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Il contratto di lavoro a tutele crescenti

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Il contratto di lavoro a tutele crescenti

di Patrizia Macrì

Pubblicato il 30 novembre 2015

il Jobs act ha profondamente modificato la struttura del contratto di lavoro e il relativo regime di tutele: in questo articolo puntiamo il mouse su una delle maggiori novità: il contratto di lavoro dipendente a tempo indeterminato a ‘tutele crescenti’

PREMESSA

La riforma del Mercato del lavoro, c.d. jobs act, ha profondamente modificato la struttura del contratto di lavoro e il relativo regime di tutele. Prima della riforma il focus della tutela del lavoratore era dettato dall’art. 18 che viene ora superato trasformando il contratto di lavoro in un contratto a tutele crescenti. Secondo le intenzioni del Legislatore il nuovo contratto da un lato pone fine, con non poche polemiche, alle tutele sancite dall’art. 18 considerato da sempre

“una zavorra” dagli imprenditori, dall’altro introduce la garanzia rivolta a tutti i lavoratori del diritto alle ferie, alla malattia e all’accesso all’indennità di disoccupazione. Con l’art. 1 del D.lgs.

4 marzo 2015 n. 23 si dà attuazione a quanto stabilito dalla Legge 183/2014 delineando il campo di applicazione del nuovo contratto di lavoro a tutele crescenti. E’ bene poi considerare che il dibattito intorno a questo nuovo contratto risulta ancora piuttosto acceso, in considerazione anche del fatto che da più parti viene tacciato di illegittimità costituzionale.

CAMPO DI APPLICAZIONE

L’art. 1 del D.lgs. n. 23 del 4.3.2015 trova applicazione nei confronti di tutti i lavoratori che rivestono la qualifica di:

operai;

impiegati;

quadri

assunti con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato a decorrere dalla data di entrata in vigore del decreto. Dette disposizioni si applicano anche nei casi di conversioni di contratti a tempo determinato o di apprendistato, in contratti a tempo indeterminato avvenute successivamente all’entrata in vigore del decreto in commento. Nel caso in cui il datore di lavoro, conseguentemente ad assunzioni a tempo indeterminato avvenute successivamente

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all’entrata in vigore del decreto, integri il requisito occupazionale di cui all’articolo 18, ottavo e nono comma, della Legge 20 maggio 1970, n. 300, e successive modificazioni, il licenziamento dei lavoratori, anche se assunti prima dell’entrata in vigore del d.lgs. 23 del 04.03.2015 deve sottostare alle disposizioni del decreto stesso. Per espressa previsione legislativa restano, invece, esclusi dal campo di applicazione del decreto in commento solamente i dirigenti, pur essendo annoverati tra i prestatori di lavoro subordinato dall’art. 2095 del codice civile. Non risulta invece chiaro se siano esclusi dal campo di applicazione del decreto legislativo in parola gli apprendisti: stando all’interpretazione letterale dovrebbero risultarne esclusi, ma ciò non è stato esplicitato nel testo normativo. Tutto ciò ha dato vita ad accesi dibattiti lasciando aperti possibili dubbi interpretativi, in riferimento anche e soprattutto a tutti quei contratti di lavoro c.d. speciali quali ad esempio i lavoratori domestici, sportivi professionisti o ancora personale navigante. Dubbi che potranno essere chiariti solamente con un prossimo intervento legislativo.

IL SETTORE PUBBLICO

Continuando l’esame del decreto attuativo in commento, un ulteriore punto che ha suscitato, e continua a suscitare, numerosi dibattiti tra gli esperti del settore è l’applicabilità o meno delle nuove norme al settore pubblico. In realtà il decreto non cita espressamente il pubblico impiego, né per escluderlo, né per includerlo nelle norme in commento e non circoscrive nemmeno il campo di applicazione delle disposizioni di cui al decreto in commento al settore privato.

Tuttavia il dibattito sull’equiparazione del settore pubblico a quello privato per l’applicazione di diverse norme trova le sue radici molto lontano, in particolare a partire dalla privatizzazione del pubblico impiego ad opera del decreto legislativo n. 291/1993 con il quale risultano comunque permanere profonde differenze strutturali tra il lavoro pubblico e quello privato. A supporto di tale teoria possiamo anche citare la sentenza n. 14193/2005 della Corte di Cassazione che ha ribadito che al rapporto di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni dopo la cosiddetta privatizzazione non è applicabile la disciplina prevista in materia di categorie e qualifiche per il settore privato, con la relativa individuazione dei quadri (art. 2095 codice civile e legge n. 190 del 1985) stante la specialità del regime giuridico previsto per il primo, soprattutto con riferimento al sistema delle fonti, cosicché la contrattazione collettiva può intervenire senza incontrare il limite dell’inderogabilità delle norme concernenti il lavoro subordinato privato, quale emerge dal complesso normativo del D.lgs. n. 165 del 2001, testo che ora costituisce lo “statuto” di tale rapporto di lavoro. Pertanto in estrema sintesi si può osservare che una parte degli interpreti punta all’esclusione del settore pubblico dal campo di applicazione del d.lgs. 23/2015 proprio in considerazione del fatto che per i pubblici dipendenti non trova applicazione l’art. 2095 del codice civile e, conseguentemente, neanche la classificazione del personale dipendente in operai, impiegati, quadri e dirigenti in esso contenuta.

I LICENZIAMENTI CON IL CONTRATTO A TUTELE CRESCENTI

La nuova normativa investe anche il regime dei licenziamenti trovando applicazione per tutte le aziende indipendentemente dall’attività esercitata e dal numero dei dipendenti occupati.

Pertanto con l’entrata in vigore del jobs act viene a decadere la distinzione e la conseguente differenziazione tra piccole-medie aziende e grandi aziende, rendendo di fatto uguali le uni alle altre e soprattutto, prevedendo le medesime tutele nei confronti dei dipendenti delle une o delle

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altre. Prima della legge di riforma esisteva, infatti, una profonda differenziazione tra lavoratori dipendenti delle piccole e medie imprese e lavoratori dipendenti delle grandi imprese.

Differenze che si esplicitavano soprattutto sui principi della tutela reale e di quella obbligatoria.

Ricordiamo, ora, nel dettaglio cosa prevedeva la tutela reale e cosa quella obbligatoria.

La tutela reale trovava la sua fonte nell’art. 18 della legge 300/1970 (Statuto dei lavoratori).

L’art. 18 Legge 300/1970 si applica alle aziende con più di 15 dipendenti in ciascuna unità produttiva; oppure con più di 15 dipendenti nello stesso Comune anche in unità produttive più piccole; più di 60 dipendenti ovunque siano ubicate le singole unità produttive; datori di lavoro agricolo con più di 5 dipendenti in ciascuna unità produttiva. Per i datori di lavoro che hanno effettuato un licenziamento discriminatorio si applica qualunque sia il numero dei lavoratori. La tutela reale prevede a differenza della tutela obbligatoria la reintegrazione nel posto di lavoro qualora il giudice accerti l’illegittimità del licenziamento. Quindi in questo caso non vi è l’alternativa per il datore di lavoro della riassunzione o del pagamento. Di conseguenza il Giudice ordina la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro e di risarcirgli il danno, con la corresponsione di un’indennità commisurata alla retribuzione globale di fatto, dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione e al versamento dei contributi assistenziali e previdenziali relativi al periodo; in ogni caso la misura al risarcimento non può essere inferiore alle 5 mensilità.

La tutela obbligatoria si applica per il datore di lavoro pubblico o privato, imprenditore non agricolo e non imprenditore che ha un numero di dipendenti non superiore a 15; oppure l’imprenditore agricolo che non supera i 5 dipendenti per ogni unità produttiva. La tutela obbligatoria impone al datore di lavoro che intenda effettuare il licenziamento di motivarlo con la giusta causa o con il giustificato motivo e di notificare il provvedimento al lavoratore interessato nei termini stabiliti, ma non comporta necessariamente l’obbligo di reintegrazione qualora il Giudice accerti l’illegittimità del licenziamento. Quindi il datore di lavoro si trova nell’alternativa, qualora venga accertato l’illegittimità del licenziamento di scegliere tra un obbligo primario e cioè la riassunzione, e un obbligo secondario di natura prettamente economica, consistente nel pagamento di una determinata indennità. Se il datore di lavoro decide di pagare dovrà versare al lavoratore tra un minimo di 2,5 e un massimo di 6 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto. Qualora il lavoratore ha prestato servizio per oltre 10 anni quest’ultimo ha diritto a 10 mensilità. Inoltre, si dovrà tenere conto del numero dei dipendenti occupati, delle dimensioni dell’impresa, dell’anzianità di servizio del lavoratore, nonché del comportamento e della condizioni delle parti. In ogni caso, prima di ricorrere al Giudice, è necessario promuovere il tentativo di conciliazione e arbitrato. Si tratta di una procedura, di regola attivata da una organizzazione sindacale, che si svolge presso l’Ufficio Provinciale del Lavoro e della Massima Occupazione, che ha il compito di cercare una soluzione bonaria della controversia.

Con l’entrata in vigore della nuova normativa non viene più presa in considerazione la

“dimensione” aziendale ma la tipologia di licenziamento.

IL LICENZIAMENTO DISCRIMINATORIO

Il licenziamento discriminatorio, anche alla luce delle nuove norme, resta sempre quello

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identificato dall’art. 15 della Legge 300 del 1970. La precisazione legislativa è avvenuta in fase di definizione della legge: in una prima stesura, infatti, il testo prevedeva solamente il termine generico “discriminatorio” senza fare alcun riferimento ai casi in cui il licenziamento poteva venir considerato discriminatorio. Questo avrebbe comportato grande confusione in quanto il termine avrebbe potuto includere in questa tipologia di licenziamento anche quelli individuati come discriminatori dal D.Lgs. n. 198/2006 nel quale vengono, appunto, considerati discriminatori tutti quei trattamenti sfavorevoli da parte del datore di lavoro che costituiscono una reazione ad un reclamo, o ad un’azione volta ad ottenere il rispetto del principio di parità di trattamento tra uomo e donna. Il richiamo, invece, all’art. 15 della Legge 300 del 1970 permette di circoscrivere il licenziamento discriminatorio ad una serie di comportamenti specifici, tipicizzando di conseguenza la casistica e limitando così l’ambito di intervento del giudice.

N.B. Alla luce di quanto affermato, pertanto, continuano ad essere considerati licenziamenti discriminatori quelli legati a ragioni di ordine sindacale, politico, religioso, razziale, di lingua, di sesso, di handicap, di età, basate sull’orientamento sessuale o sulle convinzioni personali.

Nel caso in cui un licenziamento venga considerato discriminatorio il giudice ordina al datore di lavoro, imprenditore o anche non imprenditore, la reintegrazione del lavoratore dipendente nel posto di lavoro.

N.B. A seguito dell’ordine di reintegrazione impartito dal giudice, il rapporto di lavoro si intende comunque risolto nel caso in cui il lavoratore non abbia ripreso servizio entro 30 giorni dall’invito del datore di datore. Tale norma non trova applicazione nel caso in cui il lavoratore abbia richiesto l’indennità prevista dal comma 3, art. 2, d.lgs.

23/2015.

Secondo quanto stabilito dal comma 3, art. 2 del D.lgs. 23/2015, fermo restando il diritto al risarcimento del danno come previsto al comma 2, al lavoratore è data la facoltà di chiedere al datore di lavoro, in sostituzione della reintegrazione nel posto di lavoro, un’indennità pari a quindici mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto, la cui richiesta determina la risoluzione del rapporto di lavoro, e che non è assoggettata a contribuzione previdenziale. La richiesta dell’indennità deve essere effettuata entro trenta giorni dalla comunicazione del deposito della pronuncia o dall’invito del datore di lavoro a riprendere servizio, se anteriore alla predetta comunicazione. Inoltre, qualificando il licenziamento come discriminatorio il giudice, oltre ad impartire l’ordine di reintegrazione o del pagamento dell’eventuale indennità sostitutiva, condanna il datore di lavoro anche al risarcimento del danno subito dal lavoratore stabilendo a tal fine un’indennità commisurata all’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto, corrispondente al periodo dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione, dedotto quanto percepito, durante il periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attività lavorative. Riguardo questo punto, il decreto in commento contiene significative modifiche rispetto alla previgente normativa in cui veniva, invece, fatto riferimento alla nozione di “ultima retribuzione globale di fatto”. Tale definizione era stata introdotta nell’art. 18 della legge n.

300/1970 dalla legge n. 92/2012 la quale a sua volta aveva recepito precedenti orientamenti giurisprudenziali. Il concetto di retribuzione globale di fatto, in passato, è sempre stato interpretato dalla giurisprudenza affermando, ad esempio, che:

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“La nozione di retribuzione globale di fatto, alla quale è da commisurare il risarcimento del danno spettante al lavoratore illegittimamente licenziato, deve essere intesa come coacervo delle somme che risultino dovute, anche in via non continuativa, purché non occasionale, in dipendenza del rapporto di lavoro e in correlazione ai contenuti e alle modalità di esecuzione della prestazione lavorativa, così da costituire il trattamento economico normale, che sarebbe stato effettivamente goduto, se non vi fosse stata l’estromissione dall’azienda.” (Cass. sent, n. 18441 del 24.08.2006).

“La nozione di retribuzione globale di fatto prevista dall’art. 18 legge n. 300/1970 come base di calcolo per il licenziamento illegittimo non può ricomprendere i ratei e/o l’indennità di ferie non godute, attesa la natura risarcitoria di quest’ultima voce ed in considerazione della funzione squisitamente compensativa di questo istituto, che presuppone infatti l’avvenuto ed effettivo espletamento della prestazione lavorativa.”(cfr.

Tribunale Forlì, civile Sentenza 1 giugno 2011).

“Le maggiorazioni retributive e le indennità erogate in corrispettivo di prestazioni di lavoro notturno, non occasionali, ma continuative ed organizzate secondo regolari turni periodici, costituiscono parte integrante della ordinaria retribuzione globale di fatto giornaliera e, come tali, concorrono alla composizione della base di computo dei compensi per ferie e festività, dell’indennità di anzianità, del trattamento di fine rapporto ed in genere di quegli istituti retributivi per la cui liquidazione la legge o la contrattazione collettiva facciano riferimento a siffatta nozione di retribuzione globale di fatto. (Nella specie, la S.C. ha confermato sul punto la sentenza impugnata che, interpretando l’art. 18 del c.c.n.l. 31 maggio 1987 per i lavoratori delle autostrade secondo cui il compenso per “l’eventuale”

lavoro notturno è elemento solo “aggiuntivo” della retribuzione, ha ritenuto che la disposizione si riferisse al solo lavoro notturno non sistematico).”(Cass. sent. n. 2872 del 07.02.2008, in senso conforme Cass. sent. n. 12760 del 01.09.2003).

Stante il tenore delle su menzionate sentenze, prima dell’entrata in vigore del d.lgs. 23/2015 si è comunemente inteso che in tema di risarcimento dei danni da licenziamento illegittimo, l’indennità risarcitoria di cui all’art. 18 della legge 20 maggio 1970, n.300 dovesse essere liquidata in riferimento alla retribuzione globale di fatto spettante al lavoratore al tempo del licenziamento, comprendendo nel relativo parametro di computo non soltanto la retribuzione base, ma anche ogni compenso di carattere continuativo che si ricolleghi alle particolari modalità della prestazione in atto al momento del licenziamento (con esclusione, quindi, dei soli emolumenti eventuali, occasionali od eccezionali), in quanto altrimenti verrebbero ad essere addossate al lavoratore le conseguenze negative di un illecito altrui.

Avendo chiarito come ci si è comportati in passato, occorre ore analizzare come le modifiche alla previgente normativa apportate dal nuovo D.lgs. possano influire sul calcolo dell’indennità spettante al lavoratore il cui licenziamento venga considerato discriminatorio dal giudice.

Innanzitutto la questione può essere analizzata partendo da due differenti punti di vista ossia:

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l’individuazione degli elementi retributivi utili;

l’ambito temporale al quale fare riferimento al fine di individuare tale retribuzione.

In riferimento all’individuazione degli elementi retributivi utili possiamo affermare che il legislatore effettua un sostanziale rinvio, pur non in maniera esplicita, all’art. 2120 comma 4 del codice civile, nel quale si stabilisce che “Salvo diversa previsione dei contratti collettivi la retribuzione annua, comprende tutte le somme, compreso l’equivalente delle prestazioni in natura, corrisposte in dipendenza del rapporto di lavoro, a titolo non occasionale e con esclusione di quanto è corrisposto a titolo di rimborso spese”, che poi risulta essere “la linea guida” seguita in campo giurisprudenziale fino ad oggi.

Per quanto riguarda, invece, il secondo punto, ossia l’ambito temporale cui fare riferimento per individuare le mensilità dell’indennità risarcitoria la questione risulta essere ben più problematica. Partendo dal tenore letterale della norma dobbiamo prendere in considerazione l’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR. Le disposizioni per il calcolo del trattamento di fine rapporto sono contenute nell’art. 2120 del codice civile, che a sua volta, individua quale periodo di riferimento per il calcolo del TFR un periodo annuale. Pertanto, secondo il combinato disposto dalle due norme appena citate, sembrerebbe fattibile ritenere che la retribuzione a cui far riferimento sia quella dell’ultimo anno, o frazione di anno, dovuta al lavoratore, anche se non corrisposta, rapportata a mese. Quindi, facendo un esempio, se un dipendente viene licenziato illegittimamente il 31 dicembre 2015, la retribuzione utile ai fini del TFR è quella percepita dal 01 gennaio al 31 dicembre dello stesso anno rapportata a mese. Tale interpretazione parrebbe risultare la più equa in quanto garantirebbe l’individuazione della giusta retribuzione utile a determinare l’indennità risarcitoria. Un’altra interpretazione, invece, tende a considerare quale retribuzione utile quella corrisposta nell’ultimo mese del rapporto di lavoro. In realtà l’ultima retribuzione corrisposta non può essere considerata quale giusto parametro in quanto, come ben sappiamo, con l’ultima retribuzione vengono corrisposti diversi emolumenti che nulla hanno a che fare con la retribuzione effettiva, trattandosi di “ratei”

maturati dal dipendente e che, generalmente, vengono corrisposti al lavoratore proprio in occasione dell’ultima retribuzione. Prendendo in considerazione questa retribuzione, la stessa risulterebbe “alterata” da elementi estranei alla retribuzione stessa, ecco perché tale interpretazione non riscuote molto seguito. Infine, una volta individuata la c.d. base di calcolo la normativa stessa stabilisce che, in ogni caso, la misura del risarcimento non potrà essere inferiore a cinque mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto. Il datore di lavoro e’ condannato, altresì, per il medesimo periodo, al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali.

IL LICENZIAMENTO PER GIUSTIFICATO MOTIVO E GIUSTA CAUSA

Nel caso in cui il giudice, al termine di un giudizio, accerti che non ricorrono gli estremi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo o per giustificato motivo soggettivo o giusta causa, salvi i casi di licenziamento discriminatorio di cui sopra, lo stesso dichiara estinto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un’indennità non assoggettata a contribuzione previdenziale di importo pari a due mensilità

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dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a quattro e non superiore a ventiquattro mensilità.

N.B. Solamente nei casi di licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa in cui venga dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, il giudice annulla il licenziamento e condanna il datore di lavoro alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro e al pagamento di un’indennità risarcitoria.

L’indennità risarcitoria è commisurata all’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto, corrispondente al periodo dal giorno del licenziamento fino a quello dell’effettiva reintegrazione, dedotto quanto il lavoratore abbia percepito per lo svolgimento di altre attività lavorative, nonché quanto avrebbe potuto percepire accettando una congrua offerta di lavoro. In ogni caso la misura dell’indennità risarcitoria relativa al periodo antecedente alla pronuncia di reintegrazione non può essere superiore a dodici mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto. Il datore di lavoro è condannato, inoltre, al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali dal giorno del licenziamento fino a quello dell’effettiva reintegrazione, senza applicazione di sanzioni per omissione contributiva.

SANZIONI PER OMISSIONE CONTRIBUTIVA

L’articolo 3, comma 2 del decreto prevede che, in caso di insussistenza del fatto materiale, il datore di lavoro è condannato, al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali dal giorno del licenziamento fino a quello dell’effettiva reintegrazione, senza applicazione di sanzioni per omissione contributiva. Conseguentemente, in caso di reintegra, per il lavoratore è prevista la copertura contributiva, ma viene altresì stabilito che il datore di lavoro è esonerato dall’applicazione delle sanzioni per omissione contributiva. Tale esplicitazione è stata senz’altro ritenuta necessaria dal Legislatore al fine di allinearsi a quanto disposto dal comma 4 dell’art.

18 legge 300/70 così come modificato dalla Legge n. 92/2012. Nel modificare l’art. 18, la legge 92/2012 aveva distinto due casi:

1. il primo caso che si verifica a seguito di vizio di nullità, in cui la sentenza che contiene l’ordine di reintegrazione è considerata dichiarativa e pertanto l’obbligo contributivo è riconosciuto ora per allora risultandone conseguentemente una vera e propria omissione contributiva;

2. il secondo caso che si verifica a seguito del vizio di annullabilità, in cui la sentenza che contiene l’ordine di reintegrazione è considerata costitutiva e pertanto l’obbligo contributivo è ripristinato ex tunc senza pertanto che ci possa concretizzare omissione contributiva.

N.B. L’esplicitazione della non applicazione delle sanzioni per omissione contributiva ha permesso di avere un quadro normativo completo e chiaro evitando, tra l’altro, il riaccendersi delle questioni in merito sulle quali si era da ultimo pronunciata la Corte di Cassazione, sez. Unite Civili, sentenza 17 giugno – 18 settembre 2014, n. 19665.

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ORGANIZZAZIONI DI TENDENZA

Una delle novità previste dal d.lgs. 23/2015 è quella contenuta nell’art. 9 che prevede l’estensione ai datori di lavoro non imprenditori, che svolgono senza fine di lucro attività di natura politica, sindacale, culturale, di istruzione ovvero di religione o di culto, delle nuove norme rivolte ai lavoratori che rivestono la qualifica di operai, impiegati o quadri. A dire il vero la questione è molto più complessa di quanto non appaia a prima vista, in quanto è in corso da molto tempo un dibattito giurisprudenziale circa l’inapplicabilità della c.d. tutela reale di cui all’art. 18 della L. 300/70 nei confronti delle associazioni politiche, sindacali, religiose e delle organizzazioni di tendenza senza scopo di lucro, così come previsto dall’art. 4 della Legge n.

108/1990. L’esclusione per legge dalla tutela reale di questi soggetti era stata voluta allo scopo di evitare che le su indicate organizzazioni potessero venir costrette a reintegrare sul posto di lavoro un lavoratore che non condivideva, o fosse addirittura in contrastom con le finalità stesse perseguite dall’organizzazione. Di fatto, però, tale norma, è stata più volte disattesa nella sua ratio, finendo per amplificare i problemi legati ai c.d. licenziamenti arbitrari. La nuova norma, pertanto, cerca di fare chiarezza anche in questo ambito, prevedendo in maniera esplicita che anche alle organizzazioni di tendenza e senza scopo di lucro, vengano applicate le nuove norme sui licenziamenti che prevedono, per quelli discriminatori, la reintegrazione oltre ad un risarcimento del danno quantificabile in almeno 5 mensilità, nonché per quelli disciplinari la reintegrazione e un risarcimento del danno nel caso in cui in giudizio venga accertata l’illegittimità e l’insussistenza materiale del fatto. In questo caso il risarcimento non potrà superare le 12 mensilità per lavoratori di aziende con un numero di dipendenti superiore a 15, ovvero un numero di mensilità compreso tra le 4 e le 24 in tutti gli altri casi. Infine, nei casi di imprese sino a 15 dipendenti il nuovo regime prevede un risarcimento pari ad 1 mensilità per ogni anno di servizio, con un minimo di 2 e un massimo di 6.

TENTATIVO DI CONCILIAZIONE

La normativa prevede che, in caso di licenziamento dei lavoratori, al fine di evitare il giudizio e ferma restando la possibilità per le parti di addivenire a ogni altra modalità di conciliazione prevista dalla legge, il datore di lavoro può offrire al lavoratore, entro i termini di impugnazione stragiudiziale del licenziamento, in una delle sedi individuate dall’articolo 2113, quarto comma, del codice civile, e dall’articolo 76 del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, e successive modificazioni, un importo che non costituisce reddito imponibile ai fini dell’imposta sul reddito delle persone fisiche e non è assoggettato a contribuzione previdenziale, di ammontare pari a una mensilità della retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a due e non superiore a diciotto mensilità, mediante consegna al lavoratore di un assegno circolare. L’accettazione dell’assegno in tale sede da parte del lavoratore comporta l’estinzione del rapporto alla data del licenziamento e la rinuncia alla impugnazione del licenziamento anche qualora il lavoratore l’abbia già proposta. Le eventuali ulteriori somme pattuite nella stessa sede conciliativa a chiusura di ogni altra pendenza derivante dal rapporto di lavoro sono soggette al regime fiscale ordinario.

DUBBI DI INCOSTITUZIONALITA’

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Quanto stabilito dall’art. 1 del d.lgs. 23/2015 relativamente al campo di applicazione delle nuove norme, hanno fatto sorgere non pochi dubbi circa la legittimità costituzionale delle norme stesse, stante i possibili profili di ingiustizia sociale ed equità che potrebbero nascere.

Dal momento che la norma non può e non risulta essere retroattiva, in una medesima azienda può verificarsi il caso in cui nei confronti di alcuni dipendenti debbano essere applicate le vecchie norme, mentre per altri trovino applicazione le nuove norme.

Inoltre rispetto ai casi di conversione di contratti a tempo determinato o contratti di apprendistato in contratto a tempo indeterminato, la legge stabilisce esplicitamente che trovano applicazione le nuove disposizioni. Tale previsione, però, tra l’altro non presente nella versione originaria del decreto, ha sollevato dubbi in quanto le nuove norme dovrebbero trovare applicazione nei confronti dei nuovi assunti con contratto a tempo indeterminato mentre gli apprendisti per effetto della conversione sono vecchi assunti nella misura in cui risultano prestatori di lavoro assunti sin dall’inizio del rapporto.

Inoltre, rimanendo in tema di incostituzionalità, è da segnalare che il comma 3 dell’art. 1, prevede l’applicazione della nuova disciplina anche ai dipendenti che al momento rientrano nel campo di applicazione della previgente normativa nel caso in cui il datore di lavoro, per effetto delle nuove assunzioni, successive all’entrata in vigore del decreto in commento, integri il requisito occupazionale di cui all’articolo 18, ottavo e nono comma, della legge 20 maggio 1970, n. 300, e successive modificazioni.

Quanto previsto dal decreto attuativo della legge 183/2014 in questi commi, può ravvisare un’ipotesi di eccesso di delega rispetto a quanto previsto dalla stessa legge 183/2014 (Jobs act).

Il Governo, infatti, era delegato ad introdurre una nuova disciplina in materia di regime sanzionatorio per i licenziamenti illegittimi nei confronti dei nuovi assunti. Nello specifico il Governo, al fine di rafforzare le opportunità lavoro nei confronti di persone prive di occupazione, nonché allo scopo di riorganizzare i contratti di lavoro vigenti per renderli maggiormente rispondenti alle attuali esigenze del contesto occupazionale e produttivo, aveva ricevuto delega ad adottare uno o più decreti legislativi per le nuove assunzioni, del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti in relazione all’anzianità di servizio. Di fatto, invece, il decreto attuativo introduce una nuova disciplina nei confronti di coloro che risultano già assunti in azienda e che subiscono una tutela di fatto e di diritto differenziata.

Patrizia Macrì 30 Novembre 2015

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