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SOLDI SPESI MALE, ECONOMIA SOTTO ZERO, LA RICOSTRUZIONE CHE NON PARTE E L ULTIMO TERREMOTO CHE SI ABBATTE SULLA POLITICA

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RAFFAELE K. SALINARI WALT DISNEY L’IMMORTALE CANZONI PER CASO WARREN ZEVON

L’ A QUI LA

MOATAZ NASR STADIO FILADELFIA SPORT E OMOFOBIA DOMENICO BERARDI MOURINHO

SPEZZATA

SOLDI SPESI MALE, ECONOMIA SOTTO ZERO, LA RICOSTRUZIONE CHE NON PARTE E L’ULTIMO TERREMOTO CHE SI ABBATTE SULLA

POLITICA. IL CAPOLUOGO ABRUZZESE SEMBRA SEMPRE IL SET DI UN

FILM HORROR. MA SOTTO LE GRU QUALCOSA SI MUOVE

(2)

di ELFI REITER L’AQUILA

●●Fa strano raccontare le impressioni positive avute durante il viaggio a L’Aquila con Mario Ciammitti, ingegnere originario di quella città e che abita e lavora da tanti anni a Bologna, a fronte dei recenti sviluppi a livello giudiziario noti dalle cronache e del gesto di Celso Cioni, responsabile della

Confcommercio dell'Aquila barricatosi dentro la Banca d'Italia minacciando di darsi fuoco in difesa dei piccoli commercianti che sono stati costretti ad andar via dal centro storico. Solo trenta esercizi commerciali sui novecento che c'erano in centro prima del terremoto hanno riaperto. E sono quelli che abbiamo visto e che danno segni di ripresa e di rivitalizzazione.

Eppure vanno raccontate e va diffusa la testimonianza di uno che alla ricostruzione ha partecipato sin dalla prima ora dopo quella maledetta scossa nella notte del 6 aprile 2009 e che le difficoltà le ha vissute, tutte, dai blocchi dell’esercito a vigilare le recinzioni della zona rossa ai lunghi tempi di attesa di denari a fronte di burocrazia, giochi politici e corruzione.

Siamo arrivati di sera, il 26 dicembre scorso, alla piazzetta subito dopo Porta Bazzano, spettrale, buie le due strade, calate in un silenzio innaturale: la vita non risiede più qui da oltre quattro anni. Unico rumore lo scorrere dell’acqua di una fontana - scoperta il giorno dopo, alla luce naturale. Per dormire si va a Pizzoli, paesino a distanza di 13 km poco toccato dal sisma, nell’appartamento-studio preso in affitto da Ciammitti con altri due tecnici e che lui stava per lasciare per far ritorno nella sua casa, riparata, a due passi da Porta Bazzano, appunto. Ha portato con sé quasi tutta la famiglia per farla

partecipare al felice evento, il trasloco dello studio nel centro storico, avvenimento non ordinario a L’Aquila, visto che sono poche le persone che tornano a vivere in centro.

La mattina seguente, vista alla luce del sole, la stessa area subito dopo Porta Bazzano appare più viva, le prime due case sulla destra risplendono del colore fresco sulla facciata, giallo limone quella del vicino che ci dà il benvenuto dal balcone, color pesca la casa di Ciammitti. Quella subito dopo assomiglia più a una scenografia da film d’orrore con le finestre aperte, i vetri rotti, soffitti e pavimenti presumibilmente crollati visto che si intravedono i buchi nel tetto, piccole fessure luminose, mentre il portone è chiuso da tempo, come la serranda del fornaio al pianterreno. Sul lato di fronte tutte le case sono vuote, una in particolare mi colpisce: sul filo della biancheria davanti alla finestra del primo piano c’è un lenzuolo steso, bianco. Pensavo fosse abitata, invece no! La signora anziana era morta nel terremoto e quel lenzuolo è fermo lì da allora, a pochi metri dall’inizio della zona rossa. Ormai i cancelli sono stati spostati, da via Fortebraccio c’è un passaggio frequente di macchine e persone, mentre la strada in salita pare bloccata più su. No, è libera, mi dice un ragazzo che sembra spuntare dal nulla. Dal terrazzo di casa Ciammitti si vedono i tetti di L’Aquila, sopra i quali s’innalzano tante gru, più o meno alte, come silhouette colorate nel cielo nuvoloso, scuro. Segni di movimento o scena? Più tardi camminando lungo il Corso vediamo i tanti cantieri, nelle zone meno disastrate ci sono ancora le luminarie natalizie. Il nuovo Palazzo del governo, l’agenzia delle entrate, la Banca d’Italia danno bella presenza di sé, mentre quasi tutte le facciate delle

case sono ancora puntellate e/o impacchettate con strutture di tubi innocenti, le finestre sorrette da impalcature di legno a forma di archi. Per sostenerle e prevenire eventuali crolli, dicevano coloro che avevano diretto quei lavori.

Ma cosa accadrà quando verranno tolte quelle protezioni, o per ricostruirle le svuoteranno dall’interno? Chissà…

Qualche bar è aperto, il primo fu quello di Nurzia, manufattore del famoso torrone, già nel dicembre 2009, quando il profumo di cioccolato si era diffuso tra le macerie… Segni di vita.

Per raggiungere la Fontana delle 99 cannelle passiamo il quartiere Rivera, interamente al buio, devastato. L’Aquila è così, una città ferita, la cui ferita vuole guarire, se solo l’essere umano ancora una volta non glielo impedisce.

●L’impressione avuta durante la nostra visita è che L’Aquila stia un po’ rinascendo, ho visto tante gru, cantieri attivi, anche di sera. Tu stai lavorando per la ricostruzione da cinque anni ormai, cosa mi dici a proposito?

Non è una tua impressione, con il ministro Barca del governo Monti qualcosa sembra essere ripartito.

Si vedono da vari punti panoramici della città almeno una trentina di gru nel centro storico.

Andando più vicino ci si accorge che sono gru disposte per cantieri riguardanti un solo edificio, quasi tutti vincolati dalla Sovrintendenza, mentre gli edifici in aggregato – il che significa tante case attaccate una all’altra – non sono partiti, se non al massimo un paio. Per lo più sono edifici singoli monumentali, alcuni già finiti come Palazzo Bonanni sul Corso. Il grande problema è che spesso queste gru sono ferme e parlando con le imprese si apprende che lo Stato di Avanzamento Lavori (il SAL) è fermo in comune per i controlli. Si aspetta anche sei mesi prima di vederlo approvato per avere i soldi dei lavori già eseguiti.

Questo mette in grande difficoltà le imprese che non hanno nessun tipo di agevolazione dalle banche, anzi tutti si lamentano

dell’atteggiamento delle stesse che non fanno più credito, hanno raddoppiato gli interessi sul denaro concesso anche a seguito di incarichi molto importanti.

Interessi da usura. Secondo me c’è una grave colpa delle banche.

La seconda colpa è che i soldi concessi dal governo arrivano col contagocce, nel 2013 dovevano arrivare oltre un miliardo di euro e credo ne siano arrivati solo seicentomila. Certo, siamo in periodo di crisi, ma speriamo che ci siano giustizia e trasparenza nell’assegnare i soldi prima agli interventi in cui sono comprese molte prime case, poi a quelli nelle seconde e infine alle opere pubbliche non urgenti. Per altro, queste ultime seguono altri canali di finanziamento, non

mescolabili.

●In periferia come vanno le cose?

Lì piuttosto che di aggregati si tratta di edifici di tipo «E», cioè molto danneggiati, e sono tutti in via di definizione dal punto di vista dei finanziamenti. Ma anche lì, per esempio, ho un progetto approvato nel luglio dell’anno scorso, ma i primi soldi dobbiamo ancora vederli e siamo a

gennaio… È molto complessa la situazione. Per ultimo ci sono le frazioni di L’Aquila dove tutto è ancora paralizzato. Ho dei lavori presentati nel luglio 2011, tuttora da approvare. Non vengono approvati perché non ci sono i

soldi, anche se dicono che ci sono. Mah…

●L’inchiesta fatta dall’Unione europea fece emergere che i soldi arrivati da Bruxelles erano stati spesi male.

Erano serviti per costruire le New Town di Berlusconi, in gran fretta, va detto, risparmiando agli abitanti inverni freddi nelle tendopoli, ma quelle case sono costate il 158% in più del costo corrente di costruzione. E già si vedono difetti e danni, la cui riparazione è a carico del Comune perché sono passate di proprietà comunale. Il Comune non riscuote affitti essendo state assegnate in comodato gratuito

per via dei fondi dall’Unione europea. Ora non si sa dove trovare il denaro per curare quei grandi giardini nelle New Town che sono soltanto un enorme spreco di territorio.

●Tu sei andato a L’Aquila subito dopo il terremoto, hai aperto uno studio per partecipare da subito alla ricostruzione…

Sono partito lo stesso giorno, il 6 aprile, alla ricerca di parenti e amici che per fortuna abbiamo ritrovato tutti vivi. Sono sceso una seconda volta con l’ordine degli ingegneri per il rilievo dei danni in gruppi di case assegnateci dai tecnici comunali. Fu un turno di

una settimana e nel corso di quei giorni avevo capito che tantissimi amici avevano bisogno di aiuto avendo tutti la casa in qualche modo danneggiata. Così ho deciso di tornare a L’Aquila, dove sono nato, e anche la mia casa era da riparare. Nell’agosto 2009 ho trovato un ufficio-abitazione a Pizzoli, da dove mi sono spostato a L’Aquila tutti i giorni nei periodi passati lì. Finora ci sono andato 148 volte per 3 o 4 giorni ogni volta in quattro anni e mezzo.

●Raccontami della tua casa…

È situata nella Piazzetta di Porta Bazzano nel centro storico e per fortuna non era molto

danneggiata. Grazie a una

REPORTAGE & INTERVISTA

L’AQUILA OGGI

In alto e in basso a pag. 3 (foto agosto 2013 di mbenedetti). A pag 2 foto di Elfi Reiter.

A pag. 3 Auditorium di Renzo Piano

Peccati mortali sotto le gru

E segni di vita

Mario Ciammitti, un ingegnere che da quel 6 aprile del 2009 ha riscoperto le sue radici aquilane, racconta i mille ritardi

e le difficoltà della ricostruzione. E di come il sisma, per assurdo, lo abbia aiutato

PROVE DI RINASCITA

MALGRADO GLI UOMINI

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ALIAS 18 GENNAIO 2014

fortunata coincidenza è stato possibile ristrutturarla, perché la zona rossa era stata ridisegnata escludendo la mia casa e quelle dei vicini, tutte classificate «B», cosa che consentiva di fare tutto abbastanza velocemente e alla fine del 2010 era già pronta. Per due anni è stata affittata a studenti, categoria privilegiata della città perché l’università è la più grande azienda di L’Aquila e avevo l’obbligo di affittare a loro per due anni. A settembre di quest’anno gli studenti sono andati via, e quindi sto tornando a casa mia, finalmente. In centro storico siamo

forse una trentina di persone, tornate, su dodicimila che vi abitavano prima. L’Aquila è una città abbastanza piccola per cui anche dalla periferia è facile arrivare in centro e di fatto sono solo due le strade che funzionano come accesso.

●Quali sono?

La Via della Croce Rossa, cosiddetta, e la via XX Settembre.

Nella Via della Croce Rossa hanno costruito moltissime baracche di legno che alloggiano i negozi e i servizi che prima erano in centro.

Si trovano appena fuori dalle mura ma lo stesso vicinissime al centro. Via XX Settembre è quella dove c’era la Casa dello studente e molte altre costruzioni crollate provocando decine di morti.

Quella strada è nuovamente percorribile nei due sensi di marcia da circa sei mesi.

●Un’immagine vista poco prima della nostra partenza, nel tardo pomeriggio, mi aveva rallegrato:

gruppi di giovani si avviavano verso Porta Bazzano e quindi verso il centro. Si sta rivivacizzando?

No, semplicemente hanno riaperto da Porta Bazzano via Fortebraccio e Costa Masciarelli, in salita, e entrambe portano

direttamente in piazza. Tutti gli autobus, urbani e extraurbani, si fermano al Terminal vicino alla Porta e Costa Masciarelli era una delle vie preferite di accesso al centro.

●Lungo queste due strade però di case ristrutturate, e quindi abitate, non ne ho viste...

Ce n’è un'altra a metà di via Fortebraccio, va detto che è pur sempre zona rossa e per ora non si può intervenire.

●Come mai?

Hanno detto che non funzionano gli impianti, ossia le reti del gas e la rete dell’acqua. Per risistemare le tubazioni stanno facendo un grande lavoro nelle strade secondarie per ridare l’agibilità provvisoria a certe abitazioni considerate di tipo «B» o «A», cioè poco lesionate o addirittura agibili. Ma c’è anche una certa ritrosia degli aquilani a tornare in queste case, perché in quattro anni si sono sistemati altrove e in qualche modo abituati a un tipo di vita diverso. Tornare in una città vuota e senza servizi sarebbe un ulteriore trauma che molti non vogliono vivere, pensando inoltre a un futuro fatto di grandi cantieri, rumore e polvere, nonché inquinamento da amianto.

●C’è molto amianto a cielo aperto?

Queste case hanno spesso il tetto e gli scarichi di eternit, ci sono studi molto preoccupanti.

L’Aquila non è una città ricca, già prima del terremoto c’era una crisi terribile, di occupazione, le fabbriche chiudevano, il terremoto dà un piccolo impulso benché molte imprese vengono da fuori e utilizzano poco la manodopera locale e i materiali disponibili. Non sembra che questo beneficio nel campo dell’edilizia si ripercuota in modo positivo sulla città.

Sarà sempre meno il contributo che il comune dovrà spendere per il CAS (Contributo di Autonoma Sistemazione), cassa da cui si finanziano i contributi per coloro che hanno trovato una sistemazione altrove:

praticamente il comune paga loro l’affitto o una grossa quota di esso. Man mano che si riparano le case e gli abitanti tornano, cala il contributo da dare come CAS, rimanendo più soldi da gestire per la

ricostruzione.

●I MAP (Moduli Abitativi Provvisori), quelle casette in legno costruite da Bertolaso con i fondi europei e della provincia di Trento…

Quelli a Onna e a Villa Sant’Angelo, così come

l’Auditorium di Renzo Piano sono tutti doni della provincia di Trento e sono state montate dai loro fornitori. Sono case bellissime, quelle fatte dai trentini, anche dal punto di vista urbanistico, molto migliori di quelle fatte a casaccio per single e anziani soli, tipo quelle a Pizzoli, orrende, lontane dai servizi, lontane dai negozi. A Onna hanno mantenuto l’intero paese in un villaggetto nuovo, le persone stanno bene e non spingono tanto per ricostruire le loro case crollate.

●Tu hai portato in giro nella zona rossa Barbara Spinelli e Salvatore Settis…

Quando venne Settis, in centro c’era un tale silenzio tombale per cui scrisse del pericolo che L’Aquila diventasse una nuova Pompei. Fece scalpore e paura quell’immagine di rovina, senza speranza. Barbara Spinelli ovviamente parlò male delle New Town di Berlusconi, scioccanti davvero in quanto sono per lo più agglomerati, anche grandi, senza servizi - eravamo stati in quella di Bazzano. Poi stroncò anche l’Auditorium di Renzo Piano scatenando l’inferno tra Piano e lei, e Piano e me, avendomi direttamente citato nel suo articolo.

●Qual era il soggetto del reato?

L’Auditorium è una costruzione splendida con un’acustica perfetta, come solo Renzo Piano sa fare, però è piccolo e situato in un parco pubblico, due peccati mortali: bastava spostarsi un paio di centinaia di metri, farlo grande il doppio e l’Aquila avrebbe avuto un auditorium come meriterebbe, data l’attività culturale musicale molto importante. Però "a caval donato non si guarda in bocca", e quest’auditorium è fonte di grandi spese, tutto riscaldato elettricamente, senza pannelli fotovoltaici, e perché ogni spettacolo va replicato almeno tre volte avendo la Baratelli, società che lo gestisce, seicento abbonati e l’auditorium 230 posti. Le motivazioni di Renzo Piano sono che è nel cuore della città e che - ma questa è una balla che usa dire alla sovrintendenza – è un edificio smontabile. Ipocrisia tipicamente italiana perché per smontarlo e ricostruirlo altrove ci vogliono altrettanti soldi (6 milioni di euro). Comunque l'auditorium sta diventando un centro di aggregazione per tante manifestazioni, non solo musicali e dunque, per fortuna, c'è!

●Tu ti occupi da tanti anni di edilizia ad alta efficienza energetica.

A L’Aquila c’è l’obbligo di rispettare la legge a riguardo del contenimento delle spese energetiche. Nei ventidue interventi portati a termine finora, ho sempre fatto dei cappotti (isolamento termico) per contenere il consumo energetico.

Ciò è semplice per le case fuori dal centro storico, dove invece non è semplice farli, almeno dove le strade sono larghe due metri e mezzo e se da ogni lato ognuno si prende 10 cm in più, la strada si restringe. Faremo salti mortali per riuscire a farle a consumo ridotto e ci impegneremo al massimo.

Dal punto di vista professionale gli stimoli sono molto più soddisfacenti rispetto alle cose normali che si fanno nelle città non colpite da terremoto: si imparano tecnologie nuove, si impara a lavorare con la pietra, una pietra informe, non squadrata come in Toscana o in Umbria, e alla mia età (ho oltre sessant’anni!) non avrei mai pensato di apprendere tanto. Il terremoto per assurdo mi ha aiutato, ho ritrovato le mie radici, e parenti che non sapevo di avere, di cui mi aveva spesso parlato mio padre: quelle relative a Fra Giuseppe Eusanio di Prata d’Ansidonia (un vescovo agostiniano sepolto a Roma nella Chiesa di Sant’Agostino, ndr), da cui in qualche modo

discendiamo.

●Tu sei un pioniere della casa di legno in Italia, ne hai fatto una a Bologna nel centro storico e da fuori non si distingue dalle altre.

Sì, otto anni fa. Era divertente, perché dovevo risolvere problemi di cantiere: per farne uno tradizionale avrei dovuto spostare delle famiglie - che già mi avevano fatto causa - in albergo per alcuni mesi. Per cui ho pensato alle costruzioni in legno, molto leggere e prefabbricate nelle forme desiderate, anche molto moderne: una casa in legno non si costruisce ma si monta, non ci sono muratori ma montatori. Il tutto avviene a secco, senza uso di acqua e di tracce nei muri per gli impianti:

tutto viene stabilito nel progetto esecutivo e realizzato nella fabbrica. La mia casa come involucro è stata montata in sette giorni, alta due piani sopra al piano terra in muratura esistente, piuttosto piccola, e il nostro quartiere, pieno di osterie e ristoranti, non ha risentito minimamente dell’impatto del cantiere, perché di sera non esisteva. Nessuno si è lamentato di un cantiere che non c’era! È stata un’esperienza straordinaria che rifarei volentieri, tenendo conto dell’evoluzione in questo settore.

GERENZA In copertina: strada laterale del Corso con i cantieri (foto Elfi Reiter rielaborata da Alessandra Barletta

●●●La vera costituzione italiana di Marcello Troiani (ed. Aliberti), sarà presentato il 21 gennaio alla Stampa estera. Si tratta di un testo satirico su tutte le storture legislative verificatesi negli ultimi vent'anni nel nostro paese.

L'autore, abruzzese di nascita e che esercita la sua professione di avvocato a Roma, devolverà i proventi della vendita del libro al Comune dell'Aquila per contribuire alla ricostruzione del teatro della città, andato distrutto nel 2009.

Iniziative continue sono state promosse nella città da Bibiobus fin dai giorni del sisma con l’ausilio di numerose organizzazioni. Dal 22 al 25 gennaio si terrà all’Aquila al circolo Querencia la manifestazione «Argentina - lezione di memoria» con proiezioni, incontri, dibattiti, musica, libri e tango promossi da Amnesty International, Circolo Arci Querencia con Garage Olimpo (il 22), Cronaca di una fuga (il 23) e Complici del silenzio (il 24). Il 25 gennaio alle ore 18, si terrà l'incontro con Enrico Calamai, ex diplomatico in Argentina e Cile negli anni '70, e Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia.

INIZIATIVE CULTURALI

Il manifesto direttore responsabile:

Norma Rangeri a cura di Silvana Silvestri (ultravista) Francesco Adinolfi (ultrasuoni) in redazione Roberto Peciola redazione:

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L’AUDITORIUM DI RENZO PIANO

È una costruzione splendida,

con un’acustica perfetta. Però dovrebbe essere grande il doppio e sorgere altrove.

Il suo creatore lo difende perché è un edificio smontabile.

Ma questa

è una balla,

un’ipocrisia

tipicamente

italiana

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INCONTRI D’ARTE

L’artista egiziano presenta in Italia le sue opere, nel progetto

«Un ponte tra Pisa e Santa Croce sull’Arno», viaggiando

dentro le diverse culture, nel tempo e nello spazio

Moataz Nasr,

volando sulle ali di un grifone

di MANUELA DE LEONARDIS PISA

●●●«Pane, libertà, giustizia sociale», queste le parole scritte in cufico che creano il

giardino-labirinto che Moataz Nasr (Alessandria d’Egitto 1961, vive e lavora al Cairo) ha realizzato all’esterno del Centro Espositivo San Michele degli Scalzi, come già nel 2011 al Jardin des Tuileries di Parigi. Il ritmo concitato è quello dello slogan politico, uno dei tanti che ha riecheggiato in piazza Tahrir. Ideali universali la cui conquista non è affatto scontata e che sono anche un manifesto della poetica dell’artista egiziano. Ha impiegato nove mesi per lavorare all’ambizioso progetto Moataz Nasr. Un ponte tra Pisa e Santa Croce sull’Arno (fino al 9 febbraio 2014), recandosi quattro volte sul posto e dialogando costantemente sia con le maestranze locali che con i rappresentanti delle varie comunità religiose. Questo progetto, curato da Ilaria Mariotti e realizzato dal comune di Pisa e dal comune di Santa Croce sull’Arno (finanziato dalla Regione Toscana nell’ambito di

Toscanaincontemporanea 2012, in collaborazione con Galleria Continua di San Gimignano) è una riflessione che, partendo dall’analisi del territorio, abbraccia argomenti molto più ampi di natura

socio-politica, religiosa, culturale. A San Michele degli Scalzi l’artista, con uno sguardo amorevole, si sofferma a guardare dall’alto l’ottagono perfetto (l’8 è simbolo d’infinito e non solo) che si sviluppa attraverso il movimento a cui allude Vacanze romane. Le 8 Vespa messe a disposizione dalla Fondazione Piaggio sono unite tra loro dalle scocche, diventando un unico abbraccio armonioso: non a caso la mostra ha per titolo Harmonia. Tra le opere precedenti, invece, anche i video Father and son (2004), The echo (2003) e The Wall (2012) nella perfetta collocazione scenografica di un lungo corridoio. Ci spostiamo, poi, da Pisa a Santa Croce sull’Arno, percorrendo una distanza di circa quaranta chilometri. A Villa Pacchiani, la fase finale

dell’allestimento della mostra The journey of a Griffin non è meno impegnativa. È qui che si riposa lo stupefacente grifone di cuoio dopo il suo lungo viaggio. Un viaggio nel tempo e nello spazio, tra culture e civiltà. La grande scultura di cuoio The return of a Griffin realizzata a mano da artigiani locali dalla consolidata tradizione conciaria (su modelli in 3D forniti dal Cnr-Isti) è imponente nella sua solennità, ma anche vicino. Non è freddo come il marmo o il bronzo ed emana un lieve sentore di cuoio. Verrebbe voglia di accarezzarlo, proprio come fa Moataz Nasr un attimo prima di accomiatarsi.

●Memorabilia medievali e animali mitologici: come è nato e si è sviluppato il progetto «Un ponte tra Pisa e Santa Croce sull’Arno»?

Quando, per la prima volta, visitai Pisa guardandomi intorno nella piazza medievale notai in cima al duomo la statua del grifone. Seppi che nel museo era conservata la statua originale, perché quella all’esterno era una copia.

Vedendola da vicino mi sorpresi nel

trovare una scritta in arabo e iniziai a pormi delle domande. Intanto perché quella statua fosse li e quale fosse il suo significato. Mi fu detto che probabilmente l’architetto che aveva costruito la cattedrale e il battistero proveniva dall’Andalusia ed era musulmano. In quel periodo, tra l’XI e il XII secolo, Pisa godette di un momento di pace e l’influenza

dell’architettura moresca si percepisce immediatamente entrando in quei luoghi. Continuando a fare ricerche sul grifone mi resi conto del lungo viaggio che questo animale aveva intrapreso tra paesi e culture diverse.

Ogni cultura se ne era appropriata, trasformandolo e adeguandolo alla propria perché fosse accettato. Nell’antico Egitto era un animale bellissimo conosciuto con il nome di sfinge che aveva il compito di proteggere la dea Iside, mentre presso le antiche popolazioni che vivevano lungo la costa a nord del Libano e della Palestina era uno strano animale che poteva volare.

Lo ritroviamo anche in Iraq, Persia e si spostò anche in India e Cina per poi

tornare indietro. Più o meno il concetto era lo stesso, si trattava di una bestia immaginaria che aveva in sé tutta la forza, la potenza e la bellezza degli altri animali. Ho trovato interessante seguire questo animale che poteva avere la testa di aquila e il corpo di leone, cavallo o tigre e osservare la sua capacità di insinuarsi come un serpente all’interno di tutte le culture, fino all’ultima versione entrata nell’Islam popolare, quello semplice della gente comune. Mi riferisco al Buraq che portò Maometto dalla Mecca a Gerusalemme, un animale che poteva andare più veloce della luce.

Alcune volte, questa bestia era pericolosa, altre arrivava a rappresentare la vita stessa di Gesù nel suo morire e rinascere, motivo per cui fu accettato in ambito cristiano. La sua condivisione presso varie culture, con diversi nomi, significa l’appartenenza stessa all’umanità.

●Nel tuo lavoro di «artista epidermico e reattivo», come ti definisce Simon Njami, c’è spazio anche per il tuo vissuto personale.

In particolare in opere come «The sky» (1999) e «Father and Son»

(2004), in cui sono protagonisti tua madre e tuo padre, entrambe incentrate sulla contrapposizione presenza/assenza. Attraverso la pratica artistica hai potuto capire certe dinamiche familiari e mettere ordine dentro di te?

Penso di sì. La mia memoria di bambino è molto presente nel mio lavoro. Certe volte penso addirittura che sia proprio quel bambino a creare l’opera. Il rapporto con la mia famiglia, naturalmente, ha BIOGRAFIA

●●●Moataz Nasr (Alessandria D’Egitto 1961, vive e lavora al Cairo), artista autodidatta irrompe sulla scena artistica internazionale nel 2001, vincendo il Gran Premio alla 8˚

Biennale Internazionale del Cairo.

Nel 2008 fonda Darb 1718, centro culturale ed espositivo no-profit nel cuore del Cairo. Tra le mostre internazionali a cui ha partecipato:

Biennale di Venezia 2003, Biennale di Seul 2004, Biennale di Sao Paulo 2004, Triennale di Yokohama 2005, Biennale delle Canarie 2009 e 2012, Biennale di Lubumbashi 2010, Biennale di Thessaloniki

2011, Uluslararasi Çanakkale Bienali 2012, Otra Bienal de Arte di Bogota 2013. Tra le personali più recenti: 2013, «Tectonic Shift», Galleria Continua/Le Moulin, Francia; 2012 - «Collision», Lawrie Shabibi, Dubai; «Hidden

Landscape», Akershus Fortress, Oslo; «The Tunnel», Galleria Continua/Beijing, Cina.

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ALIAS 18 GENNAIO 2014

«Gli animali immaginari sono

universali e testimoniano la nostra appartenenza a una stessa umanità».

In mostra, la grande scultura in cuoio «The return of a Griffin», è realizzata a mano da artigiani locali dalla consolidata tradizione conciaria

Grande, «The Return of a Griffin»

di Moataz Nasr; sopra, «Vacanze romane». A sinistra, il ritratto dell’artista preso forma a quell’età. Ma quei

lavori a cui ti riferisci non sono nati come progetti specifici, in particolare The sky che è dedicato a mia madre, è stato fatto dopo la sua morte. È stato per me come il suo funerale. L’ho realizzato in una settimana, era come una reazione nei confronti della sua sparizione, un discorso speciale tra me e lei. Ho creato una stanza fatta di pezzi di legno dove il dialogo ha coinvolto chiunque vi entrasse. Allo stesso modo il lavoro Father and Son non è nato come opera d’arte. All’epoca mio padre aveva 85 anni e tra noi c’era un rapporto difficile. Ho pensato di mettere da parte questo nostro rapporto, perché era troppo pesante per me. Volevo parlare con lui e registrare la nostra

conversazione per me e per i miei figli, perché non volevo che un giorno anche loro stessero male.

Dopo aver realizzato questo lavoro ho avuto modo di vedere il forte effetto che aveva non solo sui miei figli, ma anche su mio fratello minore. Il lavoro era così forte che è andato oltre l’aspetto familiare, diventando una storia per tutti.

Così ho ristretto il video portandolo da tre ore e mezzo a quattordici minuti. Dopo questo dialogo con mio padre mi sono sentito meglio, è

stata una sorta di terapia. Una reazione che ho riscontrato anche nel pubblico, non solo proiettando il video in Egitto ma anche fuori, in Italia o a Stoccolma, paesi appartenenti a culture diverse. Non vedo la linea di separazione tra personale e non, questa distinzione non esiste nella mia vita.

●Pittura e disegno sono state le prime tecniche che hai

sperimentato. Nei primi anni ’90, quando hai iniziato l’attività espositiva, quali erano i tuoi referenti e quando hai sentito l’urgenza di andare oltre la bidimensionalità della tela?

Sono cresciuto in una famiglia con un padre molto rigido. Non avevo giocattoli come gli altri bambini, cosa che in qualche modo è stata positiva perché sono stato costretto a creare da me i miei giochi, dalla palla da baseball al monopattino.

Inoltre abitavo al Cairo nella casa di mia nonna, un grande

appartamento pieno di stanze vuote dove trascorrevo molto tempo in solitudine. Avevo la necessità di utilizzare vari materiali per costruire i giochi, come i modellini delle città con delle piccole figure. Facevo quello che faccio ancora. Era una gioia, perché sapevo che potevo giocare per un’intera settimana e questo mi rendeva felice. Creavo delle storie instaurando un dialogo tra me e i giocattoli. Nel frattempo ho continuato a disegnare e dipingere, ma ai tempi dell’università avevo accantonato l’idea di fare l’artista.

Ci sono arrivato tempo dopo, forse perché lo sentivo profondamente dentro di me e l’universo mi ha ascoltato. Un giorno venne da me un’amica, vide i miei dipinti e disse che in Egitto esisteva un Salon dove i giovani artisti potevano esporre le loro opere. Ci andai, esposi le mie opere e vinsi il primo premio. Fu una sorpresa: decisi di continuare.

●C’è chi ti definisce un

cantastorie... È così?

In buona parte, lo sono. Anche da bambino ero solito scrivere storie.

In questo momento sto lavorando al mio primo film, basato su una storia che ho scritto venticinque anni fa. Non si tratta di un

lungometraggio che verrà proiettato nei cinema, ma di un lavoro artistico destinato a gallerie o musei d’arte. Amo raccontare storie, ma anche ascoltarle, andare al cinema e leggere libri. Non sono un lettore veloce, sono molto lento. Mi piace leggere chiudendo gli occhi e digerendo le storie, sentendole, prendendomi tutto il mio tempo.

●Quale sarà il soggetto del tuo film?

La paura.

●Dimensione estetica e sociale sono i due perni intorno a cui ruota tutta la tua poetica, particolarmente evidente in opere in cui le riflessioni sono più di matrice politica, come

«Man-Made» (2006) e «Ice Cream Map» (2008). Lavori in cui emerge anche una componente ludica. È una metodologia per rendere più digeribili argomenti pesanti?

Non penso che sia una scelta, io stesso qualche volta mi sorprendo nel ritrovare nel mio lavoro i diversi aspetti della mia personalità. Sono sarcastico ma, allo stesso tempo, c’è una parte di me rimasta bambina:

continuo a realizzare i giochi dell’infanzia. Faccio cubi, labirinti, cruciverba, puzzle… tutti giochi che ero solito fare da piccolo e che utilizzo nuovamente. Sono come tante colonne che sostengono lo stesso tetto.

●Anche l’elemento calligrafico è ricorrente, da «The Letters» (2001) a «Propaganda» (2008-2010), fino all’installazione luminosa «Ibn Arabi» (2011). Una scrittura che implicitamente fa riferimento alla religione. Dove conduce il tuo invito alla riflessione in cui, partendo dalla considerazione che le religioni dividono gli uomini, introduci alla scoperta del sufismo?

La religione non era così

importante nella mia famiglia, mio padre non pregava e non ha mai frequentato la moschea. Io stesso sono cresciuto senza un indirizzo religioso. Ma leggendo del sufismo ne sono rimasto totalmente affascinato. Penso che il mio interesse sia diventato ancora più forte dopo aver approfondito la conoscenza del buddismo, e aver scoperto il legame tra queste due religioni. Il sufismo è molto individuale, non richiede necessariamente l’appartenenza a un gruppo. Il rapporto è diretto tra l’individuo e dio. Personalmente trovo che sia importante seguire la mia spiritualità senza la mediazione di un’altra persona, un prete o anche un libro. Posso parlare con dio e lui mi risponde. Ecco perché lo porto nel mio lavoro artistico.

Non parlo di una religione specifica, ma tutti possono avvicinarsi al sufismo e capirlo a diversi livelli. Il rapporto è anche tra l’individuo e la propria coscienza.

La cosa più importante nel sufismo e nel buddismo è che loro propongono l’amore. Amando se stessi si sta in pace e c’è la possibilità di amare tutte le persone che sono intorno a noi. Quando si parla di religioni - qualsiasi religione - si parla di sangue, odio, uccisioni. Si uccide in nome di dio.

Questa è una cosa che si può dire dell’ebraismo, del cristianesimo,

dell’islamismo. Sufismo e buddismo, invece, hanno un’umanità diversa, parlarne è facile per me perché ci credo. Credo che diventare una persona migliore porti ad una connessione con l’universo e con se stessi.

●Quando ti ho intervistato via skype nel febbraio 2011, alla vigilia della cacciata di Mubarak, hai affermato: «Siamo stati umiliati per trent’anni dalle autorità e dalla polizia. Ora tutto questo è finito. Non accetteremo mai più che ciò si possa ripetere».

Nutri ancora speranze per il futuro del tuo paese?

La speranza deve esserci per forza.

Sono stati tre anni duri in cui siamo stati in mezzo, tra islamisti fascisti da una parte e militari fascisti dall’altra. Ma penso che non esista alcun potere che possa impedire al popolo di cercare quello che vuole, ovvero semplicemente vivere nella dignità, nella pace, nel rispetto. È importante che anche i poveri possano mangiare, che ci sia giustizia sociale e libertà

d’espressione e di vivere secondo il proprio desiderio. Può darsi che ci vorranno ancora degli anni, ma a un certo punto bisognerà risolvere questi problemi. Non si potrà continuare ad andare avanti così, perché il popolo non lo accetterà.

Nutro ancora speranza, sì. Arriverà il tempo dei cambiamenti.

VOLTURNO OCCUPATO

Alberto Grifi amava circondarsi di giovani, parlare , lavorare, insegnare, scoprire nuove tecniche, progettare film collettivi insieme a loro e dai ragazzi, alcuni ormai adulti, è sempre stato ricambiato con amore e interesse. Dal 17 al 19 gennaio (ancora oggi e domani per chi legge) i ragazzi del Volturno Occupato, a Roma, Via Volturno 37 proietteranno i suoi film: A proposito degli effetti speciali, Orgonauti evviva , Il grande freddo (il giorno 17, ore 20); Chi è questo Grifi (lunga intervista fatta da Giordana Mayer e Cristina Mazza), Michele alla ricerca della felicità, Parco Lambro e Lia (il 18 ore 20); Anna preceduto dalla prefazione di Grifi (il 19 ore 19.30).

Penso sia interessante rileggere alcune delle riflessioni di Alberto che ho trovato tra le sue carte. Su Orgonauti evviva ecco alcuni appunti del 1968:

«elaborato sul mito degli Argonauti, secondo una riedizione fantascientifica, Orgonauti Evviva è un film

sull’allucinazione...un luogo dove tempo e spazio convivono in un rapporto di contrazione che deforma la norma visiva, e dove il viaggio è contemporaneamente fuori dalla Terra e dentro se stessi, lungo la genesi dell’uomo...il punto dov’è diretta l’astronave, la rotta, è

metaforicamente una ’figura impossibile’

una specie di enigma della visione. Nel film la meta del viaggio sovrappone due interrogativi: il primo è se le funzioni percettive dell’uomo non siano sufficientemente adeguate per

configurare un’immagine della realtà nella prospettiva della nuova dimensione del volo spaziale(...) il secondo interrogativo è quello che l’uomo si è sempre posto sull’origine della propria nascita, decifrando il mito, attraverso quel viaggio psicanalitico nel simbolo e nel sogno, che è la regressione

allucinatoria». Purtroppo la lavorazione di Orgonauti fu interrotta dall’assurdo arresto di Grifi per una poco credibile chiamata di correo (qualcuno disse che qualcun altro disse che aveva visto Grifi e Vicinelli cedere uno spinello ad un terzo mister X) e quando, due anni dopo, riprese a lavorarci troppe cose erano cambiate e il risultato non lo soddisfece mai. Alberto era sempre molto restio a farlo vedere, eppure, a posteriori è interessante la costanza con cui egli torna sempre a sviscerare alcuni temi come l’ontofilogenesi, l’evoluzione biologica, lo studio della genesi del funzionamento della visione e molto altro. Nella trascrizione di un dibattito che avvenne nel maggio 1977 nella Galleria d’Arte Moderna di Bologna alla domanda «che differenza fai tra Anna e questo nuovo film (Parco Lambro)?» Grifi risponde «Anna è un film sul fascismo che passa nei rapporti umani. Al contrario i documenti sul parco Lambro e le autoriduzioni registrano la tendenza a trasformare il personale in politico. I tentativi, i balbettii, se vuoi, per organizzare una battaglia per la vita quotidiana e per la trasformazione radicale del mondo. Con Anna si cambia il cinema, nel senso che è la registrazione del cambiamento di quelli che hanno fatto il film. Non è un film che la regia ha girato sulla disobbedienza. È, al contrario, la registrazione della rivolta di attori e maestranze contro il film, a dispetto della regia. Sette anni dopo il Parco Lambro, in pieno riflusso culturale, a seguito di una serie di riunioni con un gruppo di registi, sceneggiatori e produttori che avrebbero voluto fare un film sugli anni di piombo Alberto, che invece di immaginare un film di

«finzione» cerca senza riuscirci di trovare i fondi per editare il Lambro, scrive in una lettera a Maurizio Torrealta

«...messo in chiaro ciò che sappiamo bene, e cioè che sono proprio le pistole che hanno affossato gli slanci verso una vita nuova (..) è possibile ricreare una resistenza per non essere risucchiati dalla normalità? (...) Siamo ancora capaci di sognare qualcosa di diverso dai polli d’allevamento in batteria, per cui valga la pena di lottare?»

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ARCHEOLOGIA SPORTIVA

di LUCIANO DEL SETTE TORINO

●●●Via Filadelfia 136, Torino, quartiere Santa Rita, prima periferia. Qui agonizzano una torre Liberty tenuta in piedi da una gabbia di tubi Innocenti e i resti di una gradinata avvolta nella vegetazione selvatica. Le due porte chiuse di un cancello, decorate con tori rampanti, sono una macchia rossa in mezzo a un recinto di lamiere e a spazzatura sparsa ovunque.

Benvenuti alle rovine dello Stadio Filadelfia, quello dove giocarono a calcio il Grande Torino, cancellato il 4 maggio del 1949 dalla tragedia di Superga, e poi il Torino per forza di fatti e di storia più piccolo.

Avvertenza a coloro che del calcio non gliene frega niente:

questa non è una storia sportiva pura e semplice. È il racconto di un luogo dove la passione del tifo era certamente partigiana, ma rispettata e in alcuni momenti condivisa dall’Italia intera; un luogo intorno a cui, dopo la scomparsa del Grande Torino, hanno gravitato interessi finanziari, lotte societarie, presidenti calcistici incapaci o disinteressati, latitanze pubbliche e private. Per la sua rinascita hanno lottato e lottano migliaia di tifosi del Toro, così lo chiama chi lo ama, decisi a impedire che la memoria della squadra più gloriosa del calcio italiano di tutti i tempi venisse cancellata. È il racconto di un luogo come metafora di una squadra eternamente in bilico tra il sogno di tornare in alto e la realtà di otto stagioni in serie B tra il 2000 e il 2011. Ed è anche il racconto di un presidente, Urbano Cairo, manager di stampo berlusconiano, padrone di La7, di gloriose testate (Bell’Italia, Bell’Europa, Airone) e di periodici quali Giallo, Diva, Dipiù che pescano nel torbido e nel rosa a piene mani. Urbano Cairo, inviso a molta,

moltissima, gente di fede granata per ragioni ben distanti dalla politica. Resta, per dovere di trasparenza, da chiarire una cosa: colui che scrive, fin dalla più tenera età, inneggia al Toro, e, quando gli anni erano assai meno, il lunedì non comprava il quotidiano La stampa se l’amata compagine perdeva. La

decisione di farsi narratore del

‘Fila’ prescinde dallo

schieramento di parte, e nasce invece da una notizia

recentissima: nel 2014 inizierà la ricostruzione dello stadio. Le pagine locali della carta stampata hanno più volte annunciato negli scorsi giorni che il Comune ha messo sul piatto 3,5 milioni di euro. Stesso stanziamento a carico della Regione. Un milione lo metterà Cairo. I palazzi, le associazioni dei tifosi e il Torino Fc confermano. Dunque i lavori prenderanno il via, mettendo la parola fine a una vicenda che, iniziata a metà degli anni ’80 del secolo passato, ha assunto man mano toni grotteschi, è divenuta

saga dell’assurdo, si è persa nell’insensato labirinto della burocrazia, si è trasformata in piccolo ma eloquente esempio di quella categoria di promesse mai seguite dai fatti. Per averne prova, basta aprire la sezione di Wikipedia ‘Stadio Filadelfia’. Sterminata. La parte storica occupa uno spazio irrisorio rispetto a quello dedicato ai

‘Recenti tentativi di ricostruzione’, attraverso i quali, dal 1985, sono passati sette presidenti, l’ex sindaco di Torino Diego Novelli, uno stuolo di ingeneri e periti, svariate imprese edili. Accumulando una montagna di progetti, varianti di progetti, modifiche di piani regolatori, ricorsi, concessioni, revoche delle medesime, battaglie legali, e per buon peso un fallimento finanziario. Una sorta di inferno dantesco che necessita del suo bravo Virgilio per cercare di orientarsi. Il nostro si chiama Domenico Beccaria detto ‘Mecu’, presidente dell’Associazione Memoria Storica Granata che, tra l’altro, ha creato il Museo del Grande Torino e della Leggenda Granata.

Torniamo, però, brevemente, alle rovine Liberty. Sono

quel che resta dello stadio voluto dal presidente Enrico Marone di Cinzano e inaugurato il 17 ottobre 1926, a vent’anni dalla fondazione del club, con l’amichevole Torino - Fortitudo Roma, 4 a 0 per i padroni di casa. L’opera, realizzata in cinque mesi e costata due milioni mezzo di lire, occupava un’area di 38mila metri quadri e accoglieva 15mila spettatori. Sei anni dopo la capienza si amplierà a 30mila. Fino al 1963, ultima partita contro il Napoli (1 a 1, disputata il 19 maggio), seppure con una lunga parentesi allo Stadio Comunale, ex Mussolini, i granata giocano qui le loro partite casalinghe. Le gioca soprattutto il Grande Torino dei sette scudetti e di un dieci a zero all’Alessandria, il 2 maggio 1948. Lo schianto di Superga porta con sé problemi economici per la società, e il presidente Ferruccio Novo, che terminata la guerra aveva avviato i lavori di ricostruzione, dà lo stadio in garanzia alla Federcalcio. Qualcuno insinua che voglia addirittura demolirlo, ma il Piano Regolatore del 1959

dichiara la zona del Filadelfia

«Verde pubblico», chiudendo la questione. Il declino del Fila inizia nel 1964, quando la squadra si trasferisce in via definitiva al Comunale, pur continuando ad allenarsi dentro il vecchio impianto, che abbandonerà un quarto di secolo dopo. Nel 1970, il presidente Orfeo Pianelli, artefice dello scudetto ’75/’76, l’unico vinto dal ‘nuovo’ Torino, aveva tentato di avviare senza successo un progetto di ristrutturazione. Negli anni ’80, piante ed erbacce selvatiche sono ormai padrone delle gradinate, alcune strutture cedono. Comune e

Sopraintendenza minacciano procedimenti penali in caso di crolli. Il primo di quelli che Wikipedia definisce ‘Recenti tentativi di ricostruzione’ parte dal presidente Sergio Rossi (1985). Seguono Gian Mauro Borsano (1991), Roberto Goveani (1993). Il nuovo patron del Toro dal 1995, Gianmarco Calleri, già presidente della Lazio, non è disposto a spendere per il Filadelfia uno solo dei 200

Nel 2014 inizierà la ricostruzione dello stadio del Filadelfia

luogo magico del Grande Torino e poi di una squadra

ridimensionata dopo la

tragedia, mettendo la parola fine a una vicenda grottesca

PROGETTI ■ L’EPOPEA DI UNO STADIO

L’arena mobile

del toro rampante

IL FILADELFIA

in alto a sinistra e destra, l’inaugurazione dello stadio torinese nel 1926; subito sotto un’immagine del pubblico nel 1927.

Qui sopra, Valentino Mazzola in una foto del 1948. Accanto a destra, l’ultimo raduno del Toro al Filadelfia nel 1995

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ALIAS 18 GENNAIO 2014

milioni di lire necessari a rimetterlo in sesto. Il 27 settembre 1994 l’area è

dichiarata inagibile. Il Comune si fa carico di recintarla, perché le casse societarie suonano a vuoto. Il nome di Calleri apre il dialogo con Mecu Beccaria «La sua defezione, lascia al Fila solo la custode, la signora Carla. La proprietà dello stadio va alla Fondazione Campo Filadelfia, creata da Diego Novelli (ne facevano parte, tra gli altri, il giornalista Gianpaolo Ormezzano, il procuratore Giancarlo Caselli, l’ex corridore ciclista Nino De Filippis, ndr), che ha come obbiettivo la raccolta di fondi per la ricostruzione, anche tramite il lancio dell’iniziativa ‘Un mattone per il Filadelfia’. Più volte, Novelli dichiarerà di avere a disposizione la cifra necessaria.

Ma la documentazione e i soldi non sono mai saltati fuori». Il 27 luglio 1997 inizia la demolizione, conclusa il 10 aprile 1998.

L’Associazione Memoria Storica Granata si è già mobilitata un anno prima per catalogare e salvare scarpe, maglie, palloni, archivi, fotografie. Gli scatoloni vengono messi dentro alcune stanze del primo piano. Quelli dell’Associazione

raccomandano: quando inizierete a demolire avvisateci, verremo a prenderci tutto. Mecu ricorda: «Un mattino, una telefonata mi avvisa che, dopo aver forzato i lucchetti delle stanze, gli operai addetti alla demolizione hanno buttato gli scatoloni in cortile, bruciato i documenti e stanno facendo spazzatura di tutto il resto. Mi precipito sul posto, e proprio il fatto che tutto quel patrimonio sia diventato immondizia, si trasforma in una fortuna. La legge chiamata ‘Possesso di

buona fede’ fa sì che, se butti via qualcosa, chi la recupera ne diviene proprietario». Nel 2005 la società fallisce dopo aver attraversato la sciagurata e poco trasparente presidenza di Francesco Ciminelli, tifoso juventino ma sopra ogni altra cosa titolare della SIS (Società Investimenti Sportivi). La squadra, retrocessa in B, si è guadagnata il ritorno nella massima serie. Ma, a fronte del bilancio, non viene ritenuta idonea all’iscrizione. Si apre l’era Cairo, che esclude il Filadelfia dai suoi investimenti. La parola di nuovo a Mecu: «Dopo il fallimento, la Fondazione di Novelli era divenuta più che mai latitante, e allora viene presa la decisione di costituire un tavolo di lavoro. Ne fanno parte il Comune, la Regione, il Torino FC e otto associazioni di tifosi.

Da questo tavolo nasce, il 28 marzo 2011, la Fondazione Stadio Filadelfia. I suoi tre milioni e mezzo il Comune li ha già in cassa. Sono gli oneri di urbanizzazione versati in precedenza dal marchio Bennet per costruire nell’area un supermercato. La Regione e Cairo promettono identica cifra.

Altri soldi potrebbero arrivare dalle Fondazioni. Se non che il presidente gira la frittata e abbassa il suo contributo a un milione». Al di là del taglio economico, i progetti iniziali prevedono soltanto la creazione dell’area sportiva: due campi da gioco di cui uno omologabile Uefa, con una tribuna per 2100 posti e tre gradinate per altri 2000, e un secondo più piccolo.

Sotto la tribuna, infermerie, palestre, spogliatoi, sale riunioni.

Rimane fuori quella che Mecu chiama la parte culturale e aggregativa. Il 19 maggio del 2013 il popolo granata organizza

una marcia di protesta. Il CdA della Fondazione innesta la retromarcia e si convince, grazie anche al fatto che Mecu presenta a sue spese un progetto per l’area mancante «Adesso lavoreremo su un progetto unico, diviso in tre lotti, con un bando d’asta. Abbiamo evitato che il Fila di domani diventasse il Centro Sportivo Urbano Il Magnifico. Non

dimentichiamolo mai: a fronte di un milione di euro, il presidente si porta a casa un posto che ne vale otto; a fronte di quel milione ha ottenuto quindici anni di affitto gratuito; quel milione ha deciso di versarlo in tre comode rate, adducendo la scusa che Comune e Regione, ma la cifra è ben diversa, faranno lo stesso». La creazione del museo consentirà, poi, di superare l’ostacolo dei finanziamenti da parte delle Fondazioni, che per statuto non possono riguardare lo sport ma solo la cultura. Il resto del denaro arriverà da spazi pubblicitari intorno all’area dei lavori, donazioni, sottoscrizioni

in cambio di targhe e targhette intitolate ai benefattori «La realizzazione degli spazi culturali e aggregativi - afferma Mecu - non è un’operazione di esclusivo carattere commerciale. Il Filadelfia ha sempre avuto un ruolo di agorà. Nel progetto, il cortile rimarrà a disposizione del pubblico anche quando sono in corso gli allenamenti a porte chiuse. Un seconda agorà sarà costituita dal museo, con un punto vendita di prodotti legati alla squadra e un’area bar e ristorazione. Da ciò deriverà una fonte di guadagno che

consentirà alla struttura una propria autonomia economica.

Se non si fa così, e lo dico per aver visitato almeno una dozzina di musei del calcio in Europa, il destino è chiudere i battenti nel giro di un paio di anni.

Aggiungo: il Toro, per sua sfortuna, ha una storia unica nel calcio mondiale. Che non appartiene soltanto ai tifosi della squadra, ma a tutti coloro che amano questo sport». La voce finale è quella di Stefano Lanzo, giornalista trentenne e novarese

del quotidiano Tuttosport. Da sei anni segue il Toro senza esserne tifoso. Una garanzia di

obbiettività. Gli domandiamo come sia possibile che uno stadio tanto glorioso quanto minuscolo possa aver subito traversie sicuramente ignote al Maracanà di Rio o al Camp Nou di Barcellona. Lui risponde:

«Ancora adesso, dopo sei anni che me ne occupo, faccio fatica a comprendere perché un monumento che va al di là del calcio, che è stato teatro di una squadra simbolo dell’Italia intera, non solo di quella del pallone, sia stato ridotto a una discarica a cielo aperto. Ho ascoltato racconti, parlato con persone di varie realtà istituzionali e no. Continua a rimanere difficile per me aver chiaro cosa sia successo, quale sia stato il freno più forte alla ricostruzione. Altro ‘mistero’ è l’esclusione del Filadelfia dai finanziamenti delle Olimpiadi Invernali del 2006. Sullo stadio del Torino non è stato investito nulla (l’allora assessore Elda Tessore, responsabile della

kermesse, propose di coprirlo con teloni per nascondere le rovine, ndr), quando tempi e soldi avrebbero permesso di ricostruirlo e utilizzarlo. Persino nella mia Novara qualche soldo olimpico è arrivato. Credo, tuttavia, che sia importante guardare avanti, smetterla di pensare al nulla che è stato fatto, tornare a raccontare una storia capace di suscitare emozioni in chiunque ami il calcio. Indipendentemente dalla propria bandiera».

Arriveranno le gru e le

scavatrici, scompariranno i tubi Innocenti che tengono dritta la torre, la gradinata tornerà ad essere Liberty e bella. Però, cari Mecu e Stefano, permetteteci una nota conclusiva, ammantata di qualche nostalgia. Nessuno potrà restituire, a noi che amiamo il Toro, le zolle calpestate, sconquassate, rivoltate da Valentino Mazzola e dai suoi dieci. Sono marcite, seccate, polverizzate sotto il peso di un’incuria collettiva che rimarrà colpa imperdonabile.

●●●Il Museo del Grande Torino e della Leggenda Granata venne aperto nel 1998, sfruttando lo spazio di due stanze all’interno del chiostro della Basilica di Superga. Dal 2008 è ospitato nella seicentesca Villa Claretta - Alessandri, a Grugliasco, comune dell’hinterland torinese, su un’area espositiva di circa 650 metri quadri. Tra bacheche, vetrine, allestimenti, qui si può ripercorrere la storia del Toro dalla sua fondazione, nel 1906, ad oggi. Qualche esempio

varrà a confermare quanto ci aveva detto il giornalista di Tuttosport Stefano Lanzo nel corso del nostro incontro:

«Ho visitato il museo, e posso dire che se sei un tifoso del Toro, ma anche se non lo sei, sei ami il calcio, ma anche se non lo ami, questo è un posto che trasmette comunque emozioni. Ciò che si vede, che si scopre, è una parte della storia d’Italia». Tifosi e no possono ammirare la Balilla appartenuta a Gigi Meroni, una porzione della tribuna in legno dello stadio Filadelfia, la cornetta del

«Trombettiere del Filadelfia» che dava la carica ai giocatori del Grande Torino; la cassetta del massaggiatore della squadra con le ampolle ancora intatte malgrado il tremendo impatto dell’aereo contro la collina di Superga, una ruota e un’elica dell’aereo stesso.

Ricchissimo il patrimonio di

documenti; testimonianze di un calcio autentico e pulito sono le foto originali di giocatori ed allenatori, a partire dal 1912. Ma il percorso della collezione di maggior impatto emotivo è sicuramente quello lungo il quale si incontrano le maglie e le tute originali del Torino e della Nazionale dal 1927,

le scarpe e i palloni, con pezzi pregiati che risalgono agli anni ’50 del secolo passato. Curiosità e commozione crescono ancora di fronte alle centinaia di effetti personali che appartenevano ai giocatori. Tutto ciò sarà ulteriormente valorizzato quando il museo troverà collocazione nell’area del nuovo Filadelfia. In attesa che ciò si realizzi, l’indirizzo attuale è Villa Claretta - Alessandri, via G.B. La Salle 87, Grugliasco. Il museo è aperto il

sabato dalle 14 alle 19 e la domenica dalle 10 alle 19 (ultimo ingresso alle 17.30). Le visite, soltanto guidate, sono a cura di un gruppo di volontari.

Museodeltoro.it è l’indirizzo del sito, attualmente in manutenzione (l.d.s.)

Nelle sale del museo

di villa Claretta - Alessandri

anche la Balilla di Gigi Meroni

MUSEO DEL GRANDE TORINO

«Se ami il calcio

e anche se non lo ami»

Le foto sono state gentilmente concesse dal «Museo del Grande Torino e della Leggenda Granata»

Sotto, 1995 Ultimo Raduno Toro al Filadelfia; a sinistra, un’ispezione dello stadio diroccato nel 2009

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Il lungo sonno di Walt Disney

l’immortale Potrebbe essere solo una leggenda, ma è stato tramandato che il mago dell’animazione, si sia fatto ibernare in un’urna, simile alla teca

di cristallo che rese eterna anche Biancaneve e la Bella addormentata.

Come lui anche un centinaio di sperimentatori che con la crisi rischiano ora di essere scongelati

Victor Mikhailovich Vasnetsov (1848-1926) «La Bella addormentata»

primi Novecento di RAFFAELE K. SALINARI

●●●Si dice che Walt Disney dorma un sonno senza sogni, vetrificato in un sarcofago di scintillante ghiaccio ed acciaio custodito sotto l’attrazione Pirati dei caraibi nel suo regno incantato, Disneyland, in attesa del risveglio.

Questa leggenda metropolitana, nata nei mesi successivi al decesso ed ancora vivissima, trova le sue ascendenze simbolico tecnologiche nella filmologia di Disney e nella filosofia cui la sua attività artistica e la sua stessa vita si sono ispirate.

Proviamo allora a ricostruire le tracce di questa sua ultima, estrema favola, dell’avventura forse condivisa con due dei suoi personaggi più famosi che, come lui, hanno attraversato il tempo della vita sospesa.

I fratelli Grimm

Alla fine del 1812 usciva il primo volume delle Kinder und Hausmärchen, le Fiabe dei fratelli Jakob e Wilhelm Grimm. Nel 1815 vedeva la luce il secondo volume e nel 1822 il terzo che comprende un ampio commento alle fiabe raccolte, opera delle ricerche di Wilhelm. La fiaba Biancaneve è contenuta nel primo volume col numero 53. Secondo gli stessi Grimm, la storia di Biancaneve aveva diverse versioni che differivano per il profilo dei protagonisti, ma non per l’ordine simbolico che essi

rappresentavano. I fratelli scelsero i personaggi a loro gusto: una principessa, Biancaneve, un eroe, il

Principe, un’antagonista, la Matrigna cattiva, e degli aiutanti magici, i Sette Nani. Secondo lo schema di Vladimir Propp, infatti, contenuto nel libro Morfologia della fiaba, vediamo che l’importante è quello che fa il personaggio, non chi è: se l’eroe è una donna, un uomo, o un orco, come nel caso dell’odierno Shrek, la sostanza fiabesca non cambia. A determinare lo svolgimento della trama è l’azione che l’eroe compie all’interno di uno schema di determinanti simboliche, non le sue caratteristiche fisiche.

La simbologia di Biancaneve In Biancaneve queste sono evidentemente racchiuse nella

cosiddetta «triade cromatica» che, caratterizzando il personaggio della principessa sin dal suo

concepimento, ne determineranno tutta l’esistenza sino alla morte apparente ed al risveglio. Ecco come i Grimm descrivono il desiderio della madre e la nascita di Biancaneve: «Una volta, nel cuor dell’inverno, mentre i fiocchi di neve cadevano dal cielo come piume, una regina cuciva, seduta accanto a una finestra dalla cornice d’ebano. E così cucendo e alzando gli occhi per guardare la neve, si punse un dito, e caddero nella neve tre gocce di sangue. Il rosso era così bello su quel candore, ch’ella pensò: Avessi una bambina bianca come la neve, rossa come il sangue e dai capelli neri come il legno della finestra! Poco dopo diede alla luce una figlioletta bianca come la neve, rossa come il sangue e dai capelli

neri come l’ebano; e la chiamarono Biancaneve». La «triade cromatica», bianco, rosso e nero, è una costante nel simbolismo dei riti iniziatici e si ritrova nella ritualità di molte tradizioni esoteriche, a partire dall’alchimia in cui descrive i diversi passaggi dell’Opera, nigredo, albedo e rubedo: opera al nero, al bianco e al rosso, dove questo costituisce non solo il superamento, ma la sintesi di bianco e nero. Nella Massoneria ogni fratello deve prima percorrere il pavimento a scacchi del Tempio per poi arrivare al rosso, il colore emblematico del Grado dell’Arco Reale. Questa triade cromatica è diffusa in tutto il mondo; ne è un esempio il Kurma-Purana (I, 12.79) dove si parla di tre principii teogonici:

Krsna (di colore nero), Rakta (rosso) e Sukla (bianco). In Africa, gli Ndembu dello Zambia narrano di tre fiumi misteriosi, bianco rosso e nero, associati a nascita, vita e morte. In Occidente la triade cromatica arcaica era comune nel medioevo in cui il colore intermedio fra bianco e nero non era il grigio, ma proprio il rosso.

La protagonista dell’omonimo film del 1937 incarna dunque essa stessa la «triade cromatica» quando, colpita infine dal maleficio della Matrigna cattiva, sembra morta. Ma sarà proprio mercé la permanenza della sua «triade cromatica» sul corpo esanime che i Sette Nani decideranno di non seppellirla, ma di metterla in un sarcofago trasparente: «I nani, tornando a casa, trovarono Biancaneve che giaceva a terra, e non usciva respiro dalle sue labbra ed era morta. La sollevarono, cercarono se mai ci fosse qualcosa di velenoso, le slacciarono le vesti, le pettinarono i capelli, la lavarono con acqua e vino, ma inutilmente: la cara bambina era morta e non si ridestò.

La misero su un cataletto, la circondarono tutti e sette e la piansero, la piansero per tre giorni.

Poi volevano sotterrarla; ma in viso, con le sue belle guance rosse, ella era ancora fresca, come se fosse viva. Dissero: non possiamo seppellirla dentro la terra nera, e fecero fare una bara di cristallo, perché la si potesse vedere da ogni lato, ve la deposero e vi misero sopra il suo nome, a lettere d’oro, e

scrissero che era figlia di re… Biancaneve rimase molto, molto tempo nella bara, ma non imputridì: sembrava che dormisse, perché era bianca come la neve, rossa come il sangue e nera come l’ebano».

La Bella addormentata nel bosco

Un tema analogo, anche in questo caso incentrato su un maleficio che getta la protagonista in un sonno profondo, simile ad una morte non

morte, lo ritroviamo ne La Bella addormentata nel bosco, fiaba antichissima se pensiamo alla storia di Brunilde, l’eroina addormentata della Saga dei Volsunghi, o al roman di Perceforest del 1340, ambientato al tempo mitico della guerra di Troia. La versione più nota, da cui Walt Disney trasse il suo lungometraggio del 1959, è invece quella pubblicata ne I racconti di Mamma Oca di Charles Perrault, La Belle au bois dormant, a cui si deve il titolo odierno.

Interessante notare che il titolo originale francese, a differenza di quelli in italiano ed inglese, parla non di una «bellezza addormentata in un bosco» ma di una «bellezza in un bosco addormentato». E dunque, qui è un intero reame, un Mondo, che dorme in attesa del risveglio. La principessa è circondata sì da un’atmosfera onirica, surreale, ma anche da guardiani magici che la proteggono impedendo a chiunque l’entrata.

Una versione simile a quella di Perrault si trova nei Kinder und Hausmärchen dei fratelli Grimm, col titolo Rosaspina. La versione dei Grimm corrisponde a quella di Perrault solo fino al risveglio della principessa. In entrambe le fiabe, riprese con successo dai film disneiani, il momento clou è

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