G IO V A N N I A SSER ETO
LA REPUBBLICA
LIGURE
Lotte politiche e problemi finanziari
(1797-1799)
F O N D A Z IO N E LUIGI E IN A U D I - T O R IN O
F O N D A Z I O N E L U I G I
«Studi»
E I N A U D I
LA REPUBBLICA LIGURE
Lotte politiche e problemi finanziari
(1797-1799)
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G IO V A N N I A S S E R E T O
TORINO - 1975
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IN D IC E D E L VOLUM E
P r e m e s s a ... A b b r e v i a z i o n i ...
Capitolo primo. G li ultim i anni del vecchio regime: sintom i di crisi e speranze di r in n o v a m e n to ...
Capitolo secondo. La fine del regime aristocratico . . . .
Capitolo terzo. Il governo p ro v v iso rio ...
Capitolo quarto. La formazione del governo costituzionale. D if ficile ricerca di un equilibrio interno ed internazionale .
Capitolo quinto. Uaggravarsi delle tensioni politico-finanziarie e la fine dell’esperienza d em o cra tica ... C o n c l u s i o n e ...
Appendici:
1. Rapporti di cambio delle m onete di conto usate a Genova alla
fine del S e t t e c e n t o ...
2. Stato passivo generalissimo della Repubblica fatto a’ 13 giu
gno 1797 ...
3. Stato attivo generalissimo della Repubblica fatto a 13 giu
gno 1797 ... 4. N ota degli annuali redditi delle gabelle di S. Giorgio antece
dentem ente all’epoca de’ 22 maggio 1797 ...
5. In tro iti dell’annata 1793 in 1796 fatti dalla casa di S. Gior
gio sopra le gabelle ed a l t r o ...
6. Riepilogo dello stato generalissimo di tu tti li debiti della Re
pubblica a diversi annui f r u t t i ...
7. Stato dell’azienda delle corporazioni ecclesiastiche della cen
trale secondo le loro d e n u n z i e ...
8. Calcolo dei bisogni e dei possibili redditi annuali secondo il
Rapporto del comitato di finanze presentato il 13 luglio 1797
6 IN D IC E D EL V O L U M E
9. R istretto a calcolo dell’attivo e passivo della Repubblica L i
gure trasmesso al direttorio esecutivo il 26 gennaio 1798 . p. 237 10. Introito generale dal 14 giugno a tu tto dicembre 1797 . . » 239 11. Esito generale dal 14 giugno a tu tto dicembre 1797 . . . » 243 12. Riflessioni sul terratico del comitato di finanze, 10 febbraio
1798 » 245
13. Quadro delle partite deliberate dal corpo legislativo nel 1798 » 248 14. R istretto dello stato attivo e passivo della cassa nazionale da’
17 gennaio 1798 a’ 23 gennaio 1799 ... » 250
15. Nota degli introiti fa tti dalla banca di S. Giorgio da 12 feb
braio 1798 a tu tti li 11 febbraio 1799 ...» 252 16. Stato attivo della cassa nazionale dal giorno 17 gennaio 1798
a tu tto li 21 maggio 1799 » 253 17. Stato passivo della cassa nazionale da 17 gennaio 1798 a tu tto
il 21 maggio 1799 ...» 260 18. Introiti fa tti dalla banca di S. Giorgio dall’epoca de’ 17 gen
naio 1798 a tu tti li 21 maggio 1799 ...» 265 19. Conto di approssimazione dello stato della banca di S. G ior
gio li 18 maggio 1799 » 266
20. Conto fissato sullo stato della banca di S. Giorgio e sul pro
getto presentato dai direttori della medesima li 13 giugno
1799 » 268
21. Stato dell’attivo e passivo della cassa nazionale form ato li
PREMESSA
La documentazione utilizzata per questa analisi del « triennio » democra tico in Liguria — consistente so p rattu tto in giornali, testi legislativi, verbali dei consigli, messaggi e rapporti dell’esecutivo, corrispondenze diplomatiche — ha consentito di valutare avvenim enti e problem i con una prospettiva « dall’alto », che lascia sullo sfondo la situazione economica e le condizioni di vita delle popolazioni, e si svolge prevalentem ente sul piano politico-finan ziario. Considerata la brevità del periodo preso in esame, ritengo che sarebbe stato arduo e probabilm ente infruttuoso tentare un approccio differente. Ciò premesso, va tuttavia rilevato che, nel corso della ricerca, il tema finanziario ha finito p er assumere via via una parte preponderante a scapito di altri filoni non meno im portanti, quali l ’analisi della nuova classe politica, l ’esame delle correnti ideologiche, dell’opinione pubblica, ecc. D i tali lacune, la consape volezza non diminuisce certo la gravità, e due parole di giustificazione si ren dono perciò indispensabili.
La centralità del discorso finanziario è fondata su due fatti, che m i paiono difficilmente controvertibili: da un lato vi è l ’impossibilità di com prendere gli eventi del triennio senza tener conto delle disastrose condizioni in cui vennero a trovarsi le pubbliche finanze, del marasma tributario, della pressione con tinua e paralizzante esercitata dalla Francia con le richieste di contribuzioni; d ’altro lato vi è la constatazione che, in mancanza di spinte rivoluzionarie para gonabili a quelle francesi, è proprio sul terreno fiscale che vengono com battute le maggiori battaglie fra democratici e m oderati e che il nuovo regime viene messo più duram ente alla prova, anche in relazione alle aspirazioni popolari da esso suscitate.
8 P R E M E S S A
nuova classe dirigente venuta alla luce con la « rivoluzione » del 1797 rischia di essere parziale ed in definitiva deform ante, se ci si restringe a considerare la sua azione ed il suo ruolo in un arco di tem po — quale è il triennio — che al carattere di brevità unisce quelli di estrema precarietà, di confusione, di disorientam ento collettivo, e come tale rende avventata qualunque valutazione — sulle persone, anzitutto, ma anche sui fatti — che non abbia un preciso riscontro nei successivi anni di « assestam ento ».
Sotto m olti punti di vista, dunque, più che di giudicare e concludere si è trattato di suscitare interrogativi, nella speranza che le indagini sull’età napo leonica, pressoché inesplorata per quanto riguarda la Liguria, possano con sentire — a me o ad altri — apprezzabili risposte.
La presente ricerca è stata iniziata e condotta sotto la guida del professor M arino Berengo, al quale va la mia affettuosa gratitudine per i molti preziosi consigli ed incoraggiamenti. D esidero inoltre esprimere riconoscenza alla Fon dazione Luigi Einaudi, che m i ha offerto la possibilità di lavorare serenamente ed in piena autonomia, al professor Rosario Romeo ed al professor Carlo Capra che hanno avuto la pazienza di leggere e correggere il m anoscritto, a tu tti coloro che si sono lasciati cortesem ente im portunare dalle mie richieste e mi hanno prestato la loro collaborazione. U n ringraziam ento particolare, infine, debbo rivolgere alla signora Grazia Tornasi Stussi, la quale mi ha liberalm ente concesso in visione la propria tesi di laurea (discussa con il professor Armando Saitta), da cui ho tratto indicazioni e spunti utilissimi.
ABBREVIAZIONI
AEP. Archives du m in ist è r e des affaires étrangères, Parigi, Correspon- dance politique, Gènes (segue il numero del volume e quello della pièce).
ANP. Archivesnationales, Parigi. ASG. Archiviodi Stato, Genova.
ASG, RL. Archivio di Stato, Genova, Repubblica Ligure.
ASLSP. « Atti della Società ligure di storia patria ». ASM. Archiviodi Stato, Milano.
AST. Archiviodi Stato, Torino. BUG. Biblioteca universitaria, Genova.
GN. « Gazzetta nazionale genovese », poi « Gazzetta nazionale della Liguria ».
Leggi. Raccolta delle leggi ed atti del corpo legislativo della Repubblica Ligure,
4 voli., Genova, Franchelli, 1798-1799.
Proclami. Raccolta de’ proclami del direttorio esecutivo della Repubblica ligure da’ 26 gennaio 1798 giorno della sua installazione in appresso, Genova,
Stamperia Franchelli, 1798-1799.
Registro. Registro delle sessioni del governo provvisorio della Repubblica di Genova dal giorno della sua installazione 14 giugno 1797, Genova, Stamperia
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Capitolo Primo
GLI ULTIMI ANNI DEL VECCHIO REGIME: SINTOMI D I CRISI E SPERANZE DI RINNOVAMENTO
Ad un primo sguardo sulle condizioni della Repubblica di Genova alla fine del Settecento \ ciò che risalta in modo particolare è il suo assetto politico-amministrativo, anacronistica sopravvivenza di regime cittadino, « forse il solo puramente cittadino in Italia, in quest’epoca » Di fronte alla capitale, in cui si concentrava la maggior quota delle ric chezze e delle attività economiche del paese, e che era retta da proprie magistrature comunali, stava un dominio disarticolato, un insieme di comunità e di terre con amministrazione autonoma, annesse in epoche successive, ciascuna legata all’autorità centrale da differenti vincoli e convenzioni1 2 3, e nei confronti delle quali Genova non s’era costituita come centro naturale di coordinamento e di equilibrio d’una regione,
1. Per la situazione degli studi sulla Repubblica di Genova nel secolo xvm , si veda V. Vita le, Breviario della storia di Genova, Genova, Società ligure di storia
patria, 1955, voi. I I , pp. 175-193; D. Veneruso, Genova e la Liguria dal 1700 al 1815 nella recente storiografia, « Rassegna storica del Risorgimento », L, 1963,
pp. 33-56; A. Caracciolo, Il Settecento, in Bibliografia dell’età del Risorgimento in onore di A. 1A. Ghisalberti, Firenze, OÌschki, 1971, voi. I, p. 71.
2. G. Quazza, Il problema italiano alla vigilia delle riforme (1720-1738),
« Annuario dell’Istituto storico italiano per l’età moderna e contemporanea », VI, 1954, p. 104. L’affermazione del Quazza si riferisce alla prima metà del secolo, ma è perfettamente valida anche per gli anni successivi.
3. « Mano mano che acquistavasi un territorio, vi si lasciavano i propri statuti, i limiti primieri, e solo vi era mandato a governarlo un patrizio od un cittadino geno vese, con titoli di governatore, di capitano, di commissario, di podestà » (Dizionario
geografico-storico-statistico-commerciale degli Stati di S. M. il re di Sardegna com
pilato per cura del prof. G. Casa lis, Torino, Maspero, 1833-1854, voi. V II, pp. 302-303). Sulla varietà dei rapporti politici, amministrativi e fiscali tra i luoghi del territorio e la capitale, si veda G. Felloni, Le circoscrizioni territoriali civili ed ecclesiastiche nella Repubblica di Genova alla fine del secolo X V III, « Rivista sto
12 C A PITO LO P R IM O
e neppure come legittimo emporio, anche a causa della configurazione geografica e dell’estrema difficoltà delle comunicazioni terrestri.
L’arcaicità di questa struttura territoriale si rispecchiava negli ordi namenti di governo, rimasti fondamentalmente immutati dal 1576, anzi peggiorati in senso oligarchico, poiché i poteri reali si erano accentrati nei Collegi e nel Minor consiglio; mentre il Maggior consiglio, nel quale teoricamente doveva essere rappresentata l’intera nobiltà, era stato svuo tato di ogni facoltà decisionale e di ogni iniziativa. La degenerazione oligarchica, d ’altronde, non era che il risultato delle trasformazioni avve nute in seno alla classe dirigente, con il concentrarsi della ricchezza nelle mani di pochi ed il preoccupante aumento dei nobili poveri-, fenomeni accompagnati da una vera decadenza fisiologica della nobiltà, da un disin teresse crescente — da parte dei suoi membri — per le cariche pub bliche, ed infine dalla crisi del concetto stesso di aristocrazia, man mano che il potere reale, più che dall’appartenenza alla classe, veniva a dipen dere dalle condizioni economiche e dall’egemonia su determinati stru menti di governo4.
A fianco dei consigli e dei Collegi operava, con attribuzioni confuse e commistione di poteri, un gran numero di uffizi e magistrati
finan-4. La concentrazione della ricchezza in poche famiglie nobiliari nel corso del Settecento è fenomeno notissimo (si veda ad es. L. M. Leva ti, I dogi di Genova dal 1771 al 1797 e vita genovese negli stessi anni, Genova, Tip. della gioventù, 1916,
pp. 139-143 e 218-220; G. Giacchero, Storia economica del Settecento genovese,
Genova, Ed. Apuania, 1951, pp. 134-149). Altrettanto nota è la presenza dei nobili poveri, annoso problema che si aggrava con la cessione della Corsica e la definitiva liquidazione di « una politica di prestigio e di potenza assolutamente inadatta alle reali condizioni e ai concreti interessi della Repubblica e dei privati genovesi ». Molti uffici pubblici tradizionalmente affidati alla nobiltà cadetta vengono aboliti, mentre l ’importanza dei ceti affaristi, nobili e borghesi, cresce relativamente ad un potere statale che sta via via abdicando parte delle proprie abituali funzioni (cfr. F. Fonzi, Le relazioni fra Genova e Roma al tempo di Clemente X I I I , « Annuario
dell’Istituto storico italiano per l’età moderna e contemporanea », V ili, 1956, pp. 176-179). Quanto alla consistenza numerica della nobiltà povera, una relazione della Eccellentissima Giunta per li MM. patrizi disimpiegati, in data 3 giugno 1794, afferma che almeno 145 capifamiglia nobili — con 105 figli maschi e 67 femmine — si trovavano nella completa indigenza; ma ve ne erano altri in condizioni non molto più floride (ASG, Senato, Collegi diversorum, 384). Sulla decadenza fisiologica della nobiltà si veda la relazione di Gian Francesco Doria, del 1747, citata e commentata in V. Vita le, Breviario cit., voi. I, pp. 429-432. Il disinteresse per le cariche pub
bliche è denunciato nel testamento del segretario di Stato Girolamo Gastaldi (ASG,
Manoscritti, n. 444) ed è testimoniato dal gran numero di non nobili tra i diplo
matici (cfr. V. Vitale, La diplomazia genovese, Milano, Istituto per gli studi di
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ziariamente indipendenti l’uno dall’altro 5. La lunga esperienza di go verno dei Magnifici e la loro tradizionale abilità politica riuscivano an cora a conferire al sistema un’apparenza di funzionalità; ma ad un osser vatore attento non ne sarebbe sfuggita la macchinosità, e soprattutto la scarsa elasticità, l’incapacità cioè di adattarsi rapidamente a mutate esi genze 6. La struttura governativa genovese era, certo, carente sotto di versi ed importanti aspetti. L’amministrazione della giustizia costituiva motivo di lamento per i popoli delle riviere, abbandonati all’arbitrio dei giusdicenti locali; mentre al centro, nella « giurisdizione della Ruota civile », ci si lagnava degli « abusi introdutti... in esterminio de’ poveri litiganti », a causa della sfacciata corruttibilità dei giudici7. L’istruzione pubblica era insufficiente a tutti i livelli — le famiglie patrizie erano costrette a fare studiare i figli fuori Stato — e la soppressione della Compagnia di Gesù, che a Genova deteneva quasi un monopolio scola stico, non determinò un reale rinnovamento, nonostante gli sforzi degli illuminati scolopi8. L’inefficienza militare era un dato tradizionale, ed era apparsa tragicamente evidente nel 1746; ma assai più grave era la
5. Un elenco delle magistrature genovesi e delle loro funzioni si trova in A. Ol iv ie r i, Carte e cronache manoscritte per la storia genovese esistenti nella biblioteca della R. Università ligure, Genova, Tip. Sordomuti, 1855, pp. 40-46.
In generale, sull’assetto politico ed amministrativo della Repubblica, si veda M. Sp i nola, Compendiose osservazioni intorno al governo aristocratico che resse la Repub blica di Genova al tempo dei dogi biennali, « Giornale ligustico di archeologia, storia
e lettere », VI, 1879; R. Boudard, Génes et la France dans la deuxième moitié du X V I I I siècle (1748-1797), Clermont Ferrand, Impr. De Bussac, 1962, pp. 29-42.
Ma va notato che uno studio esauriente sul funzionamento delle magistrature geno vesi è ancora di là da venire.
6. Giovan Maria Lampredi, ad esempio, sostando a Genova nel 1789 lodava il buon equilibrio di quel governo; ma non mancava di rilevare la grande lentezza di manovra cui esso era costretto (M. Ba t t is t in i, Giovan Maria Lampredi a Genova nel 1789. Impressioni e giudizi, « Giornale storico e letterario della Liguria », n. s.,
IV, 1928, p. 237.
7. Così si esprimeva un anonimo querelante, in una lettera del luglio 1794 (ASG, Rerum publicarum, 1054). Sulla cattiva amministrazione della giustizia, come per molti altri problemi riguardanti il dominio genovese, una fonte preziosa e viva, quantunque da usare con riserva, è costituita dalle Arringhe delle varie deputazioni comunali venute a felicitare il governo provvisorio all’indomani della rivoluzione. Tali arringhe contengono tutte le recriminazioni che le comunità avevano da muo vere al governo aristocratico. Spesso, date le circostanze, le tinte vi sono eccessiva mente calcate, ma esse rispecchiano una situazione reale. Buona parte di tali arringhe è pubblicata nel Registro delle sessioni del governo provvisorio. Altre sono state stampate a parte e, a quanto ci risulta, sono andate per lo più perdute; ma molti originali si trovano ancora nella serie Governo provvisorio del fondo Repubblica
Ligure.
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cronica insufficienza della marina da guerra, con tutte le conseguenze che ciò comportava per il commercio9.
Questi, tuttavia, non erano che malesseri secondari, in confronto alla più grave malattia che covava nelle viscere della Repubblica, e che si sarebbe manifestata con indubitabili sintomi allorché i mutati equi libri interni ed esteri avrebbero posto Genova di fronte a problemi irri nunciabili di rinnovamento. Intendiamo riferirci alla struttura finanziaria che, alla fine del Settecento, presentava limiti e difetti per nulla scalfiti da tentativi riformatori quali si erano avuti in altri Stati italiani.
« Il sistema delle finanze nel vecchio governo — sta scritto nel mi nuzioso rapporto che il comitato di finanze presentò al governo provvi sorio nel luglio 1797 — [era] oscuro, intralciato, duplicato ». Oltre alla Camera, che rappresentava il vero e proprio erario statale, « esiste vano molte altre contabilità, non colligate e subalterne, ma rivali in certa maniera, ma indipendenti, con cassa, ministri, giurisdizione a parte: poi ché non esisteva un centro comune, un libro comune, onde in sostanza potesse comprendersi a colpo d’occhio quanto si assorbiva annualmente dallo Stato sotto qualunque nome ed imposizione, quanto si spendeva annualmente per qualunque oggetto » 10 11. Esaminando e cumulando i vari bilanci, il « passivo ordinario generalissimo » ascendeva, negli ultimi anni dell 'ancien régime, a L. 5.495.54ó;l;4 f. b. contro un attivo che, « computate le gabelle ai prezzi de’ rispettivi affitti, sempre in fatto mino rati », ammontava a L. 5.045.953; 13 12; di modo che ne risultava un
9. Sulla debolezza militare ligure alla fine dell 'ancien régime, molti documenti in ASG, RL, 612. SuH’inefficienza della Deputazione per l’armamento contro i bar bareschi, e sui continui sforzi di Girolamo Serra per muoverla dalle secche in cui era adagiata, cfr. P. Nurra, Genova nel Risorgimento. Pensiero e azione, Milano, Vai- lardi, 1948, pp. 25-30.
10. Rapporto del comitato di finanze al governo provvisorio diviso in tre parti, cioè: stato generale delle finanze nel giorno 13 giugno 1797; risorse e compensi pos sibili per continuare temporaneamente nel vecchio sistema; nuova impiantazione d’imposizioni e di percezioni adattata al nuovo ordine di cose. Presentato li 13 lu glio 1797, s. a. i. [Genova, 1797], p. 3.
Sulla struttura fiscale della Repubblica e sul ruolo in essa giocato da S. Giorgio, restano fondamentali le indicazioni di H. Sieveking, Studio sulle finanze genovesi nel Medioevo e in particolare sulla casa di S. Giorgio, ASLSP, XXXV, 1905-1906; e
quelle del Giacchero (op. cit.), specie nei due capitoli II «maneggio di S. Giorgio» e Bilanci della Repubblica. Utili anche le opere del Di lucci (R. Di Tucci, La ric
chezza privata e il debito pubblico di Genova nel secolo X V III, « Atti della Società
ligustica di scienze e lettere », n. s., voi. XI, 1932, pp. 1-64; Id., Le imposte sul
commercio genovese durante la gestione del banco di S. Giorgio, « Giornale storico
e letterario della Liguria », n. s., V, 1929, pp. 209-219, e VI, 1930, pp. 1-12, 147-169, 243-257, 341-360).
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deficit annuo di almeno L. 449.593;8;4 f. b. Più della cronica passi
vità dei bilanci, tuttavia, era la composizione dell’introito che dava da pensare.
Priva di grandi estensioni agricole tassabili e condizionata dal regime « cittadino » che impediva una politica fiscale unificata, la Repubblica traeva le proprie entrate soprattutto da una miriade di imposte indirette, le quali gravavano in misura preponderante sulla « città e tre podeste rie » (Bisagno, Polcevera, Voltri) sotto forma di gabelle, che colpivano di preferenza i generi di prima necessità. Tali gabelle, però, erano state cedute in gran parte alla casa di S. Giorgio in pegno dei prestiti da essa concessi allo Stato, e la casa le adibiva al pagamento degli interessi sui propri « luoghi », cosicché le entrate di competenza statale si riducevano « ad una piccola frazione del complessivo gettito dei tributi », ed in S. Giorgio « erasi... trasportato il centro di gravità delle finanze dello Stato » 13. A fronte d ’un così magro bilancio statale, S. Giorgio poteva contare — almeno teoricamente — su un introito di oltre tre m ilioni13 14, che nei fatti, però, si manteneva al di sotto di questa cifra 15. Le gabelle venivano solitamente appaltate a « capitalisti » privati, e ciò da un lato accentuava la pressione fiscale nell’interesse dei soli speculatori, dall’altro rendeva « estremamente difficile la possibilità di venire ad una riduzione
13. G. Giacchero, op. cit., p. 177; H. Sieveking, op. cit., pp. 43-44. È ben noto quanto grande fosse il potere di S. Giorgio. Dalla « casa » eran riscosse più di settanta gabelle; i pedaggi, le dogane, i magazzeni di portofranco, numerose case e terreni, la gestione del porto, il monopolio del sale, tutto ciò era in mano a S. Gior gio, che aveva inoltre la giurisdizione civile e criminale nelle cause di commercio e persino la facoltà di battere moneta. Di S. Giorgio, gli storici genovesi han cercato di porre in luce anche gli aspetti positivi, quale sovvenzionatore dello Stato nei mo menti difficili e promotore di grandi opere pubbliche. In realtà, come aveva ben notato il Sieveking (pp. 228-231), questi atti miravano in primo luogo a rafforzare il potere della casa, e la funzione di S. Giorgio rimase sempre quella di centro coor dinatore degli interessi dei grandi « capitalisti ». Dello stesso parere è anche il Quazza (op. cit., p. 102, nota 2), il quale ritiene « la funzione statale di S. Giorgio certo innegabile, ma subordinata al predominio classistico del patriziato ». Il miglior giudizio sui rapporti tra la casa e la Repubblica, comunque, ci pare si possa leggere nel già citato Rapporto del comitato di finanze al governo provvisorio: « La casa di S. Giorgio ne’ contratti di acquisti dalla Repubblica, ha spiegati li sentimenti della più fina usura, ed essa la Repubblica vi si è prestata, perché in sostanza negli indi vidui bine inde contrattanti, tutti azionisti di S. Giorgio, prevaleva l’amore del pri vato interesse a quello del pubblico, e la medesima casa, all’occasione di imprestiti cavati irregolarmente dalle sagristie, ha spiegata altrettanta facilità, perché in sostanza gli individui bine inde contrattanti, tutti del governo, erano animati, a quei momenti, da’ medesimi sentimenti » (p. 5).
14. Si veda VAppendice, n. 4.
16 C A PITO LO P R IM O
d ’imposte » 16. Lo Stato, retto da un’aristocrazia che traeva i suoi mag giori guadagni da luoghi di monte, titoli pubblici e prestiti, e che aveva in S. Giorgio uno dei principali centri di potere, nulla faceva per riscat tare le gabelle o redimere il debito pubblico — che ammontava ad oltre 160 milioni di fronte a meno di 20 milioni di attivo 17 18 — anzi lo riguar dava come un campo di investimenti e soprattutto come un ottimo mezzo per drenare, tramite la pesante tassazione indiretta ad esso collegata, qualsiasi eccedenza nei guadagni popolari1S. D ’altra parte in Genova era scrupolosamente evitata qualsiasi forma di tassazione diretta, che avrebbe colpito le classi abbienti e turbato quel principio della illimitata libertà ed immunità dei capitali, sul quale si basava tutta la politica finanziaria dei Magnifici: ed infatti vi si ricorse solo in circostanze stra ordinarie, preferendo, tra l’altro, il sistema dei prestiti forzosi a quello delle vere e proprie imposte dirette.
Fuori Genova, invece, le imposte dirette si applicavano prevalente mente sui terreni, sotto il comune denominatore di terratico. Erano però assai mal distribuite e decurtate dalla difficoltà di riscossione, dalla man canza di catasti attendibili, dal gran numero di esenzioni e privilegi; pur aggirandosi il gettito complessivo, negli ultimi anni d e ll’ancien reg im e,
intorno alle 900.000 lire, l’erario non ne traeva tutto il vantaggio che ci si poteva attendere, anche perché buona parte di quella somma, oltre che dalle spese locali, era assorbita dal pagamento degli interessi sui debiti dai quali molte comunità erano gravate 19. Così, anche da questo lato, era accentuata la povertà dei bilanci statali, che contrastava
singo-16. H. Sieveking, op. cit., pp. 203-204.
17. Appendice, n. 6.
18. Questo secondo motivo era certo preponderante, unitamente alla considera zione che dai proventi del debito pubblico, e segnatamente dai luoghi di S. Giorgio, dipendeva la sopravvivenza di opere pie, corporazioni, ed anche magistrature statali, cosicché la riduzione del debito pubblico avrebbe comportato per questi enti la ricerca di nuove e meno sicure fonti di entrata. A questo proposito basti pensare che dei 433.540;33;18;8 e 1/4 luoghi di S. Giorgio esistenti a fine Settecento, solo 16.142;74; 11 ; 10 e 1/4 erano di libera spettanza di privati, e 70.877;32;13 eran soggetti a fidecommessi. Di contro, 87.313;5;7; 10 erano, a vario titolo, di spet tanza della Repubblica; 5.307;49;13;8 appartenevano ad arti e collegi; e ben 253.899;71 ; 12; 14 erano in possesso di opere pie, conventi, cappellanie, ecc. (Rap
porto del comitato di finanze cit., p. 12).
19. Per notizie più diffuse sul terratico rimandiamo al documento riportato in
Appendice, n. 12. Quanto alle esenzioni contemplate dalle « convenzioni » tra
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larmente con la grande ricchezza privata dell’aristocrazia al potere: non a caso, a Genova, importanti istituzioni vivevano di sovvenzioni e lasciti privati; e molte opere pubbliche, anziché dipendere dall’iniziativa del governo, erano promosse dalla munificenza dei patrizi. In queste condi zioni, ogni qual volta le circostanze obbligavano ad uscire dalla normale amministrazione e ad aumentare le spese, il sistema entrava in crisi e poteva cercare di uscirne in due maniere egualmente contraddittorie: o inasprendo una tassazione indiretta che presentava scarsa elasticità, es sendo già, per la propria configurazione, intorno ai valori massimi; o contraendo un prestito da S. Giorgio — più raramente dai privati — col risultato di accrescere vieppiù la massa del debito pubblico ed in defi nitiva di provocare ugualmente, seppur più gradualmente, un inaspri mento delle gabelle, onde coprire le spese dei nuovi interessi20.
Intorno al 1790 la Repubblica cominciò, per l’appunto, ad entrare in un periodo nel quale la normale amministrazione non era più suffi ciente: le nubi che si addensavano sull’Europa imponevano di potenziare gli armamenti, e nel corso degli anni 1790 e 1791 i consigli decisero l’introduzione di nuove gabelle e l’aumento di alcune già esistenti, il tutto a beneficio della cassa militare 21. I risultati furono scarsi, perché
le condizioni economiche della popolazione non consentivano un au mento di entrata, ed ogni ulteriore pressione fiscale si rivelava contro producente 22. Perciò, sin dal 7 dicembre 1790, Costantino Balbi aveva proposto in Minor consiglio un nuovo sistema di tassazione, nonché la formazione d ’un nuovo catasto, specificando che i ricchi dovevano pagare senza privilegi ed i non abbienti dovevano essere esentati; ed aveva pari- menti suggerito di ridurre la « gabella del grano, che veramente era quella unica che pesava al povero » 23. Nel 1793, ancora in Minor con siglio, Gian Battista Brignole aveva biasimato come dannoso al bilancio
20. Tipiche, in proposito, erano state le vicende degli anni 1746 e successivi, quando le esigenze della guerra e dell’occupazione austriaca avevano quasi dissan guato S. Giorgio e provocato una crisi finanziaria dalla quale solo con molta fatica ci si era risollevati (H. Sieveking, op. cit., pp. 266-270).
21. Proposizioni dei consigli di Genova, 1700-1797, BUG, B. VI. 7.
22. Il popolo di Genova « recalcitra e morde ad ogni aumento di peso », scri veva G. M. Lampredi; ed i nobili avevano gran timore di « aggravare con nuovi tributi il pubbbco » (M. Ba t t ist in i, op. cit., p. 237).
Sulla scarsità delle entrate derivanti da quei provvedimenti testimoniano le lagnanze espresse in Minor consiglio da G. B. Grimaldi il 15 gennaio 1793 (Verbali
dei consigli di mese dal 15 gennaio 1793 al 30 dicembre 1796, Biblioteca Berio, Genova, mr. IX. 4. 15, c. 10 v.).
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della Repubblica il predominio che la casa di S. Giorgio deteneva nel- l’ammimstrazicne delle finanze 2i. Le nuove esigenze dello Stato porta vano insomma nel chiuso dei consigli un dibattito di qualche rilievo. Mentre la parte più retriva dell’aristocrazia genovese intendeva insistere sulla via tradizionale, si levavano voci più illuminate e proposte di muta menti anche radicali; voci che rimasero sostanzialmente senza seguito — ché si preferì, ancora una volta, scegliere la soluzione di compro messo del prestito forzoso 2,1 — e tuttavia denunciavano le carenze del l’apparato fiscale: la cui precarietà era determinata non solo dal difet toso funzionamento, ma anche dal ruolo che in esso svolgeva la casa di S. Giorgio, e che poteva durare senza pericolose contraddizioni solo finché vi fosse stata identità d ’interessi — e identità fisica — tra i deten tori del potere economico e gli aristocratici al governo. Ma una volta che forze estranee al monopolio nobiliare si fossero inserite in modo rilevante nel gioco dell’economia nazionale, la funzione di S. Giorgio non poteva non essere contestata. Tanto più se si considera che, come avrebbe riconosciuto il governo provvisorio all’indomani della rivolu zione, « li maggiori vantaggi della casa erano bene spesso in opposizione co’ maggiori vantaggi del commercio... perché [essa] non [era] diretta da commercianti, perché non modellata, come altre banche, a presi dio, a fomento del commercio, perché insomma dessa non era che un gabelliere » 24 25 26.
La fisionomia politica, amministrativa e finanziaria della Repubblica corrispondeva abbastanza fedelmente al suo tradizionale assetto econo- mico-sociale. Le popolazioni delle riviere, quantunque in condizioni di
24. Verbali dei consigli cit., cc. 12-14. Sulle proposte di riforma fiscale sono anche ricchi di notizie i numerosi biglietti di calice in ASG, Archivio segreto, Secre-
torum, 1639 T, U, V, X, Z.
25. Il 12 aprile 1794 fu approvato un « piano di legge d’impiego coattivo da non eccedere scuti 50.000 argento », quotizzato progressivamente « sopra li fitti e pigioni di case nel distretto della giurisdizione della M. Rota criminale » (« Avvisi », 19 aprile 1794). Tale prestito, deciso sin dalla fine del ’93 anche per sollecitazione della parte « progressista », tardò ad essere approvato dal Maggior consiglio a causa delle opposizioni che ivi serpeggiavano nel quadro di quella che venne definita la « cospirazione antioligarchica » del 1794. Il ricavato del prestito, poi, anziché alla cassa militare fu destinato alle spese annonarie, preferendosi risolvere un problema di sicurezza interna, che tentare un inutile riarmo (Esposizione della giunta annonaria
accompagnata dalle deliberazioni dei Collegi, ASG, Senato, Collegi diversorum, 384).
Sulle vicende del prestito del 1794 si veda R. Di T ucci, La ricchezza privata cit., pp. 58-61; P. Nurra, La coalizione europea contro la Repubblica di Genova (1793- 1796), ASLSP, LXII, 1933, pp. 234-236.
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vita non cattive relativamente ai tempi, si distribuivano in centri costieri di limitate risorse, ciascuno con attività commerciali, agricole ed arti gianali proprie, non collegate a quelle della dominante; ciascuno sot toposto all’egemonia di un gruppo dirigente locale, per lo più di ori gine mercantile. A causa della loro atomizzazione, questi centri si trova vano spesso in istato di rivalità tra loro — rivalità di tipo municipali stico e d ’antica radice — ma erano accomunati, sul piano oggettivo, dall’oppressione della capitale, la quale per secoli aveva posto ogni cura nell’impedire in essi qualunque progresso economico che le facesse om bra, come risulta in modo assai chiaro dai due casi più emblematici: quello di Savona, antica rivale sconfitta, col suo porto mantenuto nel l’inattività e preda delPinsabbiamento; e quello di La Spezia, che pur possedendo, a detta dei contemporanei, il più sicuro golfo del Mediter raneo, veniva ostacolata in ogni iniziativa ed invano anelava al privilegio di portofranco.
È ancora difficile, oggi, delineare la fisionomia economica delle ri viere. Le ricerche d ’archivio sono — in buona misura — da compiere; ma certamente vi è anche una serie di ostacoli obiettivi. Il commercio marittimo, ad esempio, era quasi sempre limitato ad un piccolo cabo taggio che non ha lasciato molte tracce di sé; ed anche l’attività agricola — che pure dava alimento forse ai 3 /5 della popolazione — è scarsa mente documentata, poiché da un lato il governo cittadino non si dava eccessiva cura di compilare i catasti, dall’altro i numerosi piccoli pro prietari non erano certo in grado di contabilizzare per iscritto la* loro produzione.
Nella zona costiera una relativa specializzazione delle colture — l’ulivo, naturalmente, ma anche la vite e gli alberi da frutto — rendeva l’agricoltura abbastanza remunerativa; mentre le campagne dell’interno si trovavano in condizioni di grave arretratezza e le loro popolazioni — primitive, malnutrite, che vivevano in genere su terre di proprietà dei nobili genovesi e gravate di vincoli feudali — avevano scarso peso nella vita della Repubblica 27. È certo, in ogni caso, che la mancanza di inve stimenti, anche nei settori più redditizi, frenava qualsiasi possibilità di sviluppo 2S. 27 28
27. Sull’agricoltura ligure e sulle condizioni dei contadini si veda L. Bu l f e- retti - C. Costantini, Industria e commercio in Liguria nell’età del Risorgimento (1700-1861), Milano, Banca commerciale italiana, 1966, pp. 187-201 e 206-215;
utili anche, a pp. 54 segg., le notizie sulla diffusione del lavoro a domicilio nelle campagne.
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Relativamente più facile è individuare le condizioni economiche e la stratificazione sociale all’interno della capitale. Qui le indicazioni più precise concernono la crescita di importanza delle operazioni finanziarie e lo « specializzarsi » in esse degli aristocratici i quali, assommando sem pre più i profitti dei prestiti e dei mutui alle tradizionali rendite immo biliari, accentuavano la loro « propensione verso posizioni da puri ren
tiers » ed abbandonavano con sempre maggiore frequenza l’attività mer
cantile e manifatturiera, cioè « ogni speculazione a breve termine », nelle mani dei ceti non ascritti29. D ’altra parte anche i « capitalisti » borghesi erano considerevolmente interessati all’attività finanziaria, e nel corso del Settecento la loro partecipazione agli investimenti in mutui esteri non aveva fatto che aumentare 30. Cosicché se ne potrebbe dedurre da un lato che non v’era una rigorosa demarcazione economica tra le due classi; dall’altro che la ricca borghesia genovese, pur mantenendo o con solidando le proprie posizioni di forza, preferiva impiegare le eccedenze di capitale nel settore finanziario, trascurando l’espansione dei traffici e delle manifatture, e giungendo così a condividere parzialmente le scelte della nobiltà parassitaria, disancorate dagli interessi economico-sociali del paese.
In coincidenza con l’espansione finanziaria, si può ritenere certa la crisi delle manifatture genovesi, dovuta sia alla progressiva debolezza politico-militare della Repubblica, che causava l’abbandono forzato dei mercati esteri; sia al contraccolpo, molto sentito in Genova, dello svi luppo industriale inglese, ed in sottordine francese, che privava gli opi fici liguri di molte possibilità concorrenziali31. Negli anni successivi al 1779 si cercò, auspice in parte un organismo governativo quale la Depu tazione del commercio, di ridare spinta all’industria, utilizzando il me todo delle « privative » per favorire le iniziative imprenditoriali ed il
e lusinghevole acquisto delle ricchezze prodotte dal prestito. Onde ben può credersi, che da questo principio sia derivato alla nostra agricoltura un considerabile pregiu dizio » (Riflessioni sopra l’agricoltura del Genovesato co’ mezzi proprii a miglio
rarla e a toglierne gli abusi e vizii inveterati, Genova, Stamperia Gesiniana, 1770,
pp. xix-xx). Su questa interessante operetta si vedano le erudite osservazioni del Rotta (S. Rotta, Idee di riforma nella Genova settecentesca e la diffusione del pen siero di Montesquieu, « Il movimento operaio e socialista in Liguria », V II, 1961,
p. 265, nota 67), il quale ne ha individuato l’autore in Gerolamo Gnecco.
29. L’accentuata propensione finanziaria dei Magnifici, esaurientemente dimo strata dal Felloni (G. Felloni, Gli investimenti finanziari genovesi in Europa tra il Seicento e la Restaurazione, Milano, Giuffré, 1971), era già stata adombrata dal
Di Tucci (La ricchezza privata cit., pp. 53-54) e dal Giacchero (op. c/7.,pp. 126 segg.). 30. G. Felloni, Gli investimenti finanziari cit., pp. 72-78 e 430-431.
31. Sulla crisi manifatturiera si veda G. Giacchero, op. cit., pp. 267 segg.;
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rinnovo degli impianti. Il livello quantitativo di tali iniziative rimase contenuto entro limiti modesti, anche perché l’appoggio statale fu scarso, perché i capitali furono insufficienti e perché i tentativi trovarono la sorda resistenza del sistema corporativo 32. Tuttavia furono poste in evi denza certe esigenze di fondo dell’economia ligure, le quali avrebbero acquistato presto un’eco assai superiore ai risultati concreti.
Un dato comune, in ogni caso, emerge dalla situazione industriale genovese, sia nei suoi aspetti di crisi, sia nei suoi sintomi di ripresa: ed è la dura condizione della massa dei salariati. Le mercedi del settore manifatturiero, compresse anche dalla diffusione del lavoro a domicilio nelle campagne, subirono negli ultimi anni del Settecento un continuo abbassamento reale, dovuto al progressivo rincaro dei generi di prima necessità. L’esiguità dei salari era, peraltro, una costante in tutti i set tori dell’economia genovese, ma era stata tradizionalmente compensata dal monopolio annonario dello Stato, che manteneva relativamente bassi i prezzi dei commestibili, e dal meraviglioso apparato assistenziale, che garantiva comunque la sopravvivenza ai poveri ed agli inferm i33. Al meno a partire dal 1770, però, il sistema annonario era entrato in crisi, crisi che si sarebbe aggravata con lo scoppio della Rivoluzione francese e delle guerre europee, accompagnandosi a crescenti difficoltà nell’assi stenza pubblica 34. Dal canto suo, il rinnovamento faticosamente avviato nel campo delle manifatture non pareva in grado di dare una risposta alle istanze dei ceti più umili, in quanto anche per i « nuovi » impren ditori la compressione salariale era un mezzo indispensabile per conser vare qualche opportunità concorrenziale; senza contare che essi, sforzan dosi di spezzare le pastoie corporative, tendevano a privare i salariati dei
32. Sulla ripresa economica dopo il 1780, si veda soprattutto M. Calegari,
La Società patria delle arti e delle manifatture. Iniziativa imprenditoriale e rinno vamento tecnologico nel riformismo genovese del Settecento, Firenze, Giunti-Bar
bera, 1969, pp. 39-89.
33. Riguardo ai bassi salari ed al loro impoverimento reale cfr. G. Giacchero,
op. cit., pp. 312-322; L. Bulferetti - C. Costantini, op. cit., pp. 78-83. Sono inoltre fondamentali le notizie che emergono dal dibattito riformatore, su cui v. S. Rotta, op. cit., pp. 258-261.
Quanto al sistema annonario ed assistenziale, molte sono le notizie fornite dal Giacchero, specie nei due capitoli IJassistenza ai « sedimenti umani » e Olio, pane,
vino protagonisti del paternalismo politico-, ma è utile vedere anche le osservazioni
del Sieveking (op. cit., pp. 205-210), fortemente critiche nei confronti del monopolio alimentare che, mentre calmierava i prezzi, provocava un inasprimento fiscale ai danni delle classi inferiori e contribuiva a tener aperta la spirale del pauperismo.
34. Per il rincaro dei prezzi cfr. G. Giacchero, op. cit., pp. 219 e 323-329.
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loro unici — seppur deboli — organismi di difesa 3o. Perciò, man mano che si abbassava il tenore di vita dei ceti popolari, questi, pur scontenti del governo, non potevano guardare con fiducia agli uomini nuovi del l’economia genovese, anzi, erano per forza di cose risospinti verso un passato ritenuto idilliaco e vedevano nei borghesi — e nei nobili — più intraprendenti i loro naturali nemici, coloro che contribuivano a minare un sistema di equilibrata sopravvivenza. Ancor meglio, d’altronde, que sta ipotesi risulta ove ci si volga ad esaminare le questioni connesse al commercio.
Sull’entità e le vicende del commercio genovese alla fine del Sette cento possediamo valutazioni leggermente discordi3b: non si può par lare, in ogni caso, di crisi; ma è certo che il commercio si era andato spe cializzando nelle operazioni di deposito e commissione — « di econo mia », si diceva allora — e come tale, mentre fruttava considerevoli guadagni ad un ristretto gruppo mercantile, non valeva ad alleviare il crescente impoverimento della popolazione genovese. Particolarmente accentuate erano tali caratteristiche in quel settore, sviluppatosi a fine Settecento, che potremmo definire commercio di guerra.
Si trattava soprattutto, ma non esclusivamente, dei grandi traffici granari con il Midi francese, incrementati dalla guerra e dal blocco che avevano costretto la Francia ad approvvigiornarsi tramite la neutrale Repubblica di Genova 35 36 37. Non soltanto la Francia era buona cliente dei
35. Il Calegari rileva (op. cit., p. 86) che il rinnovamento industriale, non potendo far leva su adeguati « investimenti nella trasformazione degli impianti o nella formazione di manodopera qualificata », si indirizzò verso « forme accentuate di compressione salariale ».
36. Si veda ad esempio G. Serra, Memorie per la storia di Genova dagli ultimi anni del secolo X V III alla fine dell’anno 1814 pubblicate a cura di P. Nurra, ASLSP, LV III, 1930, p. 10; G. Giacchero, op. cit., pp. 106-118; L. Bu l f e r e t t i- C. Costantini, op. cit., p. 161.
37. Al commercio granario accennano, ma solo di sfuggita, Bulferetti e Costan tini (pp. 163-164) affermando che esso, in rialzo già alla fine della guerra d ’indipen denza americana, conobbe un vero boom a partire dal 1790. Altri cenni si vedano in P. Nurra, La missione del generale Bonaparte a Genova nel 1794, in La Liguria nel Risorgimento. Notizie e documenti, Genova, Comitato ligure per la storia del
Risorgimento, 1925, pp. 33-34; J. Com bet, La Révolution à Nice (1792-1800),
Paris, Leroux, 1912, pp. 62-72 e passim. Importanti notizie si ricavano inoltre dai dispacci di Bartolomeo Boccardi, inviato genovese a Parigi, pubblicati in G. Colu cci,
La Repubblica di Genova e la Rivoluzione francese. Corrispondenze inedite degli ambasciatori genovesi a Parigi e presso il congresso di Rastadt, Roma, Tip. delle
Mantellate, 1902, voli. I e II; e da quelli di Vincenzo Spinola, governatore di San remo, in ASG, Senato, Collegi diversorum, 384 e ASG, Confinium, 172. L’unico contributo di un certo rilievo sull’argomento viene da due relazioni di C. Charrière e R. Tresse (rispettivamente: Notes sur les rélations commerciales entre Génes et
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Genovesi, anzi, la piazza di Genova era diventata « l’une des plus cour tisée par les belligérants de la première coalition », e spesso gli Au striaci, più ricchi di numerario, riuscivano ad accaparrarsi le merci geno vesi battendo sul tempo « les Français impécunieux » 38. Pare comunque, sulla base della documentazione di cui siamo a conoscenza, che fosse pur sempre verso la Francia che si muovevano le più forti correnti di traffico, sia per ragioni di contiguità geografica, sia perché di là partivano le mag giori richieste, sia infine perché, dalla penetrazione in Liguria nell’aprile 1794 sino allo svolgimento della prima campagna di Bonaparte, Genova si trovò praticamente costretta ad approvvigionare le forze francesi di stanza o di passaggio sul proprio territorio.
Se sono vere le conclusioni circa l’accentuarsi della « propensione finanziaria » da parte dell’aristocrazia, non pare azzardato supporre che furono i gruppi di « negozianti » e speculatori non ascritti a profittare maggiormente del commercio di guerra ed a guadagnare posizioni nei confronti dei nobili, tanto più ove si consideri che, in un periodo di guerra europea, gli investimenti finanziari all’estero vivevano in un clima di incertezza e cominciavano a subire i primi contraccolpi39. Proprio per questo, tuttavia, le vicende del commercio di guerra determinarono
pubblicate negli A tti del primo congresso storico Liguria-Provenza (Ventimiglia-
Bordighera, 2-5 ottobre 1964), Bordighera-Aix-Marsiglia, 1966, pp. 227-272. I due
studiosi, basandosi su documenti francesi, rilevano i numerosi arrivi di navi geno vesi nei porti del Midi e testimoniano l’estrema importanza della piazza di Genova per il rifornimento anzitutto di granaglie e foraggio, ma anche di manufatti tessili (inglesi, tedeschi ed olandesi), di calzature, di utensili metallici, mentre Genova offriva « aussi le secours de son marche d’assurances ».
38. R. Tr e ss e, Le commerce entre Gênes et Nice cit., pp. 254 e 264. Ed il
cavalier Nomis di Cossila, ministro sardo a Genova, ricorda in un dispaccio del 3 settembre 1796 che gli Inglesi si provvedevano abitualmente nel porto di Genova « di carni, erbaggi ed altri generi per la flotta » (AST, Lettere Ministri, Genova, 34). Gli ambienti mercantili genovesi cercarono anche di fornire una giustificazione teorica del loro operato, rifacendosi ad esempio all’operetta di G. M. Lam predi,
Bel commercio dei popoli neutrali in tempo di guerra, Firenze, 1788 (v. in propo
sito gli « Avvisi » del 18 maggio 1793).
39. Per gli investimenti in titoli, sino al 1797 solo la Francia diede preoccu pazioni ai capitalisti genovesi, corrispondendo gli interessi « per una quota via via maggiore in carta di rapido deprezzamento ». Più grave la situazione per i mutui esteri: qui il mancato pagamento dei frutti interessò, oltre alla Francia, anche i pre stiti concessi alla corte di Vienna, la quale sospese i pagamenti dopo il 1795 (G. Fello n i, op. cit., pp. 353 e 455). Quanto al mutamento dei rapporti di forza
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una più stretta comunanza di interessi tra l’aristocrazia finanziaria e la grande borghesia mercantile. Non parliamo qui del vantaggio che la no biltà al potere traeva dal florido andamento mercantile sia riguardo al gettito fiscale (assicurazioni marittime, portofranco, ecc.), sia riguardo alla possibilità di finanziare essa stessa i traffici. Quel che ci interessa è il piano della politica estera: se è ovvio che le esigenze del capitalismo finanziario premevano per il mantenimento della neutralità più stretta, ed in particolare dell’equidistanza fra Austria e Francia — Stati che as sorbivano la maggior parte degli « impieghi » genovesi all’estero — sem bra che tale equidistanza fosse parimente voluta dagli speculatori mer cantili40; con la differenza, forse, che costoro guardavano con occhio più benevolo alla Francia, sia perché essa costituiva il miglior mercato, sia perché dalla sopravvivenza della repubblica transalpina dipendeva la prosecuzione dei lucrosi affari in corso.
Ricollegandoci ora a quanto dicevamo più sopra circa gli aspetti nega tivi del commercio « di economia », si può notare come proprio il set tore mercantile più vivace si trovasse ad essere il più staccato dalle forze produttive liguri e come, anzi, costituisse un grave elemento di pertur bazione dell’equilibrio economico e politico della Repubblica. Nel gene rale moto di ascesa dei prezzi europei alla fine del Settecento, infatti, il commercio alimentare dei Genovesi con la Francia e con i coalizzati non fece che accelerare nella Liguria una linea di tendenza già di per sé grave; e le popolazioni della Repubblica, tributarie dall’estero per la stragrande maggioranza del fabbisogno cerealicolo, pagarono con duri sacrifici la prosperità dei grossi mercanti41. Le conseguenze non tardarono a farsi
40. Un rapporto degli inquisitori del 1793 rileva come per un buon numero di commercianti fosse indispensabile mantenere buoni rapporti anche con le potenze coalizzate, « per il vivo e continuo grandissimo commercio, che si fa nelle piazze di detti regni, tanto di generi che qui mancano, come di generi che di qua si spedi scono a dette piazze » (P. Nurra, La coalizione cit., p. 22).
41. Il rappresentante genovese a Parigi, Boccardi, per porre in buona luce la Liguria agli occhi di quel governo, batte a più riprese — almeno a partire dal gen naio 1795 — sul fatto che Genova, avendo fornito « à la France... par approvision- nement de ses départements du Midi et de l ’armée d ’Italie » grani, prodotti del proprio suolo e rifornimenti d’ogni genere, ha dovuto sopportare « un enchérisse- ment enorme de ses denrées » (G. Colu cci, op. cit., voi. II, p. 24). Il governo
genovese, in una nota trasmessa a Cacault il 10 marzo 1796, conferma che il prezzo dei generi alimentari è raddoppiato a causa di tali forniture, mentre solo « un très petit nombre » di mercanti ha « tiré quelque profit de la guerre actuelle » (ibidem, pp. 447-450).
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sentire, e nel corso del 1793 scoppiarono nel territorio ligure numerosi tumulti, che presero a prestito parole d ’ordine rivoluzionarie e si colo rarono di giacobinismo, ma furon dovuti in primo luogo « alla fame e mi seria che picchiava alla porta di tanti borghi e villaggi » 42.
Ancor più gravi, per le ripercussioni politiche che potevano susci tare, furono le difficoltà in cui il rialzo dei prezzi pose il monopolio anno nario nella centrale. Una Esposizione dei Supremi sindacatori in data 25 aprile 1794 rilevava la critica situazione del magistrato dell’abbon- danza: esso presentava un deficit di 4 milioni ed era gravato da spese enormi per il pagamento dei frutti sui capitali presi a prestito, cosicché non era più in grado di svolgere il proprio compito in maniera accet tabile; né migliori potevano dirsi le condizioni dei magistrati dell’olio e del v in o 43. Già il 6 settembre 1793, d ’altronde, una relazione degli inquisitori di Stato aveva avvertito che si tenevano discorsi sediziosi a proposito del rincaro dei viveri, discorsi che si mescolavano pericolosa mente a quelli dei « partitanti democratici francesi » 44. Ci si doleva soprattutto che il governo non accettasse un progetto di cui correva voce in città — avanzato dal causidico Domenico Pescio — nel quale si pro poneva la formazione di un « monte annonario » con un capitale di L. 3.600.000 f. b., che avrebbe permesso l’acquisto tempestivo d’una gran massa di grani e la vendita della farina a lire 3 il nibbio, cioè poco più della metà del prezzo corrente. Tale monte doveva essere formato da 60 azioni da L. 60.000 ciascuna — azioni che risulta fossero state già sottoscritte dai « negozianti » promotori dell’iniziativa — e, a quanto par di capire, mirava a consolidare nelle mani di tali negozianti una sorta
la miseria e la fame, diventa in quell’anno più forte e più evidente. Si delinea la frattura fra i “ civili ” e la “ plebe ” , fra il terzo e il quarto stato. Il malcontento del popolino contro i ricchi mercanti si confonde spesso con quello contro “ ebrei ”, “ ginevrini ” , “ ugonotti ” , “ libertini ” , “ miscredenti ” . Rigorismo etico-religioso e intolleranza curialista spesso si legano alla protesta sociale contro i ricchi » (F. Fonzi,
op. cit., pp. 267-268).
42. L. M. Leva ti, op. cit., pp. 559-561 e 569-570; P. Nurra, La coalizione
cit., p. 24.
43. ASG, Senato, Collegi diversorum, 384. La crisi del sistema annonario è forse uno degli aspetti più gravi della crisi di struttura della Repubblica perché, oltre ad essere di per sé fonte di preoccupazioni e pericoli, si legava intimamente con due altri aspetti assai discussi del regime oligarchico: infatti il sistema anno nario era da un lato coinvolto nelle critiche contro S. Giorgio, accusato di lucrare sulle anticipazioni fatte per l ’acquisto dei viveri; e d’altro lato era una componente essenziale dello squilibrio derivante dall’assetto cittadino dello Stato, in quanto il prezzo politico dei commestibili, valido solo per Genova, esasperava i contrasti fra la « centrale » ed il suo territorio.
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di monopolio dell’acquisto delle granaglie, in cambio di una fornitura garantita di farine a basso prezzo per la città, lasciando libera la panifi cazione 45. I Collegi presero in esame il piano, in base anche ad una relazione favorevole — in data 4 luglio 1794 — della giunta annonaria creata un mese innanzi; vollero apportarvi alcune modifiche sostanziali, cioè imporre che i futuri azionisti del monte fossero già luogatari di S. Giorgio, e limitare la libertà di panificazione. Infine lo approvarono, senza però mai metterlo in esecuzione, con procedura tipica di un go verno che riconosceva di aver bisogno di nuovi sostegni economico- sociali, ma riluttava poi a dividere con altri il proprio potere 46.
Il progetto Pescio, pur permanendo il mistero sui nomi dei promo tori, che il causidico si rifiutò di rivelare, appare come una significativa testimonianza dell’importanza assunta, rispetto alle tradizionali strut ture statali, dal gruppo dei negozianti di grano i quali, approfittando della situazione critica in cui versava l’annona, tentavano di inserirsi nel gioco monopolistico e di accaparrarsene i vantaggi. Tuttavia la figura del Pescio, uomo legato sia alla nobiltà « progressista », sia alla bor ghesia agiata, non permette di precisare se l’azione partiva direttamente dai negozianti, o non piuttosto da capitalisti aristocratici che miravano ad entrare nell’affare, utilizzando i tradizionali canali del sistema anno nario. Ma l’ipotesi della presenza d ’un forte gruppo di negozianti trova conferma in altri documenti riguardanti il medesimo caso.
Nell’aprile 1794 il governo incaricò i commissari dei quartieri di Genova di prendere contatto con i negozianti di commestibili per con certare con loro « un piano tendente a minorare il prezzo della farina da rivendersi al minuto in città », combinando un « discreto loro pro fitto » con il « sollievo del povero » 47. Il governo si rivolgeva paterna llsticamente ai negozianti, chiedendo loro un atto di buona volontà, senza concedere una concreta contropartita; ragion per cui i negozianti risposero che non per causa loro il prezzo del grano si manteneva alto, bensì per i ricorrenti divieti di esportazione, per l’eccessivo premio delle assicurazioni, per le « forti richieste di un tal genere nelle province me ridionali della Francia ». Certo è che i negozianti si rifiutavano di dar notizie « del vero costo per stabilire ed eseguire la provvista nazionale con le opportune mete », mentre risultava che « grandissimo era stato il profitto dei mercadanti, alcuni dei quali avevano accumulato notevoli somme », quantunque « nulla si potesse con vero accento stabilire ».
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Ed i commissari dei quartieri sconsigliavano di controllarne i libri, per non provocare il « gravissimo sdegno » dei « negozianti in commesti bili... molti di numero e di rispettabili aderenze, i quali avrebbero potuto ancora rivolgere altrove la direzione e la riunione di un genere così ne cessario all’uman vivere, e principalmente per uno Stato in cui non si
raccoglieva » 48.
Come si vede, i mercanti di grano si presentavano ormai come un gruppo autonomo e forte, capace di ricoprire il ruolo di controparte in una importante trattativa con gli organismi statali; e ciò ancor più chia ramente risulta da un Progetto per la formazione di una camera di com
mercio — sempre del 1794 — scritto da Luigi Corvetto « estensore a
dettame degli ili. negozianti ». In esso si chiedeva, in cambio dell’ap- provvigionamento in grani della città per un quantitativo di 25-30.000 mine, l’istituzione di un organo avente giurisdizione propria in materia commerciale e libero di amministrare « quelle finanze che interessavano più davvicino il commercio » 49. Il progetto Corvetto era troppo audace, perché incrinava alcuni capisaldi giuridici e finanziari della repubblica aristocratica, senza peraltro offrire in cambio grandi vantaggi: perciò fu respinto. Esso resta tuttavia un sintomo inequivocabile della presa di coscienza d’un ceto mercantile, il quale poteva ormai manifestare ad alta voce le proprie esigenze, forte tra l’altro della rispondenza che esse incontravano negli ambienti illuminati dell’aristocrazia 50. Ma la crescita
48. Ibidem, Esposizione dell’ill.ma Commissione dei quartieri della città, 22 aprile 1794.
Quanto al rifiuto del controllo da parte dei negozianti, va ricordato che essi si opposero decisamente ad un progetto di S. Giorgio — in data 11 marzo 1795 — che prevedeva un’imposta di 4 soldi su ogni contratto e l’iscrizione dei contratti su un apposito libro da sottoporre a verifica trimestrale; e ciò non perché l’imposta fosse gravosa, ma perché turbava « la segretezza necessaria alle transazioni commer ciali » (ASG, Senato, Collegi diversorum, 389). Segretezza ulteriormente garantita, in quegli anni, dal fatto che nel 1795 e nel 1796 il governo non aveva potuto «dispen sarsi d’accordare l’entrata in franchiggia nella riviera di ponente e nella centrale ai grani provvenienti dall’estero, che si asserivano destinati all’approvvigionamento della armata francese » (Rapporto del ministro dell’interiore alla Commissione stra ordinaria di governo, 19 dicembre 1800, in ASG, RL, 129). Ragion per cui anche quella forma di controllo rappresentata dalla gabella grano veniva in buona misura a cadere.
49. ASG, Senato, Collegi diversorum, 384.
50. La camera di commercio richiesta dal progetto Corvetto è uno dei punti sui quali con più forza si scontrano le diverse tendenze in seno al governo. L’idea di una camera di commercio risaliva almeno al 1789, come testimonia un biglietto di calice letto nel Minor consiglio il 27 novembre di quell’anno (ASG, Archivio
segreto, Secretorum, 1639 N). Ad essa era favorevole Costantino Balbi, che l’aveva
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di tale ceto mercantile, ripetiamo, mentre costituiva un importante mo mento di crisi e di logorio del regime, per i modi stessi in cui avveniva non offriva una prospettiva di rinnovamento, o comunque un’alterna tiva al tradizionale potere dei Magnifici. Un ceto parassitario mirava a sostituirsi, o ad affiancarsi ad un ceto analogo, senza preoccuparsi di risolvere i problemi di fondo del paese, senza farsi portatore degli inte ressi di più larghi strati sociali. I programmi dei riformatori genovesi dovevano necessariamente battere un’altra strada.
Il dibattito riformatore, iniziato almeno alla fine degli anni « set tanta » 51, trovò le sue sedi principali nel giornale « Avvisi », fondato nel 1776, e poi nei circoli facenti capo alla Società patria delle arti e
delle manifatture, sorta a Genova nel 1786 per iniziativa degli aristo
cratici illuminati, tra cui erano molti membri della Deputazione del commercio. Le proposte di rinnovamento, partendo dallo spinoso pro blema della mendicità, così magistralmente trattato da G. B. Grimaldi nel suo celebre Ragionamento del 1783, si allargarono via via a discu tere i temi di fondo dell’economia ligure e si accentrarono sempre più sulla necessità di promuovere lo sviluppo dell’agricoltura, fisiocratica- mente intesa come sola fonte di prodotto netto, e a sua volta capace di incrementare le manifatture, cui avrebbe fornito materie prime — spe cie tramite l’allevamento ovino — e generi alimentari a basso prezzo onde limitare il costo del lavoro. In tal modo, accanto ad un proficuo impiego della manodopera nazionale e ad un reale superamento del dif fuso pauperismo, l’agricoltura e l’industria avrebbero realizzato il colle gamento organico con l’espansione di un commercio di esportazione, teso alla riconquista dei mercati perduti. Ad un’aristocrazia che viveva di ren dite indipendenti dall’andamento della produzione nazionale, il movi mento riformatore chiedeva un radicale mutamento di indirizzo, chiedeva capitali per un’agricoltura ed un’industria che solo con congrui investi menti potevano rifiorire e prosperare, chiedeva il potenziamento della marina mercantile e militare per riportare la Repubblica allo splendore
nel settembre 1790 (ibidem), nel dicembre 1793 (Verbale dei consigli cit., c. 89 r.), nel marzo 1794 (ivi, cc. I l i r. - 113 v.). Ed ancora l’avrebbe suggerita con più vigore, come mezzo per affezionare « la classe media al governo », per dare ossigeno al commercio e per trarne un gettito fiscale, il 5 maggio 1797 (BUG, B. V ili. 8,
Miscellanea di cose genovesi, cc. 197 e 207-208). .