Due modelli di
psicoterapia per una cultura in evoluzione
Joseph L. Henderson, S. Francisco
Da tempo, ormai, tanto i nostri critici che i nostri colleghi, ci fanno periodicamente rilevare che l'analisi non riesce a tenere il passo con le esigenze terapeutiche di una comunità allargata dove le crescenti pressioni economiche e sociali richiedono:
a) un metodo più breve e più intensivo per la cura delle nevrosi.
b) un metodo che affronti con maggiore efficacia i problemi del comportamento.
In realtà, sono sorti ovunque nuovi metodi che
si offrono di far fronte alle necessità che
l'analisi del profondo sembrerebbe ignorare, le
terapie di gruppo, la terapia del matrimonio, «
encounters » tra individui o tra gruppi,
esperienze di ogni tipo per la ristrutturazione
della personalità e attività di ricondizionamento
comportamentale. Questo Congresso ci pro-
pone di esaminare il ruolo che la psicologia
analitica si trova a dover svolgere nell'ambito di
una cultura in rapida trasformazione; vorrei
dunque parlare dell'atteggiamento che a mio
avviso sarebbe opportuno adottare nei
confronti di questo mutevole scenario
terapeutico.
Il termine « ruolo » mi da la sgradevole sensazione che il nostro dibattito potrebbe imperniarsi su un adattamento a questi problemi a livello della mera «Persona», invece che sui loro contenuti autentici. Di conseguenza desidero subito mettere in chiaro che, personalmente, non vedo la necessità di modifi- care nella sostanza il ruolo dell'analista junghiano. Anzi, il tempo ha confermato la nostra competenza nel campo della psicologia del profondo e la nostra padronanza di un metodo specifico che sa affrontare con efficacia sia i problemi dell'inconscio collettivo che quelli, intimamente collegati, dell'inconscio personale.
La nostra capacità di enucleare i modelli ar- chetipici dall'inconscio personale — reso possibile dal genio di Jung — e di dare loro il giusto rilievo nel corso del processo di individuazione, è adesso meglio conosciuta ed è parte integrante di un trattamento terapeutico che, a quanto ne so, è a tutt'oggi insostituibile, anche se sappiamo bene quanto tempo sia necessario per portare a compimento il nostro la- voro con ogni singolo analizzando, come ha fatto notare Guggenbùhl - Craig, parlando del valore del rituale analitico (1).
Per quanto riguarda l'analisi degli aspetti personali ed archetipici della psiche, la mia esperienza professionale non mi suggerisce fatti nuovi. Cionondimeno esiste un'altra area di esperienza che mi pare meriti un posto a parte e che, a mio avviso, è stata purtroppo trascurata, se non nella prassi del nostro lavoro, almeno sotto il profilo teorico. Mi riferisco a modelli di comportamento culturalmente condizionati che contengono i ricordi culturali sedimentati all'in- terno di noi e che possono venire attivati nel corso dell'analisi. Da quale strato della personalità emergono e dove andrebbero situati nel corso del processo di presa di coscienza?
Nel 1961, al Secondo Congresso Internazionale (L'Archetipo) (2), presentai un intervento su « L'Archetipo culturale » in cui parlavo di uno « strato culturale » dell'inconscio, distinto dal- l'inconscio personale e dall'inconscio collettivo.
Naturalmente il termine « archetipo culturale » è una con
ti) Guggenbùhl - Craig.
Power in the Healing Profession. C. G. Jung Institute Publications.
Zùrich. 1971.
(2) Joseph L. Henderson, The Archetype of Culture.
The Archetype, Proceedings of the Second
Inter-national Congress of Analytical Psychology.
Zùrich, 1962, A.
Guggenbùhl -
Craig, Basel; New York, Karger, 1964.
(2a) Possiamo parlare di forme culturali aventi contenuto archetipico e di forme culturali che ne sono prive, fatto questo ben rappresentato in un diagramma di Neumann che mette in luce la differenza esistente, sotto questo profilo, tra una cultura equilibrata e una non equilibrata. « Art and Time ». Chapter II. Art and the creative Unconscious.
Bollingen Series LXI Pantheon. 1959.
(3) A. Plaut, The Ungapp-able Bridge.
Numbers as Guides to Object Relations and to Cultural Development.
Journal of Analytical Psychology, Vol. 18, No. 2, July 1973, p.
114.
(5) Mary Williams, Review of The Archetype. Proceedings of the Second International Congress
of Analytical Psychology. J. of
Analytical Psychology, Vol. 10,No. 2. July 1965. pp. 196-7.
traddizione in termini, come mi fece allora osservare Michael Fordham, dal momento che modelli archetipici e modelli culturali non sono la stessa cosa (2a). Nondimeno il termine da me adottato stava allora ad indicare da parte mia il desiderio genuino di mettere in luce il fatto che certe immagini archetipiche (o, secondo la definizione di John Perry, « immagini affettive »), possono prefigurare delle forme culturali.
Nei dodici anni trascorsi da quel mio intervento, ho continuato ad approfondire questo tema e sono convinto che la comprensione delle forme culturali sia di grande valore per capire in profondità non solo la cultura ma anche le origini del processo di individuazione. Per arduo che sia dimostrarlo, mi è d'incoraggiamento vederlo riconosciuto anche da altri. Plaut, in un recente saggio (3), accenna ad una tendenza ad enucleare, in seno alla coscienza, uno strato culturale e, a questo proposito, cita l'ipotesi di GuggenbOhl-Craig, sull'« ombra collettiva ». Al tempo stesso mi riconosce il merito di aver per primo fecalizzato il problema nel breve saggio sopra citato. Tuttavia siamo stati entrambi preceduti da un capitolo di Mythology of the Soul (4) di H. Q. Baynes dove si postula resistenza di una psiche culturale che si mantiene viva nella tradizione ancestrale della famiglia, alla quale il paziente può ritornare per riparare un vecchio torto o curare un'antica malattia psicoculturale.
Peraltro, Baynes esamina questo assunto soprattutto nei suoi aspetti personali e archetipici. Il termine di « inconscio culturale » da me usato è stato criticato da Mary Williams (5) in quanto le sembrava che l'avessi semplicemente « ritagliato » dall'inconscio collettivo e non posso negare che il mio modo di esprimermi potesse prestarsi ad un malinteso.
Ciò che intendevo in realtà e che da allora ho
avuto con soddisfazione modo di verificare è che
l'inconscio culturale non deriva dall'inconscio
collettivo e neppure da quello personale. In
parole povere, ritengo che molto di ciò che Jung
chiamava personale fosse, in realtà,
culturalmente condizionato.
Durante l'allattamento, lo svezzamento e l'educazione alla pulizia, il bambino non riceve semplicemente dalla madre attenzione personale, amore ed educazione. Dal rapporto di partecipazione con lei e gli altri mèmbri della famiglia riceve il primo vero orientamento nei confronti della totalità della cultura dalla quale tutti gli appartenenti alla famiglia sono stati plasmati. Il complesso di Edipo, con le sue varianti, non è strettamente personale, come sosteneva Freud, ne strettamente archetipico come voleva Jung. Eric Fromm per primo ha inquadrato la tragedia di Eschilo nel contesto della cultura greca, interpretandola come riflesso di un periodo in cui il sistema sociale patriarcale a carattere instabile poteva ancora regredire a sistema matriarcale (6).
Di conseguenza il complesso di Edipo può prodursi soltanto in un bambino che, nell'ambito della propria famiglia, sia esposto ad un modello culturale del genere. Oltre a Fromm, E. Erickson e K. Horney, insieme a degli antropologi come Paul Radin, Ruth Benedict, Margaret Mead e Gregory Bateson hanno fornito un'ampia documentazione dell'esistenza autonoma della psiche culturale e che la si chiami conscia o inconscia è puramente relativo. Dal momento che introduce certi assunti sulla storia della cultura umana, va ricordata a questo proposito, la brillante applicazione della mitologia alla psiche personale, proposta da Neumann.
Nondimeno il lavoro di Neumann non ci offre un modello completamente soddisfacente per la comprensione della psiche culturale poiché, al pari di Baynes, egli traspone dei modelli archetipici in seno all'esperienza personale, senza definire sempre con chiarezza e, talvolta, senza definire affatto, il modello culturale che fa da mediatore. L'espressione di Neumann
«evocazione personale dell'archetipo » per quanto serva ottimamente al suo scopo, fa risaltare questa lacuna e al tempo stesso ci segnala l'esigenza di studiare la natura del con- dizionamento culturale ad un livello più profondo di quanto si sia fatto fin'ora (6a). Uno degli inconvenienti di un'omissione del genere è l'aver indotto Neumann a ritenere erroneamente che « coscienza » e « cul-
(6) Eric Himself . 1947.
Fromm, Man for Rinehart, N. Y..
(6a) Neumann avrebbe potuto parlare con uguale validità della tendenza opposta: il « rifiuto personale dell'archetipo ».
(7) Erich Neumann, The Origine and
History of Consciousness.
Bollingen Series XLII.
Pantheon, N. Y., 1954.
(8) Erich Neumann, The Significance of the Gen-etc Aspect for Analytical Psychology.
C u r r e n t Trends in Anatytical Psychology, Ed. G. Adler, Tavistock, London, 1961.
(9) Joseph L.
Henderson, Thresholds of Initiation, Wesleyan University Press, 1967, Ch. VI. p. 133.
tura » siano soltanto (o prevalentemente) prodotti del condizionamento patriarcale.
Benché egli attribuisca grande valore allo stadio evolutivo della coscienza matriarcale, la coscienza patriarcale viene situata, fin troppo spesso, ad un livello evolutivo più elevato e dunque, superiore (7).
Questo ci riconduce immediatamente all'energica contestazione che il movimento di liberazione della donna conduce oggi contro la dominazione patriarcale. Uno studio indipendente dei modelli culturali di piccole società tribali del mondo potrebbe ridimen- sionare l'errore mettendoci in contatto con degli stadi di transizione in seno all'evoluzione culturale, in cui modelli patrilinei e matrilinei confluiscono, dando vita a modelli variabili.
Sappiamo già che un tempo le strutture culturali a carattere matriarcale hanno preceduto le strutture patriarcali della città-stato. Sappiamo, inoltre che prima ancora del consolidamento del sistema matriarcale (8), dall'epoca dei primi agri- coltori e pastori, vi è stato un lungo periodo della storia umana dominato dai cacciatori primitivi.
Era l'epoca degli sciamani aborigeni che. tramite una forma di divinazione empirica, aiutavano la gente nella caccia alla selvaggina e nei pericoli della vita nomade. In quella fase, iniziativa e fiducia in sé erano qualità essenziali, per cui i giovani maschi, sottoposti a riti di iniziazione, dovevano ricercare la visione dello spirito tutelare che avrebbe elargito loro la forza necessaria.
A tale spirito di indipendenza, che non ha affatto
carattere deviante e ribelle rispetto ai riti materni
o paterni, va riconosciuta un'esistenza
fondamentale ed autonoma, incarnata nella
forma di rito di visione (9). In definitiva esso può
aver dato origine ad alcuni gruppi separatisti che
divennero poi società a carattere di transizione e
cioè non-strutturato (liminal) e socialmente
marginale. E' possibile in effetti che i clan
totemici siano stati appunto delle società di tipo
transizionale prima di trovare la loro forma
strutturale. Queste antiche popolazioni erano
appunto alla ricerca di una propria identità che
incorporasse quei
valori che erano o sarebbero stati negletti dall'Establishment tradizionale. Gruppi di questo tipo, fedeli al momento iniziatico, concepiscono « la vita sociale dell'uomo come processo, anzi come una molteplicità di processi ». Il risultato secondo l'antropologo inglese Victor Turner (10) è la creazione di una forma spontanea di comunità che egli chiama « communitas spontanea ». « investita di intense cariche affettive ».
Questo è Io stadio non-strutturato (liminal) o di transizione corrispondente alla cerimonia di iniziazione la quale, in base allo schema di Van Gennep, collega i tre stadi pre-marginale.
marginale e post-marginale. Trasposto in linguaggio psicologico, lo stadio nonstrutturato corrisponde allo stadio di trasformazione, in armonia con l'archetipo di morte e rinascita.
Tuttavia lo stadio non-strutturato viene successivamente assorbito nel « corpus » accreditato della tradizione socio-religiosa e si trova, prima o poi — se vuole raggiungere un certo livello di durata e stabilità — a dover « aprire un dialogo con la struttura », termine con cui Turner designa la tradizione. Per illustrare quanto avviene ad una « communitas spontanea
» allorquando fa il suo ingresso nella storia so- ciale, Turner cita il caso dell'Ordine francescano.
La comunità originaria nata sull'esempio, le visioni e le parole di San Francesco fu tenuta in vita in seno all'ordine « dagli Spirituali ». C'era tuttavia un gruppo rivale, i Conventuali, che si assunsero il compito necessario dell'organizzazione. Le osservazioni più con-
vincenti di Turner, tratte dalle sue ricerche « sul terreno » presso delle tribù africane, derivano dallo studio del dualismo esistente tra struttura e comunità con il loro confluire in ciò che egli chiama « societas » e che corrisponde a quanto io chiamerei atteggiamento sociale nei confronti della cultura. Presso i Nbendu egli riscontra una
« profonda contraddizione tra sistema di discendenza matrilineo e patrilineo, che viene esplicitamente paragonato al rapporto scherzoso tra cugini incrociati; inoltre una forte impronta di egalitarismo nei riti: i sessi vengono considerati
(10) Victur W. Turner, The Ritual Process, Structure and Anti- Structure, Aldine, Chicago, 1969, pp. 202- 3.
(11) Victor W. Turner.
The Forest of Symbols.
Aspects of Nbendu Ritual. Cornell, Ithaca, 1967.
sullo stesso piano anche se opposti entro « sistemi ciclici e ripetitivi basati su relazioni multiple ». Dice:
... Sembra che vi sia da parte dell'uomo l'esigenza di sentirsi partecipe secondo entrambe le modalità (non- strutturata e strutturata). Quelli che si trovano ad un livello strutturalmente inferiore aspirano a raggiungere una superiorità strutturale attraverso il rito; quelli che si trovano ad un livello strutturalmente superiore aspirano alla « communitas » simbolica e sono disposti ad affrontare delle prove per ottenerla» (11).
Mi sono accorto che queste osservazioni mi hanno aiutato a formulare due modelli di psicoterapia distinti sotto il profilo culturale, ad uso di coloro che stanno compiendo il passaggio dallo stadio nonstrutturato a quello strutturato o viceversa. A differenza degli antropologi, noi dobbiamo affrontare questa particolare modalità non nell'ambito dei gruppi ma nelle persone singole e ovviamente anche in noi stessi, come terapeuti dell'individuo. Dal momento che oggi ci troviamo a dover subire gli influssi contrastanti di svariati movimenti contro-culturali, mi capita spesso di dovermi chiedere quale debba essere il mio ruolo, dal punto di vista culturale, nei confronti di ogni singolo paziente che si affida alle mie cure. Con quale tendenza culturale o contro-culturale egli si identifica o in quale direziono si sta muovendo? In che modo risento io stesso di tali tendenze? Sono in grado di trascendere il dualismo di tali atteggiamenti, o debbo riconoscere la mia propria vulnerabilità?
Naturalmente non sono in grado di dare a queste
domande una risposta definitiva; tuttavia, a
livello pratico, mi trovo talvolta a confermare e
incoraggiare la posizione non-strutturata di un
mio paziente, pur restando personalmetne nella
posizione strutturata inerente alla mia
specializzazione professionale con la relativa
identità psico-sociale. Questo ovviamente
esclude tutte le persone xenofobe, in quanto
sono soggetti che non si prestano ad un'analisi
individuale e si possono curare soltanto al livello
del sintomo per una crisi di identità in relazione
al gruppo stesso. Soltanto quando l'adesione al
gruppo diventa necessaria in funzione di una
particolare, individuale definizione
di sé, il dialogo tra i due — individuo e gruppo
— diventa possibile. In tal caso, nella fase iniziale dell'analisi ho la possibilità di aiutare il mio paziente, che si trova nello stadio non- strutturato, « ad aprire un dialogo con la struttura ».
Quando questo riesce significa che l'ho aiutato a crearsi quell'identità sociale che Turner definisce « societas » che ha un ruolo di mediazione tra marginalità e struttura.
Nondimeno può verificarsi anche l'opposto allorquando il mio paziente si trova in uno stadio culturale ben strutturato con un atteggiamento sociale definito rispetto a cui io mi trovo ad un livello marginale.
In considerazione di questi diversi tipi di identità culturale, ho trovato opportuno postulare, come nel mio studio teste citato, l'esistenza di certi atteggiamenti culturali tra cui è necessario fare distinzione. Ho definito tali atteggiamenti sociali, religiosi, estetici e filosofici e oggi trovo tale distinzione utile come allora. Tra i sociologi e tra alcuni degli antropologi si rileva la tendenza a considerare la cultura un fatto totale, ignorando gli atteggiamenti religiosi estetici e filosofici che spesso, invece, forniscono al singolo gli elementi essenziali di una Weltanschauung.
Il problema non si pone cosi sovente rispetto ai problemi di carattere sociale quanto con i pazienti che hanno opinioni religiose diverse dalle mie, (specialmente per quanto riguarda il divario tra fede religiosa e cultura religiosa) e richiede, da parte di noi terapisti, una particolare flessibilità nel saper rispondere ad aspettative cosi diverse come quelle implicite in una tale molteplicità di atteggiamenti.
L'atteggiamento sociale si preoccupa di rispettare il codice etico proprio ad una determinata cultura o ad una sua deviazione contro-culturale, con tutto ciò che questo comporta sul piano dell'azione e reazione sul fronte socio-politico. Il che, come ho detto, è di una evidenza cosi immediata, da indurci a sottovalutare le esigenze degli altri atteggiamenti.
In rapporto agli atteggiamenti di carattere
religioso, nella mia qualità di analista junghiano,
mi viene tal-
(12) I. M. Lewis, Ecstatic Religion. An Anthropological Study of Spirit Pos-session and Shamanism.
Penguin. 1971.
volta attribuito il ruolo di veggente religioso o di sciamano la cui funzione sarebbe quella di frantumare la rigidità cristallizzata di convincimenti filosofici, scientifici o religiosi troppo razionali. All'opposto, mi può essere affidato il ruolo di tutore della tradizione religiosa in contrasto con una forma di misticismo non- strutturato adottata dal mio paziente. Anche in questo caso l'antropologia sociale mi è servita a chiarire il significato culturale di un tale fenomeno. I. M. Lewis ha ben descritto come certe persone, sul piano personale o in rapporto a certi gruppi religiosi, si trovino in una condizione di « possessione periferica» (12).
Queste persone che si trovano in posizione periferica in rapporto all'ordine sociale costituito, si servono della « trance » drammatica che si accompagna alla possessione da parte degli spiriti per manifestare il proprio senso di emarginazione sociale e perché venga loro riconosciuta l'aspirazione ad occupare una posizione più integrata in seno alla società.
Quando tale riconoscimento viene pienamente
accordato, la possessione cessa. Allorquando,
invece, la persona in preda alla possessione si
oppone consciamente al pericolo di indulgere
alle proprie esigenze di potere psico-sociali, o le
cura attraverso una salutare esposizione di
motivazioni personali ignobili, può accadere di
notare un notevole aumento di contenuti
spirituali a livello della coscienza. Sembra che
l'Io del paziente sia rafforzato di pari passo con
lo sviluppo di un atteggiamento religioso speci-
fico. Molti casi del genere sono entrati in analisi
lamentando dei sintomi che hanno valso loro
una cattiva reputazione di simulazione,
occultismo, se non di vera e propria psicosi. E'
evidente che, nei casi più gravi, non abbiamo a
che fare con una situazione psichica
culturalmente condizionata ma con l'invasione
della psiche personale da parte dell'inconscio
archetipico, in cui ogni atteggiamento religioso
tradizionale si è dissolto per riapparire forse, più
tardi in una qualche forma più assimilabile. I pre-
senti conoscono bene l'atteggiamento religioso
direttamente dall'opera di Jung, specialmente «
Psicologia e Religione» da molta parte degli
studi sull'al-
chimia e soprattutto dalla « Risposta a Giobbe » (13). Un recente lavoro, che presenta dei dati clinici più specifici in favore dell'atteggiamento religioso nel corso dell'analisi è « Ego and Archetype » di Edward Edinger che ci incoraggia a rispettare un atteggiamento metafisico sui generis (14).
Un altro atteggiamento culturale che, a mio avviso, è causa di molti fraintendimenti, è quello estetico. In un precedente intervento, presentato al Quarto Congresso Internazionale, ho messo in rilievo il rapporto dell'artista con l'inconscio, mentre ora vorrei soffermarmi sul fatto che nel nostro lavoro accade sovente di trovarsi di fronte a pazienti che con l'arte in sé non hanno alcun rapporto funzionale (15). Eppure. come l'artista, è possibile che traggano molta forza dell'Io da un atteggiamento di carattere estetico, il che non può essere definito una mera resistenza al- l'analisi. Esiste la possibilità che agisca effettiva- mente come resistenza all'analisi, ma non più di una qualsiasi altra forma di impegno personale.
Con individui di questo tipo, anche una volta stabilito, il transfert può assumere una colorazione estetizzante e diventare, fin troppo spesso, veicolo di un'altra forma di isolamento distaccato, con il pericolo di promuovere una particolare forma di inflazione in cui l'analisi diventa un'immagine idealizzata, impossibile da inserire nel quadro di una reale esperienza di vita. Agli analisti ed al metodo analitico si rimprovera spesso di suscitare questo tipo di immagine idealizzata e di trascurare l'analisi degli aspetti d'ombra del processo di individuazione. Anche se è vero che l'analizzando può dare sovente quest'impressione a chiunque sia fuori dall'influenza del pensiero analitico e che l'analista può sentire l'esigenza di metterlo in guardia e segnalargli il pericolo di allontanarsi troppo dalla realtà, malgrado il raggiungimento di folgoranti intuizioni (un problema estetico di que- sto tipo, spiega il personaggio di Joseph Knecht nel romanzo di Hesse II gioco delle perle di vetro).
D'altro canto lavorare con dei pazienti che abbiano sviluppato un atteggiamento estetico genuino, può
(13) C. G. Jung, Psychology and Religion, West and East, Vol. 11, Collect-ed Works, Bollingen Ser., Pantheon, 1958.
(14) Edward Edinger, Ego and Archetype.
Part. IlI, Symbois of the Goal, pp. 195-214.
Putnam. for C. G. Jung Foundation for Ana- lytical Psychology, 1972.
(15) Joseph L.
Henderson. The Artist's Relation to the Unconscious, present- ed at the Fourth Interna- tional Congress of Analytical Psychology.
(16) C. G. Jung
Foundation for Analytical Psychology,
(17) Letters of C. G.
Jung, Vol. I. Pantheon, 1971.
avere grandi vantaggi (16). Essi hanno, infatti un naturale rispetto per la situazione analitica, vista come l'ambito in cui i loro problemi possono essere risolti, e soprattutto sanno dare valore al simbolo di per sé senza definirne l'origine o lo scopo; il simbolo è equiparato all'opera d'arte, e non deve assolvere a una qualsivoglia funzione a carattere utile.
La presenza di questo atteggiamento permette forse di mettere in evidenza, con più facilità che altrove. il dialogo tra marginalità e struttura. E' cosi ovvio che la propria mancanza di strutturazione può creare nel paziente l'immagine dell'artista incompreso e che di conseguenza egli sia portato ad attribuire alle sue percezioni estetiche un carattere allucinatorio. Tuttavia potrebbe essergli di stimolo riuscire a dimostrare che, una volta inserite adeguatamente tali immagini nel quadro della realtà «come struttura», la sua visione può essere riconosciuta come autentica, sullo stesso piano di quella dell'artista, poiché nel proprio ambito, essa è reale quanto gli oggetti tangibili lo sono nel loro.
Resta da esaminare un altro atteggiamento
culturale per nulla facile da discutere in questo
contesto. L'ho chiamato « atteggiamento
filosofico », perché quando lo incontro negli
amici o nei pazienti, sono colpito dalla
scrupolosità scientifica con cui cercano di giun-
gere alla verità delle cose. Le persone
caratterizzate da un atteggiamento filosofico del
genere sono cosi ragionevoli da dare
l'impressione che non potrà mai esserci alcun
disaccordo tra loro e noi. in quanto terapeuti, dal
momento che anche noi ci proponiamo di essere
quanto più ragionevoli e scientifici possibile. In
essi marginalità e struttura sembrano essersi
riconciliate nell'atto stesso del filosofare ed è
arduo riconoscere che queste persone non sono
pienamente accessibili ad un processo genuino
di trasformazione psicologica. Questo è quanto
Jung ebbe sovente modo di riscontrare parlando
con dei teologi (17); ricordo una vivace
discussione, durante uno dei suoi primi
seminar!, in cui l'atteggiamento filosofico di taluni
professori costrinse Jung a difen-
dere energicamente il proprio punto di vista psicologico. Retrospettivamente, mi sembra che queste persone, partendo dal loro atteggiamento filosofico, si identificassero a livello inconscio con la struttura e non riuscissero ad accettare la necessità di sperimentare la non-strutturazione come fase iniziale del processo terapeutico, con il suo appello a riconoscere la relatività di ogni conoscenza. In questo caso Jung si trovava in una posizione non-strutturata, che anch'io ho sperimentato allorquando le persone di quel tipo mi hanno fatto sentire che c'è qualcosa di poco chiaro se non addirittura di indecoroso in un terapeuta capace di cambiare le proprie idee con tanta facilità, alla luce di sogni che richiedono tante inter-pretazioni apparentemente antitetiche.
Eppure, al pari dell'atteggiamento estetico, l'atteggiamento filosofico ha grande valore nei consentire a chi lo possiede di affrontare pienamente, a livello intellettuale, il conflitto tra struttura e non-struttura. Lévi-Strauss ammette che il carattere distintivo dell'antropologia pura « è di ordine filosofico », come scriveva Merleau- Ponty:
(18) Claude Lévi- Strauss, The Scope of Anthropology.
Grossman, 1960, for Jonathan Cape, London.
... « ogni qualvolta il sociologo (ma in realtà si riferisce all'antropologo), ritorna alle fonti vive del suo sapere, a quel che, in lui. opera come modo di capire le formazioni culturali più lontane da lui, fa spontaneamente della filosofia...
Infatti la ricerca sul terreno da cui ha inizio ogni carriera etnologica è madre e nutrice del dubbio, atteggiamento filosofico per eccellenza. Questo « dubbio antropologico » non consiste solo nel sapere di non saper nulla ma nell'esporre risolutamente quel che si credeva di sapere, e persino la propria ignoranza agli insulti e alle smentite inflitte ad idee ed abitudini caris-sime... Noi pensiamo che l'antropologia si distingua dalla sociologia per il suo metodo più strettamente filosofico (18).
Per questo, in certi casi, vale veramente la pena
di aspettare pazientemente che la ratio
scientifica incontri la propria metà non razionale
e che con essa stabilisca un dialogo adeguato,
poiché è chiaro che il paziente cerca di liberarsi
di entrambe, formulando una nuova idea a
carattere simbolico, come ha messo in rilievo
con mirabile chiarezza Paul Tillich, nel suo
(19) Paul Tillich. The Importance of New Being for Christian Theology, in:
Man and Transformation. Papers
from the Eranos Yearbooks, Ed., Joseph Campbell, Bollingen Series XXX, Pantheon, 1964.
saggio « The importance of New Being for Christian Theology » (19).
A mio avviso, imparando a distinguere i diversi livelli della psiche culturale, ci mettiamo in - condizione di svolgere un ruolo culturale più efficace che non sostenendo una concezione della società come « fatto sociale totale ». Dice Lévi-Strauss:
(20) The Scope of An- thropology, op. cit.
(21) Ibid.
Prima di affermare che la logica, il linguaggio, il diritto, l'arte e la religione sono proiezioni del sociale, non conveniva aspettare che le scienze particolari avessero approfondito per ognuno di tali codici... la loro funzione differenziale, permettendo cosi di capire la natura dei rapporti reciproci che li connettono? (20).
Questo trova conferma nell'atteggiamento empirico di Marcel Mauss, il quale dice:
Questa totalità non sopprime il carattere specifico dei fenomeni che restano « a un tempo » giuridici, economici, religiosi e persino estetici, morfologici, tanto che essa consiste alla fin fine nella rete delle interrelazioni funzionali fra tutti questi piani (21).
Soltanto un passo separa queste osservazioni dalla nostra angolazione a carattere psicologico secondo la quale vi sono atteggiamenti, culturali autonomi, « esperienze », che prescindono dai postulati strutturali e teoretici che li sottendono.
In contrasto con l'esperienza, gli studi di Lévi- Strauss al seguito di quelli di Boas, Tylor, e De Saussure, sono giunti a delle formulazioni teoretiche che riavvicinano antropologia e psicologia in una misura senza precedenti.
Questo si deve allo studio della linguistica:
la/grammatica rappresenta la parte strutturata, quantitativa del linguaggio, mentre la fonetica rappresenta l'aspetto meno strutturato (liminal), e cioè sempre mutevole del linguaggio. Il primo
— sincronico — è stabile, il secondo — diacronico — ha carattere dinamico ed equilibrio instabile, composto com'è di elementi del passato e di tendenze ancora da realizzarsi, volte verso l'avvenire.
Definire l'uno conscio e l'altro inconscio, non
sarebbe esatto, infatti possono operare su
entrambi i pia-
ni. Le due modalità del linguaggio — sincronia e diacronia — sono cosi strettamente collegate che dobbiamo concepirle come parte di uno stesso fenomeno. Dice Lévi-Strauss:
Senza dubbio, i fenomeni strutturali sono, in una certa misura più stabili dei fenomeni funzionali, ma tra i due ordini di fatti esiste solo una differenza di grado. La struttura stessa si crea nel processo del divenire ... Prende forma e si dissolve incessantemente, è vita che ha raggiunto un certo livello di consolidamento; quindi far distinzione tra la vita da cui deriva, dalla vita che determina significherebbe dissociare, in realtà, delle cose inseparabili (22). (22) Ibid.
Oggi la struttura non può essere considerata un ordinamento casuale, bensì:
... un sistema retto da coesione interna; e tale coesione, inaccessibile all'osservazione di un sistema isolato, si rivela nello studio delle trasformazioni, grazie alle quali ritroviamo proprietà similari in sistemi diversi in apparenza.
Come scriveva Goethe:
Tutte le forme sono simili, e nessuna è uguale alle altre.
Cosicché il loro coro guida verso una legge nascosta (23).
Queste forme sono i modelli culturali e « la legge nascosta » è l'archetipo che li sottende. Dal punto di vista psicologico a questo dobbiamo aggiungere la psiche personale che conferisce, per cosi dire dall'alto (24) alla psiche culturale la sua forma specifica, individuale di identità dell'Io.
Questo, naturalmente, nell'ambito della psicologia analitica, sottende l'esistenza dei tipi funzionali di personalità descritti da Jung.
Da ciò che ho appena detto si potrebbe a ragione concludere che è illusorio postulare l'esistenza di due diversi modelli di psicoterapia in funzione della psiche culturale, dato che da questo punto di vista, marginalità e struttura sono cosi strettamente connesse. La vera prova si avrebbe se, invece di inventare dei modelli, studiassimo i metodi psicoterapeutici in cui tali modelli si rendono praticamente operanti. Forse si potrebbe proporlo come argomento di discussione a questo Congresso. Sarei ben felice di vedere svi-
(23) Ibid.
(24) James Hillman, Imaginal ego. The myth
of analysis.
Northwestern Chicago.
1972, p. 183.