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COME LEGGERE IL PROPRIO BILANCIO ED ESTRARNE INDICI E VALUTAZIONI

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Academic year: 2022

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COME LEGGERE IL PROPRIO BILANCIO ED ESTRARNE INDICI E VALUTAZIONI

VALORE AGGIUNTO, EBITDA, EBIT, EBT, RISULTATO NETTO

CAPIRE I RISULTATI INTERMEDI DEL CONTO ECONOMICO

Questo è un lingotto di ferro. Il suo valore è di circa 100 dollari. Se con esso si fanno ferri di cavallo, il suo valore è di 250 dollari. Se invece si producono aghi, allora vale circa 70.000 dollari. Infine, se si producono molle per orologi, il suo valore aumenta a 6.000.000 di dollari. Il vostro valore non sta solo in ciò di cui siete fatti, ma anche in quali modi siete in

grado di trarre il meglio da ciò che siete.

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Indice

1. Da dove partire

1.1. Leggere il bilancio: i passaggi per farlo nel modo giusto 1.2. Perché imparare a leggere il bilancio?

1.3. Da quali indici partire per interpretare l’andamento aziendale?

1.4. Perché la mia impresa non rende?

1.5. Fatturare non significa guadagnare 1.6. La mia impresa crea “valore aggiunto”?

1.7. L’interpretazione del Valore Aggiunto (VA) 1.8. L’Ebitda, il “Re” dei risultati intermedi 1.9. L’Ebit

1.10. L’EBT

1.11. Il risultato netto

1.12. Come cercare di migliorare l’Ebitda e gli altri risultati 1.13. L’indebitamento bancario delle piccole imprese 1.14. L’utilità delle percentuali

1.15. Ebitda contro Ebitda

2. Definizione dei maggiori indici di valutazione 2.1. Ebitda

2.2. Ebit 2.3. Ebt

2.4. Ebitda, l’indicatore più noto

2.5. Gli altri maggiori indicatori economici 2.5.1. ROI

2.5.2. ROE 2.5.3. ROS 2.5.4. ROA

2.6. Ebitda: l’indicatore preferito

2.7. Il punto di partenza per le analisi: il Bilancio

3. Il punto di partenza per le analisi: il BILANCIO 3.1. Come è composto il bilancio?

3.2. I passeggi operativi per leggere il bilancio

4. Calcolo pratico degli indicatori economici 4.1. Schema Bilancio IV direttiva CEE (esempio) 4.2. Schema Indicatori di bilancio

5. I 5 indicatori per monitorare lo stato di salute dell’azienda 5.1. Le dimensioni da analizzare

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1. Da dove partire

1.1. LEGGERE IL BILANCIO: I PASSAGGI PER FARLO NEL MODO GIUSTO

Per molte imprese lo Stato patrimoniale e il Conto economico sono documenti che riguardano solamente l’area amministrativa e fiscale. Se un tempo ci si poteva permettere questo approccio, ora non è più pensabile. Esaminare il bilancio solo in fase di controllo consuntivo è una pratica imprudente, per non dire pericolosa.

Il bilancio è uno strumento da utilizzare prima di prendere decisioni, soprattutto quelle più importanti. Capire come va letto e interpretato è una competenza che tutti possono apprendere e sviluppare.

Per guidare con successo un’impresa non basta “tirare la riga” a fine anno come si faceva una volta. Il rischio è di correre tutto l’anno e poi alla fine accorgersi di non aver combinato nulla.

1.2. PERCHÈ IMPARARE A LEGGERE IL BILANCIO?

Il bilancio di un’azienda descrive in forma sintetica il suo vero stato di salute. Saperlo leggere e interpretare permette di prendere decisioni ragionando su dati concreti.

La normativa che regola la predisposizione del bilancio è orientata al calcolo delle tasse da applicare. Questa impostazione diventa però inadeguata se si desidera sfruttare i dati del bilancio per scopi gestionali.

Per questo motivo è necessario cambiare la sua rappresentazione. Occorre impaginare i dati di bilancio utilizzando appositi modelli che ne rendono più facile e intuitiva la lettura.

Le prime volte potrebbe risultare difficile da comprendere, ma con il metodo e gli strumenti giusti tutti possono imparare.

Leggere e interpretare il bilancio significa, innanzitutto:

▪ valutare la sostenibilità delle scelte aziendali;

▪ misurare i margini di guadagno;

▪ conoscere il linguaggio delle banche e risparmiare sui costi finanziari;

▪ valutare lo stato di salute delle aziende clienti;

▪ monitorare i risultati dei concorrenti.

Abituarsi a decidere con i numeri in mano significa fare un salto qualitativo nello studio e nello sviluppo dei progetti.

Significa sviluppare strumenti di controllo e abituarsi a lavorare per obiettivi.

1.3. DA QUALI INDICI PARTIRE PER INTERPRETARE L’ANDAMENTO AZIENDALE?

Tutti almeno una volta avremo sentito citare l’EBITDA e l’EBIT.

Acronimi inglesi a parte, almeno MOL e risultato operativo lo abbiamo certamente sentito.

Ecco, forse è arrivato il momento di conoscere un po’ meglio questi termini, anzi, di più, è arrivato il tempo di adottarli in azienda e sfruttarli per migliorare ancora di più la nostra attività e rispondere magari ad alcuni dubbi che parecchie volte ci si manifestano durante la quotidianità.

Scopriamo insieme il “fascino” della lettura dei bilanci, dei margini economici, degli indici aziendali, del perché si ritiene di avere un guadagno minimo o cosa significa valore aggiunto per la nostra impresa.

Impariamo a farci domande per darci risposte utili.

Perché questo è il momento di farlo.

È il giusto tempo per leggere il proprio bilancio ed estrarne indici e valutazioni per fare meglio il nostro lavoro, il più difficile, ma anche il più bello: quello dell’imprenditore.

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1.4. PERCHE’ LA MIA IMPRESA NON RENDE?

Questa è una domanda che, purtroppo, molti imprenditori si pongono spesso.

Per capire dove poter intervenire per migliorare la redditività di un’impresa è opportuno partire dall’analisi dei risultati intermedi del Conto economico (CE). Da qui, poi, è possibile estrarre indici di analisi che aiutano a dare utili indicazioni sull’andamento aziendale e darci elementi di valutazione sui potenziali percorsi migliorativi dell’operatività.

Tra i maggiori indicatori che possiamo elaborare certamente Ebitda ed Ebit sono quelli che meglio rispondono alle esigenze di rilevazione del rendimento aziendale. Anche se i due sono indicatori di redditività tra i più noti, ricordiamo comunque che ve ne sono altri non meno importanti che si esprimono in risultati intermedi individuabili direttamente dalla lettura del CE, così come viene redatto per il deposito presso il Registro delle Imprese.

Per individuare i risultati intermedi che tratteremo è però necessario riesporre il CE nella forma che evidenzi il valore aggiunto (VA). Questo tipo di riclassificazione, a differenza di altre, ha il pregio di poter essere effettuata anche da analisti esterni all’impresa, sulla base dei bilanci pubblici. Lo scopo del testo è proprio quello di rendere autonomo l’imprenditore nell’azione di riclassificazione del Conto economico e di estrapolazione degli indicatori di redditività della propria azienda.

1.5. FATTURARE NON SIGNIFICA GUADAGNARE

Se è vero che se non si vende non si guadagna, è altrettanto vero che fatturare non significa guadagnare. Per ottenere un guadagno, l’utile d’esercizio, è necessario che i ricavi ottenuti dalle vendite (o prestazioni di servizi) siano superiori ai costi.

Per comprendere la situazione economica di un’impresa, i suoi punti di forza e i suoi punti di debolezza, è molto importante non andare direttamente all’ultima riga del CE.

Un grafico può essere efficace nel mettere in evidenza come le diverse tipologie di costi che sostiene un’impresa nel corso dell’esercizio “assorbano” i ricavi (una parte, a volte anche tutti), riducendo sempre più il margine, fino ad arrivare al risultato finale, l’utile (o la perdita) dell’esercizio.

1.6. LA MIA IMPRESA CREA “VALORE AGGIUNTO”?

Il “valore aggiunto” (VA) può essere interpretato come l’espressione che identifica quanto i clienti apprezzano le peculiarità del prodotto. In dottrina è stato anche sottolineato come il VA sia tanto maggiore quanta più “intelligenza” viene messa in quello che viene offerto sul mercato. Si tratta, infatti, del margine che l’impresa riesce ad ottenere sottraendo dai ricavi esclusivamente i costi esterni sostenuti per ottenere i ricavi. Ad esempio, per un’impresa di produzione, sono i costi degli acquisti di materie prime, ridotti dell’incremento delle rimanenze di magazzino (se si è acquistato di più rispetto a ciò che si è consumato) o incrementati del decremento delle rimanenze (in caso di consumi superiori agli acquisti) e delle spese per servizi. Potremmo dire, diversamente, che il VA si ottiene sottraendo ai ricavi i soli costi variabili.

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Con il VA l’impresa deve poter coprire tutti i costi fissi (il costo del personale, gli ammortamenti e gli accantonamenti) e gli altri costi, come gli oneri finanziari (in caso di imprese indebitate), oltre, naturalmente, alle imposte sul reddito (ed eventuali oneri straordinari). Potremmo anche dire che il VA deve essere in grado di remunerare congruamente i fattori produttivi (capitale proprio e di terzi, costo del lavoro ed Erario).

1.7. L’INTERPRETAZIONE DEL VALORE AGGIUNTO (VA)

Un VA modesto segnala l’incapacità dell’impresa di “mettere del suo” nel creare prodotti, così che siano graditi al mercato.

Il processo produttivo deve consentire all’impresa di ottenere un elevato VA. Ciò è fondamentale per le imprese che operano in settori ad elevato investimento di capitale (perché hanno ammortamenti elevati) e nelle imprese in cui è elevato il peso del costo del lavoro. Il VA riflette anche le scelte aziendali per quanto riguarda il grado di integrazione verticale, in quanto le imprese che si occupano di tutte le fasi produttive avranno un VA maggiore rispetto a quelle che acquistano semilavorati.

Tale risultato intermedio sarà, infatti, modesto nei bilanci delle imprese commerciali, che non trasformano il prodotto, così come nelle imprese di produzione che si occupano, ad esempio, soltanto di una fase del processo produttivo. Non apportando VA elevato al prodotto, otterranno margini inferiori.

1.8. L’EBITDA, IL “RE” DEI RISULTATI INTERMEDI

L’EBITDA (Earnings Before Interest, Taxes, Depreciation and Amortization) è in genere considerato il risultato economico intermedio di maggiore rilevanza informativa. In italiano, è il “vecchio” MOL, il margine operativo lordo.

Rispetto al successivo EBIT (o risultato operativo, in sostanza l’A - B del CE) è apprezzato anche perché è una grandezza meno manovrabile dall’amministratore.

L’EBITDA è, infatti, ottenuto sottraendo dal VA il costo del lavoro. Non tiene pertanto conto di ammortamenti e accantonamenti, che costituiscono costi la cui quantificazione altamente soggettiva si presta a politiche di bilancio; quando le imprese subiscono una contrazione del fatturato, il “taglio” degli ammortamenti è la politica di bilancio più ricorrente.

Ammortamenti e accantonamenti hanno, però, anche la peculiarità di essere costi “non monetari”, cioè che non devono essere pagati. Per tale ragione l’EBITDA viene spesso utilizzato più che come indicatore di tipo economico, come indicatore della capacità potenziale dell’impresa di creare cassa.

L’Ebitda, indice che ragiona sull’analisi dell’andamento economico, deve essere particolarmente considerato e adottato soprattutto nelle imprese “rigide”, cioè in quelle imprese di produzione che necessitano di elevati investimenti in beni strumentali, dove, infatti, l’EBITDA deve essere in grado di coprire l’elevato ammontare degli ammortamenti.

1.9. L’EBIT

In un bilancio redatto rispettando pienamente le norme di legge ed i principi contabili, l’EBIT è un risultato intermedio fondamentale perché consente di valutare la redditività del business dell’impresa. In pratica è il risultato operativo (RO) ovvero il margine prodotto dal business prima di considerare oneri finanziari e imposte.

Tale risultato non risente, infatti, della struttura finanziaria dell’impresa, cioè delle modalità di finanziamento del business, in quanto non tiene conto degli oneri finanziari.

Se l’EBIT è troppo basso, le possibili letture sono due:

1. il settore in cui opera l’impresa non è redditizio;

2. oppure, se l’EBIT dei competitor è elevato, significa che è l’imprenditore che non è bravo nel fare il proprio mestiere.

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1.10. L’EBT

L’Ebt è il risultato ante imposte e tiene conto di tutti i costi dell’impresa con l’eccezione della gestione tributaria. Rispetto all’EBIT, tale indice considera anche gli oneri finanziari. Nelle imprese molto indebitate con gli istituti di credito (o obbligazionisti, ecc.), se l’EBIT è buono, ma il risultato ante imposte è modesto, significa che l’impresa è troppo indebitata.

1.11. RISULTATO NETTO

Il risultato netto è l’utile d’esercizio o la perdita d’esercizio. L’analisi dei risultati intermedi può consentire di spiegare le ragioni che hanno portato a tale risultato, sia in positivo, sia in negativo e, conseguentemente, capire quali decisioni assumere per migliorare in futuro il risultato dell’esercizio.

Spesso, tra i non addetti ai lavori, quando si legge un bilancio viene spontaneo andare a verificare immediatamente l’ultima riga del CE, quella appunto del risultato netto, ma così facendo, senza cioè analizzare i risultati intermedi (e la Nota integrativa), si rischia di giungere a conclusioni sbagliate.

1.12. COME CERCARE DI MIGLIORARE L’EBITDA E GLI ALTRI RISULTATI

Quando un’impresa presenta un utile modesto, oppure una perdita, è fondamentale capire come intervenire per migliorare il risultato economico della gestione. L’analisi dei risultati intermedi del CE e VA consente di comprendere, dato un determinato prezzo di mercato dei prodotti (ipotizziamo che il prezzo sia “fatto dal mercato”), quali sono i costi responsabili di un risultato d’esercizio non soddisfacente.

Per le imprese che hanno un modesto VA è necessario capire se è possibile comprare meglio o sostituire i fornitori abituali o se, invece, è il costo del lavoro a pesare eccessivamente sul risultato, in quanto a fronte di un VA soddisfacente l’EBITDA risulta modesto a causa di un livello di costo del lavoro eccessivo: ad esempio, ci sono troppi lavoratori rispetto ai volumi di ricavi, oppure remunerazioni troppo elevate, come può talvolta accadere in caso di dipendenti che sono familiari dell’imprenditore. Nel caso, invece, di ammortamenti elevati si deve comprendere se l’impresa sta sfruttando adeguatamente la capacità produttiva, oppure se dispone di investimenti in beni strumentali che non vengono utilizzati a pieno regime.

Non si deve però dimenticare che nei bilanci delle imprese italiane molto di frequente gli ammortamenti sono troppo elevati per ragioni di ordine fiscale. In tali casi, per rappresentare un EBIT, EBT e risultato netto corretti, è necessario rideterminarli ed indicare un ammontare che risponda ai criteri civilistici, ovvero l’effettiva vita utile economico-tecnica stimata.

Diversamente, l’EBIT e i risultati successivi saranno sottostimati.

1.13. L’INDEBITAMENTO BANCARIO DELLE PICCOLE IMPRESE Le imprese più piccole sono spesso troppo indebitate con le banche.

Nei casi di oneri finanziari che assorbano eccessivamente il margine aziendale, portando ad un EBT (risultato ante imposte) modesto, si è spesso in presenza di un’impresa che ha fatto eccessivamente ricorso al capitale di credito per finanziare il business. Bisognerà valutare la possibilità di sostituire capitale di rischio a capitale di credito (ad esempio, ricercando l’ingresso di un nuovo socio). Se, invece, la responsabilità di un risultato d’esercizio modesto è da individuare nel carico fiscale, si deve passare alla fase di analisi e pianificazione fiscale, magari anche attraverso la valutazione e adozione di soluzioni societarie più adeguate. Anche se, spesso, la verità è che quando buona parte dell’utile viene assorbito dalle imposte sul reddito è perché già il risultato ante imposte era modesto;

la causa del risultato d’esercizio, in tali casi, è da ricercare più in una scarsa redditività aziendale rispetto al carico fiscale, nonostante, come è noto, in Italia la pressione fiscale sia tra le più elevate in assoluto.

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Allo stesso modo, quando gli oneri finanziari assorbono importanti margini di profitto, è necessario capire se è causa dell’eccessivo indebitamento, oppure la conseguenza di una redditività insufficiente.

1.14. L’UTILITÀ DELLE PERCENTUALI

Per distinguere tra queste differenti situazioni non ci si può limitare al calcolo dei risultati intermedi, ma è anche necessario ragionare in termini percentuali: ad esempio, calcolando il peso percentuale dell’EBIT rispetto al fatturato, degli oneri finanziari e così via.

Se un’impresa ha 10 di EBIT e 12 di oneri finanziari si potrebbe affermare che il problema dell’impresa sia da individuare nell’eccessivo costo dell’indebitamento. In realtà, tale affermazione è pericolosa, in quanto sulla base di due soli dati a disposizione non si hanno gli elementi per esprimere un giudizio appropriato; se, ad esempio, l’EBIT in percentuale sul fatturato fosse inferiore all’1%, potremmo facilmente concludere che il problema dell’impresa è da individuare nella scarsa redditività e non nell’eccessivo costo dell’indebitamento.

1.15. EBITDA CONTRO EBITDA

Ebitda contro Ebitda: non si possono confrontare valori assoluti tra imprese. Nelle analisi di bilancio non ci si può focalizzare soltanto su dati puntuali e questo vale per l’EBITDA e per tutti gli altri risultati intermedi. Una buona analisi prevede il confronto temporale e comparativo, per cui, prima di tutto, è necessario analizzare il trend operativo di un’azienda (analisi nel tempo), in quanto valutare la redditività dei dati di un solo anno porterebbe a giudizi parziali. A seguire, le analisi richiedono poi il confronto dei risultati ottenuti dall’impresa con quelli dei competitor (analisi nello spazio), considerando, inoltre, che ogni settore ha differenti redditività.

Aggiungiamo, anche, che non si può confrontare un valore assoluto di un’impresa, ad esempio l’EBIT, con quello di un’altra impresa: un’azienda con un EBIT di 1 milione di euro potrebbe, infatti, avere investito 10 milioni per ottenerlo, mentre un’altra con un EBIT inferiore pari a 0,8 milioni potrebbe averlo ottenuto investendo soltanto tre milioni. La seconda avrebbe una redditività superiore alla prima.

Per poter giudicare l’adeguatezza o meno dell’EBITDA è necessario confrontare il valore di redditività con l’ammontare investito per consentire lo svolgimento del business: si tratta del cosiddetto “capitale investito operativo”. In questo modo è possibile confrontare la redditività tra imprese.

Ecco perché nelle analisi di bilancio si calcolano gli indici, cioè si rapporta, ad esempio, l’EBIT con il capitale investito nell’attività operativa.

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2. Definizione dei maggiori indici di valutazione

2.1. EDITDA

Il margine operativo lordo (MOL) è un indicatore di redditività che evidenzia il reddito di un’azienda basato solo sulla sua gestione operativa, quindi senza considerare gli interessi (gestione finanziaria), le imposte (gestione fiscale), il deprezzamento di beni e gli ammortamenti.

Il MOL coincide con l’EBITDA, mentre la differenza con l’EBIT è rappresentata dagli accantonamenti che nell’EBITDA non vengono dedotti e quindi considerati nel calcolo, mentre nell’EBIT (Earnings Before Interest and Taxes) vengono sottratti ammortamenti, svalutazioni e accantonamenti.

Questo indicatore, detto anche EBITDA (Earnings Before Interest, Taxes, Depreciation and Amortization, ovvero “utili prima degli interessi, delle imposte, del deprezzamento e degli ammortamenti”), risulta indicato per comparare i risultati di diverse aziende che operano in uno stesso settore attraverso i multipli comparati (utili in fase di decisione del prezzo in un’offerta pubblica iniziale). Poiché l’EBITDA è una rapida approssimazione del valore dei flussi di cassa prodotti da un’azienda, esso è utilizzato, spesso insieme con altri metodi più precisi e attendibili, per approssimare il valore della stessa nel settore in cui opera.

L’EBITDA può essere inoltre utilizzato per calcolare il risultato operativo di un’azienda, partendo dall’utile lordo, togliendo le imposte, gli ammortamenti, i deprezzamenti e gli interessi dell’azienda. Rispettivamente, se i costi saranno maggiori dei ricavi si avrà una perdita, mentre se figureranno dei ricavi maggiori dei costi si avrà un utile.

Per la valutazione della redditività di un’azienda vari analisti non condividono l’omissione degli ammortamenti, ma la maggior parte è concorde sul fatto che il MOL è un dato più importante dell’utile, perché permette di vedere chiaramente se l’azienda è in grado di generare ricchezza tramite la gestione operativa, escludendo quindi le manovre fatte dagli amministratori (ammortamenti e accantonamenti, ma anche la gestione finanziaria), le quali non sempre forniscono una visione corretta dell’andamento aziendale.

Il MOL è l’autofinanziamento “potenziale”, in quanto identifica il flusso che potenzialmente l’impresa originerebbe dalla gestione corrente se tutti i ricavi fossero stati riscossi e tutti i costi correnti fossero stati pagati nell’anno.

2.2. EBIT

In finanza il risultato ante oneri finanziari, o anche reddito operativo aziendale, è l’espressione del risultato aziendale prima delle imposte e degli oneri finanziari. È molto utilizzato anche l’acronimo inglese EBIT, che deriva dall’espressione Earnings Before Interests and Taxes.

L’EBIT esprime il reddito che l’azienda è in grado di generare prima della remunerazione del capitale, comprendendo con questo termine sia il capitale di terzi (indebitamento), sia il capitale proprio (patrimonio netto).

Nella formulazione degli indici di bilancio è utilizzato per ottenere il ROI (Return on investment, dato da EBIT / Capitale Investito Netto), espressione, appunto, della redditività dei capitali complessivamente investiti in azienda a prescindere dalla loro provenienza.

L’EBIT viene spesso associato al margine operativo netto (o MON), ma non coincide concettualmente con esso; oltre alle componenti di reddito operative, l’EBIT ricomprende, infatti, gli oneri e i proventi derivanti da gestioni accessorie (ad esempio, la gestione di immobili a uso civile per un’azienda manifatturiera), nonché i proventi finanziari derivanti dalla cosiddetta gestione finanziaria attiva.

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Il calcolo dell’EBIT può essere sintetizzato nella seguente formula:

EBIT = MON + PGA – OGA + PFN dove:

MON = margine operativo netto

PGA = proventi delle gestioni accessorie OGA = oneri delle gestioni accessorie

PFIN = proventi della gestione finanziaria attiva

In aziende che non hanno né gestioni accessorie, né una gestione finanziaria attiva, l’EBIT coincide con il risultato operativo, o reddito operativo, o margine operativo netto (MON).

2.3. EBT

EBT (Earnings Before Taxes) è il risultato ante imposte e corrisponde ad un indicatore economico determinato come differenza tra i ricavi ed i costi aziendali, con l’eccezione delle imposte sul reddito.

Esso può essere calcolato partendo dal risultato ante oneri finanziari (EBIT) con la seguente formula:

EBT = EBIT – Ofin + PS – OS dove:

EBIT = risultato ante oneri finanziari

Ofin = oneri finanziari

PS = proventi straordinari

OS = oneri straordinari 2.4. EBITDA, l’indicatore più noto

L’EBITDA o Earnings before Interest, Taxes, Depreciation and Amortization è un indicatore di redditività molto noto ed utilizzato nell’analisi di bilancio per la valutazione di un’azienda.

Questo indice è molto utile ed importante per l’investitore, perché è fondamentale per capire se la società è capace di generare profitti dalla gestione ordinaria della propria attività.

La sua definizione di “indicatore di redditività che esprime l’utile prima degli interessi, delle tasse, del deprezzamento e degli ammortamenti” è una sintesi che ci aiuta a capire bene l’utilizzo di questo indice.

L’EBITDA, dunque, calcola gli utili dell’azienda al netto dei costi, quali interessi, tasse, deprezzamento ed ammortamenti.

Come già abbiamo ricordato, solitamente l’EBITDA viene tradotto con “MOL” ovvero

“Margine Operativo Lordo”, anche se, come vedremo, i due termini presentano delle piccole differenze.

Il principale vantaggio dell’Ebitda è quello di mostrare la capacità di un’azienda di generare reddito, infatti, esso calcola e misura la redditività operativa e prende in considerazione solo le componenti inerenti al business aziendale.

L’Earnings before Interest, Taxes, Depreciation and Amortization è anche molto utile per confrontare e paragonare aziende diverse operanti nello stesso settore e questo, quindi, consente all’investitore di scegliere la società più redditizia. Gli analisti, inoltre, lo utilizzano molto per stimare e fare pronostici sul valore futuro dei titoli azionari della società analizzata.

Questo indicatore è, perciò, di grande aiuto nella valutazione di un investimento, infatti, se dovesse andare male il Margine Operativo Lordo, l’azienda non sarebbe destinata ad andare lontano.

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L’EBITDA è, quindi, un indice che misura la redditività di un’azienda, ma non è il solo. Esso, infatti, appartiene ad un gruppo di altri indici ovvero gli “indicatori di redditività”.

Gli indicatori di redditività sono fondamentali per calcolare e misurare la capacità di un’azienda di generare profitti e risorse e analizzarli nel modo corretto è fondamentale prima di effettuare un investimento. Questi indici, MOL incluso, non devono mai essere studiati ed analizzati singolarmente: si può fare, ma si rischia di effettuare un investimento sbagliato.

Un investitore consapevole è al corrente che l’EBITDA non può essere analizzato da solo, cosicché risulta importante conoscere anche gli altri indici da dover analizzare.

Tra questi ritroviamo:

▪ il ROI, Return on Investment.

▪ il ROE, Return on Equity.

▪ il ROS, Return on Sales.

▪ il ROA, Return on Asset.

▪ L’EBIT, Earnings Before Interest, Taxes.

Ognuno di questi indici ha un suo utilizzo specifico e la sua relativa formula ed è importante e vantaggioso conoscerli, saperli analizzare e sfruttare al meglio, in modo da selezionare l’investimento migliore.

La prima azione da compiere per giungere a tali indicatori è quella di utilizzare lo strumento adeguato a rilevarli e questo elemento altro non è che il nostro bilancio aziendale.

L’EBITDA, però, non può essere trovato in un bilancio tradizionale, perciò lo stesso va riclassificato, in modo particolare operando sul Conto economico.

Per calcolarlo, infatti, dovremo riclassificare il Conto economico al fine di:

▪ raggruppare la lettura dei dati, in modo tale che risulterà più semplice la sua identificazione;

▪ costruire un’unica colonna disponendo i costi e i ricavi in tale modalità per facilitare i confronti;

▪ ottenere risultati intermedi, che ci aiuteranno ad effettuare un’analisi migliore delle performance aziendali.

La riclassificazione del Conto economico permette di suddividere le aree della gestione in base alla loro pertinenza gestionale. E lo schema più utilizzato per la riclassificazione e per il calcolo del Margine Operativo Lordo, ma anche dell’EBIT, è sicuramente quello a valore aggiunto. Ciò è dovuto al fatto che anche un investitore esterno all’azienda potrà utilizzarlo, in quanto non necessita di informazioni aggiuntive rispetto a quelle presenti nel bilancio.

Schema Valore Aggiunto

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Imparato come si struttura un Conto economico riclassificato, passiamo ora ai calcoli.

Dopo aver riclassificato il bilancio come illustrato nell’immagine sopra riportata, non sarà difficile riuscire ad ottenere l’EBITDA e possiamo farlo utilizzando essenzialmente due semplici formule:

EBITDA = VALORE DELLA PRODUZIONE – COSTI ESTERNI – COSTO DEL PERSONALE

In questo caso, siamo partiti dall’alto dello schema fino a raggiungere l’Earnings before Interest, Taxes, Depreciation and Amortization, ma se fossimo partiti dal basso?

EBITDA = UTILE + IMPOSTE + INTERESSI + SVALUTAZIONE + AMMORTAMENTI

Supponiamo ora di riclassificare il Conto economico di un’azienda ed ottenere i seguenti dati:

EBITDA = VALORE DELLA PRODUZIONE – COSTI ESTERNI – COSTO del PERSONALE = 50.000 – 10.000 – 15.000

= 26.000 oppure

EBITDA = UTILE + IMPOSTE + INTERESSI + SVALUTAZIONE + AMMORTAMENTI = 17.000 + 5.000 + 1.000+ 3.000

= 26.000

Il Margine Operativo Lordo mostra il margine che rimane effettivamente in azienda, al netto di tutti i costi che comportano un’effettiva uscita di denaro. I costi non monetari, ovvero gli ammortamenti e le svalutazioni, non consistono infatti nell’uscita effettiva di soldi dall’azienda esaminata.

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In altre parole, il MOL mostra quanto rimane all’azienda per far fronte a investimenti (ammortamenti), interessi (debiti verso banche), tasse e remunerazione dei soci (utili).

A questo punto è importante comprendere come meglio interpretare l’EBITDA che si è rilevato ed è fondamentale non analizzare il MOL come elemento a sé stante, ma affiancato ad altri indicatori di redditività, poiché in questo modo è possibile avere una visione completa della redditività dell’azienda e di quanto effettivamente incide la gestione extra operativa sui risultati dell’azienda analizzata.

Una volta determinato l’EBITDA, come faccio a capire se il risultato che ho ottenuto è accettabile?

Fondamentalmente possiamo utilizzare due metodi, l’EBITDA Margin o l’EBITDA Adjusted.

L’EBITDA Margin altro non è che il rapporto tra l’Earnings before Interest, Taxes, Depreciation and Amortization e il valore della produzione moltiplicato per cento.

EBITDA MARGIN = (EBITDA / VALORE DELLA PRODUZIONE) x 100

Questo risultato percentuale ci aiuterà a capire se la società è solida o se, invece, le spese operative stanno erodendo gli utili.

Se ipotizzassimo di avere un EBITDA Margin del 10%, significherebbe che per ogni 100 € di fatturato l’azienda avrà a disposizione 10 € per coprire i costi dell’attività aziendale. È quindi importante per questa analisi avere dei benchmark di riferimento, infatti aziende operanti in settori diversi avranno target percentuali diversi.

In linea generale, un EBITDA Margin va sempre ricercato il più elevato possibile.

Prendiamo, ad esempio, due società, A e B, operanti nel settore del commercio ed aventi rispettivamente A un Margine Operativo Lordo di 200.000 e B di 350.000, A un fatturato di 1.500.000 €, mentre quello di B pari a 4.000.000 €.

Possiamo notare facilmente che la società B ha un Earnings before Interest, Taxes, Depreciation and Amortization ed un fatturato più elevato rispetto ad A, ma investire nella società B sarebbe davvero l’opzione migliore?

Se andiamo ad effettuare i nostri calcoli, vedremo che l’EBITDA Margin della società A è pari a 13,3% [(200.000 / 1.500.000) x 100], superiore al benchmark di riferimento, mentre per la società B è pari a 8,75% [(350.000 / 4.000.000) x 100], inferiore alla media di riferimento e alla società A.

Poi c’è il caso dell’EBITDA Adjusted.

Che cos’è?

Sostanzialmente è un indice che si ottiene senza tenere conto delle componenti di natura straordinaria di un’attività aziendale e, quindi, trattasi di avvenimenti non ricorrenti, come ad esempio l’avviamento o le svalutazioni/rivalutazioni del magazzino. Sono questi elementi che incidono, positivamente o negativamente, sul risultato del nostro MOL.

Escludendo dai calcoli le componenti straordinarie, l’investitore riuscirà ad effettuare delle comparazioni più affidabili e non influenzabili da ricavi eccezionali conseguiti, ad esempio, in un determinato trimestre e che non si verificheranno più in futuro.

L’EBITDA viene spesso associato per comodità al MOL, cioè il Margine Operativo Lordo, ma è davvero corretto affermare che siano la stessa cosa?

La risposta è no, infatti i due indicatori hanno delle differenze, seppur lievi.

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La differenza principale tra EBITDA e MOL sta nel fatto che gli accantonamenti nell’Earnings before Interest, Taxes, Depreciation and Amortization vengono dedotti, a differenza del Margine Operativo Lordo dove non vengono considerati.

Ma cosa sono gli accantonamenti?

Gli accantonamenti altro non sono che delle operazioni contabili che permettono di

“accantonare” una quota degli utili che verrà usata come riserva ed utilizzata quando si presenteranno rischi futuri o spese specifiche come manutenzioni e riparazioni. Questo cusa un valore dell’EBITDA inferiore a quello ottenuto col calcolo del MOL e farà sì che avremo un potenziale flusso di cassa operativo più prudente rispetto a quello ottenuto con l’utilizzo del Margine Operativo Lordo.

C’è anche da considerare il rapporto EV/EBITDA.

Il rapporto EV/EBITDA è un multiplo di mercato e si ottiene dal rapporto tra il valore di un’azienda e il margine operativo lordo.

L’EV si riferisce a “Enterprise Value” e calcolarlo è abbastanza facile: è composto dal patrimonio netto dell’azienda (detto anche capitalizzazione di mercato) + debiti – liquidità.

Se, invece, l’azienda non ha debiti, l’EV si calcola semplicemente con la formula: patrimonio netto – liquidità.

Questo multiplo consente all’investitore di confrontare la società con livelli di debito differenti e, successivamente, paragonarli al benchmark/settore di riferimento. Da tale confronto possiamo capire se l’azienda è un buon investimento o meno.

Come possiamo interpretare questo multiplo?

Possiamo affermare che se il valore del rapporto EV/EBITDA è sopra la media del settore di riferimento, la società è sopravvalutata. Al contrario, se il valore è sotto la media del benchmark di riferimento, essa è sottovalutata e rende l’azienda più appetibile agli investitori.

Ricordiamoci bene che nella valutazione di una società non dobbiamo comunque mai basarci su un singolo strumento, che sia un multiplo di mercato o un indice di redditività.

Questo rapporto, inoltre, aiuta molto quando si vogliono mettere a confronto due società operanti nello stesso settore, ma in Paesi differenti e, quindi, con tassazione diversa tra loro.

Facciamo ora un esempio per comprendere meglio come ottenere il nostro EV e calcolare questo importante multiplo.

La Società Alfa ha capitale sociale composto da 50.000 azioni, il cui singolo prezzo è 2 € ad azione.

Riclassificando il Conto economico otteniamo:

Valore della produzione: 100.000 Costi esterni: 30.000

Costo personale: 15.000 Ammortamenti: 5.000 Debiti netti: 25.000

EV = (50.000 azioni x 2 €) + 25.000 = 125.000 EBITDA = 55.000

EV / EBITDA = 125.000 / 55.000 = 2,27 €

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Il limite di questo multiplo risiede nello scostamento temporale tra nominatore e denominatore, infatti, i valori contabili escono trimestralmente o annualmente, mentre il valore delle azioni cambia quotidianamente.

Svantaggi dell’Ebitda

Dopo questa disamina dobbiamo però ricordare che l’EBITDA, come normalmente succede per tutti gli indici, presenta anche degli svantaggi, ed è quindi giusto prenderli in considerazione per un’analisi ed un giudizio complessivo.

Ad esempio, quando analizziamo l’Earnings before Interest, Taxes, Depreciation and Amortization dobbiamo considerare che non esiste uno standard contabile-legale unico per il calcolo dell’indice e questo fa sì che la società possa essere portata ad alterarne il risultato rendendo poco attendibile il MOL.

Altro difetto è legato all’esclusione delle tasse e degli interessi, che possono avere un peso non indifferente sui bilanci delle società. Infatti, è più comune di quanto si pensi trovare un’azienda con un Margine Operativo Lordo notevole, ma che a causa di forti squilibri negli interessi passivi possa registrare delle perdite. L’azienda, inoltre, potrebbe stimare in maniera non corretta le riserve accantonate e destinate a garanzia, spese future o ristrutturazioni, portando ad una visione distorta dei profitti.

Insomma, questo indice è un indicatore di redditività molto utilizzato ed apprezzato nell’analisi tecnica di una società, ma come per tutti gli altri indici è importante tenere a mente che non deve essere analizzato da solo, ma dev’essere studiato e confrontato insieme ad altri indicatori di redditività, verificati poi nel loro insieme.

Maggiore è la correttezza dell’analisi dei dati che abbiamo a disposizione, minore sarà il rischio che correremo nell’effettuare i nostri investimenti.

Ricordiamoci sempre che i numeri, al contrario delle nostre emozioni, non mentono mai.

2.5. Gli altri maggiori indicatori economici 2.5.1. ROI

Nel mondo degli investimenti ci sono numerosi indicatori ed elementi da dover analizzare prima di effettuare uno specifico investimento e tra questi troviamo certamente il ROI.

Il ROI è uno degli indicatori di bilancio più importanti per valutare la performance di un’azienda e viene molto utilizzato ed analizzato quando si parla di investimenti. Esso viene utilizzato per valutare la profittabilità di un investimento, dato che calcola il rendimento ottenuto in base al capitale investito.

Cosa vuol dire ROI?

Iniziamo definendo il significato della parola ROI: è l’acronimo in inglese di Return on Investment che, come abbiamo detto, è tra i principali indicatori di bilancio di un’azienda.

Qual è la traduzione in italiano di Return on Investment?

Il ROI, in italiano, viene tradotto con “Ritorno sull’investimento”, infatti indica il profitto di un investimento derivante dal capitale investito.

Cos’è il capitale investito?

Il Ritorno sull’investimento indica la profittabilità di un investimento di capitali e calcola il relativo tasso di rendimento. Per determinarlo nel modo corretto dobbiamo capire chi effettua l’investimento e, quindi, chi investe il proprio capitale, trovandoci appunto in due diverse condizioni: il capitale investito da un’azienda, oppure il capitale investito da un investitore. Se ci riferiamo ad un’azienda, quando si parla di capitale investito lo si ottiene dal totale attivo netto dell’azienda, il quale è composto dalla somma del capitale circolante e del capitale fisso. Se invece parliamo di un investitore, individuare il capitale investito è molto più semplice, poiché si tratta semplicemente del totale dei fondi destinati ad un determinato investimento.

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A cosa serve il ROI?

Il Ritorno sull’investimento serve per capire se un investimento in una determinata azienda è redditivo e profittevole. In poche parole, che rendimento otterrò se investo in una certa azienda o settore? Realizzerò un profitto o una perdita?

Il Ritorno sull’investimento mostra la risposta a questa domanda, quindi è fondamentale calcolarlo per capire se investire o non investire in quella determinata azienda o settore.

Infatti, grazie al calcolo del ROI, saremo in grado di capire l’efficienza con cui l’azienda dove andremo ad investire gestirà il nostro capitale e la sua capacità di generare reddito dall’investimento.

Teniamo bene a mente che il Ritorno sull’investimento non è l’unico indice che dovremo considerare quando decideremo di investire i nostri soldi. Infatti, non è mai consigliabile analizzare un solo indice di bilancio quando si valuta un possibile investimento. Il ROI, infatti, appartiene ad un gruppo più ampio di indicatori di redditività ed è opportuno analizzarli tutti.

In modo particolare, il ROI è interessante se accompagnato ad un altro valido indicatore di redditività, che risulta essere il ROE, Return on Equity.

Possiamo affermare che il ROI ed il ROE sono in assoluto gli indicatori più apprezzati dagli investitori, che non mancheranno di usarli per valutare la situazione della società in cui vorranno investire in modo da capire quale sia l’investimento più redditizio.

Qual è la formula del ROI e come si calcola?

Conoscere la formula del ROI e, quindi, come si calcola il Ritorno sul proprio investimento è molto importante.

Ecco, allora, la formula più utilizzata:

ROI = REDDITO OPERATIVO / CAPITALE INVESTITO NETTO OPERATIVO Per calcolare il ROI basterà dividere l’utile netto ottenuto per il capitale investito.

L’’utile netto o reddito operativo altro non è che il nostro guadagno totale al netto di tutti i costi.

Questa non è però l’unica formula che possiamo usare per calcolare il nostro Ritorno sull’investimento, infatti possiamo ottenerlo moltiplicando il ROS, Return on Sales, per il ROT, cioè il tasso di rotazione del capitale investito, oppure, altro modo, è moltiplicando il ROS per il “turnover”, cioè Vendite / Capitale investito.

Personalmente preferiamo avere una visione percentuale del risultato e, quindi, la formula del ROI che utilizziamo è la seguente:

Conosciuta ora la formula del Ritorno sull’investimento, potremo usarla per capire se il nostro investimento avrà una bassa oppure alta redditività.

Esempio di calcolo del ROI

Il metodo per capire al meglio la formula del ROI è calcolarlo e lo faremo utilizzando un esempio e mettendolo in pratica.

Ipotizziamo che il nostro capitale investito ammonti a 10.000 € e che l’utile netto ottenuto dal nostro investimento sia di 3.500 €.

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Utilizziamo la formula del ROI:

ROI = (UTILE NETTO / CAPITALE INVESTITO) x 100

Applichiamo la formula per calcolare il Ritorno sull’Investimento con i nostri dati e otteniamo:

ROI = (3.500 / 10.000) x 100 = 35%

Nel nostro breve esempio avremo, quindi, un ritorno sull’investimento pari al 35%.

Adesso sappiamo come si calcola il ROI: come facciamo però a sapere se il risultato è accettabile?

Come interpretare e valutare il ROI

Interpretare e valutare il ROI in modo corretto è importante, perché solo così potremo sapere se l’investimento in una determinata azienda sarà redditizio oppure no.

Abbiamo calcolato il Ritorno sull’investimento ed abbiamo ottenuto una percentuale chiara e definita. Ora dobbiamo tenere a mente che non tutti i settori offrono lo stesso ritorno, perciò è consigliabile confrontare società operanti nello stesso ambito e settore.

Così come per il ROE, il Ritorno sull’investimento è molto utile per confrontare due o più aziende, in modo da capire quale sia la più efficiente nell’utilizzo del capitale. Va da sé che quella con la percentuale più elevata sarà la più desiderabile. Se, per esempio, abbiamo due società che operano in un settore che ha un Ritorno sull’investimento medio del 15%, e queste ultime hanno rispettivamente un ritorno sull’investimento del 13% e del 17%, potremo dire che senza dubbio la seconda sia più performante della prima e anche della media del settore. Al contrario, la prima ha performance limitate se paragonata sia al settore in cui opera, sia alla seconda società analizzata.

Ma se il calcolo del ROI presentasse un risultato negativo?

La risposta è la conferma che un buon Ritorno sull’investimento deve dare un risultato positivo: se il Ritorno sull’investimento dovesse risultare negativo, significa allora che l’investimento non è redditizio e si stanno perdendo soldi.

Il consiglio è quello di non basare mai le proprie decisioni solo su un indice, in questo caso il Ritorno sull’investimento, ma di abbinarlo anche ad altri indici, come appunto il ROE e ROS o gli altri elencati in precedenza.

Quali sono i limiti del ROI?

Uno dei limiti del ROI è che non considera il fattore tempo, infatti il risultato ottenuto andrà annualizzato, perché un conto è fare il 35% in un anno e un conto è farlo in 6 mesi.

Per spiegarci meglio, riprendiamo l’esempio di prima: decidiamo di investire il nostro capitale di 10.000 € ed otteniamo un utile netto 3.500 € in un anno.

Il Ritorno sull’investimento è pari al 35%.

Siamo più che contenti!

Ancor di più se li ottenessimo in sei mesi, no?

Ma se investiamo sempre i nostri 10.000 € ed otteniamo un utile netto di 3.500 € in 5 anni, il ROI calcolato è comunque del 35%, noi saremmo ancora così contenti?

Il Ritorno sull’investimento, quindi, mostra il rendimento ottenuto su un investimento effettuato, ma, perché sia soddisfacente, dobbiamo calcolarlo annualizzato.

Quindi, per calcolare il ROI Annualizzato dovremmo considerare:

ROI = (ROI / tempo ottenuto in mesi) x 12

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Applicando la formula ai nostri esempi, otteniamo:

ROI 6 mesi (35% / 6 mesi) x 12 = 70%

ROI 5 anni (35% / 60 mesi) x 12 = 7%

La differenza è notevole!

Il Ritorno sull’investimento, inoltre, come tutti gli altri indici, analizzato singolarmente non può mostrare correttamente l’intera situazione economico-finanziaria di un’azienda, quindi bisogna sempre considerare e calcolare più indici quando si decide di investire in un’azienda.

Infine, il Ritorno sull’investimento non considera il fattore rischio: negli investimenti, rischio e rendimento sono strettamente correlati e maggiore è il rischio, maggiore dovrebbe essere il rendimento. Tuttavia, il calcolo del ROI non tiene in considerazione questo importante fattore, perciò bisogna prestare attenzione. Il Ritorno sull’investimento può essere ingannevole se nel calcolo dell’utile netto non vengono inclusi tutti i costi e per tale ragione, affinché il Ritorno sull’investimento sia il più veritiero possibile, è necessaria un’attenta considerazione di tutte le voci di spesa relative all’investimento preso in considerazione, poiché una dimenticanza di una o più di esse, o costi imprevisti non considerati, potrebbero far variare notevolmente il risultato e avere una conseguenza negativa per l’investimento.

ROI e ROE

Come abbiamo detto, il ROI e il ROE sono gli indici più apprezzati in fase di valutazione di un’azienda. Ma qual è la differenza tra questi due indici?

Il Ritorno sull’investimento, come ormai sappiamo, calcola il rendimento del capitale che abbiamo investito. Il capitale investito può, però, non essere esclusivamente nostro o dell’azienda: potremmo decidere di indebitarci (o l’azienda decide di non utilizzare i propri fondi) e chiedere un finanziamento con la finalità di utilizzare la somma ottenuta per il nostro investimento.

Il ROE invece, cioè il Return on Equity ovvero “ritorno del capitale proprio”, calcola la capacità del patrimonio netto (il proprio patrimonio) di generare profitti.

Se il ROI considerasse come capitale investito solo il proprio patrimonio, allora sia il Ritorno sull’investimento che il ROE otterrebbero lo stesso risultato. Nella maggior parte dei casi, tuttavia, ROI e ROE presentano risultati differenti e questo possiamo rilevarlo tramite un esempio.

Ipotizziamo di acquistare un immobile a 100.000 € (il nostro investimento) e di rivenderlo a 140.000 €.

ROI = (40.000 / 100.000) x 100 = 40%

Se dei 100.000 € necessari per acquistare inizialmente l’immobile 30.000 € fossero stati nostri, allora:

ROE = (40.000 / 30.000) x 100 = 133%

Il ROE può risultare infinito, in quanto si possono effettuare investimenti anche apportando pochissimi capitali propri e sfruttando i capitali di terzi soggetti. Ovviamente, meno si investe con propri capitali, meno si rischia. Generalmente l’investitore intelligente è colui che cerca di ottenere il massimo rendimento e, come spesso si può notare, meno si investono i propri capitali e più si guadagna.

ROI e ROE sono quindi essenziali per capire una cosa fondamentale per l’investitore:

“quanto sta fruttando l’investimento? Sta generando guadagni o siamo in perdita?”.

Questi due indici di reddito dovranno sempre accompagnarci nelle nostre analisi e considerazioni.

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A questo punto dovremmo aver compreso il significato del ROI, come calcolarlo e come valutarlo e, soprattutto, dovremmo aver raggiunto la convinzione che durante la valutazione dei nostri investimenti non debba mai mancare il calcolo del ROI, uno degli indici più importanti da considerare, senza però dimenticarci che non va mai analizzato singolarmente. Il Ritorno sull’investimento, infatti, non è un termine assoluto, quindi, dev’essere interpretato ed analizzato insieme ad altri indici e fattori: il consiglio, poi, è di calcolarlo con la formula del ROI annualizzato.

Il ROI è anche un ottimo indicatore per paragonare differenti aziende operanti nello stesso settore, scegliendo e prediligendo sempre l’azienda con il ROI più elevato.

Ora, grazie al Ritorno sull’investimento, saremo sicuramente in grado di scegliere tra le varie opportunità di investimento e decidere quale sarà la migliore per le nostre esigenze.

2.5.2. ROE

Quando si parla di investimenti viene spesso nominata la parola “ROE”, Return on Equity, un indice di bilancio molto importante che serve per misurare la redditività di un’azienda, o meglio, che serve a misurare la capacità del patrimonio netto di generare dei profitti.

La traduzione di Return on Equity in italiano è “ritorno del capitale proprio” e può essere considerato come una sintesi dell’economicità complessiva. Il ROE indica, infatti, la redditività complessiva di un’azienda o di un investimento e misura, appunto, la capacità del patrimonio netto di generare dei profitti.

Il Return on Equity è utile all’investitore per verificare il tasso di remunerazione del capitale conferito a titolo di rischio e viene usato per calcolare quanto rende il capitale investito in una determinata azienda. Serve, inoltre, a valutare se il management di un’azienda è stato efficiente gestendo e sfruttando al meglio i capitali per aumentare gli utili aziendali.

Possiamo affermare che il ROE sia il miglior indicatore per valutare la redditività di un’azienda e, quindi, capire se l’investimento sarà profittevole o meno: è l’indice che prende in considerazione la profittabilità.

Qual è la formula del ROE e come si calcola il ROE?

Calcolare il ROE è semplice e lo possiamo fare utilizzando la seguente formula:

ROE = (UTILE NETTO / PATRIMONIO NETTO) x 100

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Per ottenere il Return on Equity dovremo dividere l’utile netto per il patrimonio netto (o capitale proprio) e poi moltiplicare per 100.

Il risultato che abbiamo ottenuto sarà in percentuale e ci mostrerà l’efficienza con cui il management gestisce il capitale e genera profitto. Sarà molto utile calcolarlo e confrontarlo con le società competitor.

Come capisco se il risultato è soddisfacente?

Più sarà elevato il risultato che otterremo e meglio sarà.

Il Return on Equity può essere inoltre calcolato anche con le seguenti formule:

ROE = ROI x leverage x IGNC ROE = ROA x ME

L’IGNC indica l’incidenza della gestione non caratteristica che si ricava con il rapporto tra reddito netto d’esercizio (ovvero il risultato della gestione nel periodo considerato al netto delle imposte) e risultato operativo.

Il risultato del rapporto sarà maggiore di 1, cioè il reddito netto d’esercizio sarà maggiore del risultato operativo, quando il risultato della gestione non caratteristica (accessoria, finanziaria e straordinaria) è positivo, ovvero fa aumentare il reddito dell’impresa; invece sarà minore di 1, cioè il reddito netto d’esercizio sarà minore del risultato operativo, quando il risultato della gestione non caratteristica (accessoria, finanziaria e straordinaria) è negativo, ovvero fa diminuire il reddito dell’impresa.

IGNC = risultato netto di esercizio / risultato operativo

Con il temine leverage si indica, invece, la leva finanziaria o rapporto d’indebitamento e consiste nel contrarre debiti con lo scopo di aumentare il profitto: è un indicatore utilizzato per misurare l’indebitamento di un’azienda. In economia aziendale significa l’uso di capitali di terzi a fine di finanziamento, mentre in finanza aziendale identifica la scommessa di poter ottenere attraverso un reinvestimento di capitali prestati un rendimento maggiore delle condizioni del prestito.

Per verificare che ci sia un corretto rapporto nell’ambito delle fonti di finanziamento si può ricorrere al calcolo della leva finanziaria secondo la seguente formula:

LEVA = (capitale proprio + capitale di terzi) / capitale proprio = totale passività (impieghi) / capitale proprio

▪ Se la leva finanziaria assume valore pari a 1 significa che l’azienda non ha fatto ricorso a capitale di terzi (non ha debiti).

▪ Se la leva finanziaria assume valori compresi fra 1 e 2 significa che il capitale proprio è maggiore del capitale di terzi.

▪ Se la leva finanziaria assume valori superiori a 2 significa che il capitale di terzi è maggiore del capitale proprio.

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Non esiste un unico modo per valutare in senso assoluto la salute di un’azienda in base al suo rapporto d’indebitamento, ma si può genericamente affermare che, in media, se il rapporto assume valori compresi fra 1 e 2, l’impresa è in uno stato di corretto equilibrio nell’ambito delle fonti di finanziamento, mentre se il rapporto assume valori superiori a 2, l’impresa è da considerarsi sottocapitalizzata (capitale proprio insufficiente), per cui occorre effettuare un processo di ricapitalizzazione (aumento del capitale di rischio, cioè emissione di azioni). La formula classica è spesso data dal rapporto fra il solo capitale di terzi e il capitale proprio.

Esempio di calcolo del ROE

Abbiamo visto la formula utilizzata per calcolare il ROE, ora mettiamola in pratica.

Ipotizziamo di voler investire in un’azienda quotata in borsa, società “Alfa”.

Analizziamo il relativo Conto economico della società Alfa, dal quale risulta un utile netto di 60.000 €. Questo dato ci indica il numeratore della formula che andremo ad utilizzare per calcolare il ROE.

Troviamo ora il denominatore nello Stato patrimoniale, che rileviamo nel patrimonio netto, ipotizzato in 500.000 €.

Sostituiamo i dati che abbiamo appena trovato nella formula del ROE ed avremo:

ROE = (UTILE NETTO / PATRIMONIO NETTO) x 100 che diventa:

ROE = (60.000 / 500.000) x 100 = 12%

Nel nostro esempio avremo, quindi, un Return on Equity del 12%, potendo così affermare che il denaro investito nella società Alfa rende il 12%.

Come interpretare e valutare il ROE

Dopo aver calcolato il Return on Equity, come possiamo ora sapere se il risultato ottenuto è soddisfacente oppure no? Innanzitutto, possiamo dire che un risultato positivo mostra che l’azienda sta creando ricchezza e, quindi, valore. Se il risultato è uguale a 0, la società non sta creando valore, ma nemmeno distruggendo ricchezza. Se, invece, il risultato sarà negativo, l’azienda è in perdita e sta distruggendo ricchezza.

ROE > 0 l’azienda sta creando ricchezza

ROE = 0 l’azienda non sta creando/distruggendo ricchezza ROE < 0 l’azienda sta distruggendo ricchezza

Pur essendo scontato scegliere di investire in una società con un ROE positivo, comunque ci chiederemo: come possiamo capire quando il Return on Equity ha dato un buon risultato?

Dobbiamo partire dal presupposto che non c’è una percentuale prestabilita e il risultato che otteniamo deve essere interpretato e valutato confrontandolo con altri parametri.

Considerando il livello di inflazione che, come dichiarato dalla BCE, nei prossimi anni dovrebbe essere del 2%, consigliamo di tenere il 2% come parametro minimo.

Qual è il miglior confronto?

Sicuramente è consigliabile confrontare due o più società operanti nello stesso settore, in modo da capire quale sia la più redditizia. Nel caso in cui non fosse possibile fare un paragone con altre società o prendere come riferimento il Return on Equity medio del settore, dovremo allora valutare il premio al rischio.

Che cos’è il premio al rischio?

Il premio al rischio non è altro che la differenza tra i cosiddetti “investimenti risk free”, privi di rischio, e il Return on Equity che offre l’azienda. Quando effettuiamo un investimento, corriamo un rischio e ci aspettiamo di ricevere un rendimento sicuramente maggiore ad un investimento privo di rischio e proporzionale al rischio corso. Se così non fosse, con il Return on Equity inferiore al rendimento di un investimento risk free, non avremmo convenienza ad investire in certa specifica società.

In definitiva, possiamo affermare che maggiore sarà il premio al rischio e migliore sarà il rendimento del nostro investimento.

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Quali sono gli investimenti risk free o privi di rischio?

Solitamente vengono considerati investimenti privi di rischio i titoli di Stato, come ad esempio i CCT (Certificati di Credito del Tesoro), che sono titoli di Stato a medio-lungo termine di durata settennale, o i BOT (Buoni Ordinari del Tesoro), che sono un’obbligazione zero-coupon, cioè un titolo senza cedola, di durata minore o uguale ai 12 mesi.

Dobbiamo precisare che questi investimenti vengono definiti privi di rischio, ma in realtà non lo sono. Infatti, è molto difficile che uno Stato non paghi e dichiari default, ma non è certo impossibile: l’Argentina ne è stato, purtroppo, un tragico esempio.

Quali sono i limiti del ROE

Il Return on Equity è un indice molto usato ed apprezzato, ma non possiamo pensare che analizzato singolarmente sia sufficiente a darci tutte le informazioni di cui abbiamo bisogno.

È, infatti, molto importante abbinarlo agli altri indicatori di redditività, quali il ROA, il ROS, il ROI, L’EBITDA e L’EBIT.

Il Return on Equity, da solo, non permette di avere una visione completa della società e della sua situazione creditizia, debitoria e di redditività. Il Return on Equity, infatti, non fornisce informazioni sulla situazione debitoria della società e, quindi, non saremo in grado di capire se l’alto profitto dipende appunto da un alto indebitamento, oppure è sorretto dall’azienda stessa. È inoltre importante sapere che il ROE si alza all’aumentare dell’indebitamento e questo raramente è una buona notizia per l’investitore.

Altro limite del Return on Equity è legato alle svalutazioni o ai buyback, poiché non considerandoli nel calcolo, determina il fatto che i minori guadagni non si vedranno subito, ma solo nel periodo successivo, alterando così il giudizio complessivo sull’effettiva redditività dell’investimento.

ROE e ROI: qual è il migliore?

Come abbiamo già detto, il Roe non è l’unico indice da considerare e calcolare, occorrendo analizzarlo con altri indici.

Torniamo però alla differenza con il ROI.

Il ROI, ricordiamolo ancora, è “il ritorno dell’investimento” ed indica semplicemente il profitto che si ottiene dall’investimento di un determinato capitale.

Quindi, sono la stessa cosa?

Ebbene no, perché il ritorno del capitale proprio calcola appunto la capacità di generare profitti investendo solo il proprio capitale: il ROI, invece, calcola la percentuale di profitto calcolando il capitale investito in totale.

Se, ad esempio, decidiamo di acquistare casa per cercare poi di rivenderla ad un prezzo più elevato, potremmo partire da un investimento iniziale per l’acquisto di 100.000 €, di cui 20.000 € sono soldi già in nostro possesso, mentre 80.000 € li otteniamo con il mutuo. Se rivendiamo l’immobile a 130.000 €, otteniamo un utile di 30.000 € (per semplificare, non consideriamo i vari costi del mutuo, ecc.).

Come calcoleremo il ROE in questo caso?

ROE = (30.000 / 20.000) x 100 ROE = 150%

Il ROI, invece, è così determinato:

ROI = (30.000 / 100.000) x 100 ROI = 30%

In conclusione, possiamo ben affermare che il Return on Equity è un indice molto importante in grado di dare un grande aiuto nella scelta degli investimenti, in quanto indica appunto la redditività dell’azienda, ma non è comunque un termine assoluto e che, come abbiamo visto, va ben interpretato e valutato.

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2.5.3. ROS

L’indice ROS, cioè Return on Sales, è uno degli indici di bilancio più conosciuti ed utilizzati per misurare la redditività delle vendite. Viene utilizzato per valutare se un investimento in una determinata società o in un ipotetico investimento possa essere conveniente o meno.

Il ROS viene letteralmente tradotto con Ritorno sulle Vendite, ma più correttamente corrisponde a Redditività delle Vendite, ed indica i ricavi che un’azienda (o un investimento) genera dalle vendite.

A cosa serve il ROS?

Come abbiamo già accennato, il ROS o Return on Sales è un indicatore di redditività molto utilizzato per valutare la profittabilità di un’azienda. Esso viene utilizzato per capire se una società è in grado di generare dei prezzi di vendita che siano remunerativi e che, dedotti tutti i costi, portino dei profitti all’azienda. In questo modo l’investitore saprà se l’impresa è in grado di generare del reddito grazie alle vendite e, quindi, se è conveniente investirci oppure no. Sembra una cosa scontata, ma non lo è affatto. Spesso, infatti, capita, specialmente nelle start up, che un’azienda non riesca a generare del reddito dalle sue vendite fin da subito, anzi è proprio naturale che nei primi anni un’azienda possa non generare profitti. Se non si utilizzassero appositi indicatori non saremmo in grado di valutare la profittabilità o meno di un’azienda, soprattutto se questi indicatori non considerano anche i tempi di sviluppo dei progetti. Si pensi ad Amazon, che venne fondata nel 1994, e vide i suoi primi utili solo nel 2001, dopo ben sette anni di perdite. Se avessimo investito nel 1995, noi avremmo aspettato tutti quegli anni? È chiaro che serviva un indicatore di valutazione appropriato al settore e ai tempi di sviluppo per permettere all’investitore di fare le opportune analisi.

Tornando allora al nostro Return on Sales, esso può essere impiegato per fare dei confronti sia interni all’azienda che esterni, che distinguiamo in due tipi.

▪ Temporale, dove vengono messi a confronto i risultati ottenuti dalla stessa società in periodi differenti; nelle grandi aziende questo confronto avviene con cadenza trimestrale, in modo da analizzare l’andamento se positivo o negativo.

▪ Comparativo, in questo caso i risultati ottenuti dall’azienda che stiamo analizzando vengono messi a confronto con altre aziende operanti nello stesso settore o benchmark di riferimento.

Qual è la formula del ROS? Come si calcola?

La formula del ROS è semplice ed immediata, infatti altro non è che il rapporto tra il Reddito Operativo ed i Ricavi di Vendita (o fatturato) conseguiti in un determinato periodo di tempo.

Il reddito operativo (o EBIT) è semplicemente l’utile prima di calcolare interessi e tasse.

Il risultato verrà espresso in percentuale, quindi il valore risultante dal rapporto andrà moltiplicato per 100.

La formula del nostro Ritorno sulle vendite sarà, quindi:

ROS = (REDDITO OPERATIVO / RICAVI DI VENDITA) x 100

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Esempio di calcolo del ROS

Ipotizziamo di volere investire in un’azienda che ha un reddito operativo di 250.000 € e i cui ricavi derivanti dalle vendite siano di 1.200.000 €.

Quale sarà la nostra Redditività delle Vendite?

Utilizzando la formula:

ROS = (REDDITO OPERATIVO / RICAVI DI VENDITA) X 100 avremo:

ROS = (250.000 / 1.200.000) x 100 = 20,8%

Come possiamo vedere, l’azienda ha un Return on Sales del 20,8%, il che semplicemente significa che per ogni 100 € di fatturato la società genera un ritorno di 20,8 €.

Ipotizziamo che la stessa azienda, trascorso un anno, sia riuscita a raddoppiare le vendite e quindi i relativi ricavi, passando da 1.200.000 € a 2.400.000 €. Di conseguenza, anche il Reddito Operativo è cresciuto ed è passato da 250.00 € a 340.000 €.

Decisamente interessante!

Se, però, andiamo a calcolare il nostro ROS, vedremo che la redditività dell’azienda è calata:

ROS = (340.000 / 2.400.000) x 100 = 14,1%

Il nostro ROS è passato da un 20,8% ad un 14,1%.

Come interpretare il Return on Sales?

Adesso che siamo in grado di calcolare il nostro Return on Sales, non ci resta che capire come interpretarlo, in modo da analizzarlo correttamente:

▪ se il ROS > 0 possiamo affermare che l’azienda che stiamo analizzando è efficiente, capace di sostenere i costi e generare del reddito;

▪ se il ROS = 0 la società è in grado di coprire i costi, ma non di generare reddito;

▪ se il ROS < 0 la società è in crisi e le vendite non riescono a coprire i costi e nemmeno a generare reddito.

Come abbiamo detto in precedenza, il ROS deve essere utilizzato per fare dei confronti e paragoni, nel tempo o nello spazio.

Spazio

Se ci basiamo sull’esempio precedente, vediamo che l’azienda ha una Redditività sulle Vendite pari al 20,8. Ipotizziamo che le aziende dello stesso settore, o benchmark di riferimento, abbiano una redditività media del 16%. In questo caso possiamo affermare che la nostra società ha una redditività superiore ai suoi competitor e che, quindi, sia più appetibile ed interessante come possibile investimento. Al contrario, se prendiamo come riferimento il risultato ottenuto nell’anno successivo, cioè il 14,1%, ed ipotizzando che la redditività media dei competitor si sia mantenuta su una media del 16%, possiamo affermare che la società ha una redditività inferiore ai suoi concorrenti. In questo caso la nostra azienda è meno desiderabile e non sarebbe intelligente investirci.

Tempo

Anche in questo caso ci baseremo sull’esempio visto in precedenza, ma non effettueremo una comparazione nello spazio con altre aziende, bensì temporale, mettendo a confronto la Redditività delle Vendite aziendale in diversi periodi e creando uno storico di performance.

Nel nostro esempio, possiamo vedere che i ricavi sono aumentati da 1.200.000 € a 2.400.000 €, mentre il Return on Sales è passato dal 20,8% al 14,1%.

È molto facile notare che l’azienda è riuscita ad aumentare il fatturato, ma a quale prezzo?

L’azienda ha dovuto abbassare i propri margini e questo la renderà meno desiderabile agli occhi di un possibile investitore.

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