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CAPITOLO V Le ragioni della violenza: analisi dei fatti e analisi oltre i fatti.

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CAPITOLO V Le ragioni della violenza: analisi dei fatti e analisi oltre i fatti.

Si sono esaminati fin ora i fatti, nella loro concatenazione e nei loro esiti traumatici, offrendo anche alcuni spunti di riflessione e di analisi in merito ad alcuni aspetti specifici come le pratiche e le tecniche adottate da frange violente e Forze dell’Ordine nel corso delle giornate di protesta contro il Vertice G8.

Nei paragrafi che seguono verranno invece offerti alcuni strumenti di analisi e di spiegazione, attraverso uno sguardo retrospettivo, delle cause che potrebbero aver determinato lo sviluppo degli eventi a partire dalle scelte operate in sede di organizzazione e di gestione dell’Ordine Pubblico e di contrasto alle manifestazioni indette dal Movimento.

Nella valutazione è bene partire da un assunto fondamentale, condiviso in diversa misura dall’opinione pubblica e politica all’indomani della chiusura dei lavori della conferenza e della pubblicazione delle prime testimonianze su ciò che era avvenuto nelle strade e nelle strutture genovesi utilizzate dal Genoa Social Forum: il dispositivo di sicurezza concepito per garantire sia lo svolgimento della riunione, sia le manifestazioni degli oppositori non è stato all’altezza del compito affidatogli. Se il recinto che circondava la Zona Rossa ha resistito agli attacchi, più che altro verbali, scongiurando il rischio che si potesse verificare nuovamente una sospensione di un Vertice (come era già successo a Seattle e solo un mese prima anche a Goteborg la tabella di marcia era stata

“modificata” a causa degli incidenti), non altrettanto si può dire a riguardo di quanto si è verificato all’esterno.

Le violenze documentate da foto e filmati, i danneggiamenti, la distesa di bossoli di lacrimogeni e di armi da fuoco (20 colpi d’arma da fuoco accertati dal ritrovamento delle cartucce, ma non è da escludere che possano essere stati più numerosi) e soprattutto l’uccisione di un ragazzo di 23 anni non sono i risultati di una gestione soddisfacente dellOrdine Pubblico.

L’analisi qui proposta muove da quelle che possono essere indicate come le cause di superfice, indubbiamente più evidenti, che hanno prodotto questi risultati: la scelta del modello di gestione, la preparazione delle Forze dell’Ordine e l’evidente inefficacia della riforma della Polizia.

La lettura di questi tre aspetti spinge l’analisi più in profondità, andando ad indagare da un lato il patrimonio di conoscenze, i modelli e l’immaginario propri dell’ambiente interno alle forze di polizia e dall’altro gli aspetti psicologico-sociali che intervengono a determinare i comportamenti degli uomini e delle donne in servizio.

5.1Chiusura di una “parentesi” ventennale.

I fatti di Genova, tra i vari effetti suscitati nell’opinione pubblica, hanno il merito di aver sollevato nuovi e numerosi interrogativi rispetto all’efficienza ed alla professionalità delle Forze dell’Ordine. Se alla vigilia i responsabili dell’ordine pubblico venivano presentati come unico baluardo schierato contro la potenziale devastazione della città e contro la minaccia ad un non meglio precisato ordine civile, gli stessi escono dall’esperienza del G8 fortemente (e legittimamente) contestati.

Le criticità emerse nel corso dei giorni di Genova sono legate alla qualità degli interventi, alla propensione alla violenza ed un uso prettamente punitivo ed efferato della stessa, tanto che i tribunali riuniti per giudicare sia i reati ipotizzati a carico di agenti e funzionari dell’Ordine Pubblico, sia quelli che li vedono come testimoni, si pronunceranno apertamente contro, anche se con tutti i limiti che sentenze in opposizione allo Stato possono avere

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. Le denunce relative all’operato delle nostre Forze dell’Ordine non provengono solamente dal mondo dei media o dagli interventi delle realtà politiche dell’opposizione o extraparlamentari. Le critiche più articolate e

1 Sono numerosi i casi in cui i reati vengono prescritti per scadenza dei termini o, nei casi di avvenuta condanna a risarcimenti, in cui le ammende vengono ritenute insoddisfacenti dalle parti lese o dalle parti civili.(Cfr sentenze di primo e secondo grado per processi a carico di Luperi et altri o a carico di Perugini et altri).

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significative giungono al Ministero dell’Interno e alla Presidenza del Consiglio per la gestione dell’Ordine Pubblico dal panorama internazionale: dai governi europei

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, che hanno visto numerosi tra i propri cittadini vittime delle vessazioni di Bolzaneto e delle violenze di strada, delle limitazioni alla libertà individuale e ai diritti fondamentali; da organismi internazionali autorevoli come Amnesty International

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, importante osservatore nel campo dei diritti umani, che riserva a Genova un ampio spazio nella relazione del 2001 e non ultime dalle stesse istituizioni europee, che sanzioneranno poi in tempi più recenti il sistema legislativo italiano relativamente all’assenza, nel nostro sistema legislativo, del reato di tortura, per il quale sarebbero state punibili le azioni della scuola Diaz

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.

Si potrebbe avanzare un’obiezione alle critiche retrospettive mosse da tante autorevoli fonti: la preparazione e la gestione dell’evento politico più importante di quegli anni è stata, a quanto risulta dalle relazioni esposte in sede di Commissione Parlamentare, non solo trasparente, ma più volte contestata dal Movimento proprio a causa delle innumerevoli carenze che presentava rispetto al rischio di incidenti, ragione che avrebbe potuto portare ad un intervento preventivo degli organi internazionali e degli altri governi che sarebbero stati rappresentati (e tutelati nelle loro figure istituzionali) da quell’apparato posto in essere dal Governo italiano; in secondo luogo, stando alle dichiarazioni del Prefetto La Barbera, l’organizzazione della sicurezza e la raccolta di informazioni, fino alla struttura di interventi preventivi è stata gestita attraverso e grazie alla collaborazione con i governi e le polizie degli altri Stati europei e non, il che avrebbe potuto garantire agli stessi di avere uno sguardo critico rispetto ai rischi che un’impostazione repressiva della gestione dell’Ordine Pubblico poteva implicare. Nonostante ciò la legittimità delle critiche provenienti dalle realtà istituzionali, politiche e associazioniste del Pianeta è innegabile ed apprezzabile, soprattutto perchè ha permesso e promosso un’analisi, benchè soltanto a posteriori, sulle cause di quegli avvenimenti.

Sotto la lente d’ingrandimento vi è essenzialmente l’operato dei tutori dell’ordine per la particolare (se non tragica) evoluzione che ha avuto sul campo, il cui esame consente di individuare le cause all’interno di tre aspetti, concatenati tra loro in rapporto reciproco di causa ed effetto:

- il cambiamento, in aperto contrasto con la tradizione, del modello di gestione della piazza;

- la qualità della preparazione degli operatori di Ordine Pubblico;

- i mancati effetti della riforma della Polizia, il cui intento era anche quello di adeguarne l’organizzazione al modello proposto da altri Stati europei e moderarne (o annullarne) l’impronta militarista, a favore di un’immagine “positiva” del corpo.

Si tratta di cause determinanti che hanno avuto un preciso effetto sulle scelte nella gestione dei singoli eventi, sugli errori commessi e sul comportamento assunto; la ricerca delle motivazioni di quanto è successo a Genova e il giudizio espresso nel corso degli anni rispetto alla qualità della gestione degli eventi non può non tenerne conto.

5.1.1 Hard Protest Policing: il cambiamento del modello

2 “La gestione dell'ordine pubblico a Genova non convince tutta l'Europa, Inghilterra e Germania in particolare. Un ministro bri tannico, in dissenso con Blair, critica la polizia italiana e su un giornale tedesco si legge "che a Berlino la polizia non avrebbe mai sparato", dopo che il quotidiano francese Libération aveva dedicato la prima pagina alla drammatica foto di Carlo Giuliani, il manifestante ucciso e riverso nel suo sangue.” Da “La Repubblica” del 22 Luglio 2001.

3 L’organizzazione, nel suo rapporto annuale, definirà i fatti di Genova:” La più grave sospensione dei diritti democratici in un Paese occidentale dopo la seconda guerra mondiale.”

4 “Quanto compiuto dalle forze dell'ordine italiane nell'irruzione alla Diaz il 21 luglio 2001 "deve essere qualificato come tortura". Lo ha stabilito la Corte europea dei diritti umani che ha condannato l'Italia non solo per il pestaggio subìto da uno dei manifestanti (l'autore del ricorso [Arnaldo Cestaro, ndr]) durante il G8 di Genova , ma anche perché non ha una legislazione adeguata a punire il reato di tortura; un vuoto legislativo che ha consentito ai colpevoli di restare impuniti. "Questo risultato - scrivono i giudici - non è imputabile agli indugi o alla negligenza della magistratura, ma alla legislazione penale italiana che non permette di sanzionare gli att i di tortura e di prevenirne altri".Da “La Repubblica” del 7 Aprile 2015.

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Una delle probabili ragioni che spingono a ritenere l’operato delle Forze dell’Ordine a Genova un fallimento, al di là delle efferatezze che sono state oggetto di una valutazione disciplinare peraltro poco efficace, è il fatto che ciò che è accaduto sia arrivato a chiusura di un lungo periodo di relativa pacificazione sociale nelle piazze italiane. Se si escludono episodi, comunque meno tragici, come le lotte per l’occupazione e la difesa dei Centri Sociali o alcune dei lavoratori con accenti più radicali, la dimensione dello scontro aveva riguardato principalmente l’ambito sportivo con scontri tra Reparti Mobili e gruppi appartenenti alle tifoserie. Le Forze dell’Ordine sono giunte all’appuntamento genovese con uno scarso bagaglio esperienziale e un enorme carico di responsabilità rispetto alla riuscita del vertice e delle iniziative correlate. Nei capitoli precedenti si è fatto già ricorso alle categorie di riferimento individuate da Della Porta relativamente ai modelli assunti per la gestione dell’Ordine Pubblico nel corso della storia dei conflitti sociali interni al nostro Paese; la stessa studiosa, fornendo un’importante consulenza in sede processuale per i fatti di Via Tolemaide e degli scontri del 20 Luglio, mette l’accento su come il modello di gestione scelto per l’occasione genovese sia stato, sin dalla vigilia dell’inizio delle contestazioni, un modello improntato sull’escalation violenta e su di una gestione rigida della piazza. Il modello di de-escalation invece presuppone una conoscenza dell’altro ormai irrealizzabile a ridosso dell’apertura del Vertice, data la particolare novità del Movimento per la globalizzazione dal basso

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. Nella lettura retrospettiva dell’operato la particolare conformazione “a galassia” che caratterizzava il Genoa Social Forum viene individuata dai vertici della Polizia come ostacolo per la costruzione di un dialogo proficuo. Questo dialogo in realtà, come viene ricordato nel secondo capitolo di questo lavoro, quando è stato cercato è sempre stato indirizzato verso l’inibizione della possibilità di manifestare. Perchè allora, dopo due decenni in cui il modello della soft policing aveva dimostrato la sua efficienza e lo scontro politico era stato gestito garantendo ampio spazio al diritto di esprimere il dissenso, è stata intrapresa la strada del non-dialogo con la controparte ed è stato predisposto uno scenario in cui lo scontro violento era auspicato se non inevitabile? Dal punto di vista metodologico l’approccio del soft protest policing affida un ruolo di primo piano alle strategie informative ed al dialogo con i referenti dei movimenti. Si è detto di come la strategia dialettica fosse inibita da una scarsa fiducia nei confronti degli interlocutori interni al Movimento e di come la composizione fortemente articolata non consentisse agli organi di polizia di individuare una controparte da ritenersi attendibile.

Sul piano del dialogo con i manifestanti le forze di polizia, procedura che viene analizzata anche nell’ambito dei manuali formativi che dedicano un ampio spazio alle strategie persuasive, tendono a ricercare una specularità tra la propria struttura e quella dei movimenti. L’obiettivo è solitamente quello di indivuare una leadership ed un’organizzazione piramidale che consenta di impostare la trattativa con quelli che possono essere considerati i vertici in grado di garantire una risposta omogenea da parte dei cosiddetti “gregari”

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. Le strategie persuasive fondate sulla trattativa sono spesso risultate efficaci, perchè fondate sulla mediazione tra gli obiettivi da difendere da parte delle Forze dell’Ordine e quelli da perseguire da parte dei manifestanti. L’individuazione di una struttura gerarchica è relativamente possibile quando la controparte siano gruppi ultras, che tendono a riconoscere un leader al loro interno dotato di forte carisma e che gode della piena fiducia del gruppo, o strutture sindacali e partitiche dotate di una struttura formale. Il Movimento per una globalizzazione dal basso, sebbene riunitosi in un coordinamento di respiro internazionale, non possiede quelle caratteristiche in grado di facilitare la trattativa preventiva, nè tantomeno quella sul campo. Ciascun gruppo che si riconosce all’interno del Genoa Social Forum porta a Genova i propri contenuti e i propri obiettivi specifici, sebbene assimilabili ad una generica volontà di “sabotare” il vertice o invadere la Zona Rossa. La mediazione è possibile solo relativamente agli obiettivi che ciascun gruppo si prepone e la loro varietà implica la necessità di mediare su più fronti, traguardo

5 Cfr. Andreatta, Della Porta, Reiter, Mosca; “Global, No Global, New Global”, cit.

6 Le riflessioni sono tratte dalla lettura di E. Gargiulo, Enrico Gargiulo, “Ordine pubblico, regole privateRappresentazioni della folla e rescrizioni comportamentali nei manuali per i Reparti mobili”, pubblicato in “Etnografia e ricerca qualitativa”. L’articolo offre un’analisi dei testi redatti da personale delle Forze dell’Ordine come base teorica dell’addestramento.

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non impossibile da raggiungere nel momento in cui la relazione si basi sulla reciproca conoscenza e sul riconoscimento da parte delle forze di polizia della legittimità del diritto a manifestare.

Come si è visto questi due fattori sono totalmente assenti nella concezione che parte delle istituzioni e dei responsabili dell’Ordine Pubblico hanno del Movimento. Sebbene non si sia voluto lasciare spazio alle strategie persuasive le Forze dell’Ordine hanno investito risorse e competenze a favore del reperimento delle informazioni. Solitamente questa scelta può giocare un ruolo importante rispetto alla prevenzione, attraverso un intervento mirato che riesca ad inibire eventuali derive della protesta; informazione significa anche conoscenza e quindi migliore capacità di gettare le basi per un dialogo teso a garantire il più tranquillo svolgimento delle manifestazioni. Anche in questo senso la direzione impressa alla raccolta di notizie è stata esclusivamente di carattere repressivo ed ha riguardato denunce, fermi e perquisizioni sia all’interno dei confini italiani, sia nell’ambito dei controlli alle frontiere ripristinati per l’occasione. Una scelta quest’ultima che riprende da vicino le modalità attuate dalle forze di Pubblica Sicurezza negli anni dell’era fascista, quando in occasione dei comizi dei gerarchi del partito i funzionari di Polizia procedevano preventivamente all’arresto dei soggetti ritenuti pericolosi quando non dichiaratamente antifascisti, o quelle riproposte sotto il ministro Scelba quando, in occasione degli scioperi o delle manifestazioni sindacali si interveniva ai danni degli esponenti dei movimenti per i diritti dei lavoratori

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; la stessa impronta è riconoscibile negli interventi di repressione preventiva nei confronti degli aderenti alle tifoserie organizzate attraverso i DASPO

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che prevedono l’allontanamento dei soggetti per un lungo periodo da tutte le manifestazioni sportive

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. Rientra poi tra le strategie preventive una gestione del territorio incentrata sulla proibizione dell’accesso al pubblico a intere sue porzioni. L’impostazione di una “difesa ad oltranza” della zona rossa

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ha indotto il personale delle Forze dell’Ordine a sacrificare la priorità di garantire il diritto a manifestare a favore di una gestione militare degli spazi. La blindatura di parte della città non è una novità genovese. Come è stato già ricordato, anche a Napoli era stata concepita una “Zona Rossa”, seppur semplicemente circondata dai cordoni delle Forze dell’Ordine, accessibile solo ai cittadini provvisti di autorizzazione. Le stesse barriere in ferro provviste di varchi controllati erano un’eredità della conferenza internazionale di alcuni mesi prima tenutasi a Quebec City. Se la fortificazione risulta funzionale all’impermeabilità delle aree sensibili destinate agli incontri ufficiali, il suo significato in un certo senso metaforico non tende a favorire la mediazione, impedendo di fatto a priori spazi di trattativa, tanto che il confronto con i portavoce del Gsf si gioca esclusivamente intorno all’agibilità dell’altra area di prescrizione delle manifestazioni: la Zona Gialla.

La rottura della proibizione, nella giornata del 19 Luglio in occasione del corteo dei migranti, ha dimostrato come conservare margini elastici per la concessione di spazi di manovra all’interlocutore non debba considerarsi una sconfitta dal punto di vista dell’Ordine Pubblico. Il corteo del Giovedì ha potuto infatti percorrere il tragitto anche all’interno della Zona Gialla senza nessun incidente. La riuscita della trattativa deve però presupporre il reciproco rispetto degli accordi, aspetto che viene a mancare in occasione della manifestazione delle Tute Bianche del 20 Luglio, il cui attacco da parte del Battaglione Lombardia dei Carabinieri, al di fuori della zona ufficiosamente concessa dalla Questura, provoca gli incidenti maggiori dalle cui dinamiche dipendono le tragiche conseguenze di Piazza Alimonda, decine di feriti e l’esecuzione dei primi fermi condotti a Bolzaneto.

Se alla vigilia del vertice l’accordo sulla praticabilità della Zona Gialla sembrava raggiunto, almeno agli occhi del Gsf

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, gli avvenimenti del 20 e 21 Luglio dimostrano come sia stato disatteso.

7 La stagione delle misure di prevenzione repressiva viene innaugurata all’indomani dello sciopero generale in risposta all’attentato ai danni di Palmiro Togliatti; seguirono circa 7000 misure repressive tra denunce e arresti. (Della Porta, Reiter; “Polizia e Protesta”, cit.)

8 D.A.SPO., acronimo di Divieto di Accedere alle manifestazioni SPOrtive

9 Della Porta, Reiter; “Polizia e Protesta”; cit.

10 Della Porta et altri, “Global, No Global, New Global”, cit.

11 “L’unica richiesta informalmente accolta, nel terzo incontro del 30 Giugno, è la rinuncia alla cosiddetta “zona gialla”, la vasta area cittadina tracciata intorno all’inaccessibile “zona rossa”, iperprotetto luogo d’incontro delle delegazioni ufficiali. Nel piano iniziale, la

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La città viene quindi presentata come un teatro di guerra, blindato e difeso da migliaia di Forze dell’Ordine, Esercito e Aeronautica, premesse che non costituiscono evidentemente la base per un clima disteso che favorisca la mediazione. Si deve aggiungere che gli incidenti maggiori per ciò che riguarda le devastazioni e le violenze, gli attacchi diretti ai Reparti e i disagi inflitti alla cittadinanza sono avvenuti nel complesso al di fuori o comunque ai margini della Zona Gialla, quindi all’esterno degli spazi oggetto della trattativa.

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Azioni commesse, si suppone, da frange esterne ed estranee al movimento, quando non in aperto contrasto con quest’ultimo.

Un ultima considerazione riguarda ancora la discrepanza tra l’esperienza accumulata da una generazione di agenti dei Reparti e il ruolo che sono stati chiamati ad interpretare in un contesto sconosciuto. Non si deve dimenticare che proprio in virtù del ventennio di assenza di grandi crisi nelle dinamiche di piazza l’unico approccio conosciuto dai singoli agenti era quello degli scontri fuori dagli stadi, in cui contro il fenomeno dell’hooliganism tutto è lecito

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, essendo di massima priorità il quieto svolgersi delle manifestazioni sportive. È stato quindi abbandonato un terreno ampiamente noto, come quello della gestione del fenomeno della contestazione anche radicale, a favore di uno non più noto e cioè quello della repressione violenta. Nei vent’anni precedenti infatti le forze di polizia schierate in difesa dell’ordine pubblico non si erano dovute confrontare, se non in rari casi, con la necessità di utilizzare la forza; la loro presenza nelle piazze era stata preceduta con un discreto successo dall’uso delle strategie persuasive. Non erano perciò abituate a relazionarsi ai movimenti di protesta in termini di contrapposizione violenta.

La scelta di adottare un modello di approccio più duro comporta la necessaria consegueza di dover mutuare dalle esperienze più recenti le modalità di comportamento da tenere nei confronti della controparte. In questo senso si vedrà più avanti come il portato “culturale” del sapere interno alle Forze dell’Ordine abbia rivestito un ruolo fondamentale, ma è evidente come sia riproposta una modalità di intervento tipica di contesti violenti che nulla hanno a che vedere con le manifestazioni politiche.

Su queste scelte si innestano poi delle difficoltà di carattere pratico come l’inadeguatezza dell’apparato delle comunicazioni (la sala operativa ha registrato notevoli difficoltà nel gestire un numero di Reparti consistente e impegnati contemporaneamente su di un territorio molto vasto e poco conosciuto) e una catena di comando poco funzionale a far fronte alle emergenze (si vedrà tra poco) in cui le direttive di intervento devono “rimbalzare” dal dirigente di PS agli ufficiali dei Carabinieri non sempre reperibili. Queste ultime criticità sono più probabilmente un’aggravante della situazione e non tanto una con-causa delle efferatezze commesse, le cui ragioni trovano una migliore spiegazione in fattori riguardanti la preparazione e il sostrato culturale interno al gruppo.

5.1.2 L’addestramento speciale

Dalle varie testimonianze degli agenti in servizio o dei militari dell’Arma che hanno fronteggiato gli attacchi della cosiddetta “guerriglia urbana”, seppure funzionali alla propria linea difensiva in tribunale, emerge

“zona gialla” era interdetta a ogni manifestante. Con questo clima di tensione latente fra Gsf e istituzioni sia arriva dunque a Luglio, alla vigilia del vertice” Da V. Agnoletto, L. Guadagnucci; “L’eclisse della democrazia. Le verità nascoste sul G8 2001 a Genova;

Feltrinelli, Milano, 2011.”,

12 “Il sindaco di Genova, che nei giorni del G8 ha attraversato in lungo e in largo la città, ha spiegato che essa ha «subìto danni morali enormi», e che «quelli materiali sono assai meno». Non solo perché a fronte dello stanziamento di 15 miliardi sono giunte ric hieste per un decimo. Soprattutto perché «colpiti non sono stati i negozi, ma soprattutto filiali di banche, pompe di benzina». Obiettivi ben scelti

«da un’organizzazione fortemente accentrata». E anche per questo, quegli obiettivi «si potevano difendere». Se non fosse, spiega per un’intera mattinata di audizione, che le forze dell’ordine in quei luoghi, in quei momenti non c’erano. «La giornata più brutta fu quella di venerdì», c’è l’assedio con minaccia di sfondamento della zona rossa, «minaccia virtuale perché il G8 ha avuto la massima sicurezza possibile, mentre nel resto della città non c’erano le forze di sicurezza essenziali».” Da “La Stampa dell’8 Agosto 2001.

13 “Sa qual’è la verità? Non hanno più esperienza delle maniferstazioni politiche, non hanno mai partecipato a uno scontro di piazza, non sanno come comportarsi. L’unica esperienza che hanno è quella degli stadi, dove è guerra totale, dove contro gli hooligan tutto è permesso. Ecco: molti poliziotti sono andati a Genova, alla carica contro trecentomila manifestanti, come sarebbero andati a manganellare un’orda di hooligan arrivati da chissà dove.” Da un’intervista ad un agente di polizia comparsa su “Diario”, n. 32-33 del 2001, pag. 16. Citato in Della Porta et altri, “Global, No Global, New Global”, cit.

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comunque un’impreparazione di fondo rispetto all’impatto emotivo e psicologico che la piazza ha indotto nel singolo operatore di ordine pubblico, a riprova di come anche l’addestramento specialistico non abbia saputo dare un’adeguata preparazione alla “novità” dello scenario in cui erano chiamati ad operare. Le impressioni degli operatori di Ordine Pubblico e i dialoghi registrati dalla sala operativa restituiscono come si è detto un’impreparazione diffusa all’impatto psicologico e alla fatica fisica. È inoltre noto come, a differenza dell’organico che componeva i Reparti della Polizia, un terzo del personale appartenente all’Arma fosse in servizio ausiliario, quindi si trattava di ragazzi giovani (18-20 anni) e fondamentalmente impreparati alle dinamiche proprie della gestione dell’Ordine Pubblico. Neppure l’esperienza del Global Forum di Napoli è riuscita a dar modo ai dirigenti addetti alla formazione e aggiornamento del personale di rivedere le tecniche di intervento alla luce di un avvenimento che aveva comunque posto le Forze dell’Ordine di fronte a scontri di matrice diversa da quelli legati alle manifestazioni sportive e caratterizzati da un’eterogeneità dei partecipanti.

Napoli inoltre aveva già messo l’operato delle Forze dell’Ordine sotto la luce dei riflettori, avendo provocato anche in quell’occasione episodi cruenti denunciati più volte dalle associazioni, dalle realtà politiche e dai media.

L’addestramento del personale ordinario e dei reparti sperimentali di Polizia e Carabinieri ha avuto luogo successivamente alle giornate napoletane e i funzionari preposti alla formazione hanno utilizzato il materiale filmato, le fotografie e le esperienze raccolte in quell’occasione come spunto per innovare gli interventi rispetto alle nuove modalità di scontro messe in atto dal Movimento.

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Nel Manuale redatto dal Dott. Valerio Donnini, che, come si è più volte ricordato,all’epoca era funzionario della direzione centrale per gli affari generali del Dipartimento di Pubblica Sicurezza, probabilmente a causa della sua natura prettamente tecnica e non finalizzato ad una formazione profonda degli agenti che andasse oltre il carattere procedurale, non viene lasciato spazio a considerazioni inerenti ai numerosi casi di comportamenti illeciti o devianti degli agenti. Si limita invece a riproporre tecniche di schieramento, marcia, modalità dello scioglimento degli assembramenti e delle manifestazioni, valutando anche la possibilità di trovarsi di fronte ad apparati innovativi come le barriere rigide o semirigide comparse a Napoli e a Genova

15

.

Dal punto di vista dell’innovazione nell’addestramento non vi è dunque nessuna particolarità da segnalare, se non specifiche direttive relative all’uso di dotazioni potenzialmente nocive come i gas lacrimogeni noti come CS

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, adottati pochi mesi prima dalle Forze dell’Ordine. Analizzando i manuali precedenti a quello del 2001 si nota inoltre come questo si rifaccia, offrendone più che altro una sintesi, alla pubblicazione (sempre per uso esclusivamente interno) del Vice Questore Aldo Gianni adottato l’anno precedente. Già quest’ultima mostrava di essere in forte continuità con la tradizione manualistica che precede la riforma della Polizia del 1981 e in sostanza non poneva interrogativi o prescrizioni particolari rispetto al comportamento da assumere nell’uso degli strumenti di coercizione e di dissuasione.

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La preoccupazione principale, dichiarata anche nel corso dell’audizione del Dott. Donnini alla Commissione Parlamentare d’Indagine e citata anche nel secondo capitolo di questo lavoro, era l’adeguamento al modello offerto da altri paesi europei attraverso la creazione di Reparti specializzati nelle operazioni di ordine pubblico e nel contrasto alle nuove modalità della protesta che erano state realizzate nel corso di altri vertici mondiali. La

14Questo tipo di approccio alle nuove conoscenze acquisite dagli organi di polizia è desunto dalla lettura del manuale redatto dal Dott.

Donnini che ha costituito la base teorica dell’addestramento dei Reparti Mobili per il G8 di Genova.

15 Nel manuale preso in esame non vi è un esplicito riferimento alle tecniche utilizzate nei cortei di Napoli o a quelle annunciate dalle Tute Bianche nelle conferenze stampa, ma l’alluzione è palese nel titolo del paragrafo relativo ai metodi di intervento: “Tecniche di contrasto nei confronti di barriere mobili tipo “gommoni” o in plexiglass” a pag. 17 del manuale.

16 “Il CS (orto-chlorobenzylidene-malononitrile) è un irritante molto forte che causa bruciori nel tratto respiratorio e l’involontaria chiusura degli occhi[...]La sensibilità ai gas lacrimogeni varia considerevolmente tra i diversi individui. Fattori che influenzano le reazioni possono essere lo stato emozionale, motivazioni, attività fisica, la temperatura ambiente e l’umidità.” Ibidem., paragrafo descrittivo degli artifizi lacrimogeni in dotazione alle forze di Ordine Pubblico.

17 Da E. Gargiulo, “Ordine Pubblico, regole private”, cit.

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preparazione dunque avveniva sulla base delle informazioni reperite nel confronto con le altre polizie europee e sulla base dei dati acquisiti con la visione del materiale registrato; non è stata prevista una preparazione di carattere psicologico, nè politico rispetto allo scenario ipotetico (ma probabile, dati appunto i precedenti che fornivano il materiale di studio) che gli agenti si sarebbero trovati ad affrontare. La tradizione recente aveva infatti abituato il personale assegnato al servizio di ordine pubblico a considerare gli interventi in termini di contrapposizione con gruppi ostili alle forze dell’ordine. Le pratiche adottate dai No Global, anche quando erano sfociate in contrasti particolarmente duri, non concepivano la protesta di piazza come attacco al personale in divisa, ma come espressione di contenuti politici. Alla luce dell’intenzione di ricorrere ad un uso massiccio della forza e parallelamente all’istruzione tecnica dei reparti, la preparazione professionale avrebbe potuto includere anche elementi di carattere politico relativi alla natura della protesta che avrebbe in parte potuto determinare una differenza sostanziale nel tipo di concezione dello scenario in cui il personale si sarebbe trovato ad operare. La selezione degli uomini per i reparti sperimentali venne operata anche sulla base di criteri quali la resistenza allo stress psico-fisico e la sopportazione di turni di lunga durata.

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.

Ciò nonostante i reparti sperimentali reclutati, che si sono distinti anche in operazioni come l’assalto alle scuole Diaz, non erano numericamente significativi. Si è trattato infatti di un solo Nucleo per la Polizia di Stato e di cinque Compagnie di Contenimento e Intervento Risolutivo (C.C.I.R.) per quanto riguarda i Carabinieri

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. Non è possibile avanzare ipotesi rispetto alla qualità della preparazione al di là della lettura del materiale cartaceo.

Un’analisi più completa si potrebbe ottenere solamente attreaverso l’osservazione sul campo nel corso degli addestramenti per poter valutare anche il bagaglio conoscitivo frutto delle sessioni e delle esercitazioni, analisi impossibile da realizzarsi per ciò che riguarda le Forze dell’Ordine italiane a causa della loro storica chiusura e diffidenza rispetto agli sguardi esterni anche se finalizzati a studi accademici

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. Alcune testimonianze di Poliziotti che parteciparono all’addestramento offrono però uno spiraglio attraverso cui potersi affacciare su di un mondo altrimenti inaccessibile:

“ In un articolo uscito sul settimanale “Diario” nel maggio 2002, i giornalisti Goffredo De Pascale e Mario Portanova raccontano l’esperienza compiuta l’anno prima da Giuseppe Boccuzzi, un agente del VII reparto mobile di Bologna, a un corso di addestramento al centro di Ponte Galeria in preparazione del G8: -Ci insegnavano soltanto a reprimere e non a prevenire- racconta Boccuzzi- Il movimento No Global ci veniva presentato come il nemico, non c’è stata nessuna formazione sulle varie componenti del movimento, nessuna distinzione fra gruppi violenti e pacifici. Ci siamo preparati ai grandi lanci di molotov, a camminare tra le fiamme, a scendere dai mezzi in corsa.”

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Gli effetti delle generalizzazioni, o livellamento come viene definito da Gargiulo, saranno oggetto di analisi nei prossimi paragrafi. L’interesse maggiore per il momento viene catturato dalla corrispondenza tra questo tipo di testimonianze e ciò che si è poi concretizzato nelle dinamiche di piazza a Genova.

È singolare l’atteggiamento assunto dalle Forze dell’Ordine rispetto alle modalità di scontro messe in opera dalle frange violente dei manifestanti. Nonostante queste ultime siano assimilabili, come sottolineato in precedenza, ai metodi di attacco ai reparti di Polizia utilizzati dai gruppi “ultras” in occasione delle gare sportive, sono viste

18 Cfr. Audizione del Dott. Vincenzo Canterini presso la Commissione Parlamentare d’indagine conoscitiva, seduta del 4 Settembre 2001, pag.108, cit.

19 “[...]le CCIR furono istituite come i contingenti un po’ più addestrati ad attività di ordine pubblico direi più dinamiche, più cinetiche se così si può dire. [...]furono istituite proprio in vista di questa manifestazione.[...]i contingenti CCIR provenivano da cinque battaglioni diversi, battaglione Lombardia con sede in Milano, battaglione Toscana con sede in Firenze, battaglione Lazio con sede in Roma, battaglione Campania con sede in Napoli, battaglione Sicilia con sede in Palermo, erano cinque battaglioni dei carabinieri ognuno dei quali aveva fornito un’aliquota che variava dai 150 alle 200 unità circa per un totale complessivo di 920 uomini circa, e questo era no le cinque aliquote più pesanti per l’ordine pubblico, pesanti perché erano destinati a compiti, diciamo così, di contenimento e intervento risolutivo.” Dalla deposizione del Ten. Col. Giovanni Truglio al processo a carico di Arculeo et altri, udienza del 16 Febbraio 2007.

20 Cfr. Gargiulo, “Ordine Pubblico, regole private” cit.

21 Da V. Agnoletto, L. Guadagnucci, “L’eclisse della democrazia”, cit.(Citato anche in nota 76, cap. II di questo lavoro).

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dagli agenti come pratiche assolutamente inconsuete e qualitativamente superiori a qualsiasi scenario si sia proposto loro in precedenza.

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L’elemento di novità sta più probabilmente nella diffusione sul territorio di tecniche comunque non nuove per chi opera in Ordine Pubblico e la difficoltà di intervenire tempestivamente ha costretto più volte i reparti a marce forzate di diversi chilometri per raggiungere, in ritardo, i luoghi delle devastazioni. Le parole dell’ex Questore di Genova Francesco Colucci risultano in tal senso esemplari:

“È stato chiesto per quale motivo le forze dell'ordine non siano riuscite a sorprendere in flagranza i soggetti che hanno compiuto le azioni di distruzione e di violenza. La risposta è che le forze dell'ordine sono attrezzate per garantire l'ordine pubblico, cioè per affrontare situazioni di dissenso, anche pesante, in cui chi contesta ha comunque un obiettivo da raggiungere: occupare una sede stradale, una fabbrica, magari colpendo le forze di polizia medesime. Qui la distruzione ed il danneggiamento erano fini a se stessi: noi proteggevamo una agenzia di banca mentre un gruppo colpiva un esercizio commerciale o un distributore di benzina ed altri incendiavano l'utilitaria di una pensionata. [...]Non si è trattato di ordine pubblico, ma di cieca guerriglia urbana e contro tale offesa è stato predisposto un dispositivo che ha presentato, forse, alcune lacune. Forse non avevamo la preparazione necessaria per contrastare azioni di guerriglia, anche se ancora oggi mi chiedo quale possa essere la strategia giusta per contrastare queste forme di indiscriminata violenza e distruzione e se questo possa avvenire con l'impiego di reparti che avrebbero, come naturale compito, la tutela di una pacifica - ripeto, pacifica - manifestazione del pensiero. La polizia non ama la guerriglia urbana, che male si accorda con le sue tattiche militari, che invece postulano soluzioni lente, immobili e prevedibili per poter dispiegare la sua forza di controllo pachidermica e il suo ordine gerarchico pianificato.”

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Gli eccessi di alcune frange radicali che hanno portato in piazza pratiche relativamente poco note sia alle Forze dell’Ordine che al resto dei dimostranti ha legittimato poi un’efferatezza tale da sfociare nel ripetuto ricorso alle armi da fuoco e all’uccisione. Tuttavia il realizzarsi di forme di opposizione violente e finalizzate alla devastazione del territorio ha di fatto consentito di applicare il modello di approccio, tradizionalmente riservato al contrasto degli hooligans, alla totalità dei dimostranti legittimando almeno agli occhi del personale in divisa e quindi partecipe di una concezione dei manifestanti come massa indistinta e ostile, una modalità particolarmente dura degli interventi.

Se da un lato vi era stato lo sforzo da parte degli uffici della Polizia addetti allo studio della galassia del movimento al fine di comprenderne le varie anime e quindi i vari tipi di pratiche della protesta, nei fatti vi è stata un’assimilazione della totalità degli aderenti al Gsf alle frange più ostili. La suddivisione in “blocchi” di diverso colore, sulla base della loro presunta ostilità e violenza, non solo non era capace di restituire le sfumature interne a causa di un’eccessiva approssimazione dovuta ad uno schema che non aderiva per nulla alla realtà politica che si era creata, ma non ha avuto comunque l’effetto di operare una netta distinzione tra manifestanti “buoni” e

“cattivi” al di là degli intenti con i quali era stato concepito questo schema. Nelle audizioni dei vertici della Polizia alla Commissione Parlamentare d’indagine emerge che dei quattro blocchi in cui erano state suddivise le varie anime del movimento, ben tre avevano tendenze se non violente (la corona di massima pericolosità era

22 “Io opero nella Polizia dal 1977 che sono su strada, quindi sono un frequentatore di corso d’Accademia dal ’73 al ’77 e dal ’7 7 ho avuto più volte occasione di partecipare a servizi di ordine pubblico.[La situazione affrontata nel corso delle giornate del G8]È stata molto critica e molto difficile sicuramente. Sicuramente la... qualche scontro nell’attività di servizio può capitare, qualche breve scontro, quello che ha caratterizzato quelle giornate è stato sicuramente l’intensità, il numero delle persone violente che ci siamo trovare a dovere fronteggiare e la determinazione di queste persone, perché il più delle volte i contatti che si hanno durante l’esercizio dell’attività di ordine pubblico in piazza sono molto brevi, nel senso che le cosiddette cariche di alleggerimento servono molto spesso a interromper e una situazione di illegalità e a riportare l’ordine pubblico. In questa situazione invece le nostre cariche cosiddette di alleggerimento sono servite essenzialmente a proteggere noi stessi che siamo stati fatti oggetto appunto per ore di attività ostili da parte di g ruppi di manifestanti.” Dalla deposizione del Dott. Mario Mondelli al processo a carico di Arculeo et altri, udienza del 16 Novembre 2004, cit.

23 Dall’audizione del Questore Francesco Colucci presso la Commissione Parlamentare d’indagine conoscitiva, seduta del 28 Agosto 2001, cit.

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riservata al Blocco di colore Nero) almeno marcatamente ostili al dialogo con le Forze dell’Ordine. È supponibile, e l’intervista all’agente Boccuzzi ne è la conferma, che tutto ciò abbia fatto parte delle conoscenze in possesso ai vertici e ai funzionari della Polizia che si sono occupati della formazione del personale e quindi successivamente trasmesse come base teorica ai reparti in addestramento. Si deve considerare a questo proposito che i precedenti vertici mondiali, anche quelli diventati più famosi per la portata delle contestazioni e per la difficoltà di essere portati a termine, non sono stati messi in discussione dalla rottura delle vetrine dei negozi, ma da forme di opposizione del tutto pacifiche, ma radicali e determinate. Contro queste forme la gestione della piazza, e non contro la violenza dello scontro dei dimostranti, ha rivolto tutto il suo potenziale militare, con attacchi a cortei pacifici, presidi, manifestanti isolati e disorganizzati. La presenza in piazza dei cosiddetti Black Bloc ha fornito, costantemente per tutta la durata delle contestazioni, il pretesto per un accanimento indiscriminato nei confronti di tutte le anime del Movimento.

5.1.3 Polizia di cittadini

L’analisi di Della Porta fornisce una categoria di riferimento in cui inserire i modelli di Polizia, da un lato quello storicamente affermato in Italia fino alla fine degli anni settanta: definito “Polizia del Sovrano” (King’s Police), ovvero una polizia attenta maggiormente alla difesa dell’ordine costituito e dello Stato inteso come istituzione politica; dall’altro vi è la Polizia dei Cittadini (Cityzen’s Police), che concede massima priorità alla difesa dei diritti e del rispetto della possibilità di manifestare.

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A questo secondo modello aspirava il lavoro della Riforma della Polizia, iniziata come “battaglia” interna da gruppi sempre più numerosi di agenti sindacalizzati e attuata completamente con la legge 121 del 1 Aprile 1981.

L’efficacia della riforma è sembrata innegabile per i due decenni successivi. Il nucleo focale dell’intervento di democratizzazione ha riguardato una profonda smilitarizzazione del corpo di Polizia, intervento che avrebbe dovuto garantire l’evoluzione dei rapporti con i cittadini ridefinendo l’immagine dei tutori dell’ordine. Le giornate del Luglio 2001 hanno messo in forte discussione l’immagine della Polizia costruitasi già prima della riforma, attraverso le lotte sindacali interne e la ricerca di una rete solidale nella cittadinanza.

Numerose dichiarazioni di appartenenti alla dirigenza della Polizia di Stato all’indomani dei fatti del G8 si focalizzano proprio su questo aspetto. A Genova la Polizia è tornata indietro di vent’anni, rapportandosi al dissenso come una milizia al servizio del sovrano.

“Ci siamo scoperti diversi da quello che credevamo di essere, perchè con la riforma della polizia avevamo veramente creduto in una polizia al servizio del cittadino. Questo ha frantumato quello che era l’ideale della riforma che era una riforma che era stata voluta dai poliziotti, che era nata all’interno della polizia e che si proponeva una polizia migliore. C’era proprio un crollo di tutte le nostre idee. Quindi è stato il fallimento di un progetto. Difficilmente si potrà recuperare, almeno in tempi brevi, recuperare questo. Io mi ricordo dopo il G8 molte persone che dicevano, erano ragazzi soprattutto, e dicevano: - se tu sei aggredito da qualcuno, chiami la polizia, ma se è un poliziotto che ti aggredisce, tu chi chiami?”

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È quindi lecito domandarsi come sia stato possibile invalidare lo sforzo riformatore che intendeva rendere le Forze dell’Ordine non tanto il braccio armato dello Stato, ma una forza al servizio della democrazia e del cittadino.Se il fallimento della riforma, almeno nella lettura del comportamento della Polizia nel contesto Genovese, è un dato di fatto, non sono altrettanto chiari i motivi che hanno portato ad una crisi dell’opera di modernizzazione e democratizzazione. A inibire in partenza le potenzialità innovatrici della riforma vi era un problema endemico dell’organizzazione degli apparati di sicurezza dello Stato italiano.

La gestione dell’Ordine Pubblico in Italia è diretta esclusivamente dalla Polizia di Stato, nello specifico del G8 la responsabilità era del Questore di Genova Francesco Colucci; questa è la ragione principale per cui ci si concentra maggiormente sui funzionari di pubblica sicurezza nell’analisi dei fatti.

24 Della Porta, Reiter; “Polizia e Protesta”, cit.

25 Da un’intervista all’ex- Vice questore aggiunto Angela Burlando a “Blu Notte, misteri italiani, puntata del 7 Settembre 2007, cit.

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A Genova erano però presenti altre tre forze di polizia, poste ugualmente sotto il suo comando, ma non interessate dalla riforma, tantomeno dal processo di smilitarizzazione. Questa critica può non essere valida allo stesso modo per Guardie Forestali, impegnate esclusivamente all’interno della Zona Rossa, o Guardia di Finanza, il cui personale schierato era notevolmente inferiore numericamente a quello di Polizia e Carabinieri.

Questi ultimi hanno però rivestito un ruolo di prima importanza, sia come apporto in termini di contingenti schierati, sia per quel che riguarda il peso degli interventi e le loro dirette conseguenze.

È già stato posto l’accento sulle difficoltà derivanti dalla particolare catena di comando inevitabilmente innescata a causa della diversa struttura organizzativa e sui rischi derivanti dall’impiego di Carabinieri ausiliari e quindi con scarsa esperienza di ordine pubblico, presenti sul campo in numero consistente. Ma la struttura militare che sopravvive in questi corpi trascina negli scenari di Ordine Pubblico una concezione diversa del servizio e del rispetto della controparte; nel considerare una differenza così sostanziale non si può prescindere dal fatto che un numero importante di ufficiali in servizio e con ruoli di responsabilità diretta sulle operazioni provenivano da recenti operazioni militari all’estero e da contingenti tradizionalmente impiegati in teatri bellici.

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L’impiego dei militari dell’Arma in Ordine Pubblico non costituisce però una novità, si tratta comunque di personale storicamente impegnato in manifestazioni sportive e politiche, anche nei decenni successivi alla riforma della Polizia e al fianco degli agenti, senza che ciò fosse necessariamente connesso all’inasprimento degli scontri e delle violenze. È necessario quindi indagare quali siano stati i potenziali fattori determinanti nel precipitare dei fatti; un importante elemento di analisi in questo senso è dato dal contesto in cui si sono svolte le operazioni.

Lo scenario di una città deserta, blindata e abbandonata, che ha costituito un setting da assedio più che da confronto con la cittadinanza, ha quindi legittimato in parte l’attacco alla quasi totalità delle persone che vi si trovavano per contestare. La recinzione delle aree da proteggere ha permesso di identificare, secondo un meccanismo di inclusione/esclusione, la minaccia all’Ordine Pubblico con il popolo No Global, dichiaratamente ostile allo svolgimento della conferenza.

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Un altro elemento di rottura con le istanze promosse dalla riforma è costituito dal dilagare all’interno dei ranghi di valori o principi legati alle ideologie di estrema destra, dato che emerge dalla lettura delle testimonianze delle vittime dei pestaggi e delle torture di Bolzaneto e dai rapporti di testimoni non direttamente coinvolti in quelle dinamiche. Negli ambienti di movimento si tende comunemente a considerare l’ambiente delle Forze dell’Ordine come un focolaio di idee nostalgiche di stampo neofascista; una convinzione legata all’immagine tramandata nel corso di alcuni decenni e che probabilmente affonda le sue radici nell’era dell’epurazione attuata dall’allora Ministro degli affari Interni Mario Scelba, durante i primi anni di vita della Repubblica.

Al cosiddetto “scelbismo” si deve l’allontanamento di tutti gli elementi arruolati nelle fila delle Guardie di Pubblica Sicurezza provenienti dall’ambiente partigiano; a fronte di una considerevole riduzione dell’organico il Ministro provvide ad integrarlo con l’assorbimento della P.A.I.(Polizia dell’Africa Italiana), la milizia coloniale

26 “Intanto il quotidiano l' Unità ha pubblicato i nomi di dieci ufficiali che sarebbero contenuti nel memoriale di Aloi come <<autori o persone informate delle violenze perpretate contro la popolazione somala>>. Si tratterebbe dei colonnelli Roberto Martinelli, Antonino Giampietro e Augusto Staccioli, dei tenenti colonnello Marco Bertolini e Angelo Passafiume, del capitano Giovanni Truglio, dei tenenti Francesco Marra e Claudio cappello, dei colonnelli Michele Tunzi e Leonardo Leso.” Da “La Repubblica” del 31 Agosto 1997 a proposito dell’inchiesta sulle torture in Somalia ad opera dei militari italiani. In neretto i nomi degli ufficiali, all’epoca di grado inferiore, impiegati poi a Genova.

27 “per le manifestazioni preavvisate per la data del 20 luglio, al termine di una non facile riflessione avviata a tutti livelli e supportata da considerazioni tecniche di opportunità che recepivano anche precise indicazioni fornite dal capo della Polizia, anch'egli interlocutore, come già ricordato, degli esponenti del movimento, adottavo due provvedimenti, ai sensi dell'articolo 18, comma 4, del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza.[...]Il secondo provvedimento, recante la data del 19 luglio, prende atto del preavviso dei referenti del Genoa social forum per l'occupazione dalle ore 6 alle ore 24 del 20 luglio di nove piazze del centro cittadino per manifestazioni stanziali di accerchiamento della zona rossa e per lo svolgimento di un corteo senza precisa indicazione di orario, con partenza da corso Gastaldi ed arrivo in piazza De Ferrari all'interno della zona rossa e vieta l'occupazione delle piazze indicate e delle aree limitrofe[...]. Non è stato un corteo autorizzato, bensì si è trattato di una massa di manifestanti che si sono concentrati a circa seicento metri da piazza Verdi.”

Dall’audizione del Questore Francesco Colucci presso la Commissione Parlamentare d’indagine conoscitiva, seduta del 28 Agosto 2001, cit.

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fascista. La linea di Scelba getta le basi per una forte militarizzazione del Corpo e, in linea con la politica internazionale del primo decennio della Guerra Fredda, per una repressione dei movimenti interni al Paese che in qualche modo potevano trovare le proprie radici nell’ideologia Socialista e Comunista, in particolare quelli di matrice sindacale. A distanza di circa trent’anni dall’epurazione di Scelba, furono però proprio le vertenze sindacali interne a promuovere un modello di Polizia al servizio dei cittadini, mettendo quindi in discussione la struttura fino ad allora conosciuta. Le eredità militari o provenienti da riforme e regolamentazioni risalenti all’era fascista sono comunque tutt’ora presenti, in particolare per quello che concerne l’aspetto procedurale e per tutto ciò che riguarda, come si è detto, l’addestramento e la concezione dell’Ordine Pubblico. Il principale punto di riferimento a proposito della gestione delle manifestazioni rimane infatti, per quanto emendato, il Testo Unico delle Leggi di Pubblica Sicurezza, varato nel 1931, in pieno Ventennio. Il testo è fortemente integrato dal Codice di Procedura Penale, ma numerosi articoli, tra i quali quelli che riguardano lo scioglimento degli assembramenti e l’autonomia nella gestione di particolari operazioni di Polizia Giudiziaria (il famoso articolo 41) restano pressochè invariati. Permane quindi un’ossatura di base di spiccata origine militare e ancora orientata alla repressione piuttosto che alla gestione della protesta, che veicola quindi anche una concezione negativa dei movimenti, sulla quale si innesta il fenomeno dilagante dell’adesione ad un immaginario di estrema destra, anche se più nelle forme che nei contenuti. Un ulteriore strumento che, in contraddizione ancora una volta con la volontà di liberarsi dalle strutture di stampo militare, tramanda di fatto una concezione dell’Ordine Pubblico legata ancora alla tradizione dell’Italia monarchica e scelbiana è costituito dal patrimonio di procedure e norme che regolano il comportamento degli agenti in servizio. La manualistica finalizzata all’addestramento dei Reparti presenta numerosi tratti in continuità con la produzione precedente la riforma, aspetto che ha forse costituito un elemento di raccordo tra un sostrato culturale e comportamentale fatto di norme risalenti al primo dopoguerra, nozioni di Ordine Pubblico profondamente influenzate da una concezione dei manifestanti come nemico e le informazioni derivanti invece da analisi più recenti e considerate innovative. Al di là di queste contraddizioni individuate nel processo di riforma, che si può considerare quindi “mutilato” da forze conservatrici che tendono a voler mantenere una struttura di stampo militare in linea con una tradizionale paura di insurrezioni popolari, è innegabile che il frutto delle vertenze dei poliziotti democratici di fine anni settanta abbiano comunque apportato qualche miglioramento. Le modalità di reclutamento attraverso concorsi pubblici, l’assorbimento della Polizia Femminile sono importanti fattori di cambiamento. In questo senso è possibile considerare l’odierna Polizia di Stato come un organismo composto da cittadini. Questo dato però comporta una variazione nel tradizionale bagaglio di conoscenze che ha costituito il “sapere di polizia”; nel momento in cui gli agenti in servizio sono prima di tutto dei civili al lavoro, con tutta probabilità trascinano con sè concezioni, categorie, cornici di riferimento non più di derivazione esclusivamente militare (che si è visto non scompaiono), ma che hanno origine dalle paure, dalle convinzioni, dalle culture proprie della media della cittadinanza. Non è quindi impossibile, ma anzi è probabile, che l’essere diventata una “Polizia di cittadini” più che “per i cittadini” abbia fatto in modo di integrare gli schemi propri di un Sapere di Polizia legato alla tradizione, con le nozioni e le generalizzazioni derivanti dalla cultura di massa dell’epoca moderna, fatta principalmente di notizie reperite attraverso i telegiornali, le riviste e i quotidiani e che, si ricorderà, proprio in vista del G8 hanno contribuito a creare un clima di tensione e una percezione del rischio oltremodo fuori luogo.

5.2 Modelli e immaginario: cosa costituisce il “sapere di polizia” a Genova

Cambiamento del modello di approccio, qualità e tipologia dell’addestramento e il ritorno ad una concezione

della Polizia precedente alla riforma sono i tre momenti in cui si manifesta la cesura con la gestione dell’Ordine

Pubblico affermatasi nel corso degli anni ’80 e ’90. Che Genova abbia chiuso il capitolo di una modalità di

approccio moderato e basato sulla mediazione è innegabile, ma sostenere che ciò sia imputabile esclusivamente a

scelte sbagliate, alla preparazione insufficiente e all’incompletezza della riforma, dovuta anche alla coesistenza

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di diverse forze di polizia, sarebbe riduttivo. L’analisi delle fonti a disposizione, che si basa anche sugli strumenti che la psicologia sociale mette a disposizione, può mettere in luce una radice più profonda delle ragioni che hanno impresso a queste scelte una direzione ben precisa. Il patrimonio costituito sia da ciò che viene riferito da testimoni oculari, sia dalle registrazioni, gli scambi di opinioni tra i componenti delle Forze dell’Ordine e in larga parte anche le cronache giornalistiche consentono di procedere ad una lettura più profonda del terreno su cui si innestano solo in un secondo momento le scelte di carattere pratico e può spiegare come, a partire da queste, si sia registrato un emersione di criticità evidentemente latenti anche nel corso dei decenni di tranquillità delle piazze italiane. Scomodando ancora paragoni con le tragedie del passato, come la tragedia del genocidio degli Ebrei e l’eliminazione degli oppositori politici nella Germania nazista non può essere spiegato e imputato esclusivamente all’ideologia razzista, o le efferatezze commesse dagli eserciti ai danni delle popolazioni sottomesse e ritenute umanamente inferiori non sono solo il risultato dell’inibizione morale in contesti disumani come quello delle guerre, così non si possono spiegare gli eccessi del G8 di Genova esclusivamente come conseguenza di un’inadeguatezza delle scelte o come deriva di alcune teste calde. Le cause, nel 2001 come nella Germania pre-bellica, risiedono più probabilmente in una cultura soggiacente a cui si sovrappongono le condizioni favorevoli all’esplosione della violenza. Nello specifico caso delle torture e dei pestaggi del Luglio 2001 le condizioni favorevoli sono costituite dagli ordini ricevuti, dalla scelta del modello di approccio e dalla legittimazione di una reazione violenta costituita dal comportamento delle frange radicali; il sostrato è invece da rintracciare in due modelli paralleli: quello costituito dai retaggi ideologici di estrema destra e quello dell’immaginario bellico.

5.2.1 L’ideale fascista come modello del linguaggio e del pensiero.

In chiusura del capitolo precedente si è accennato all’uso del modello di riferimento non solo come termine di paragano funzionale alla comprensione di un fenomeno altrimenti al di là della portata della cognizione comune, ma come cornice entro cui inserirlo. Il linguaggio, le categorie esplicitate all’interno di Bolzaneto offrono uno spunto di riflessione, come è stato detto, per capire quanto effettivamente i membri delle Forze dell’Ordine trovino nell’ideale, probabilmente nel luogo comune che da quell’ideale discende, il proprio immaginario di riferimento. Si tratta comunque di una piccola parte di ciò che costituisce il sostrato culturale degli operatori dell’OP che hanno vessato i prigionieri di Bolzaneto. Si è detto di come uno degli obiettivi della riforma fosse quello di liberarsi del portato ideologico di rpovenienza scelbiana e di come questo risultato fosse stato ritenuto raggiunto nel corso degli anni precedenti il Vertice. Il perdurare della diffusione all’interno dei Reparti di un’ideologia spiccatamente neofascista è al contrario comprovato dal linguaggio e da atteggiamenti di interi gruppi di agenti e militari in servizio sia durante che nel periodo immediatamente successivo ai fatti presi qui in esame.

Sono famose le citazioni degli insulti diretti ai fermati all’interno di Bolzaneto e il risuonare delle note di

“Giovinezza” e “Faccetta nera” nei corridoi della caserma, come la frase con cui alcuni manifestanti vengono accolti nel centro di identificazione: “Benvenuti ad Aushwitz”. Si tratta di immagini direttamente riconducibili ad un immaginario storico ben noto. Altrettanto evidente è il legame con l’ambiente neofascista contemporaneo che aggiunge altre categorie a quelle ereditate dal ventennio mussoliniano; il permeare del linguaggio dei gruppi di estrema destra si riscontra in maniera lampante attraverso uno sguardo all’interno dell’ambiente “protetto”

delle camerate delle caserme impossibile da gettare se non attraverso la cronaca di episodi, puntualmente smetiti o minimizzati dai responsabili delle questure. Un esempio è fornito dalla lettura di un articolo de “La Stampa”

risalente ad una decina di giorni dopo la chiusura dei lavori del G8:

“Ci sono i pensierini raccolti in un giornalino fatto in caserma alla buona, che gira di mano in mano tra

gli agenti. Dove gli antiglobalizzatori sono definiti «zecche». Oppure «parassiti». Contro cui usare «il

manganello che scandisce il ritmo di marcia». Contro cui va bene anche l’irruzione notturna alla scuola

Diaz di Bolzaneto: «Così capiranno, ora, che le cose sono cambiate».

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E invece non è cambiato niente. Certe cose le hanno sempre pensate, magari non tutti. Talvolta le hanno anche scritte. Come si può leggere su un numero della rivista Polizia del sindacato Siap di tanti mesi fa, quando il G8 a Genova era lontano e Carlo Giuliani vivo. Dove Pietro Gragnanin, segretario regionale Veneto del sindacato racconta dei giovani dei centri sociali: «Un branco di autonomi adunati attorno ad un autoveicolo con bardature carnascialesche, dal quale provenivano musiche di dubbia fattura e qualità.

Il personaggio più fine era tatuato come un mafioso cinese, sporco come un tombino, vestito come un (!) spaventapasseri».”

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Ancora i giornali, e sempre con una visione retrospettiva, concedono ampio spazio alle voci di agenti disposti a denunciare la visione autoritaria interna ai reparti di appartenenza. Il seguente passo, tratto da “Il Manifesto”

riporta la testimonianza di un agente, che preferisce mantenere l’anonimato, il quale riferisce in maniera esplicita quali siano le tendenze politiche proprie della maggioranza dei membri della Polizia:

“Prima che cominciasse il G8, la stragrande maggioranza dei poliziotti diceva che quando i manifestanti sarebbero arrivati, anzi, quando le zecche o i comunisti sarebbero arrivati, ci avrebbero massacrati.[...] - Che tipo di cultura c'è dentro i vostri reparti? "La base ha una cultura di destra, una cultura militare.

Alla Bolzaneto ci sono simpatizzanti di Forza Nuova, si vede in giro qualche svastica. Ma nella celere non si va per vocazione, è il settore operaio della polizia di stato. E' una scelta di prima destinazione, per chi esce dalle scuole e non ha calci per finire da qualche altra parte. Magari qualcuno chiede di andare in sedi particolari, lì c'è un reparto mobile e così ti ritrovi nella celere e sei stato pure accontentato. C'è cultura della violenza, a molti piace l'idea di picchiare. Il livello di cultura è medio basso anche tra gli ufficiali, tutti di destra. E si sentono discorsi che rasentano il limite dell'incostituzionalità, di sfiducia estrema nelle istituzioni democratiche. La violenza nasce da questo retroterra"

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“Zecche” e “comunisti” sono gli appellativi ridondanti nel linguaggio da caserma che avvicina i membri delle Forze dell’Ordine ai militanti dei gruppi di estrema destra; generalizzazioni che includono al loro interno l’intero Movimento sceso in piazza a Genova attraverso una connotazione negativa. Nella maggior parte dei casi infatti l’epiteto di “comunista”, usato indistintamente verso qualsiasi aderente alle manifestazioni, viene accompagnato da insulti degradanti di varia natura che fanno comunque riferimento ad un ambito animale (zecche, capre, porci) o allusivo alla mancanza di igiene (sporco, merda, puzzate), un processo linguistico ,che vede l’accostamento di tratti tipici di un ambito sub-umano ad una categoria ritenuta o identificata come “nemico”, riconducibile al fenomeno della “deumanizzazione” tipica dei contesti che vedono realizzarsi atrocità di massa e di cui ci si occuperà tra poco. Come ricordato per i fatti della caserma di Bolzaneto le donne fermate sono costrette a subire, sempre affiancato all’insulto di natura politica, anche quello di natura sessuale; le donne fermate sono generalmente definite “puttane”, insulti che generalmente accompagnano le percosse come per motivarne la natura esplicitamente punitiva. Il caso di Arianna Subri, arrestata in seguito alle cariche su Via Tolemaide nel pomeriggio del 20 Luglio, costituisce nella sua tragicità un grottesco esempio di come l’immaginario politico di riferimento sia costituito da una grossolana concezione dell’altro:

“[...]a quel punto un altro agente mi ha presa dal braccio e mi ha lanciata verso un cordone di poliziotti e lì hanno incominciato a picchiarmi, mi hanno picchiata finchè non mi hanno buttato in terra, uno mi è saltato sulla schiena, mi ha bloccato la schiena con il ginocchio e ha cominciato a dirmi: -Cosa ci fai qui, ragazzina?! Lo vedi che non sai che cos’è la globalizzazione!- E intanto un altro mi schiacciava la mano con lo scarpone. E dietro questi altri poliziotti che dicevano: -Puttana comunista! Troia comunista! Te lo facciamo vedere noi che cos’è la globalizzazione!”

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28 Da “La Stampa” del 3 Agosto 2001.

29 Da “Il Manifesto” dell’1 Agosto 2001.

30 Dall’intervista ad Arianna Subri, in “Blu Notte. Misteri italiani”, puntata del 7 Settembre 2007, cit.

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