pensammo che, o era ubriaco, o pazzo. Ci guardavamo intimorite e sempre più impaurite, stringendoci di necessità l’una all’altra, soprattutto nelle curve, quando il movimento fulmineo dello sterzo ci sbatacchiava dall’una all’altra parte del sedile ed in cuor nostro pregavamo Dio e tutti i santi del cielo che ci venissero in aiuto e che quella folla corsa avesse termine. Ricordo anche di aver visualizzato la prima pagina di un quotidiano del luogo che riportava a lettere cubitali:” Due giovani ragazze rinvenute sfracellate…” ma allontanai subito l’immagine. Ad un certo punto il tizio, con una gran sgommata, si fermò. Senza proferire una parola, senza dir nulla. D’altra parte non ricordavamo che lui avesse mai aperto bocca. Sbigottite, incredule, tremanti, scendemmo. Ci spostammo in un prato dove ci sedemmo e rimanemmo mute per un bel po’. Ci sentivamo a pezzi psicologicamente e fisicamente. Le varie parti del nostro corpo, come se d’acchito avessero contratto il morbo di Alzheimer, non ricordavano la loro reale ubicazione fisica, in particolare lo stomaco e la testa, che non sapevano neanche più riconoscersi. Passò del tempo. Ci riprendemmo. Poi arrivò la forza di commentare che quello era un pazzo e che comunque ci era andata bene! Fu una lezione dura e parecchio chiarificatrice per chi avesse avuto orecchie per intendere, ma l’incoscienza della nostra giovane età non volle prenderne atto e continuammo a fare l’autostop con la scusante che, alla fin fine, non era successo niente di grave, e lo catalogammo come “un caso”: un avvenimento raro insomma, qualcosa di completamente fuori del comune che non si sarebbe mai più ripetuto. In effetti il succedersi degli avvenimenti ci diede ragione, anzi ci dimostrò che poteva capitare pure il contrario, cioè qualcosa di eccezionalmente piacevole. Ci eravamo spinte abbastanza a nord e si avvicinava l’ora del rientro. Al nostro consueto segnale vedemmo avvicinarsi e poi fermarsi, una lunga lussuosissima automobile con a bordo due incredibili tipologie di giovani bellezze maschili! Parlavano tedesco ma pure francese e siccome noi due masticavamo un po’ quest’ultima lingua, riuscimmo ad intenderci. Spiegammo loro chi eravamo e cosa facevamo, ridemmo e scherzammo.
Comodamente sedute sui sedili posteriori, dove c’era posto per almeno altre due persone, ci godemmo il tragitto verso la colonia in modo molto appagante (ci accontentavamo proprio di poco!), che non consistette come usualmente avveniva, del bearci di stupende vedute paesaggistiche, ma finalmente, una volta tanto, ci deliziammo della vista di due belle teste d’uomo, incorniciate da biondi capelli, e profili di maschio dal naso dritto, che tanto ci ricordavano le antiche statue romane.
O, così ci pareva…!
7
All’arrivo del nuovo anno scolastico non fiutavo alcun profumo d’incarico annuale.
Giravano voci che non ce ne sarebbero stati quell’anno. In effetti fu così. Il parroco del paese mi diede una mano; tanto fece e tanto lavorò che costituì un doposcuola.
Tutti i pomeriggi, per sei mesi, i bambini sarebbero tornati a scuola nel pomeriggio ed io li avrei aiutati a fare i compiti. Tale attività esigeva un’indiscutibile collaborazione con le due insegnanti titolari. Per la mia poco esperienza e le conseguenti insicurezze, provavo timore riguardo al rapporto che si sarebbe stabilito fra di noi, ma decisamente a torto, perché non solo le due docenti si dimostrarono ben disposte, ma pure generose e prodighe di aiuti e consigli. Imparai molto da loro sia da un punto di vista didattico, avendo esse una notevole esperienza alle spalle, sia da quello umano, essendo persone dotate di un innato buon senso ed abbondante saggezza. Fu un’esperienza vantaggiosa e gratificante, anche per il fatto che non solo venivo pagata, ma accumulai un punteggio pari a quello di un intero anno scolastico, cosa che mi tornò assai utile al momento del pensionamento. Intanto mi ero fatta una bella ragazza. Un tipo, insomma. Il mio lungo corpo si era ammorbidito, ero ben fatta, a parte le spalle che tendevano ad incurvarsi un po’. Portavo i capelli lunghi e lisci, avevo un vitino da vespa ed il mio pezzo forte erano le gambe: lunghe, diritte, ben tornite. Grazie ad un’amica sarta, Mariangela, la cui abitazione poco distava dalla mia lungo la strada che s’inerpicava sulla collina, imparai a vestirmi, valorizzandomi.
Questa ragazza, dotata di puro talento, sapeva confezionare abiti paragonabili a vestiti d’alta sartoria. Ne ricordo uno particolarmente estroso ed aggraziato: estivo, senza maniche, con cintura rigida intorno alla vita e la gonna ampia raccolta a mo’ di corolla che si chiudeva in fondo formando un palloncino. Altri vestiti mi confezionò di tal fatta: originali, inusuali e perfetti per me, che in definitiva, pur non essendone consapevole, avevo il fisico di un’indossatrice. Ricordo dei tailleur invernali con gonne strette e giacche che segnavano la vita. Uno era il mio prediletto: confezionato con pannetto verde militare, era stato abbellito al collo e ai polsi con morbide e spumeggianti balze di pelliccia di volpe color marrone scuro. Quando lo indossavo, unitamente a scarpe con tacco, mi sentivo bella! Ma ero volubile ed incostante. Così, come curavo a volte il mio aspetto in modo ineccepibile, altrettanto, se la luna mi andava storta, indossavo la prima cosa che mi capitava sottomano. Parimenti, nei periodi in cui ero ben disposta verso di me, mi giudicavo carina; di rimando, nei momenti neri, mi maceravo sui miei difetti: il sedere troppo pronunciato, il seno piccolo, il collo troppo lungo, il naso che non mi piaceva. Ce l’avevo pure con i miei capelli diritti, sottili e morbidi come seta, ai quali avrei preferito di gran lunga una vistosa capigliatura riccioluta. Ad uno ad uno i giovanotti del paese mi fecero la corte, ma io non me ne accorsi. Percepii l’accadimento molto tempo dopo. Accadeva che alla domenica, al termine della messa, uno di loro mi si affiancasse in modo spontaneo e naturale e chiacchierando come vecchi amici come di fatto eravamo, attraversavamo tutto il paese e giunti alla strada in salita che deviava verso la mia abitazione, lentamente mi seguivano percorrendola tutta. Si parlava del tempo, del raccolto, della gente del paese, delle prospettive di lavoro. A volte ci si sedeva ai
bordi della strada su qualche grosso sasso o sull’erba di un prato in pendenza.
Arrivati all’ultima curva, da dove potevi vedere la mia casa alla distanza di cento metri, se ne tornavano indietro. Il fatto è che questi ragazzi che io consideravo solo amici, mi erano così totalmente indifferenti dal punto di vista sentimentale, che devo essere apparsa loro come una frigida o una extraterrestre. Mi accompagnavano per due o tre volte e non tentavano oltre. Ricordo che quando azzardavano ad impadronirsi della mia mano o ad avviare un differente approccio, semplicemente col mettermi un braccio intorno alle spalle, mi ritraevo d’istinto come fa la lumaca quando le sfiori i tentacoli, o peggio ancora, mi arrotolavo a palla, a guisa di un riccio in stato di difesa, mostrando solo gli aculei e diventando inespugnabile. Insomma loro ci provavano, ma a me, assolutamente, non interessavano. Agognavo al principe azzurro che non poteva - in nessun modo - essere il vicino di casa !! Doveva giungere da lontano, molto lontano ed il suo bacio avrebbe dovuto risvegliarmi come nella fiaba di Perrault: “La bella addormentata nel bosco”, ed avrebbe dovuto portarmi via su un cavallo bianco verso un regno incantato. “Nell’attesa”, mi recavo di tanto in tanto in città e partecipavo a qualche “festina privata” - allora si chiamavano così - nell’appartamento momentaneamente libero da genitori, di qualche amica. Fu lì che incontrai una persona abbastanza adulta, sui trent’anni, che mi fece ballare e mi corteggiò con molto tatto e delicatezza. Un uomo così grande non poteva avere alcun ascendente su di me, né tantomeno attirare il mio interesse; fui gentile, ma non lo presi nemmeno in considerazione. Un pomeriggio uscendo dal doposcuola lo trovai, fermo a lato della strada, ad aspettarmi a bordo di una bella auto. Mi chiese se volevo trascorrere un po’ di tempo con lui, desiderava conoscermi. Mi fidai. Salii in auto e percorremmo una stradina solitaria che si arrampicava su una collina non lontano dal paese. Mentre guidava si presentò: aveva trentadue anni, era medico, con un lavoro già avviato, abitava in una città vicina, non fidanzato, non sposato. Lo ascoltavo e di tanto in tanto lo guardavo: non era bello, ma piacevole. Parlava in modo pacato, sembrava sicuro di sé. Ad un certo punto fermò l’auto. Si era in primavera e le colline si estendevano intorno a noi al massimo del loro splendore. Mi chiese di raccontargli di me. Gli dissi ch’ero figlia di contadini, con un fratello ed una sorella da lungo tempo già sposati perché molto più grandi di me, avevo il diploma d’insegnante elementare ed ero in attesa di un bando di concorso per potervi partecipare. Gli spiegai pure dove abitavo: in una casa solitaria, proprio dalla parte opposta della vallata. Passò un po’ di tempo, osservavamo la natura in esplosione, ci furono momenti di silenzio. Mi piaceva stare seduta su quell’auto, mi sentivo lusingata, mi faceva star bene. Mi suonava come un qualcosa d’insolito, un diversivo piacevolissimo. Ad un certo punto se ne uscì pacato con una dichiarazione, - d’amore?! - che non ricevetti mai più così limpida e chiara. “Senti - mi disse - sono più grande di te, ho un buon lavoro. Ci sono state naturalmente alcune esperienze amorose nel mio passato. Tu mi piaci moltissimo, non ho più voglia di perdere tempo. Se vuoi vengo oggi dai tuoi: ci fidanziamo e ci sposiamo presto”. Ed avanzando con la testa leggermente verso di me, sussurrò con tono dolce e molto preso: mi piaci tantissimo!! Rimasi di stucco: lusingata, sorpresa, sospesa. E muta.
Così stupefatta che pure la testa ebbe un blackout. Trascorso un po’ di tempo che parve un’eternità, mi prese una mano e tentò di baciarmi delicatamente sul collo.
Dopo parecchio tempo lessi che l’attrazione fisica fra due persone è un fatto chimico, legato cioè alla capacità positiva o negativa di reazione delle nostre sostanze organiche e quel giorno lo sperimentai direttamente, perché la sua vicinanza mi creava una sensazione di rigetto, un qualcosa che faceva a pugni con i miei sensi, soprattutto con l’odorato. E sempre, molti anni dopo, un’astrologa da cui mi recai, una squisita signora, considerata nel suo ambito un’esimia professionista mi disse:
“Lei è il tipo di donna che se non è innamorata non si sgancia nemmeno il primo bottone della camicetta”. Per quanto mi riguarda, tutte e due le ipotesi sono perfette per me. Lui si rifece vivo dopo una settimana. Fui gentile, ma risoluta: non potevo; e glielo dissi chiaramente: lo stimavo, ma non ero innamorata, non provavo niente per lui.
8
Non ebbi intense avventure sentimentali, non mi lasciai mai andare, perché mi serbavo per il principe azzurro del mio destino. Ma, come tutte le ragazze della mia età, ebbi dei corteggiatori: tanto amabili e garbati alcuni, quanto sgradevoli e rozzi altri. Ricordo con tanta simpatia un giovane poliziotto che prestava servizio in un comune vicino al mio. Era bellissimo, con lineamenti perfetti e profondi occhi scuri, tenero e dolce come la panna montata. Quando mi vedeva, gli occhi gli si illuminavano. Nonostante fosse timido, e lo si capiva, non mancava mai di avvicinarmi e farmi proposte più che lecite: “Vieni a prendere un caffè? Andiamo al cinema domenica? Posso accompagnarti a casa? Lunedì non sono di servizio:
andiamo a fare un giro al mare? Lo guardavo sorridendo. Mi faceva una grande tenerezza, ma non potevo, non potevo dirgli di sì. Sono sempre stata molto sensibile alla bellezza. Ma che dire? Che fare? Non ero innamorata di lui. Non mi andava d’
illuderlo. Il mio destino era già segnato. Il karma che dovevo scontare era a pochi passi da me, dietro l’angolo. E non mi avrebbe riservato tenerezze.
9
In quel periodo ospitavamo il più piccolo dei tre figli di mia sorella. Mentre i due più grandi erano nati alla distanza di un anno l’uno dall’altro, l’arrivo di quest’ultimo si collocò a circa una decina d’anni più tardi. Era un bambino bellissimo, perfettamente proporzionato nella sua fisicità, morbido e rotondo come un bambolotto. Inoltre era dotato di grande sensibilità e come tutti i piccoli, non ancora contaminati dai diktat di un’educazione livellatrice, unico nella sua essenza. Era proprio piccino i primi tempi:
camminava appena e non aveva acquisito ancora l’uso del linguaggio. Il visetto era sempre imbronciato e quando divenne più grandicello capimmo il suo vero cruccio:
sentiva fortemente la mancanza della mamma, del papà, dei fratelli, della sua famiglia insomma. Quando mia sorella se lo teneva a casa per un breve lasso di tempo e poi lo
riportava da noi, erano pianti ininterrotti e urla di disperazione da strappare il cuore.
Non voleva lasciare la mamma. Non che da noi non si sentisse amato o che non vi stesse bene, è che reclamava quello che di diritto gli apparteneva: la sua famiglia!
Mia sorella e mio cognato che avevano avviato un’attività commerciale, che li teneva costantemente impegnati, avrebbero avuto grosse difficoltà a gestire il piccolo, ma fortunatamente c’era mia madre, generosissima, su cui contare. Tutti in famiglia eravamo affezionati al piccolo ed io lo immortalai in diverse foto, le cui immagini, quando abbiamo occasione di rivedere, ci riportano a quella fase della sua e nostra esistenza suscitando innumerevoli ricordi. Conservo memorie indelebili di quel periodo, come ad esempio le prime parole che pronunciò. Avevamo una gatta;
sempre avemmo una gatta: per via dei topi. Era solita fare scappatelle in cucina a rubacchiare. Si sa che il gatto è un ladro per eccellenza e pure molto fino e scaltro.
Mia madre non la voleva assolutamente fra i piedi, anche perché se si fosse sfamata con avanzi od altro cibo, non si sarebbe data da fare al fine di scovare e catturare topi:
unico scopo per cui aveva diritto di soggiorno alla fattoria. Ora una frase tipica dialettale, che la mia genitrice urlava appena la vedeva era: “Gata fora!”, che tradotta in italiano significa:” Gatta, esci immediatamente!” In contemporanea, afferrava velocemente la scopa e la usava per appioppare una randellata sulla schiena della gatta, se ci riusciva: cosa che accadeva assai di rado, in quanto l’animale prevedendo il fattaccio, imboccava la porta aperta alla velocità del fulmine, al punto che si sentiva lo stridere delle unghie che facevano presa sul pavimento al pari di un’auto che partendo a gran velocità fa stridere le ruote. Bene, un bel giorno, mentre la gatta - animale fra i più testardi sulla crosta terrestre - stazionava sotto il tavolo, udimmo il piccolo urlarle: “Gata fora!” Erano le prime parole che gli sentivamo pronunciare! Io e mia madre ci guardammo: sorprese e divertite incominciammo a ridere, ce lo prendemmo in braccio ed incominciammo a sbaciucchiarlo ed a coccolarcelo, ma lui non ne voleva sapere e si dimenava come un serpentello intrappolato tra i rami spinosi di un rovo. Un giorno, già più grandicello, forse intorno ai tre anni, combinò qualcosa per cui mia madre fu costretta a riprenderlo. Lei lo fece in modo brusco, lui si risentì, piagnucolò, fu ripreso di nuovo. Se ne stette zitto per un po’, poi la guardò e disse: “Quando muori non ti vengo a portare neanche un fiore sulla tomba!” Eravamo tutti in silenzio dinnanzi ad una così solenne affermazione, anche se di dentro, io scoppiavo dal ridere. Riflettè alcuni secondi e con la stessa gravità aggiunse: “E se te lo porto, te lo porto secco!” Un giorno si ammalò. Credo che avessimo mangiato della torta fritta. Improvvisamente, dopo il pasto, incominciò a ricoprirsi di grosse escrescenze che s’ingrandivano ed aumentavano a vista d’occhio ricoprendogli il corpo da capo a piedi. Il volto ne fu talmente colpito che non gli si vedevano gli occhi e lui pure non riusciva a vedere. La disperazione di mia madre raggiunse le vette più alte: con le mani nei capelli, agitata e piangente, implorava Iddio di aiutarci. Lo ricoverammo in ospedale, dove la nonna non si mosse dal capezzale finché non fu stabilito ch’era fuori pericolo. Guarì completamente, non rimasero postumi di alcun genere, nemmeno sulla pelle ch’era stata così martoriata e che tornò ad essere liscia e compatta come prima, anche se i medici ammisero onestamente di non essere in grado di fare alcuna diagnosi precisa. Lasciò quasi del tutto la nostra casa all’inizio della scuola elementare e mentre noi eravamo tristi per la sua partenza, a lui, di