LA RISPOSTA DI SOLIDARIETÀ
Libano
Zahle, nel cuore della valle, è una vera roccaforte
cristiana per tutto il Medio Oriente. Il Community Center delle suore del Buon Pastore (Focsiv) a Deir al-Ahmar è un’oasi
di ordine: centinaia i bimbi nelle aule della scuola
materna ed elementare
LUCAGERONICO
INVIATO AZAHLE(LIBANO)
evica a tratti sulla valle della Bekaa, la porta del Libano verso la Siria e Israele. Le tende dei profughi siria- ni, come enormi funghi velenosi, punteg- giano la piana generosa fra villaggi a mag- gioranza sciita. Le bandiere di Hezbollah e l’immagine dell’imam Khomeini segna- no, come pietre miliari, ogni chilometro della superstrada dissestata e infestata da un traffico infernale. «Un’ora e mezza di auto e si arriva a Damasco». Oltre la cate- na del Jabal el-Cheikh corre la frontiera con la Siria che nessuno può o vuole far ri- spettare.
Per questo la città di Zahle, nel cuore del- la Bekaa, è una vera “roccaforte” cristiana non solo per il Libano ma per tutto il Me- dio Oriente: sono 200mila greco-cattolici che hanno difeso la città con una strenua resistenza nei 30 anni di occupazione si- riana. «Siamo la capitale cristiana del Me- dio Oriente», ti dicono con fierezza. È la scelta di restare nella valle della Bekaa, mentre per molti libanesi e per moltissi- mi arabo-cristiani di tutto il Medio Orien- te la diaspora è stata la sola possibilità: u- na resistenza costata alla città 15mila mor- ti durante la guerra civile e l’occupazione siriana. Per questo quelle tende e quei tu- guri affittati dai profughi siriani grazie a- gli aiuti delle organizzazioni internazio- nali risvegliano incubi del passato e sfre- gano nella memoria su cicatrici che nes- suno riesce a nascondere. «Nella mia fa- miglia ho avuto tre morti. Ma lavorando con la Croce Rossa ho imparato ad essere imparziale e come cristiano è mio dovere aiutare chi soffre. Essere imparziale, an- che con il mio dolore», spiega Ramzi Abou Zeid, coordinatore dei servizi Caritas per i migranti della città.
Ma essere imparziale in Libano è quasi im- possibile: 4 milioni di abitanti con un Pae- se che solo un mese fa ha eletto il presi-
N
dente Michel Aoun e forse avrà finalmen- te un governo. Intanto, da quanto è ini- ziata la guerra civile a Damasco, i siriani arrivati o tornati in Libano sono un milio- ne e mezzo. «Bisogna distinguere il regime siriano dalla gente che soffre», ti dicono tutti gli operatori umanitari.
Sul nudo cemento di una stanza alla peri- feria di Zahle, pagata dal “Conseil norvé- gien pour les réfugiés”, Suleiman al-Saha- rif è sdraiato su un materassino. Piastrel- lista scappato da Daraa con la moglie Fa- dia e 5 figli dai 10 ai 18 anni, è costretto al letto da una ernia al disco che nessuna struttura ospedaliera vuole curare senza
garanzie economiche. «In Siria è impossi- bile tornare. Il Libano è una soluzione, ma sarebbe meglio lasciare il Libano», ti dice la moglie Fadia mentre alza un coperchio su una pentola fumante di riso pronto per la cena. I figli non vanno a scuola, meglio procu- rarsi qualcosa per strada.
Una cinquantina di chilometri più a Nord nella Bekaa, il Com- munity Center delle suore del- la fondazione internazionale Buon Pastore – socio Focsiv – di Deir al-Ahmar è un’oasi di ordine e pulizia. Una semplice
struttura che, in un contesto rurale e in villaggi a maggioranza musulmana, è di- ventato il punto di riferimento di questo tratto di valle. Ogni mattina 265, ogni po- meriggio 140 ragazzi siriani riempiono le aule della scuola materna ed elementare.
«L’anno scorso Sallum era molto arrab- biato: “Non voglio rifare ancora una volta la stessa classe”, ha esclamato. Lo abbia- mo ascoltato e adesso abbiamo aggiunto la settima» (equivalente della seconda me- dia), racconta con un sorriso di soddisfa- zione suor Amira Tabel, la direttrice. Un
“piccolo miracolo” di intraprendenza pe- dagogica con tanto di dossier psicologico per ogni ragazzo e la consulenza di un pe- dagogista e, quando occorre, del logope- dista. A frequentare, spiega la direttrice, sono i figli dei profughi che non trovano posto nelle scuole statali aperte, con i dop- pi turni, anche ai siriani.
«Ci sono molti casi di maltrattamenti in famiglia. Così la scuola diventa un luogo di pace e riconciliazione per i ragazzi», pro- segue suor Amira. Il centro sociale è aper- to a tutti nel pomeriggio e a sera: corsi di formazione professionale per i più grandi e ogni settimana un incontro di forma- zione per le madri. «In questo modo si en- tra nelle famiglie e, vivendo accanto a lo- ro, si fa del dialogo fra i libanesi e i siriani e fra i cristiani e i musulmani».
Un “piccolo miracolo”, sostenuto da do- nazioni dall’estero. Un “miracolo” che finisce sulla soglia del social center. Al posto di blocco dell’esercito, sulla stra- da che riporta a Zahle, a fine estate si cerca l’hashish nascosto nei pick-up. «La coltivano un po’ tutti qui nella valle», spiega Abdo sorseggiando un caffè tur- co davanti al benzinaio sulla strada che riporta a Zahle.
Intanto ha smesso di nevicare e dalla bal- conata della chiesa di Nostra signora di Zahle compare, nitido, un arcobaleno: un
“piccolo miracolo” di speranza libanese.
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La Bekaa «scoppia»
Ma accoglie ancora
L’ultima speranza dei rifugiati siriani
L’accoglienza: una delle tante famiglie siriane sfollate nella valle libanese della Bekaa Sopra, Nirmala Wijesinghe che opera all’Olive Shelter di Beirut (Cristian Gennari/Siciliani)
Crisi umanitaria. I profughi?
La metà degli abitanti
DALL’INVIATO ABEIRUT
l Libano, ancora senza governo e quasi senza fron- tiere, ha aperto naturalmente le porte a chi fug- ge: «L’accoglienza fa parte della nostra storia. In particolare della Chiesa maronita perché noi stessi siamo stati profughi», afferma l’arcivescovo maroni- ta Camile Zeitan. Ma adesso, aggiunge ironico, «il Li- bano è diventato un hotel gratuito».
Le cifre, fornite da Caritas Libano non hanno biso- gno di commenti: i profughi siriani registrati dal- l’Acnur sono un milione e 300mila a cui ragionevol- mente ne vanno aggiunti 300mila non registrati. I profughi palestinesi sono 500mila mentre gli altri la- voratori stranieri, in gran parte asiatici e africani, so- no 400mila. Questo significa che, con una popola- zione di 4 milioni, i profughi rappresentano il 50% del- la popolazione. «Inoltre, secondo una recente stati- stica, i libanesi al di sotto della soglia di povertà so- no un milione e 200mila» spiega padre Paul Karam, presidente di Caritas Libano. Il Libano è un Paese in affanno che spera, dopo l’insediamento del genera- le Michel Aoun alla presidenza, di avere finalmente un esecutivo forte.
Intanto, da tre anni a questa parte, la società è a ri- schio implosione, con la classe media che sembra boccheggia in attesa di una soluzione che nessuno sembra trovare. «Gli aiuti internazionali sono solo per i siriani mentre per i libanesi non c’è nulla», ri- petono tutti a Beirut. Un affitto di una sola camera in un quartiere popolare costa fino a 400 dollari al mese: così famiglie di profughi si ammassano in tu- guri di periferia alterando il mercato ed estromet- tendo gli stessi libanesi. Lo stesso avviene nel mer- cato del lavoro: «I muratori sono tutti siriani, come pure i camerieri e i cuochi», racconta Saide. Giova- ne madre libanese ha perso mesi fa il suo impiego in una agenzia di assicurazioni. Ora si arrangia co- me donna delle pulizie in una struttura sanitaria:
«Un solo stipendio non basta in famiglia per cui si lavora da mattina a sera per garantire scuola e cure mediche adeguate ai figli».
«Non c’è altro Paese al mondo che in tre anni abbia raddoppiato la sua popolazione. Molti ora in Libano si sentono profughi a casa loro», conclude padre Ka- ram. L’hotel gratuito sta presentando il conto. (L.Ger.)
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I La situazione è al limite
e gli aiuti scarseggiano:
solo i fuggiaschi dalla Siria sono un milione e 600mila
«Il Paese è ormai diventato un hotel gratuito»
Ospitate all’Olive Shelter donne di diverse nazionalità
(Cristian Gennari/Siciliani)
L’ostello. Nirmala, la mamma per 45 ragazze del mondo
DALL’INVIATO ABEIRUT
irmala Wijesinghe è tra le pri- me ad accoglierci all’Olive Shelter con il suo ampio sor- riso. Cingalese, 52 anni, è diventata la “Mamy” delle ragazze dimentica- te del rifugio di Caritas Libano.
Solo lei, tra i fornelli e le camerate con i letti a castello, può avere un vol- to e un nome. Il passo claudicante nasconde una protesi di cui non di- ce nulla. «Sono in Libano da 29 an- ni. Da 11 lavoro in Caritas», dice con un sorriso che nasconde il lungo viaggio verso la dignità ritrovata.
L’ostello per le ragazze senza volto e senza nome, è diventato la sua casa.
Nirmala si sente madre di figlie del tutto uguali a lei. In questi giorni, al riparo da sguardi indiscreti, sono 45 le ragazze ospitate: Etiopia, Bangla-
desh, Camerun, Madagascar e Gha- na le nazioni di provenienza. Amza, con lo sguardo spento e la voce bas- sa, ti racconta la sua storia di ragaz- za etiope: «Ho 16 anni, ma sul pas- saporto mi hanno scritto 26, in mo- do da risultare maggiorenne. Mia so- rella lavorava in Arabia Saudita e io sognavo di andare all’estero».
Una fuga contro la volontà della famiglia, contrattata in un ufficio di una agenzia per lavoratrici do- mestiche.
«Quando mi hanno proposto di an- dare a Beirut non sapevo nemmeno dove fosse, ma ho detto subito sì».
Quattro mesi fa l’arrivo a Beirut con la promessa di 150 dollari al mese.
Lavori domestici divenuti subito u- na prigione: «Non riuscivo a capire nulla della loro lingua. Mi trattava- no con asprezza». Asprezza, o forse
peggio. «Una sera il figlio più picco- lo della famiglia, dopo l’ennesima punizione della signora, mi ha a- perto la porta e mi ha fatto scappa- re». Da sola nella notte a Beirut.
«Qualcuno mi ha visto piangere e mi ha consigliato di andare all’amba- sciata dell’Etiopia», continua Amza.
L’Olive Shelter, come una ciambel- la di salvataggio per quello che nei
freddi rapporti umanitari si chiama
«women protection»: lavoro nero, sfruttamento, tratta e violenza ses- suale. Grazie a Celim – con il contri- buto del Ministero degli Esteri ita- liano – si offre un servizio di assi- stenza psicologica, legale e alcuni corsi di formazione professionale.
Gli avvocati di Caritas Libano dan- no assistenza a ognuna delle ra- gazze: quasi sempre si apre un pro- cesso per recuperare il lavoro non pagato e, spesso, molto altro.
«Nessuna classe sociale è esente da sfruttamento e violenza verso le ra- gazze straniere», spiegano gli ope- ratori locali. Sono finiti sotto accusa persino ministri, imprenditori. In ge- nere il processo si conclude con un visto di uscita dal Paese o con la se- gnalazione all’ufficio migranti di Ca- ritas per un nuovo lavoro. Sono le
ragazze senza nome che spesso nemmeno compaiono nelle stati- stiche che contano in Libano, oltre ai siriani e gli iracheni, altri 400mila lavoratori stranieri in gran parte a- siatici e africani.
Nirmala intanto ha finito di prepa- rare il pranzo. «Di cosa abbiamo bi- sogno? Per prima cosa di essere e- ducate: questa schiavitù non è più tollerabile nel XXI secolo», dice sem- pre sorridendo. Nata in una famiglia cristiana porta una semplice croce di legno al petto: «Quando finalmente ho avuto i documenti in regola, lo scorso settembre sono venuta in I- talia per la canonizzazione di madre Teresa di Calcutta». Un sorriso che questa volta nasconde lacrime di commozione.
Luca Geronico
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Nell’«Olive Shelter»
di Caritas le giovani di Etiopia, Bangladesh, Madagascar. Ognuna ha
una storia drammatica
Sono migliaia i profughi siriani e iracheni in fuga da violenze e macerie e accolti nei campi profughi in Kurdistan, Siria, Libano, Giordania e Turchia. I volontari di FOCSIV (Federazione Organismi Cristiani Servizio Internazionale Volontario) li accolgono con cibo, cure mediche, istruzione dando conforto a chi ha perso tutto. Con il tuo contributo possiamo continuare a sostenere quest’umanità ferita in cerca di pace, prima che possano un giorno ritornare a casa.
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