buddhismo, che compenetrò sempre più nella vita nazionale. D’altra parte, una nuova aristocrazia terriera riunì sotto il proprio dominio le terre che in precedenza erano state distribuite ai numerosi piccoli coltivatori. In quest’epoca nacquero i primi samurai, guerrieri che avevano il compito di amministrare e difendere i latifondi dell’aristocrazia. La nuova classe aristocratica beneficiava di numerose esenzioni fiscali e possedeva un carattere militare ben marcato: i suoi membri guerreggiavano continuamente tra loro e con il popolo degli Ainu, che abitavano nella parte settentrionale di Honshu. Verso il 1150 non restavano in lizza che due grandi famiglie, i Taira e i Minamoto. I Taira divennero abbastanza potenti da estromettere i Fujiwara, dopodiché si scontrarono con i Minamoto, dando inizio ad un periodo di aspre lotte che costituì l’età aurea della cavalleria giapponese: la battaglia navale di Dan-noura, nel 1185, consacrò il trionfo della casata dei Minamoto.

Le epoche delle dittature militari: Kamakura, Muromachi e Momyama (1185-1600)

Nel 1192, dopo la sua vittoria sui Taira, Yoritomo, capo del clan Minamoto, si proclamò shogun3, creando così una nuova istituzione, lo shogunato, destinata a durare fino al 1867.

Egli elesse capitale la città di Kamakura, 20 km a sud di Yokohama, e, dopo aver distribuito le province tra i suoi compagni d’armi, instaurò un vero e proprio regime dittatoriale. Il sorgere di questo nuovo governo non provocò, tuttavia, la fine del regime imperiale, e lo shogunato venne incorporato nelle strutture preesistenti.

La battaglia tra i Taira e i Minamoto, 1184

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L’imperatore, la sua corte, i suoi ministri continuarono a risiedere a Kyoto, anche se i suoi poteri effettivi divennero ben presto assai limitati. Nell’epoca Kamakura (1192-1333), avvenne un nuovo frazionamento del potere, questa volta a spese del regime shogunale. Dopo la morte di Yoritomo (1199) gli shikken, alcuni ambasciatori appartenenti al clan Hojo, eliminarono definitivamente la casata dei Minamoto, quindi si arrogarono il diritto di esercitare loro stessi il potere. Gli usurpatori riuscirono a conservare il potere per oltre un secolo (1200-1333), creando uno tra i periodi più prosperi della storia giapponese: grazie all’energia di Tokimune, un elemento della famiglia Hojo, il Giappone riuscì a conservare l’indipendenza nonostante la minaccia di due tentativi d’invasione mongola, nel 1274 e nel 1281.

L’enorme sforzo finanziario dovuto all’allestimento della guerra contro i Mongoli, tuttavia, rovinò le finanze shogunali, ed i grandi daimyo4 delle regioni del Sud-Est manifestarono desideri d’indipendenza. La crisi fu risolta nel 1338 da un nuovo personaggio, Takauji Ashikaga, che s’installò a Kyoto proclamandosi shogun: iniziò così il periodo detto Muromachi (1338-1573). Come già i Minamoto, gli Ashikaga si rivelarono incapaci di dare un forte governo al Giappone, preda dei dissensi provocati dalla crescente potenza dei grandi daimyo e dei monasteri buddhisti, che disponevano di veri eserciti. La loro autorità fu inoltre gravemente compromessa da uno scisma dinastico: Daigo II

(Go-Daigo), il legittimo successore di Takauji, si rifugiò nella fortezza di Yoshino a sud di Kyoto, da dove poteva mantenere la sua influenza sulle grandi famiglie guerriere, mentre un imperatore rivale, tenuto sotto la stretta sorveglianza degli Ashikaga, teneva corte a Kyoto.

Due altri fatti importanti caratterizzarono il periodo Muromachi: da una parte, lo sviluppo di del primo nucleo di una borghesia urbana; dall’altra, la ripresa dei rapporti commerciali con il continente, che erano stati interrotti dopo i primi fruttuosi contatti del VII sec. Il popolo giapponese accolse con molto favore il cristianesimo5, come pure le armi da fuoco e le tecniche militari europee.

4 Venivano chiamati con questo termine i grandi signori feudali giapponesi.

5 Agli inizi del XVII sec. si calcola che i cristiani fra la popolazione ammontassero a circa trecentomila.

Takauji Ashikaga

Oda Nobunaga

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Verso la metà del XVI sec., l’incapacità governativa degli Ashikaga divenne evidente: essi riuscirono a conservare il potere fino al 1573, soltanto perché nessuna personalità di particolare spicco era riuscita ad imporsi. Nella seconda metà del XVI sec., tuttavia, tre guerrieri di modesta origine riuscirono ad unificare il Giappone, facendolo entrare in una nuova fase storica. Il primo di essi fu Oda Nobunaga il quale, deponendo Yoshiaki, ultimo degli shogun della famiglia Ashikaga (1573), risanò le rovine accumulatesi in un secolo di guerra civile; quindi fu la volta di Toyotomi Hideyoshi, figlio di contadini, che, raggiunto il potere, completò l’opera di Nobunaga, ma trascinò l’esercito nipponico nella disastrosa battaglia di Corea, del 1598; dopo di lui governò Iyeyasu, un piccolo aristocratico di provincia della famiglia Tokugawa, che vinse i daimyo dissidenti nella battaglia di Sekigahara (1600) e, proclamandosi shogun, fondò una casata destinata a governare il Giappone per ben due secoli e mezzo.

Lo shogunato autoritario e accentrato: epoca Tokugawa (1600–1867)

Iyeyasu rese definitiva l’unità del paese, dandole un solido fondamento amministrativo e giuridico. Egli si fece conferire dall’imperatore il titolo ereditario di shogun, nel 1603, trasferendo la sede del suo governo a Yedo, l’odierna Tokyo. Ridusse quindi la classe dei daimyo sotto il proprio controllo, utilizzando una fitta rete di spie che lo informavano delle loro azioni; costrinse quindi i daimyo a trascorrere sei mesi all’anno nella capitale, lasciando le proprie mogli in ostaggio durante il periodo in cui essi tornavano nelle proprie residenze feudali; inoltre, la stessa corte imperiale fu sottoposta alla sorveglianza costante dei funzionari shogunali delegati a Kyoto.

Per quanto riguarda la politica estera, Iyeyasu e i suoi successori cercarono in ogni modo di isolare il Giappone dal resto del mondo;

a partire dal 1624, gli stranieri residenti nell’arcipelago furono colpiti da decreti di espulsione, e solo alcuni mercanti cinesi e olandesi, confinati nel 1640 nell’isola di Deshima in prossimità di Nagasaki, furono autorizzati a commerciare tramite funzionari shogunali in qualità d’intermediari. Fu vietato al popolo giapponese di espatriare, pena la morte (1633), e la capacità delle navi mercantili venne limitata in modo da rendere impossibile la navigazione oceanica. Nel 1637 scoppiò, nella penisola di

Una statua raffigurante Iyeyasu

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Shimabara, una rivolta tra la popolazione giapponese convertita al cristianesimo, che terminò con lo sterminio di trentasettemila insorti: da quel momento il cristianesimo cessò di esistere come religione organizzata.

L’epoca Tokugawa, culminata nel periodo Genroku (1687-1709), fu caratterizzata dalla rapida ascesa della borghesia cittadina, e della perdita d’influenza dell’antica casta dei daimyo, legata ad un’economia agricola. La situazione dei contadini, che costituivano la principale classe produttiva, rimase critica: lo stesso shogun dovette ripetutamente intervenire per sedare alcune violente rivolte nelle campagne. Nel corso del XIX sec. si risolsero le tensioni interne: venne abolito il dualismo imperatore-shogun, rendendo possibile la trasformazione del Giappone in uno Stato moderno. A partire dal XVII sec., i capi dei clan meridionali ed occidentali avevano manifestato un crescente interesse per le arti e la tecnologia occidentali; a partire dal 1825, le potenze occidentali esercitarono maggiori pressioni sul Giappone, chiedendo un trattamento umano per i loro naufraghi, la concessione di stazioni carbonifere nei porti giapponesi e la libertà di operare sul suolo dell’arcipelago.

L’8 luglio 1853, sbarcò al largo di Uraga, nell’odierna baia di Tokyo, il Commodoro degli Stati Uniti d’America Matthew Perry, incaricato di portare un messaggio diplomatico da parte del Presidente Millard Fillmore, con il quale si chiedeva al Giappone di uscire dal suo isolazionismo. Un anno più tardi, dopo laboriose trattative, si ottenne l’apertura di due porti per il rifornimento delle navi americane: Shimoda, nella penisola di Izu, e Hakodate, nell’Hokkaido. Nel 1856 giunse a Yedo il primo ambasciatore americano, Townsend Harris, che ottenne la firma di un trattato commerciale (29 luglio 1858), divenuto il prototipo di successivi trattati con Olandesi, Russi, Inglesi e Francesi. Questi cambiamenti aprirono il Giappone a nuove relazioni politiche, culturali e commerciali con l’Occidente, provocando un’immediata reazione da parte dei nemici del regime shogunale: molti si abbandonarono, nel nome dell’imperatore, ad una serie d’atti di violenza, e nel 1863 bombardarono le navi

mercantili occidentali in transito nello stretto di Shimonoseki. Di fronte ai potenti mezzi militari degli Occidentali che, durante lo scontro distrussero alcune fortezze giapponesi, l’impotenza del governo shogunale divenne palese: il 9 novembre 1867 Yoshinobu, ultimo dei Tokugawa, si arrese senza opporre la minima resistenza, e trasferì ogni potere all’imperatore Mutsuhito, allora quindicenne.

La flotta occidentale bombarda lo stretto di Shimonoseki, 1863

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La trasformazione del Giappone in uno Stato moderno: l’era Meiji (1868-1912)

L’inizio dell’era Meiji fu contrassegnato da due avvenimenti importanti:

1. Il trasferimento dell’imperatore nell’antica capitale shogunale di Yedo, ribattezzata in quell’occasione Tokyo (“capitale dell’Est”, per distinguerla da Kyoto, l’antica capitale imperiale);

2. L’emanazione di un rescritto imperiale (6 aprile 1868) che preannunciava l’abolizione del feudalesimo, la modernizzazione economica e amministrativa del paese e la creazione di assemblee consultive destinate a rappresentare la pubblica opinione.

La modernizzazione economica del Giappone, che avvenne in un modo incredibilmente rapido, provocò il sacrificio inevitabile delle istituzioni liberali proclamate con il rescritto imperiale. Dopo il 1868, un gruppo relativamente ristretto di uomini energici – giovani samurai, nobili della corte di Kyoto, ex funzionari shogunali – già esperti nell’esercizio del potere, prese in mano il destino del Giappone, esercitando un’enorme influenza, maggiore di quella del giovane imperatore Mutsuhito (Meiji). Tra il 1869 e il 1878 Kido, Okubo, Goto e Iwakura, alcuni riformatori, abolirono due istituzioni caratteristiche del Giappone feudale: il governo provinciale dei daimyo e la suddivisione della società in classi rigidamente distinte.

Le prime vittime di questi provvedimenti furono i samurai, che vennero privati dei loro, sia pur ridotti, mezzi di sostentamento. Nel febbraio 1877, il malcontento dei samurai scoppiò nella rivolta di Satsuma, guidata da Saigo Takamori, un riformatore “pentito”. La rivolta fu domata solo otto mesi dopo, con la vittoria del nuovo esercito nazionale, composto da soldati di leva, fornendo quindi la prova della totale supremazia del governo centrale. In politica interna il Giappone parve seguire l’esempio dell’Occidente: si diede una costituzione (11 febbraio 1889) e l’anno seguente elesse una dieta. L’adozione di un sistema parlamentare, tuttavia, non produsse istituzioni liberali: lo Stato giapponese rimase una monarchia assoluta, appoggiata ad un’alta burocrazia, costituita

L'imperatore Mutsuhito (Meiji)

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273 per lo più da ex samurai.

Dal 1870 al 1880, le associazioni di mercanti e banchieri, note con il nome di zaibatsu, realizzarono la concentrazione del capitale, procedettero all’elettrificazione dell’arcipelago e lo dotarono di una rete ferroviaria; contemporaneamente sorgevano le grandi industrie metallurgiche, tessili e minerarie. Occorre aggiungere che scopo principale della creazione di queste industrie era quello di fornire in tempi brevi all’esercito ed alla marina giapponese i mezzi per resistere ad ogni tentativo di aggressione da parte di altri Stati, anche occidentali; i beni di consumo correnti continuarono invece ad essere prodotti con i sistemi artigianali tradizionali.

L’espansione giapponese: periodo Taisho e Showa (1912-1988)

In politica estera, il primo obiettivo dei reggenti dell’era Meiji fu quello di ottenere l’uguaglianza con gli stranieri sul piano diplomatico e l’abolizione dei trattati firmati dai Tokugawa dopo il 1853. Ottenuto il riconoscimento di fatto della parità con le potenze occidentali, il Giappone intraprese un’espansione territoriale a spese dei paesi sottosviluppati dell’Asia orientale; i complotti giapponesi in Corea provocarono, nel 1894, una guerra con la Cina, nella quale si dimostrò evidente la superiorità dell’esercito e della marina nipponica.

Dopo una serie di rapide vittorie, con il trattato di Shimonoseki (1895) il Giappone ottenne dalla Cina l’isola di Formosa, le Pescadores e la penisola del Liao-tung; l’intervento delle potenze europee, esclusa l’Inghilterra, impedì tuttavia al Giappone di assicurarsi quest’ultima concessione, a beneficio della Russia. Più tardi il Giappone intervenne a fianco degli Occidentali nella guerra cosiddetta

“dei boxers” (1900), concludendo nel 1902 un trattato d’alleanza con l’Inghilterra che gli assicurò libertà d’azione in Manciuria. Nel 1904 il governo nipponico, per contrastare l’espansione russa in Corea e in Manciuria, provocò lo scoppio della guerra russo-giapponese nella quale, dopo diciotto mesi di lotta, la Russia fu costretta a capitolare a Port Arthur; di conseguenza il governo zarista dovette firmare il trattato di Portsmouth, negli Stati Uniti (settembre 1905). Il Giappone ottenne il protettorato su Manciuria e Corea (quest’ultimo venne annesso all’Impero giapponese nel 1910). Nel 1912, alla morte di Mutsuhito, si chiuse

L'imperatore Yoshihito

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ufficialmente l’era Meiji. L’espansione nipponica continuò con il successivo imperatore Yoshihito (1912-1926), il cui regno fu chiamato era Taisho. Quando nel 1914 scoppiò la prima guerra mondiale, il governo di Tokyo decise di schierarsi a fianco degli Alleati, con l’obiettivo di impadronirsi dei possedimenti tedeschi in Cina e nel Pacifico. Il 7 novembre 1914 i fucilieri della marina giapponese penetrarono nella baia di Tsingtao, dopo un assedio durato due mesi; nel frattempo le forze navali nipponiche si erano impadronite delle isole tedesche del Pacifico: le Caroline, le Marshall e le Marianne. Nel novembre 1914 il Giappone, approfittando del momento favorevole (l’attenzione degli Occidentali era concentrata sul fronte europeo), aprì un’offensiva diplomatica contro la Cina: il 18 gennaio 1915 il ministro giapponese a Pechino consegnò a Yüan Shih-k’ai una lunga lista di richieste, note con il nome di “ventuno domande”, il cui accoglimento avrebbe posto lo Stato cinese in una posizione di vassallaggio. Alla conferenza di Versailles (1919) la politica del Giappone mirò ad ottenere conferma dei suoi diritti in Cina sullo Shan-tung e sugli ex possedimenti tedeschi del Pacifico, diventando di fatto una delle cinque maggiori potenze mondiali. Sul piano della politica interna, la conseguenza immediata dello sviluppo economico e territoriale del Giappone fu, con la costituzione del governo Hara (1918), una svolta liberale: alla conferenza di Washington, del 1922, i Giapponesi acconsentirono a ritirare le loro truppe dallo Shan-tung e dalla Siberia, riducendo i propri armamenti navali. La politica conciliante dei liberali, tuttavia, suscitò l’ostilità di alcuni membri conservatori del Consiglio imperiale, che insistevano perché il Giappone continuasse la sua politica di espansione sul continente cinese. Il giovane

Hirohito, che era succeduto sul trono a Yoshihito nel 1926 iniziando l’era denominata Showa, rimase fortemente influenzato dalle pressioni del partito conservatore.

A partire dal 1932, i sostenitori dell’espansione militare inaugurarono, con l’assassinio del primo ministro Inukai (maggio 1932), una serie d’attentati contro le personalità giudicate troppo liberali: usarono la loro influenza sul governo di Tokyo per costringerlo ad impegnarsi militarmente in Cina.

Dopo alcuni drammatici eventi interni, quali un colpo di stato nel febbraio del 1936, e l’evoluzione dell’ostilità di fatto con la Cina in una vera e propria dichiarazione di guerra, iniziarono forti tensioni tra il governo giapponese e quello di Washington.

Hirohito, imperatore giapponese dal 1901 al 1989

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L’inizio della seconda guerra mondiale doveva aprire ai giapponesi prospettive più ampie: l’adesione del Giappone al patto tripartito (1940) e la sua richiesta di basi militari in Indocina gettarono le basi per entrata in guerra, a fianco della Germania e dell’Italia. In questa prospettiva, il ministro degli esteri Matsuoka s’illuse di potere assicurare la neutralità dell’URSS, firmando un trattato con il ministro sovietico Molotov. Quando però le trattative con gli Stati Uniti parvero rivelarsi infruttuose, il primo ministro Konoye si dimise: gli succedette il generale Tojo, rappresentante del partito della guerra e fautore della

“maniera forte”. Il 7 dicembre 1941, senza dichiarazione di guerra, le forze aeree della marina giapponese attaccarono la base americana di Pearl Harbor; in seguito la marina giapponese si assicurò il possesso dell’isola di Guam, di Wake e dell’arcipelago delle Aleutine, mentre venivano effettuati sbarchi a Hong Kong, nelle Filippine e nella penisola di Malacca. In meno di quattro mesi il Giappone si era assicurato un impero coloniale di 8 milioni di km², con 450 milioni d’abitanti. Il primo duro colpo inferto alla flotta nipponica fu la sconfitta nel mar dei Coralli (4/8 maggio 1942); gli Alleati, nell’estate del 1943, iniziarono un’offensiva su vasta scala, che li portò gradualmente a riconquistare il terreno perduto. Dopo la conquista americana di Saipan (1944), il primo ministro Tojo diede le dimissioni: gli succedette il generale Koiso. Nell’aprile 1945, dato che ogni speranza in un esito favorevole del conflitto pareva perduta, fu posto a capo del governo l’anziano ammiraglio Suzuki, considerato più moderato dei suoi predecessori. Il bombardamento atomico di Hiroshima e di Nagasaki (agosto 1945) evitò agli Alleati di dover sbarcare sul territorio metropolitano, che l’esercito

giapponese sembrava deciso a difendere fino all’ultimo. Le perdite di vite umane furono incalcolabili e tutte le città, ad eccezione di Kyoto, recavano i segni dei massicci bombardamenti. Il Paese era nel caos: nella sola città di Hiroshima si erano avute settantamila vittime, ed altrettante colpite dalle radiazioni. A Nagasaki, invece, le vittime avevano fatto registrare il numero di trentaseimila, mentre quarantamila erano stati i feriti. Il Museo di

Hiroshima (“The Atomic Age Museum”), insieme con le agghiaccianti testimonianze di qualche sopravvissuto, può

Hiroshima, 6 agosto 1945

Il generale Tojo

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dare solo una pallida immagine dell’inferno di fuoco che, alle prime luci dell’alba, si abbatté sulle due città ancora avvolte nel sonno.

Il 14 agosto 1945 ebbe luogo a Tokyo una riunione del Gabinetto con l’intervento personale dell’imperatore, nella quale fu decisa la cessazione delle ostilità. Come condizione, accettata dagli Alleati, fu posto che il regime imperiale dovesse continuare a sussistere, e che Hirohito potesse rimanere sul trono. Le perdite giapponesi ammontavano a questa data a circa duemila uomini, e il quaranta per cento delle sue città era raso al suolo: l’aviazione e la flotta giapponese, che era divenuta una delle più potenti del mondo, non esistevano quasi più.

Costituzione del Giappone odierno: periodo Heisei (1989- )

La nuova Costituzione giapponese, promulgata il 3 novembre del 1946, entrò in vigore il 3 maggio 1947, il “Giorno della Costituzione”. Tramite l’atto di resa, il Giappone entrava in un nuovo ordine d’idee che avrebbe interessato le istituzioni, la politica, l’economia, la società.

Da un regime di natura autocratica con a capo l’imperatore, si assistette ad una svolta democratica; l’imperatore venne ridotto a puro simbolo dello Stato e dell’unità del popolo.

Grazie a un programma di ripresa, l’economia giapponese si espanse rapidamente, trasformando il Giappone nel più riuscito esempio di economia basata sull’esportazione, assumendo una posizione dominante in settori quali l’elettronica, la robotica, l’informatica e la produzione di automobili e le attività bancarie.

L’attuale imperatore è l’anziano Akihito: il suo successore, il Principe della Corona Naruhito, ha una figlia di tre anni, Aiko, nata dal suo matrimonio con la Principessa Masako.

Vista la mancanza di eredi di sesso maschile, nel gennaio 2004 il governo ha avviato l’iter per la revisione della Legge sulla Casa Imperiale, approvata nel 1948, che consentiva la successione esclusivamente agli eredi maschi:

questo permetterà alla piccola principessa Aiko di diventare imperatrice alla morte di Akihito.

I primi soccorsi dopo lo scoppio della bomba

Naruhito e Masako con la figlia Aiko, la futura imperatrice

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Riferimenti

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