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Diritto delleRelazioniIndustriali

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Diritto delle

Relazioni

Industriali

Rivista trimestrale già diretta da

MARCO BIAGI

Pubblicazione T

rimestrale - Poste Italiane s.p.a. - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (convertito in L. 27/02/2004 n° 46) arti

colo 1, comma 1, DCB (V

ARESE)

RiceRche La solidarietà intergenerazionale nella tutela pensionistica

inteRventi La “soggettivazione regolativa” nel diritto del lavoro RelazioniindustRialieRisoRseumane Contratto di rete e disciplina dei rapporti di lavoro Democrazia e libertà endosindacale

OSSERVATORIO DI GIURISPRUDENZA ITALIANA

Opinioni a confronto sulla sentenza della Corte costituzionale n. 194/2018 Licenziamento illegittimo e trasformazione volontaria del rapporto a termine Prime pronunce sul nuovo art. 4 della l. n. 300/1970 Malattia derivante da vessazioni sul lavoro ed indennizzabilità Discriminazioni di genere, inquadramento giuridico e tutela sostanziale

Licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo Sul principio di buon andamento nei rapporti di lavoro nelle PA La violazione dei termini contrattuali del procedimento disciplinare

legislazione, pRassiamministRativeecontRattazionecollettiva Il diritto alle ferie nel lavoro a domicilio penitenziario Il “decreto dignità” e la nuova disciplina del contratto a termine Contrattazione e collaborazioni ex art. 2, comma 2, d.lgs. n. 81/2015 giuRispRudenzaepolitichecomunitaRiedellavoRo Sull’abuso del contratto a termine nella PA

N. 1/XXIX - 2019

In questo numero

Diritto delle Relazioni Industriali

1

2019

Diritto delle Relazioni Industriali fa parte della International Association of Labour Law Journals

(2)

Rivista fondata da Luciano Spagnuolo Vigorita e già diretta da Marco Biagi

Direzione

Tiziano Treu, Mariella Magnani, Michele Tiraboschi (direttore responsabile) Comitato scientifico

Gian Guido Balandi, Francesco Basenghi, Mario Biagioli, Andrea Bollani, Roberta Bortone, Alessandro Boscati, Umberto Carabelli, Bruno Caruso, Laura Castelvetri, Giuliano Cazzola, Gian Primo Cella, Maurizio Del Conte, Riccardo Del Punta, Raffaele De Luca Tamajo, Pietro Ichino, Vito Sandro Leccese, Fiorella Lunardon, Arturo Maresca, Luigi Mariucci, Oronzo Mazzotta, Luigi Montuschi, Gaetano Natullo, Luca Nogler, Angelo Pandolfo, Roberto Pedersini, Marcello Pedrazzoli, Giuseppe Pellacani, Adalberto Perulli, Giampiero Proia, Mario Ricciardi, Mario Rusciano, Giuseppe Santoro-Passarelli, Franco Scarpelli, Paolo Sestito, Luciano Spagnuolo Vigorita, Patrizia Tullini, Armando Tursi, Pier Antonio Varesi, Gaetano Zilio Grandi, Carlo Zoli, Lorenzo Zoppoli.

Comitato editoriale internazionale

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Redazione

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Comitato dei revisori

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Corso Strada Nuova, 65 – 27100 Pavia (Italy) – Tel. +39 0382 984013; Fax +39 0382 27202. Indirizzo e-mail: dri@unipv.it

Diritto delle Relazioni Industriali si impegna a procedere alla selezione qualitativa dei

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Registrazione presso il Tribunale di Milano al n. 1 del 4 gennaio 1991 R.O.C. n. 6569 (già RNS n. 23 vol. 1 foglio 177 del 2/7/1982)

Direttore responsabile: Michele Tiraboschi

Rivista associata all’Unione della Stampa Periodica Italiana

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(3)

Il licenziamento “de-costituzionalizzato”:

con la sentenza n. 194/2018 la Consulta argina,

ma non architetta

Lorenzo Zoppoli

Sommario: 1. La Corte costituzionale e il diritto del lavoro in trasformazione. – 2.

L’argine eretto dalla sentenza n. 194/2018. – 3. Luci ed ombre della sentenza. – 4. La crescente confusione dei rimedi contro i licenziamenti illegittimi. – 5. Il

bi-lanciamento che non convince. – 6. Il risarcimento del danno tra limiti

ingiustifi-cati e rischi di indeterminatezza. – 7. Appunti per una possibile pars construens.

1. La sentenza n. 194/2018 – al pari di altri recenti interventi della Corte

Co-stituzionale in tema di diritto sindacale, previdenziale e del lavoro (sentenze n. 231/2013; n. 70/2015; n. 178/2015; n. 26/2017) – è una sentenza di grande importanza ordinamentale: come tutte quelle citate, punta infatti il dito su la-cune o aporie della nostra materia evidenti da anni, sulle quali non vi è stata iniziativa legislativa capace di tenere insieme principi, regole e interessi cen-trali per la disciplina dei rapporti di lavoro. In particolare la sentenza intervie-ne sui limiti costituzionali alle tecniche sanzionatorie in materia di licenzia-menti illegittimi, ponendo fine ad un processo di progressiva “de-costituzionalizzazione” della disciplina in materia iniziata nel 2010 e prose-guita fino al decreto dignità (decreto-legge n. 87/2018) (1).

* Professore ordinario di Diritto del lavoro, Università degli Studi di Napoli Federi-co II. Il saggio, Federi-con l’aggiunta di note, riprende l’intervento al Federi-convegno I

licenzia-menti illegittimi: tecniche sanzionatorie e limiti costituzionali (dopo C. Cost. 26 set-tembre 2018 n. 194), Università degli Studi di Napoli Federico II, 12 dicembre 2018.

(1) Si veda M.P.IADICICCO, V.NUZZO (a cura di), Le riforme del diritto del lavoro.

Politiche e tecniche normative, Quaderno della rivista DML, 2016, n. 2, in particolare

il saggio di V.SPEZIALE, La mutazione genetica del diritto del lavoro, 33 ss.; sulla

continuità tra Jobs Act e decreto dignità rinvio al mio Com’è cambiato il diritto del lavoro, in A.CIRIELLO (a cura di), Giudici e cambiamenti del diritto del lavoro,

Qua-derno della rivista DML, 2018, n. 5, 329 ss. Si veda, ancor più di recente, P.P ASSA-LACQUA, Il contratto di lavoro subordinato a tempo determinato e la

somministrazio-ne di lavoro alla prova del decreto dignità, Working Paper CSDLE “Massimo

(4)

Questa volta dunque il focus della Corte si sposta dalle relazioni collettive e

dalla sicurezza sociale – tematica più propriamente di rango costituzionale per i suoi riflessi sui rapporti tra poteri pubblici o para-pubblici o sulla spesa pub-blica – al rapporto individuale di lavoro. Per giunta cimentandosi con il com-pito improbo di ri-sistematizzare il cruciale istituto del licenziamento, stravol-to da molteplici interventi legislativi, tutti dettati da notevole approssimazione e fretta, tutti incentrati sui meccanismi rimediali, ma tutti destinati ad avere un grande impatto, magari “preterintenzionale”, sull’intera disciplina della mate-ria.

Occorre a mio parere avere ben presente, specie accingendosi ad esaminare criticamente questa delicatissima sentenza, quale ruolo sta avendo nell’attuale fase storica la giurisprudenza della Corte Costituzionale nel diritto del lavoro e quale ruolo è possibile aspettarsi. Il tema è ampio: ma la sentenza n. 194/2018 è un’ottima occasione per qualche prima riflessione.

Anzitutto porrei in evidenza come la Corte, sempre più spesso chiamata a pronunciarsi con tempestività su importanti innovazioni nell’ordinamento sta-tuale o intersindacale, stia incrementando le sentenze di accoglimento, nella sua varia tipologia (meramente demolitorie o manipolatorie). In effetti c’è sta-to un primo periodo – fine anni ‘50/ metà anni ‘60 – subista-to successivo alla prima attivazione della Corte in cui alcune sentenze di accoglimento plasma-rono il nostro diritto sindacale e del lavoro, rendendo compatibile la disciplina dei codici della prima metà del Novecento con i principi della nuova Carta del 1948 (basti nominare due istituti: sciopero e prescrizione). Nel successivo trentennio di evoluzione del diritto del lavoro (1970/2000) – pure costellato da importantissime leggi di riforma e da frequenti rinvii alla Corte – le sentenze che accolgono le eccezioni di incostituzionalità sono relativamente poche o riguardanti profili non cruciali (2): con una netta prevalenza di avalli, anche

coraggiosi, alle pur variabili scelte legislative (emblematiche quelle in materia di articoli 19 e 28 Stat. lav.; di sciopero nei servizi essenziali; di “privatizza-zione” del pubblico impiego; di licenziamenti collettivi e lavori flessibili).

tecnica e politica a margine del d.l. n. 87/2018, conv. in l. n. 96/2018, Working Paper

CSDLE “Massimo D’Antona” – IT, 2018, n. 381.

(2) Riepilogano di recente i principali precedenti in tema di licenziamento G.F ONTA-NA, La Corte costituzionale e il decreto n. 23/2015: one step forward two steps back,

Working Paper CSDLE “Massimo D’Antona” – IT, 2018, n. 382, § 5, e P.SARACINI,

Reintegra monetizzata e tutela indennitaria nel licenziamento ingiustificato,

Giappi-chelli, 2018, 10 ss. Con particolare riferimento alla giurisprudenza della Cassazione si veda anche R.SANTUCCI, «Quel che resta» della reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro: un colpo mortale all’effettività del diritto leso, in AA.VV., Il regime

dei licenziamenti in Italia e Spagna: ordinamenti a confronto, ESI, 2017, 285 ss.; M.

BASILICO, La tutela del lavoratore illegittimamente licenziato ai tempi della

(5)

Anche sui referendum in materia di lavoro, la Corte lascia con generosità la parola al legislatore popolare. La situazione cambia radicalmente nel nuovo millennio: negli ultimi dieci anni infatti quasi tutte le principali riforme legi-slative sono state in qualche modo “colpite” dalla Corte costituzionale. Che si è anche attribuita un ruolo di arbitro più arcigno nel lasciare spazio a referen-dum abrogativi, pur promossi da grandi sindacati (3). Se ne deve dedurre che

la Corte ha ritenuto necessario vigilare più di prima direttamente sugli svilup-pi del diritto del lavoro onde evitare che prenda a scorrere fuori dall’alveo tracciato dalla Costituzione. Non erano allora così infondate le preoccupazioni di quanti segnalavano questo rischio nelle riforme più recenti (4).

Guardando invece alla tecnica redazionale delle sentenze, la Corte sicuramen-te rafforza o rinnova argini, ma è assai prudensicuramen-te nel fornire indicazioni sui materiali con cui costruire o ricostruire il diritto del lavoro del nuovo

(3) S.STAIANO, A.ZOPPOLI, L.ZOPPOLI (a cura di), Il diritto del lavoro alla prova dei

referendum, Quaderno della rivista DML, 2018, n. 4; M.V.BALLESTRERO, A

proposi-to di rimedi: l’improbabile resurrezione dell’art. 18 dello Statuproposi-to dei lavoraproposi-tori, in LD, 2017, n. 3-4, 495 ss., e (in versione ampliata) in corso di pubblicazione in

AA.VV., Studi in onore di Carlo Cester.

(4) Oltre ai saggi citati nelle note precedenti, si veda, tra i tanti, L.ZOPPOLI, Contratto,

contrattualizzazione, contrattualismo: la marcia indietro del diritto del lavoro, in RIDL, 2011, n. 2, I, 175 ss., e in AA.VV., Studi in onore di Tiziano Treu. Lavoro,

isti-tuzioni, cambiamento sociale, Jovene, 2011, I, 693 ss.; O.MAZZOTTA, I molti nodi

irrisolti del nuovo art. 18 dello Statuto dei lavoratori, Working Paper CSDLE

“Mas-simo D’Antona” – IT, 2012, n. 159; L.ZOPPOLI, Flex/insecurity. La riforma Fornero (l. 28 giugno 2012, n. 92) prima, durante e dopo, ES, 2012, 153 ss.; M.DE LUCA, La

disciplina dei licenziamenti fra tradizione e innovazione: per una lettura conforme a costituzione, Working Paper CSDLE “Massimo D’Antona” – IT, 2013, n. 175; V.

SPEZIALE, La riforma del licenziamento individuale tra law and economics e giuri-sprudenza, Working Paper CSDLE “Massimo D’Antona” – IT, 2013, n. 190; M.R U-SCIANO, L.ZOPPOLI (a cura di), Jobs Act e contratti di lavoro dopo la legge delega 10

dicembre 2014 n. 183, Working Paper CSDLE “Massimo D’Antona” – Collective

Volumes, 2014, n. 3; M.V. BALLESTRERO, Problemi di compatibilità costituzionale del Jobs Act, in AA.VV., Il Jobs Act: quale progetto per il diritto del lavoro? Atti del

Convegno di studio. Camera dei Deputati. 19 febbraio 2015, Rivista Giuridica del

Lavoro e della Previdenza Sociale, Lavoro e Diritto, Diritti Lavori Mercati, 2015, 21 ss.; S.GIUBBONI, Profili costituzionali del contratto di lavoro a tutele crescenti,

Wor-king Paper CSDLE “Massimo D’Antona” – IT, 2015, n. 246; A.ZOPPOLI, Rilevanza

costituzionale della tutela reale e tecnica del bilanciamento nel contratto a tutele cre-scenti, in DLM, 2015, n. 2, 291 ss.; V.BAVARO, M.D’ONGHIA, Profilo costituzionale

del licenziamento nullo, in VTDL, 2016, n. 3; B.CARUSO (a cura di), Il licenziamento disciplinare nel diritto vivente giurisprudenziale. Dal fatto insussistente alla violazio-ne delle regole procedimentali, Working Paper CSDLE “Massimo D’Antona” –

(6)

nio. Qui occorrerebbe un’analisi puntuale delle diverse sentenze (5).

Concen-trandoci in questa sede sulla n. 194/2018, si registra una particolare attenzione a delimitare davvero al minimo l’ambito dello scrutinio di costituzionalità. Nonostante la possibilità offerta dall’ordinanza di rimessione, ma anche dalle connessioni sistematiche tra le varie discipline sui rimedi ai licenziamenti il-legittimi, la Corte infatti utilizza un supermicroscopio, mettendo sotto la lente unicamente l’articolo 3, comma 1, del decreto legislativo n. 23/2015, in quan-to riferibile alla sanzione del licenziamenquan-to per giustificaquan-to motivo oggettivo intimato ad una lavoratrice assunta dopo il 7 marzo 2015, e utilizzando ogni appiglio dell’ordinanza per delimitare la pronuncia al sistema rimediale omo-logante e anelastico previsto da questa norma. Su questo poco si può dire, sal-vo rilevare come, con sorpresa di qualcuno (6), la pronuncia venga estesa an-che alla versione della norma modificata dal decreto dignità, successivo all’ordinanza di rimessione del Tribunale di Roma. Ma questa scelta – discu-tibile forse nello specifico, sebbene varie volte ammessa dalla giurisprudenza della Consulta (7) – mi pare che possa senz’altro rispondere a condivisibili

ra-gioni di economia processuale. A parte il fatto che l’effetto demolitivo del si-stema rimediale tipico del catuc sembra destinato ad estendersi comunque ol-tre l’ambito normativo pur attentamente delimitato dalla sentenza (8).

(5) Sono tutte sentenze molto commentate. Tra i tanti contributi si veda, per tutti: a)

sulla n. 231/2013, G.SANTORO-PASSARELLI (a cura di), Le rappresentanze sindacali

in azienda: contrattazione collettiva e giustizia costituzionale, Jovene, 2014; b) sulla

n. 70/2015, M. BARBIERI, M.D’ONGHIA (a cura di), La sentenza n. 70/2015 della Corte Costituzionale, Working Paper CSDLE “Massimo D’Antona” – Collective

Vo-lumes, 2015, n. 4; c) sulla 178/2015, le analisi di M.BARBIERI, Giurisprudenza

costi-tuzionale ed effetti temporali delle sentenze, M.DALFINO, L’«incostituzionalità

diffe-rita» dietro quella (asseritamente) «sopravvenuta» (a proposito di Corte cost. 178/2015), e L.ZOPPOLI, Una sentenza interpretativa di accoglimento con

manipola-zioni temporali relative allo ius novum, tutte in DLRI, 2017, n. 153; d) sulla n.

26/2017, gli AA. citati in nota 3.

(6) Cesare Pinelli nella relazione al convegno I licenziamenti illegittimi: tecniche

san-zionatorie e limiti costituzionali (dopo C. Cost. 26 settembre 2018 n. 194), cit., ha

ri-levato come nelle motivazioni lo ius superveniens venga analizzato solo per escludere

il superamento delle questioni di costituzionalità sollevate dall’ordinanza del Tribuna-le Roma.

(7) Si veda, seppure con riferimento ai giudizi in via principale, F.DAL CANTO, La

Corte e lo ius superveniens: esplosione e crisi del giudizio costituzionale in via prin-cipale, in GCost, 2014, n. 5; A.MORELLI, Il tempo del giudizio. L’incidenza dello ius

superveniens sul parametro di legittimità costituzionale e gli spazi dell’autonomia regionale, in Le Regioni, 2015, n. 5-6.

(8) Si veda Trib. Bari 11 ottobre 2018, in Boll. ADAPT, 2018, n. 36, sui licenziamenti

collettivi; Trib. Genova ord. 21 novembre 2018, in Boll. ADAPT, 2019, n. 4,

(7)

La tecnica “riduzionista” scelta nella sentenza n. 194/2018 dalla Consulta non è però a mio parere priva di conseguenze pratiche. Se infatti si vuol considera-re tale la riconduzione dell’intervento censorio del giudice delle leggi alla tas-sonomia delle sentenze di accoglimento, appare coerente con la delimitazione dell’oggetto anche la stesura del dispositivo rigorosamente di tipo “ablativo”, senza nessun richiamo alle più ricche motivazioni (in cui si ritrova il riferi-mento ai criteri legislativi di quantificazione dell’ “indennità risarcitoria”, ta-lora invero richiamati in via meramente esemplificativa). Ne consegue che la sentenza non può a mio avviso ricondursi alle manipolatorie, meno che mai additive (9).

2. Nell’assolvere la funzione di argine (o, più classicamente, custode delle

le-galità costituzionale), la Corte tuttavia si muove comunque all’interno di una ricostruzione dalle fattezze sistematiche. In questo la sentenza n. 194/2018 non è dissimile dalla più risalente giurisprudenza in tema di licenziamento, a partire dalla n. 45/1965. Ribadita la necessità della giustificazione per ogni licenziamento, ormai alquanto scontata, la Corte affronta la questione decisiva della sanzioni per i licenziamenti illegittimi. Mettendo in discussione e dando risposte, di variabile qualità, a quattro problemi:

a) natura delle sanzioni indennitarie del decreto legislativo 23/2015; b) adeguatezza delle sanzioni previste dal legislatore;

c) ruolo del giudice e criteri di quantificazione delle indennità;

d) conformità del sistema rimediale del Jobs Act alla normativa europea e internazionale.

Solo però sui problemi di cui al punto c) la Corte dà risposte chiare e abba-stanza esaurienti, con l’intento di rafforzare gli argini in cui deve scorrere il fiume legislativo della regolazione del licenziamento.

veda S.GIUBBONI, Il licenziamento del lavoratore con contratto «a tutele crescenti»

dopo l’intervento della Corte costituzionale, Working Paper CSDLE “Massimo

D’Antona” – IT, 2018, n. 379.

(9) Di questo parere invece M.T.CARINCI, La Corte costituzionale n. 194/2018

ridise-gna le tutele economiche per il licenziamento individuale ingiustificato nel “Jobs Act” e oltre, Working Paper CSDLE “Massimo D’Antona” – IT, 2018, n. 378, e,

pa-re, O.MAZZOTTA, Cosa ci insegna la Corte costituzionale sul contratto a tutele

cre-scenti, in www.rivistalabor.it, 1° dicembre 2018; A.PERULLI, Il valore del lavoro e la disciplina del licenziamento illegittimo, in corso di pubblicazione in Libro dell’anno del diritto 2019, Treccani, 2019. Più sfumati invece G.ZILIO GRANDI, Prime

rifles-sioni a caldo sulla sentenza della Corte Costituzionale n. 194/2018 (quello che le donne non dicono), in Lavoro Diritti Europa, 2018, n. 2; R.DE LUCA TAMAJO, La sentenza della Corte costituzionale n. 194 del 2018 in tema di quantificazione dell’indennizzo per licenziamento illegittimo, e P.SARACINI, Licenziamento

ingiustifi-cato: indennità risarcitoria e contenuto essenziale della tutela, entrambi in DLM,

(8)

In sintesi la Corte “colpisce” l’automatismo con cui il legislatore aveva inteso realizzare due obiettivi: rendere preventivamente calcolabile con una semplice moltiplicazione (inutile qui “scomodare” l’algoritmo) (10) la sanzione

indenni-taria in caso di licenziamento illegittimo; ridimensionare il ruolo del giudice nell’applicazione della disciplina protettiva dell’interesse del lavoratore a con-servare il (contratto di) lavoro. L’ automatismo che confinava il giudice in un ruolo poco “fastidioso” per l’imprenditore era la versione italiana del c.d. fi-ring cost anglosassone, per la verità alquanto semplificatoria anche rispetto

all’originale (11).

Questo sistema viene “bollato” dalla Consulta in quanto, essendo fondato uni-camente sull’anzianità di servizio del lavoratore, è omologante e anelastico e non consente un soddisfacente bilanciamento tra interesse dell’impresa e dirit-to alla stabilità del lavoro, così come tuteladirit-to dagli articoli 4 e 35 Cost. L’articolo 3, comma 1, del decreto legislativo n. 23/2015 prevede infatti uni-camente rimedi indennitari fissati in misura strutturalmente incompatibile con l’articolo 3 Cost. perché non ponderate né ponderabili in base ai molti fattori che possono diversificare le situazioni concrete pregiudizievoli per i lavoratori che il datore di lavoro licenzi illegittimamente. Inoltre l’automatismo sanzio-natorio è strutturato in modo tale da non configurare una sanzione ragionevole e adeguata: e sotto tale profilo contrasta anche con i parametri di cui all’articolo 24 della Carta sociale europea, considerata dalla Corte una norma interposta da applicare nel giudizio di costituzionalità in base agli articoli 76 e 117 Cost.

Tanto basta e avanza a mio parere per ottenere l’effetto ablativo del “cuore” del catuc, in cui le tutele crescenti si risolvevano interamente nel molto gra-duale incremento delle sanzioni per il licenziamento illegittimo con l’aumento dell’anzianità di servizio. Anche se l’anzianità resta un criterio per graduare la sanzione indennitaria tra il minimo (6 mensilità) e il massimo (36 mensilità) ora previste dalla norma residua, viene meno lo specifico “criterio di crescita” introdotto dal Jobs Act, a tutto vantaggio di un nuovo protagonismo giudizia-rio nella “personalizzazione” dell’indennità sanzionatoria, ritenuta dalla Con-sulta un elemento necessario per superare il suo vaglio (12).

Così la sentenza n. 194/2018 “attrezza” il nuovo argine nel sistema normativo in materia di licenziamento compatibile con i valori della nostra Carta. Il

(10) Si veda F.RUSCONI, Ancora sulla sentenza n. 194/2018 della Corte

Costituziona-le che ha cancellato l’“algoritmo” del Jobs Act, in Diritti & Lavoro Flash, 2018, n. 8,

4 ss.

(11) Si veda, per qualche spunto, M.BIASI, Saggio sul licenziamento per motivo

illeci-to, Cedam, 2017, cap. III.

(12) Così, tempestivamente, P.TOSI, Importo rimesso alla valutazione del giudice, in

(9)

to alla stabilità (13) del lavoro che gode di copertura costituzionale comporta

come “nucleo essenziale”, sul piano sostanziale, l’obbligo di motivazione del licenziamento e, sul piano rimediale, una sanzione per il licenziamento illegit-timo che può anche consistere in un’indennità compresa in un range fissato

dal legislatore (a garanzia della “certezza” per l’impresa), ma la cui precisa quantificazione deve essere “personalizzata” ad opera del giudice in conside-razione di una pluralità di fattori riguardanti sia il lavoratore sia l’impresa. Da questo nuovo “argine” costituzionale non si potrà più prescindere in futu-ro. E in questo la sentenza n. 194/2018 va senz’altro considerata una pietra miliare, tra quelle che segnano confini invalicabili.

Però, come si diceva all’inizio, venendo meno un fondamentale tassello su cui si andava edificando, assai faticosamente invero, il nuovo sistema di regola-zione del licenziamento, in questa pronuncia della Corte non si può non anda-re alla ricerca anche dei materiali con cui può mettersi al lavoro l’ architetto collettivo a cui ora tocca dare slancio e compattezza nuovi al funzionamento di un istituto cruciale per la vita dei lavoratori e delle organizzazioni.

In questa prospettiva la sentenza della Corte a mio avviso aiuta poco. E sarei addirittura tentato di rispolverare la valutazione di qualche anno addietro sulla prima giurisprudenza in materia: «sin dalle origini la Corte dà un significativo contributo all’edificazione di un sistema giuridico del licenziamento dalle basi concettuali e tecniche incerte , che appaiono distaccarsi con difficoltà da una tradizione codicistica che ancora non ha digerito l’innesto dell’imprenditore nel diritto dei contratti e che, in modo pur confuso e contraddittorio, comin-ciano però a registrare nuove sintonie tra la parte più innovativa dei principi costituzionali e i movimenti della società e della cultura giuridica mondiale» (14). Non si tratta però solo di una sentenza in linea, nel bene come nel male,

con la tradizione.

3. La sentenza n. 194/2018 si inserisce infatti in un quadro regolativo molto

ma molto più complesso di quanto non fosse quello degli anni ‘60, a suo mo-do “primitivo”. Ormai la tutela del lavoro ha conosciuto sviluppi extra-codicistici impensabili qualche decennio fa e altrettante reazioni a tutela dell’impresa, alla ricerca di certezze che non sembrano a portata di mano né nel diritto comune dei contratti né nel diritto del lavoro, pure declinato secon-do nuovi paradigmi nazionali e sovranazionali. Proprio per questo, pur salu-tando positivamente la cancellazione di norme “a bassa sensibilità sociale”, non si può non tornare a fare i conti con le urgenze di nuove tensioni

(13) Definito dalla Consulta, citando la precedente sentenza 30 giugno 1994, n. 268,

«nient’altro che una sintesi terminologica dei limiti del potere di licenziamento san-zionati dall’invalidità dell’atto non conforme» (punto 9.2 del Considerato in diritto).

(14) L.ZOPPOLI, Flex/insecurity. La riforma Fornero (l. 28 giugno 2012, n. 92) prima,

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tive, con la richiesta di avere regole a sostegno di rapporti socio-economici in grado di garantire certezze alle imprese come ai lavoratori.

Sotto questo profilo già nel 2011 – cioè ben prima del Jobs Act – la Corte co-stituzionale aveva ritenuto meritevole di «un equilibrato componimento dei contrapposti interessi» la predeterminazione del risarcimento del danno causa-to dal dacausa-tore di lavoro con l’illegittima apposizione di un termine al contratcausa-to di lavoro almeno «fino al riconoscimento della durata indeterminata» del me-desimo contratto (sent. n. 303 punto 3.3.1 del considerato in diritto) (15). La

norma scrutinata era in quel caso l’articolo 32, comma 5, della legge n. 183/2010 che determinava forfettariamente (min. 2,5/mass. 12 mensilità) l’indennità dovuta al lavoratore illegittimamente assunto a termine per il pe-riodo precedente alla ripresa del rapporto di lavoro trasformato in rapporto a tempo indeterminato. Pur nutrendo dubbi sulla qualificazione di tale obbliga-zione come indennitaria (16), quel componimento di interessi si può ritenere

(15) Critica questo passaggio C.PONTERIO, Il ruolo del giudice in un sistema

equili-brato di tutele, in A.ANDREONI, L.FASSINA (a cura di), La sentenza della Corte costi-tuzionale sul contratto a tutele crescenti: quali orizzonti? Atti del Seminario tenutosi a Roma il 14 dicembre 2018. CGIL, Sala Di Vittorio, Ediesse, 2019, 71 ss.

(16) Si veda di recente Cass., sez. un., 7 febbraio 2018, n. 2990, in RIDL, 2018, n. 3,

II, 599, con nota di G.SOTTILE, Sulla natura retributiva delle somme spettanti al la-voratore riammesso in servizio al di fuori dell’ambito di applicazione dell’art. 18, l. n. 300/1970: il cambio di rotta delle Sezioni Unite in attesa della Corte costituziona-le, che, rivedendo precedenti orientamenti dello stesso giudice di legittimità,

ricono-sce la natura retributiva delle somme dovute in virtù del ripristino del rapporto di la-voro a seguito dell’illiceità di un contratto di appalto di manodopera. E ciò in virtù di «una interpretazione costituzionalmente orientata della normativa che si deve applica-re alla fattispecie in esame […], la normativa generale del codice civile in tema di contratti a prestazioni corrispettive (art 1453 e seg cc). Una tale interpretazione, ri-spettosa degli artt. 3, 36 e 41 Cost., induce al superamento della regola sinallagmatica della corrispettività – intesa come riconoscimento al lavoratore, che chiede l’adempimento, del solo risarcimento del danno in caso di mancata prestazione lavo-rativa, pur se tale mancata prestazione è conseguenza di un rifiuto illegittimo del dato-re di lavoro in violazione dei principi di buona fede e cordato-rettezza –, tenuto conto che essa appare limitativa […]. Il datore di lavoro, il quale nonostante la sentenza che ac-certa il vincolo giuridico, non ricostituisce i rapporti di lavoro senza alcun giustificato motivo, dovrà sopportare il peso economico delle retribuzioni, pur senza ricevere la prestazione lavorativa corrispettiva, sebbene offerta dal lavoratore». Sotto questo pro-filo l’art. 18 – che anche secondo la Corte costituzionale (si veda la sentenza 23 mar-zo 2018, n. 86) definisce risarcitorie le somme dovute dal datore di lavoro prima della sentenza di reintegrazione – sarebbe peggiorativo rispetto al diritto comune, seppure giustificato dalla «correlazione di detta indennità ad una condotta contra ius del

dato-re di lavoro e non ad una pdato-restazione di attività lavorativa» (punto 4.3 del Considerato in diritto). Al riguardo però è stata sollevata eccezione di incostituzionalità da App.

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del-astrattamente equilibrato se si parte dal presupposto che nel diritto dei contrat-ti la nullità di un elemento accidentale non determina necessariamente la con-servazione del contratto (17): quindi la trasformazione (o conversione) è

nor-mativa di favore per il lavoratore rispetto al diritto comune (nel quale però ci sarebbe sicuramente la possibilità di vedersi riconosciuto il ristoro del danno integrale). La incisiva tutela del lavoratore alla conservazione del contratto può dunque essere contemperata con l’ovvio interesse del datore di lavoro a non essere esposto ad un risarcimento indefinito, ancorché evitabile da com-portamenti rispettosi dei limiti legali per i contratti a termine, perché condi-zionato da due fattori imprevedibili: a) la valutazione giudiziale sulle causali richieste all’epoca per l’apposizione del termine; b) la durata del processo.

Res melius perpensa dunque il contemperamento non riguarda un interesse

conseguente ad un atto illegittimo bensì un interesse a circoscrivere l’alea di un certo assetto normativo e processuale su cui il datore di lavoro non può in-cidere. Vero che questa alea viene poi addossata al lavoratore, ma la Corte ri-tiene tale sacrificio compensato dalla conversione/trasformazione del contrat-to precario in un contratcontrat-to “stabile”.

Si può non essere pienamente concordi con questa ricostruzione e questo as-setto. Ma non si può non convenire sul fatto che un componimento di interessi contrapposti viene realizzato senza sacrificarne drasticamente uno. In effetti ciò che appare inaccettabile in materia è una legislazione squilibrata o tutta ideologica, concepita e promossa come un risultato in sé solo perché frutto di una contingenza politica che ha consentito i necessari numeri in Parlamento e benevole campagne di stampa buone per influire sui sondaggi quotidiani. Da questo punto di vista la sentenza n. 194/2018 torna a porre l’attenzione sulla necessità di equilibrare attentamente gli interessi in gioco: «la libertà di organizzazione dell’impresa da un lato e la tutela del lavoratore ingiustamente licenziato dall’altro» oppure, citando un precedente (sentenza n. 194/1970), «la libertà di recesso del datore di lavoro dal contratto di lavoro e la tutela del lavoratore quanto alla conservazione del posto di lavoro». La Corte poi svolge un’analisi in cui assume nuova crucialità il principio di eguaglianza che

la Consulta si basa su una nozione di corrispettività ora superata dalle sezioni unite con la sentenza n. 2990/2018, cit., secondo la quale il diritto a percepire la retribuzio-ne «sussiste solo in ragioretribuzio-ne (e in proporzioretribuzio-ne) della eseguita prestazioretribuzio-ne lavorativa» (C. cost. n. 86/2018, cit., punto 4.1.2 del Considerato in diritto). Per una ricostruzione

sintonica con le sezioni unite del 2018, anche se più problematica in chiave ricostrut-tiva, si veda L.ZOPPOLI, La corrispettività nel contratto di lavoro, ESI, 1991, 180 ss.,

e, più di recente, L.ZOPPOLI, La retribuzione, in AA.VV., Diritti e doveri nel rapporto

di lavoro, Giuffrè, 2018, 357.

(17) Per questa tesi si veda A.VALLEBONA, La nullità dei contratti di lavoro “atipici”,

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diziona profondamente la razionalità dei meccanismi rimediali in materia di licenziamenti illegittimi.

Se questi sono gli indubbi meriti della n. 194/2018, tuttavia il sistema regola-tivo del licenziamento che emerge dalla sentenza ha ancora «basi concettuali e tecniche incerte». E non su dettagli, bensì su aspetti giuridici fondamentali che rendono anche meno convincente lo scrutinio di costituzionalità incentra-to sul bilanciamenincentra-to e sulla razionalità delle differenziazioni. Rilevo almeno tre aree problematiche che rendono fragile il sistema di disciplina dei licen-ziamenti.

4. Innanzitutto con la sentenza n. 194/2018 si acuiscono tutte le complicazioni

qualificatorie e concettuali che nel corso degli anni hanno afflitto la disciplina della materia. Se negli anni ‘60 si poteva partire da blande limitazioni al prin-cipio codicistico della libera recedibilità dell’imprenditore attraverso indenni-tà volte a fornire una qualche tutela ad un timido interesse del lavoratore a ve-der mitigati gli aspetti più devastanti della “estromissione dall’impresa” (18), tutto dovrebbe cambiare con la progressiva piena riconduzione del rapporto al contratto di lavoro (19). Il contratto presuppone parità sostanziale tra i

con-traenti e non solo formale; il contratto, seppur funzionale all’organizzazione (la prestazione lavorativa va resa in modo “organizzabile”), è un vincolo giu-ridico che può anche prescindere dall’organizzazione in atto (ovvero dalla

concreta utilizzazione della prestazione lavorativa); il contratto obbliga le par-ti alle rispetpar-tive controprestazioni fino a che non c’è un mopar-tivo valido per sot-trarsi ai medesimi obblighi contrattuali (20). Il licenziamento illegittimo

obbli-ga infatti innanzitutto alla “riassunzione” sin dalla prima disciplina legislativa italiana in materia (legge n. 604/1966): e già questa è una deroga, forse, dal diritto dei contratti dell’epoca in cui il recesso (istituto non previsto in genera-le per tutti i contratti di durata) ilgenera-legittimo è tamquam non esset (21). Solo un

legislatore prudente nel contemperare gli interessi – e molto attento all’interesse dell’imprenditore a non accollarsi vincoli eccessivi – consente

(18) Si veda la mia ricostruzione in Il licenziamento e la legge: una (vecchia)

questio-ne di limiti, in VTDL, 2016, n. 3, 415 ss.

(19) Questo il significato “sostanziale” dello statuto secondo L.MENGONI, L’influenza

del diritto del lavoro sul diritto civile, diritto processuale e diritto amministrativo, in DLRI, 1990, 10 ss.

(20) Altrove ho riassunto richiamandomi alla odierna “funzione” del contratto: si veda

Giustizia distributiva, giustizia commutativa e contratti di lavoro, in DLM, 2017, n. 2,

279 ss., e in AA.VV., Giuseppe Santoro Passarelli. Giurista della contemporaneità.

Liber Amicorum. Tomo I, Giappichelli, 2018, 232 ss.

(21) L.ZOPPOLI, La corrispettività nel contratto di lavoro, cit. Più di recente, con

ap-procci parzialmente diversi, L.CALCATERRA, La giustificazione oggettiva del

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l’alternativa del pagamento di penali, sotto forma di indennità (22). Anche

per-ché questo compromesso lo avevano partorito prima del legislatore le parti sociali, meno tenute a un rigoroso rispetto delle categorie giuridiche di base. A rigore il recesso è libero previo pagamento di una penale. Ma se il recesso deve essere per legge motivato (articoli 1 e 3, legge n. 604/1966), ove manchi il motivo, il recesso non produce i suoi effetti, perché manca il presupposto in presenza del quale si riconosce la facoltà di recedere. Il diritto dei contratti qui mi pare semplice e lineare (non c’è neanche bisogno di ricorrere ai principi generali del diritto europeo dei contratti, come fa il Tribunale di Lussemburgo per la reintegrazione dei funzionari Ue illegittimamente licenziati) (23). Salvo

le confusioni legislative: l’articolo 8 della legge n. 604/1966 è un compromes-so, già poco soddisfacente per la dottrina dell’epoca (e in esso già si accaval-lano indennità sanzionatorie e risarcimento del danno: dove però dottrina e giurisprudenza erano su entrambi i temi ancora ben lontani dalla odierna den-sità problematica).

Con lo Statuto la questione della coerenza logico-giuridica della tutela obbli-gatoria perde appeal dogmatico, a vantaggio di questioni di ben altra rilevanza

anche pratica. In effetti la reintegrazione pare superare d’un botto le residue incertezze del diritto comune dei contratti, accomunando nell’unico rimedio ripristinatorio tutte le invalidità dell’atto di recesso (seppure nel limitato cam-po di applicazione dell’articolo 18). Per di più la norma riconosce anche il ri-sarcimento del danno per il periodo intercorrente tra licenziamento invalido e sentenza di reintegrazione, ponendo fine all’ambiguo utilizzo del termine in-dennità, seppure aprendo la questione della natura delle somme dovute (se ri-sarcitorie o retributive), fino ad epoca più recente, in cui la giurisprudenza pa-re orientata a riconoscerne la natura pa-retributiva. Nel frattempo però questi as-setti di diritto speciale sembravano sempre più coerenti anche con l’evoluzione del diritto comune dei contratti, nel quale la tutela ripristinatoria o quella per equivalente assurgono al rango di rimedi generali (24).

Le riforme Monti-Fornero e il Jobs Act concettualmente rimescolano tutti i tasselli di questa già complessa normativa e confondono ancor più i piani.

(22) L’attuale art. 8 della l. n. 604/1966 – modificato dalla l. n. 108/1990 – dice: «è

tenuto a riassumere entro tre giorni o, in mancanza, a risarcire il danno versandogli un’indennità di importo compreso tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 6 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto». Il massimo può arrivare a 10 mensilità, se il lavoratore ha 10 anni di anzianità, o a 14, se ne ha 20. Da notare che anche l’art. 1382 c.c. sulle clausole penali parla di “risarcimento” e caratterizza la penale in quanto «dovuta indipendentemente dalla prova del danno» (secondo comma).

(23) Si veda G. ORLANDINI, Le fonti di diritto internazionale nella sentenza n.

194/2018, in A.ANDREONI, L.FASSINA (a cura di), op. cit., 103 ss.

(24) Si veda Cass., sez. un., n. 141/2006. Si veda anche Cass, sez. un., n. 2990/2018,

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Con la novella della legge n. 92/2012 sopravvivono infatti, seppure in ambiti più ristretti, reintegrazione e risarcimento (definito in un minimo e un massi-mo), ma solo nel caso di “reintegrazione debole” (articolo 18, quarto comma) al lavoratore è dovuta un’“indennità risarcitoria”, definita anche nel massimo di 12 mensilità (negli altri casi c’è sempre il riferimento al risarcimento del danno) (25). Mera “indennità” è invece definito l’importo pari alle 15 mensilità

che il lavoratore può richiedere in alternativa alla reintegrazione (articolo 18, terzo e quarto comma). Il licenziamento illegittimo in quanto immotivato – se non riconducibile alle ipotesi di cui all’articolo 18, quarto comma – viene “riabilitato” quanto ad effetto estintivo (articolo 18, quinto comma), ma san-zionato con «un’indennità risarcitoria onnicomprensiva» ricompresa tra un minimo (12 mensilità) e un massimo (24 mensilità).

Il decreto legislativo 23/2015 – lasciando sostanzialmente invariata la termi-nologia nei casi, ancor più ristretti, di reintegrazione – all’articolo 3, comma 1, per il licenziamento immotivato parla invece solo di «indennità non assog-gettata a contribuzione» e, come sappiamo, ne predetermina la quantificazio-ne.

La Consulta con la sentenza n. 194/2018 evita di impelagarsi in una “compa-razione” semantico-concettuale di tipo sistematico. Però, focalizzandosi sull’ultima terminologia legislativa (26), ne esclude nettamente l’estraneità alla

natura risarcitoria e su questa qualificazione incentra la sua “bocciatura” della legge che predetermina rigidamente il danno anziché consentirne la persona-lizzazione iussuiudicis, seppure entro un range predeterminato, di cui però i

valori massimi non si ritengono sospetti di incostituzionalità. Infine la Consul-ta non dubiConsul-ta in alcun modo che il licenziamento sia «efficace, in quanto ido-neo a estinguere il rapporto di lavoro» anche se contemporaneamente lo ritie-ne «atto illecito, essendo adottato in violazioritie-ne di […] norma imperativa (art. 1 della legge n. 604 del 1966)» (punto 10 del Considerato in diritto).

Quest’ultimo punto, a mio parere, dà luogo a un cortocircuito logico-giuridico: se il recesso è illecito perché in contrasto con norma imperativa, posta a tutela di interessi che vanno anche al di là degli interessi delle parti, il legislatore non può poi consentire la produzione dei suoi effetti. Se invece siamo fuori delle norme imperative, allora il legislatore potrebbe anche confi-gurare l’indennità in modo distinto dalla problematica risarcitoria, proponen-dosi solo di sanzionare un illecito. In questo secondo caso la tematica risarci-toria sarebbe ultronea e da rapportare al danno integrale provocato e da prova-re in giudizio (ma si veda infra).

(25) Su questo massimo già si è pronunciata, seppure incidentalmente, la già citata C.

cost. n. 86/2018.

(26) «La qualificazione come indennità dell’obbligazione prevista dall’art. 3 comma 1

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Per il modo in cui argomenta, la Corte dunque non chiarisce alcuni punti fon-damentali, ma finisce per avallare l’affastellamento legislativo delle categorie a cui ricondurre i sistemi rimediali. Un affastellamento in cui non ci sono più limiti all’arbitrio legislativo che può andare dalla duplicazione delle tutele massime (reintegrazione + integrale risarcimento del danno) fino alla prede-terminazione di indennità onnicomprensive fissate in un massimo di 6 mensi-lità (si veda l’articolo 9 del decreto legislativo n. 23/2015 per le piccole im-prese) o alla predeterminazione di indennità risarcitorie il cui massimo può

indifferentemente essere fissato a 24 o 36 mensilità (ma sarebbero insindaca-bili anche le 10/14 mensilità della legge n. 604/1966).

Ora è chiaro che non ci si può aspettare dalla Corte costituzionale un trattato di diritto dei contratti e delle teorie dei sistemi rimediali. Ma un ordine concet-tuale in cui inserire le decisioni mi pare indispensabile. E nella sentenza n. 194/2018 non mi pare che la Corte faccia una scelta che oggi molto aiuterebbe la chiarezza se non la certezza del diritto: il licenziamento va considerato all’interno del diritto dei contratti, nel quale anzitutto occorre partire dai pos-sibili effetti del recesso illegittimo (nullo o annullabile)? O va considerato unicamente come espressione di un potere imprenditoriale (non più generico “creditore”) da sanzionare considerando vari fattori di gravità dell’abuso, sep-pure sempre in modo efficace e dissuasivo (27)? Se non si dà risposta a questo

interrogativo di base – a mio parere eluso anche dalla dottrina, sin da quando si è guardato più agli effetti che alla qualificazione del licenziamento nella cornice contrattuale (28) – anche lo scrutinio costituzionale con gli strumenti

del bilanciamento e della ragionevolezza sarà poco soddisfacente. Quanto meno perché lascerà sullo sfondo una questione ineludibile: quanto il legisla-tore può discostarsi dal diritto comune dei contratti disciplinando il licenzia-mento in modo meno vantaggioso per il lavoratore destinatario di norme in-dubbiamente protettive di rango costituzionale? (29) E questo con riguardo sia

all’efficacia estintiva del recesso sia alla identificazione del danno causato dal recesso illegittimo e alla (conseguente) quantificazione del risarcimento.

5. Il secondo ambito in cui la sentenza n. 194/2018 argina fragilmente l’alveo

costituzionale della disciplina dei licenziamenti è il modo in cui si effettua il bilanciamento tra i contrapposti valori/interessi. I termini in concreto utilizzati per motivare il bilanciamento sono stati poco sopra richiamati: e già solo ci-tarli mostra come si sposi un bilanciamento alquanto generico, “orizzontale”,

(27) La “dissuasività” pure è una qualificazione della sanzione che la Corte richiama

con forza nella sentenza n. 194/2018: si vedano soprattutto i punti 12 e 12.2.

(28) Qui fondamentale è la ricostruzione di M.D’ANTONA, La reintegrazione nel

po-sto di lavoro, Cedam, 1979, su cui si vedano le mie considerazioni in Flex/insecurity. La riforma Fornero (l. 28 giugno 2012, n. 92) prima, durante e dopo, cit., 99 ss.

(29) La questione sembra potentemente riproposta dalle sezioni unite nella già citata

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tutto rimesso in fondo ad un apprezzamento giudiziale che deve esprimersi nel parametrare in concreto l’adeguatezza dell’indennità dalla natura anfibia (ri-sarcitoria/sanzionatoria). Questo bilanciamento – riconducibile al bilancia-mento caso per caso di interessi/valori costituzionalmente tutelati – non con-sente architetture sistematiche, aumenta l’incertezza giuridica, lasciando ampi spazi alla discrezionalità giudiziaria o legislativa (ad esempio sul massimo della sanzione: 10, 14, 24 o 36 mensilità?). Se anche rispondesse ad una vi-sione di fondo più sintonica con gli equilibri sistematici di common law

piut-tosto che di civil law, dovrebbe dar luogo ad una ricostruzione ben più

robu-sta, in grado di impiantare un precedente nella giurisprudenza costituzionale tale da risultare per profondità e coerenza delle motivazioni molto più vinco-lante di quanto non possa esserlo una, pur importante, sentenza ablativa resa nei già descritti termini riduttivi. Più convincente sarebbe stato allora ricorrere ad un bilanciamento di tipo definitorio, in cui si affronta anzitutto la compara-bilità dei valori costituzionali in campo, senza sfuggire alla necessità di in-staurare anche una gerarchia tra valori, principi e precetti costituzionali che, già testualmente, non sono tutti sullo stesso piano. Qui può aver ragione chi rileva che la libertà di impresa non è un valore riconosciuto in termini assoluti dall’articolo 41 Cost.; o chi rileva la persistenza di un sistema costituzionale dove ancora si staglia un forte principio lavoristico. La stessa Corte Costitu-zionale del resto lo rileva nella sentenza n. 194/2018. Per cui appare poi ben poco coerente bilanciare un diritto al lavoro ritenuto inestricabilmente connes-so a diritti della perconnes-sona e ad «altri diritti fondamentali costituzionalmente ga-rantiti» (punto 13 del considerato in diritto) con la libertà di organizzazione o di recesso dell’impresa che esplicitamente il Costituente avversa ove risultino in contrasto «con l’utilità sociale» o rechino «danno all’utilità sociale, alla si-curezza, alla dignità umana» (articolo 41, secondo comma, Cost.).

Insomma mi pare che – anche senza entrare nell’ulteriore questione di un bi-lanciamento solo formale tra diritto alla stabilità e promozione di nuova occu-pazione mediante affievolimento dei diritti dei lavoratori che la Corte utilizza per respingere la questione della conformità a Costituzione della differenza tra assunti pre e post 7 marzo 2015 (30) – il bilanciamento effettuato nella

senten-za n. 194/2018 per accogliere la diversa questione di costituzionalità del si-stema rimediale non sia convincente e presti il fianco anche alla critica di chi sostiene che in termini così formali il bilanciamento sta tutto nella previsione legale di condizioni per la legittimità del licenziamento (31). Meglio sarebbe

(30) Su cui si veda A.ZOPPOLI, op. cit.; A.PERULLI, op. cit.; G.FONTANA, op. cit.; F.

PALLANTE, Il lavoro e l’eguaglianza che non c’è, e V.SPEZIALE, La sentenza n. 194 del 2018 della Corte costituzionale sul contratto a tutele crescenti, entrambi in A.

ANDREONI, L.FASSINA (a cura di), op. cit., 27 ss. e 43 ss.

(31) M.V.BALLESTRERO, Dopo la sentenza n. 194/2018 della Corte costituzionale .

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licenzia-stato attenersi più strettamente alla sentenza 303/2011, ampliando il bilancia-mento alla luce del parametro della certezza o prevedibilità delle conseguenze dei meccanismi rimediali e considerando più specificamente sia i profili di coerenza con la disciplina generale del contratto sia il bilanciamento tra l’interesse alla certezza dei costi dell’impresa e l’interesse alla continuità del reddito da lavoro del lavoratore. Entrambi coperti da tutela costituzionale e, forse, il secondo ancor più del primo (si veda l’articolo 36 Cost., nella misura in cui prevede un’“obbligazione sociale”).

6. La terza area di fragilità dell’argine sta proprio nel collegamento troppo

stretto tra rimedi e danno instaurato dalla sentenza n. 194/2018. Qui si aprono enormi spazi interpretativi, ancor più di quelli aperti dalla sentenza n. 231/2013 con riguardo all’effettiva partecipazione alle trattative ai fini previ-sti dall’articolo 19 Stat. lav.

Anzitutto, una volta rimarcata la natura risarcitoria delle indennità, appare del tutto immotivata la fissazione di un tetto massimo al risarcimento. Perché mai il lavoratore, già penalizzato dal mancato ripristino del vincolo contrattuale, deve anche vedersi fissato un tetto al risarcimento che, come comune “dan-neggiato”, potrebbe richiedere in base al diritto civile?

Al riguardo non possono valere né le argomentazioni di cui alla sentenza 303/11 né quelle della sentenza 86/18: manca infatti la coesistenza tra ripristi-no del contratto e indennità risarcitoria. E nemmeripristi-no può valere il complesso discorso che si fa con riguardo al tetto massimo del risarcimento per il caso di illegittima apposizione del termine al contratto di lavoro pubblico, dove ci so-no altri equilibri (32) e diversi valori costituzionali da bilanciare proprio

quan-to ad oneri per la spesa pubblica.

A quest’ultimo riguardo si tira in ballo anche il c.d. “danno comunitario”, in-tendendo per tale una forfettizzazione indennitaria del danno con finalità di sanzione dissuasiva (33). Ma, a parte che questo entra in ballo proprio perché

non si attagliano bene al caso le nostre categorie civilistiche, non si vede per-ché il danno comunitario dovrebbe giustificare un trattamento legislativo dete-riore per il lavoratore. Al più il danno comunitario – fondando una deviazione dalla concezione puramente risarcitoria e aprendo la frontiera del c.d. danno punitivo – può spiegare una trasposizione di direttive comunitarie che

menti illegittimi: tecniche sanzionatorie e limiti costituzionali (dopo C. Cost. 26 set-tembre 2018 n. 194), cit.

(32) Si veda Cass., sez. un., 15 marzo 2016, n. 5072, secondo cui, vista l’esclusione

legislativa della conversione del contratto, «per il dipendente pubblico a termine non c’è la perdita di un posto di lavoro», ma il parametro cui commisurare il danno deve essere diverso (cioè la perdita di chance).

(33) Si vedano, da ultimi, M.GALLO, Il precariato del lavoro pubblico: stabilizzazione

e risarcimento del danno, in A.CIRIELLO (a cura di), op. cit., 232 ss., e V.ALLOCCA,

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no il danno in chiave sanzionatoria, ma senza affievolire le tutele costituziona-li del lavoratore e senza «rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio, da parte del lavoratore, dei diritti conferiti dal diritto dell’Unione» (34). E infatti, anche nel caso del lavoratore pubblico assunto

il-legittimamente a termine, le sezioni unite ammettono sempre la risarcibilità «del maggior pregiudizio sofferto», ovviamente da provare rigorosamente con riguardo alla perdita di chance occupazionali (e non dell’interesse al posto di lavoro o, rectius, alla conservazione del contratto, che nel lavoro pubblico,

se-condo la giurisprudenza anche costituzionale, non può essere tutelata per il noto vincolo del concorso pubblico). Qui la giurisprudenza di legittimità è chiarissima: «il lavoratore pubblico […] ha diritto a tutto il risarcimento del danno e, per essere agevolato nella prova […], ha intanto diritto, senza neces-sità di prova alcuna […], all’indennità risarcitoria [forfettizzata] […]. Ma non gli è precluso di provare che le chances di lavoro che ha perso perché

impie-gato in reiterati contratti a termine in violazione di legge si traducano in un danno patrimoniale più elevato. Invece il lavoratore privato non ha questa possibilità e questa restrizione è stata ritenuta costituzionalmente non illegit-tima […] considerandosi che egli ha comunque diritto alla conversione del rapporto» (35).

Inoltre la riconduzione dell’indennità sanzionatoria al risarcimento lascia aperta la questione della integrale copertura del danno. Anche qui, ammesso pure che il principio non abbia copertura costituzionale (sentenza n. 194/2018, che cita le precedenti, n. 303/2011 e n. 148/1999), si dovrebbe pur sempre giustificare perché al lavoratore subordinato venga interdetta la possibilità di ottenere tale copertura. In ogni caso mai un’indennità risarcitoria potrebbe co-prire il danno non patrimoniale che va rigorosamente provato, ma che nel di-ritto civile non è suscettibile di forfetizzazione standardizzata proprio perché riconducibile a situazioni eminentemente soggettive (36).

Se si tengono ben presenti queste tre aree di “fragilità” del quadro sistematico in cui si inserisce la sentenza n. 194/2018, emerge con chiarezza il rischio di una Corte costituzionale che si fa custode (o argine) di un diritto fortemente pragmatico, dentro un quadro di principi sempre più indefiniti. Dentro un si-mile quadro diventa difficile anche argomentare l’operatività del principio di eguaglianza/ragionevolezza o proporre bilanciamenti convincenti.

7. Inevitabile allora chiedersi come andare oltre questi scenari incompiuti o

troppo complessi o, comunque, alquanto confusi. Piuttosto naturale è invocare

(34) Così Cass., sez. un., n. 5072/2016, cit.

(35) Cass., sez. un., n. 5072/2016, cit.

(36) Ammettono la possibilità di agire comunque per la copertura integrale del danno

M.T.CARINCI, op. cit.; V.SPEZIALE, La sentenza n. 194 del 2018 della Corte

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un ulteriore intervento del legislatore, nuovo di zecca o magari ispirato a risa-lenti proposte (37).

Prima però di progettare altre modifiche legislative, a me pare importante te-nere distinti due scenari concettuali e giuridici ben diversi che impongono due diversi tipi di coerenze regolative. Entrambi meriterebbero approfondimenti. Mi limito ad alcuni appunti, sperando che siano utili per una prossima pars construens di una disciplina sui licenziamenti più meditata e resistente, di cui

non può che farsi carico il legislatore, magari attingendo ad una riflessione dottrinale non meramente critica.

Il primo scenario si inserisce a mio parere nella disciplina del contratto di la-voro da cui viene generata una relazione di potere asimmetrica che il contratto da un lato garantisce, in quanto funzionale alla organizzazione di impresa, e dall’altro corregge, in quanto contrastante con la valorizzazione della persona e del cittadino/lavoratore (38). È la funzione tipica del contratto di lavoro no-vecentesco, che risponde pienamente al principio lavoristico contenuto in Co-stituzione e richiede comunque scelte coerenti sia con principi e norme costi-tuzionali sia con la moderna disciplina del contratto. In tutte e due le prospet-tive riemerge, per la sua ispirazione e per la sua prevedibilità, la reintegrazio-ne: che – se coniugata con tempi processuali ragionevoli – dà certezze a en-trambe le parti sul piano delle conseguenze del licenziamento illegittimo (o illecito) e vale senz’altro a riequilibrare le posizioni di potere tra i contraenti. Sempre nel medesimo scenario logico-giuridico il rimedio a un licenziamento illegittimo può essere l’integrale risarcimento del danno, che però non può ri-dursi né ad una soluzione forfettaria né ad un massimo che non sia pruden-zialmente “abnorme”, se non si vuole ingiustificatamente discriminare il lavo-ratore in quanto parte di un contratto di lavoro rispetto agli altri contraenti, in cui può esserci copertura integrale del danno da illecito contrattuale o extra-contrattuale. Da questo punto di vista difficile appare giustificare alla luce dell’articolo 3 Cost. non solo l’automatismo sanzionatorio, ma anche il tetto massimo e persino quello minimo. Perché, in presenza degli articoli 2, 3, 4, 35 e 36 Cost., il lavoratore da creditore deve essere penalizzato anziché privile-giato? Questo ribaltamento non è conforme all’articolo 3 Cost. e tradisce la funzione tipica del contratto di lavoro.

Fermo restando il primo scenario che si inserisce con linearità nel nostro ordi-namento giuridico costituzionale e civilistico, può prendersi in considerazione

(37) Così Santoni, relazione al convegno I licenziamenti illegittimi: tecniche

sanziona-torie e limiti costituzionali (dopo C. Cost. 26 settembre 2018 n. 194), cit., che

richia-ma un vecchio disegno di legge ispirato da Giugni, dove si graduavano le indennità per il licenziamento illegittimo in base alle dimensioni aziendali.

(38) Si veda L.ZOPPOLI, I contratti di lavoro: subordinazione, organizzazione e

rap-porti speciali, in M.ESPOSITO, L.GAETA, A.ZOPPOLI, L.ZOPPOLI, Diritto del lavoro

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un diverso tipo di regolazione degli interessi sottesi al contratto di lavoro, in cui si confrontano due interessi più specifici del sistema sanzionatorio: uno è quello alla prevedibilità dei costi di impresa, l’altro quello alla continuità dell’occasione di lavoro/guadagno intrinseca al contratto di lavoro. In questo secondo scenario il danno del lavoratore assume una curvatura occupazionale, simmetrica rispetto alla curvatura gestionale del costo del licenziamento (eventualmente) illegittimo. In tal caso – ammessa pure una deroga al diritto dei contratti per gli aspetti non forniti di “copertura costituzionale” (come la reintegrazione) – la coerenza interna richiederebbe che si sperimenti fino in fondo un meccanismo rimediale che sia idoneo comunque a far accedere il la-voratore ad una nuova occasione di lavoro/guadagno. Sarebbe in tal caso ac-cettabile che, invece della reintegrazione o dell’integrale risarcimento del danno, si prevedesse una sorta di indennità occupazionale a carico del datore di lavoro rapportata alla retribuzione dovuta da ultimo e dovuta fino a una nuova assunzione, collegata ad una attivazione tanto del lavoratore quanto dell’impresa alla ricerca di una nuova equivalente occasione di lavo-ro/guadagno, mediata ovviamente da rinnovate strutture pubbliche di governo dei mercati del lavoro (potrebbero essere i centri per l’impiego, su cui tanto oggi sembra volersi investire). Potrebbe essere un rimedio reversibile, nel sen-so che il datore di lavoro potrebbe conservare la facoltà di “riattivare” in qual-siasi momento il contratto di lavoro, accollandosi l’intera retribuzione (39). Un

quadro del genere – pur derogatorio rispetto al diritto dei contratti – potrebbe essere costituzionalmente legittimo, in quanto comunque più favorevole al la-voratore rispetto ad un aleatorio risarcimento integrale che non necessaria-mente darebbe più garanzie di nuova occupazione. La sua attivazione però non può non essere condizionata dalla reale funzionalità di un sistema pubbli-co di servizi per l’impiego, affidabile tanto per i lavoratori quanto per le im-prese.

(39) In direzione analoga si vedano le proposte di P.SARACINI, Reintegra monetizzata

e tutela indennitaria nel licenziamento ingiustificato, cit., e P. SARACINI, Licenzia-mento ingiustificato: indennità risarcitoria e contenuto essenziale della tutela, cit.

Qualcosa del genere già avviene in Francia dove – avendo il Consiglio costituzionale avallato la predeterminazione dell’indennizzo per il licenziamento illegittimo in vista di favorire certezza del diritto e crescita dell’occupazione (A. PERULLI, op. cit.) –

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