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Il cappello di paglia di Firenze!

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Academic year: 2022

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Istituto Comprensivo Manzoni - Baracca Firenze

Scuola Media A. Manzoni

Un progetto su di una tipologia di lavoro tradizionale del passato, con la consulenza del

Cav. Alvaro Biagiotti e del Sig. Marco Conti.

con la collaborazione del

Museo della Paglia e dell’Intreccio Domenico Michelacci di Signa con il Prof. Roberto Lunardi e della Dott.ssa Emirena Tozzi:

Il cappello di paglia di Firenze!

Disegno di Tommaso D. Le trecciaiole

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Presentazione

Peretola e le trecciaiole, un binomio che sembrava eterno, nonne, madri e figlie da generazioni erano coinvolte da questa attività, che si svolgeva spesso in gruppi di cinque dieci donne, nelle corti, per strada, nelle piazze.

Tutti i giorni, alla stessa ora, le donne si mettevano in cerchio, la paglia era accomodata, pronta per la treccia e i bambini nel mezzo a giocare. Si parlava, si discuteva, a volte ci si accalorava per le storie e i problemi che qualcun’esponeva, ma che poi erano di tutte, di tutti i giorni. Il marito era in cerca di lavoro, il cognato aveva bevuto un po’ troppo, la sorella aveva da finire il corredo, il figlio era partito per il militare, la suocera cercava una casetta... senza pretese... a pigione...

Qualcuna poi, nel gruppo, si metteva a parlare a tutte: era il momento del racconto... e dopo gli scoppi di risa, improvvise, contagiose, al punto da mettere allegria anche ai bambini, che nel cerchio delle gonne, si trastullavano in terra con la paglia e con qualche

gallina curiosa.

Nel pomeriggio c’era da dare la merenda ai bambini e qualcuna portava il pane con olio e sale, oppure il pane con la marmellata, per le ricorrenze i biscotti con le mandole. Per le trecciaiole, c’era il fiasco con il vinello frizzante, per l’estate, i roventini per l’autunno e le bruciate per l’inverno;

a volte, ma solo a volte, un pezzo di castagnaccio da dividere tra tutti.

Le stagioni passavano e così gli anni; quello che sembrava immutabile cambiò, tra l’incredulità e la rabbia; la treccia cominciò ad arrivare da altre

regioni e costava meno. I commercianti preferirono premiare il prezzo, più che la qualità, adesso potevano avere altre fonti di approvvigionamento, certamente più convenienti... le trecciaiole non erano certo più indispensabili! I cappelli venivano più brutti, ma il prezzo era conveniente e poi...

Le trecciaiole iniziarono le agitazioni e dopo qualche tempo, gli scioperi... disperati, rabbiosi... da una parte i commercianti e i proprietari delle fabbriche, dall’altro le donne, unite, solidali; erano guidate dalla Baldissera e da altre compagne. Dopo una serie di proteste e agitazioni ottennero molte promesse, qualche risultato economico e diversi anni di galera.

I tempi erano però alla fine: dalla Cina e dal Giappone cominciarono ad arrivare i rotoli di treccia, anche già colorata, a prezzi stracciati. Le trecciaiole subirono il primo contraccolpo, poi cominciarono a chiudere le fabbriche di cappelli, prima quelle artigianali, poi le grandi: La concorrenza delle trecce e dei cappelli d’importazione non era sostenibile, la paglia di riso era anche migliore; entrambi i contendenti non avevano più un futuro, entrambi avevano perso. Rimaneva solo il mercato interno, ma non era un granché. Le macchine furono smontate e imballate, spedite in Giappone e in Cina, dove la produzione continua ancora.

Oggi, di quel tempo, rimangono solo i ricordi e poche foto sbiadite, che le nonne conservano riposte in scatole di cartone, legate con un nastrino colorato, nei loro cassettoni che sanno di spigo e di vita vissuta.

Prof. Carlo Chiari I biscotti con le mandorle! Di A. Sara e di nonna Emilia.

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Conoscenza dell’ambiente socio economico di Peretola, nel passato.

Il territorio della zona dell’attuale Quartiere 5 ha subito nel xx secolo una profonda trasformazione: da territorio prevalentemente agricolo con al centro i borghi di Peretola-Petriolo e Brozzi è oggi diventato parte integrante del tessuto urbano di Firenze. All’inizio del secolo le sole vie principali erano quelle dell’antica via Pistoiese (oggi via di Brozzi e via di Peretola) e della via Pratese, la quale aveva già più o meno l’attuale tracciato, che si diversificavano in molte altre vie una volta entrati negli antichi borghi. Questi erano circondati da campi, molti e abbastanza

piccoli, in cui si praticava la mezzadria, dove un grande proprietario terriero condivideva la stessa casa con gli affittuari che coltivavano i campi. Questi ultimi erano ben coltivati di forma rettangolare, in direzione nord-sud ed erano attraversati da fossi per facilitare il deflusso delle

acque. I campi erano grandi circa 1000 mq; la coltura principale era la semina stagionale, tra queste il grano da paglia.

Tutti i campi erano circondati da viti, mentre negli orti adiacenti alle case erano presenti alberi da frutto. Infatti da questa agricoltura si ricavavano granaglie, legumi, patate, rape, pere, fichi, uva e paglia.

Al centro di questa zona agricola si trovano il borgo di Brozzi e la borgata di Peretola-Petriolo.

Figura 1Il Palazzi!

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4 Via Vespucci, prima che il fosso fosse coperto, disegno di Tommaso D.

L’elemento più caratteristico della nostra zona sono le corti.

LE CORTI

Nella zona di Peretola ci sono moltissime corti e ognuna di esse ha un’origine.

Le denominazioni delle corti non sono registrate: i nomi, tramandati oralmente, rappresentano un uso comune che risale all'antichità più remota. Quelle che ci riguardano sono per lo più di derivazione ottocentesca. I toponimi di queste possono avere varie origini: quando non ricordano caratteristiche ambientali, derivano dalla professione o da un soprannome di un antico abitante del luogo.

CORTE DEL BARELLAIO (Via di Peretola)

In questa corte abitava un artigiano che riparava occhiali, chiamati "barelle" dai vecchi peretolini.

LA CORTE DI BUCOSECCO (Via della Cupola)

Il soprannome “Bucosecco” vuole indicare una persona magra alla quale si da il termine buco. È quasi certo quindi che il signor Bucosecco abitò in questa corte.

CORTE DEI 500 (Via Domenico Michelacci, interno da 22 a 32)

Così detta per le sue grandi dimensioni e per alcune somiglianze al salone del 500 in Palazzo Vecchio.

Questa corte è l'unica del quartiere costruita come tale, le case che vi si affacciano sono dei secoli XIV- XV, non abbiamo buone ragioni per considerare l'insediamento molto più antico.

CORTE DETTA LA CORTACCIA (Via di Peretola)

Questa corte è derivata dalla degradazione e dal frazionamento, in più abitazioni di una notevole "casa da signore" XV.

Infatti la corte altro non ha che il cortile della casa.

Peretola, Brozzi e Campi: Iddio li fece e poi gettò gli stampi.

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5 La grande apertura di accesso originariamente era più piccola per poter rendere più intimo e riservato l’ambiente. La denominazione di cortaccia deriva dalla presenza di qualche disonesto o rissoso.

LA CORTE DETTA GUSCIANA

Il nome di questa corte potrebbe derivare dalla sua forma (a guscio), o dal fatto che in passato vi abitarono famiglie il cui lavoro era il ladro. In quel caso si avrebbe una malfamata Gusciana in San Frediano, distrutta nel periodo fascista.

TOPONIMI DELLE ZONE

Come tutte le altre zone anche i nomi di Pozzino, Motrone, la nave, Peretola, Pesciolino, Petrolio, Piagge e Ponte grande, che sono quelli di tutte le zone principali in cui è divisa Peretola, hanno un loro significato:

- Il nome di Peretola deriva dall’abbondanza di peri in questa zona; sembra confermato da alcune famiglie originarie del luogo;

- La zona Pesciolino è chiamata così perché indica la zona antistante all’Arno.

- Il nome Petriolo risale al periodo Longobardo, ed è possibile che derivi da “piccolo pretorio”, dal diminutivo di Pietro o da una pietra miliare

- Il Motrone è un borgo in appendice alla Via di Peretola.

- La nave rappresenta i traghetti sull’Arno; è situata al termine di San Biagio a Petriolo.

- Pozzino vuol dire la presenza di un piccolo pozzo di Via in Peretola.

Le sciabbie è un borgo originario di Petriolo. Il nome “sciabbia” si pensava venisse dato ai luoghi di natura.

Dal libro ‘900 prodotto dalla scuola Manzoni nel 2004, autori:

1) Lannino Fabio, Lannino Stefano, Costa Elisa, Gambacciani Sara: “Come ci si vestiva” e “Dal teatro al cinema”

2) Francioli Sara, Fabrizi Mattia, Abate Elena, Mecocci Beatrice.: “Come si mangiava, come ci si comportava in famiglia, a scuola e nella società”.

3) Forti Clelia, Volpe Elena. “Le principali attività lavorative, dall’artigianato all’industria”.

4) Cellai Dario, Bellesi Loris, Miniati Lorenzo, Bartolomeo Simona: “Urbanistica e trasporti”.

5) Nuti Niccolò, Romiti Francesco, Siriu Sebastian. “La guerra al fronte”. E “Le guerre nei ricordi degli anziani”.

6) Siriu Sebastian e Nuti Niccolò. “L’economia moderna”.

7) Shao Lei, Zhang Giulio, Hagos Vittorio, Borselli Matteo: “I giochi antichi ancora praticati: calcio in costume, scoppio del carro, rificolona. Giochi dell’900: il calcio (storia della fiorentina) e altri sports.

Giochi in famiglia: tombola, ballo, mercante in fiera.

Da una proposta degli insegnanti Di Quarto e Chiari

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Il Cappello di paglia di Firenze!

A Peretola, Brozzi e Campi, fin verso l’empolese, in ogni località, specie nelle corti, si vedevano gruppi di donne che facevano la treccia: le loro mani lavoravano veloci per intrecciare i fili. Lo sguardo era fisso sul lavoro, chi faceva la treccia più fine riusciva a spuntare un prezzo un po’

maggiore e non tutte ci riuscivano...

La paga era scarsa e le necessità familiari molte: era necessario produrre il manufatto tutti i giorni per diverse ore per avere un reddito sufficiente. Ci si organizzava portando le sedie impagliate da casa e mettendole in cerchio, poi le amiche si mettevano a lavorare e a chiacchierare; almeno si stava in compagnia!

Ogni tanto passava un incaricato con il barroccio a distribuire la paglia e più tardi a ritirare i rotoli di treccia. Si segnava chi l’aveva fatta e la qualità; in seguito le trecciaiole sarebbero state pagate...

I barrocci e i carri andavano avanti e indietro, portavano paglia, treccia, cappelli e molte altre merci, le strade erano sterrate, ma ben tenute, gli stradini badavano che tutto fosse a posto:

chiudevano le buche, tagliavano l’erba e le frasche dai bordi.

Spesso si doveva attraversare l’Arno, sia quando era in secca, come d’inverno con l’acqua più alta.

Il guado era vicino al ponte all’Indiano, ma questo, ancora, non c’era. C’era però un traghetto, una chiatta di legno che lentamente attraversava il fiume, vi salivano persone, carri e animali e venivano trasbordati sull’altra riva. Il proprietario di questa nave si chiamava Carlino.

Foto di Carlino, per gentile concessione del Comitato del Borgo

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Aveva tirato un filo di acciaio da una riva all’altra dell’Arno e con una pertica si aiutava nello spostare il traghetto; la infilava nell’acqua e la spingeva sul fondo del fiume, la chiatta si muoveva lentamente verso l’altra riva. Il lavoro era sempre lo stesso. Le persone no, passavano da una parte all’altra per varie necessità, eppure erano tutte conosciute, come i contadini che andavano al mercato, i carrettieri che trasportavano le merci e i barrocciai che distribuivano la paglia e la treccia. Anche questi erano sempre soli nel loro lavoro e cercavano sempre di discorrere un po’ con Carlino. Si ragionava di sport, di Binda, di Guerra, di Bartali, di un certo Carnera che in America..., ho sentito dire che..., oppure del tempo, della siccità estiva o le piogge autunnali... oppure della semina ... quest’anno per la vendemmia sarà bene iniziare in anticipo che...

Carlino invece preferiva guardare il fiume, le onde che il traghetto provocava nell’acqua limacciosa o la riva sabbiosa dove tra poco si sarebbe arenato. La gente sarebbe scesa e poi, nuovamente altre persone, carri e merci sarebbero saliti ... poche decine di lire... e ancora nel fiume...

Ho sentito dire della marcia su Roma... diceva un altro... sarà un bene?

Mah! Era partito in bicicletta anche mio cognato Pietro, di Capraia, con due amici... ma li hanno riportati a casa con un barroccio: si erano fermati a bere all’osteria e allora...

Carlino rispondeva con un cenno della testa, con un eh già! o un mah! Aveva un carattere taciturno, i fattorini che portavano la paglia lo sapevano bene e tra loro dicevano che preferiva parlare con i pesci o con le rane più che con gli altri umani!

Il traghetto di Carlino per gentile concessione del Comitato del Borgo

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Conoscenza dell’indotto: coltivazione del grano da paglia, progettazione e costruzione dei macchinari.

L’attività delle trecciaiole permetteva un notevole indotto, con conseguenti benefici economici per tutta la regione.

Questo fenomeno era presente anche nell’empolese, dove era prodotto da molto tempo un contenitore “usa e getta”: il fiasco.

Nella zona di Peretola si coltivava il

grano da paglia, una varietà oggi probabilmente estinta, chiamato grano marzolino, che aveva la caratteristica di avere gli steli molto lunghi. Questo cereale era seminato tardi, dopo il grano da panificazione, e raccolto poco prima che la spiga fosse completamente matura. La granella, ancora a maturazione cerosa, era destinata principalmente, all’alimentazione degli animali.

Le operazioni colturali iniziavano in autunno, con la preparazione del terreno alla semina. I contadini aggiogavano i buoi e iniziavano l’aratura. Era un lavoro duro, per l’uomo e per gli animali; i terreni argillosi, vocati alla coltivazione del grano, richiedevano un grosso impegno per affondare l’aratro e rivoltare le zolle.

Il Cav. Biagiotti

2Il grano Marzolino

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La sera i buoi, affaticati, tornavano volentieri nella stalla, erano stanchi, cosi come gli agricoltori.

Talvolta si doveva arare due volte lo stesso campo, incrociandone i solchi: l’aratro era di legno, aveva solo la lama anteriore in ferro, non si poteva scendere a più di 15 cm di profondità

perché si poteva rompere. Per questo motivo i campi avevano la forma squadrata; una forma che ancora oggi conservano. Ancora in autunno si faceva l’erpicatura per

rompere le zolle, e poi la semina, a spaglio, fatta a mano, magari da un agricoltore anziano che avesse molta esperienza.

Subito dopo il seme andava ricoperto; i buoi trascinavano la trave con le catene sopra il terreno per nascondere

la granella ai passerotti: le piogge autunnali avrebbero permesso la germinazione.

L'aratura, disegno di Tommaso D.

La semina a spaglio, disegno di Tommaso D.

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A Maggio ci si preparava alla raccolta e a turno, i contadini giravano per i poderi aiutandosi a vicenda in questo duro lavoro. Anche le donne e i ragazzi dovevano collaborare, la maestra di

casa e le bambine preparavano i biscotti con le mandorle e il vinello per chi lavorava piegato sotto il sole.

La raccolta era da eseguirsi con attenzione: le mani prendevano gli steli alla base, senza piegarli troppo e poi si strappavano, sradicandoli dal terreno, le radici venivano ripulite dalla terra e si affastellavano. Questa tecnica era necessaria: la paglia doveva appassire lentamente! Ci metteva una settimana: di giorno al sole e la notte al freddo e alla guazza, in questo modo la fibra si ammorbidiva e rimaneva flessibile.

Chi fa il male guadagna un carro di sale, chi fa il bene un carro di paglia!

La ricetta dei biscotti con le mandorle

500 grammi di farina tipo “00”

100 grammi di farina di mandorle 250 grammi di zucchero

150 grammi di burro 4 uova 100 grammi di mandorle

Un pò di buccia d’arancia grattugiata Mezzo bicchiere di latte

1 bustina di lievito 1 bustina di vanillina

Un pizzico di sale

Sbattiamo le uova e aggiungiamo lo zucchero, si lavora un pochino e poi si aggiunge il burro.

Poi, piano piano, si aggiunge la farina, il latte, il lievito, la vanillina, la farina alle mandorle, la buccia di arancia grattugiata e un pizzico di sale.

Appena tutto l’impasto è uniforme si spiana il tutto e poi, con la forma che vogliamo, creiamo dei biscotti.

Per ogni biscotto si mette una o due mandorle sopra e si mettono in forno a 180° gradi per 20 minuti circa (se necessario più o meno tempo, secondo il tipo di forno)

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Un’intervista a nonna Graziana di Asia C

Un po’ di anni fale donne si vestivano diversamente rispetto ad adesso, indossavano solo gonne, e non esistevano le calze. Andavano con le ginocchia scoperte anche d’inverno, usando solo dei calzini più lunghi. Usavano anche alcuni accessori, il più importante era il cappello di paglia. Questi venivano usati da tutti, a partire dai contadini fino ad arrivare alle persone più nobili. La paglia veniva seminata come il grano; ne veniva questi frustini scuri, che infine imbiancavano mettendoli al sole, dopo si raccoglievano in mazzetti e si intrecciavano a mano.

La mia bisnonna faceva i cappelli di paglia: prima prendeva le trecce paglia che potevano essere a tre, nove e addirittura a tredici fili, poi con l’ago le cuciva insieme e via via faceva il cappello che poteva essere a tesa larga o più piccola.

Oltre a cappelli con la paglia si facevano anche altri oggetti come borse, vestiti e orecchini. Questi si facevano con lo stesso metodo dei cappelli, cioè cucendo le trecce tra loro. I cappelli di paglia erano fatti soprattutto nella zona fiorentina, un altro posto prestigioso era Signa. Poi però negli anni successivi nacquero le fabbriche, quindi a lungo andare si perse quest’uso di fare i cappelli a mano.

Intervista sulla paglia alla nonna di Sara di Sara U.

Mia nonna andava a scuola con un grembiule bianco con ricamato a sinistra il suo nome e un fiocchetto al collo; aveva una cartella di cartone molto resistente e un paniere di vimini con dentro la merenda: pane e mortadella.

Andava a scuola a piedi con la sua mamma attraversando il ponte del Bisenzio ed era molto brava particolarmente ad italiano e a ripetere le poesie. Il pomeriggio, dopo i compiti, faceva le trecce di paglia che poi venivano cucite, insieme, a macchina, formando i cappelli di paglia. Fatto il cappello lo rifiniva con delle pagliette, dei nastri o dei fiocchetti per le donne. Per gli uomini, sulla tesa veniva messo un nastro groghè: un nastro fatto di stoffa colorata adeguata al cappello. Alla fine si toglievano tutti i fili in più che c’erano e così si rifiniva. La sbiancatura della paglia avveniva così: si metteva in una cassa chiusa con i vapori di zolfo e dopo qualche tempo era pronta.

Alla fine il cappello era messo in delle scatole e portato, da un corriere, alle ditte fiorentine e italiane ed anche all’estero.

Venivano venduti in dei negozi in centro a Firenze. I cappelli di paglia venivano usati abitualmente dai fiorentini. I turisti, invece, li compravano e li portavano in casa, ne andavano fieri ed era una dimostrazione che erano stati a Firenze.

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Conoscenza dell’aspetto socio economico del comprensorio della paglia.

Dal campo si portavano i fastelli di paglia verso le tante fabbriche che cominciavano subito la lavorazione.

Questa si svolgeva tutta a mano, prima che Domenico Michelacci inventasse una serie di macchine.

La prima era la spigatrice: ci s’infilavano dentro i fastelli di grano,

gli steli

s’inserivano nei fori del crivello, poi si tagliavano le spighe.

Queste non si buttavano, ma erano destinate all’alimentazione degli animali.

In seguito gli steli andavano inseriti nella macchina uguagliatrice che selezionava i fastellini, in relazione al diametro della paglia.

Il Sig. Marco Conti

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I fasci cosi formati subivano la pelatura e cioè si toglievano, sfilandoli, gli steli più alti, creando i fastellini.

Da questi se ne prendeva via, via, una menatina e si componevano i mazzolini.

Quando la quantità dei mazzolini era sufficiente, era venduta ai fattorini e questi, con i loro barrocci, la portavano alle trecciaiole, sparse in tutto il comprensorio della paglia.

Queste cominciavano a fare la treccia che era sempre formata da un numero di fili dispari e la sua forma poteva essere semplice oppure complessa.

La treccia era avvolta a spirale e poi cucita, si ottenevano così i famosi cappelli, e una serie di oggetti, destinati al mercato interno e all’esportazione. Alcune alunne della nostra scuola hanno voluto provare a fare la treccia in classe...

Le trecciaiole erano in competizione tra loro: chi riusciva a fare una treccia sottile poteva spuntare un prezzo un pochino maggiore. Queste, però, seppero essere, tra loro, molto solidali, come ad esempio, in occasione di una

Alcuni esempi di treccia

Un gruppo di trecciaiole, dall'archivio del Comitato del Borgo

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serie di scioperi per protestare contro l’abbassamento del costo della treccia.

Erano guidate da Barsene Conti, una donna di grande carattere, detta la Baldissera, a similitudine di un generale dell’epoca e in ossequio alla tradizione toscana, di mettere un soprannome a tutti.

I giornali locali furono costretti a fare vari articoli, nel tempo, e cercarono di liquidare questi scioperi come un’agitazione di poche donne, un aspetto quasi folkloristico dei nostri territori... niente d’importante insomma... All’estero, invece, ne parlarono molti giornali, in diversi paesi, anche lontani, come l’India e la Cina, con toni tra il serio e il meravigliato. Furono fatti dei blocchi stradali, incendiati dei magazzini di cappelli e alcuni barrocci dei fattorini, la forza pubblica fu costretta a intervenire più volte, con esiti alterni. Le lavoratrici arrivarono ad accettare che il calo della produzione di treccia obbligasse qualcuna di loro a cambiare lavoro, ma non che il reddito delle trecciaiole si riducesse a un salario non più dignitoso.

Trecciaiole, per gentile concessione del Comitato del Borgo

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I fattorini dovettero rinunciare a parte del loro guadagno e cominciarono a formarsi delle Cooperative, queste potevano ottenere così un prezzo maggiore.

I tempi stavano cambiando, altri lavoratori presero il coraggio per manifestare il loro disagio, anche le sigaraie e le fiascaie fecero sentire la loro voce, in varie parti della Toscana.

La Baldissera aveva dimostrato che i lavoratori potevano ottenere migliori condizioni, ma per le sue idee fu imprigionata e scontò qualche anno di galera.

La lavorazione non finiva con le trecciaiole; i cappelli erano ritirati dai fattorini e distribuiti tra diverse fabbriche del territorio.

Questi erano già cuciti, ma andavano formati e poi guarniti. Con una caldaia si provvedeva a produrre il vapore: un operaio apriva uno stampo e vi inseriva un cappello. Dopo averlo chiuso con la metà superiore, v’immetteva il vapore, dopo pochi secondi il procedimento era finito.

Il cappello prendeva così la forma definitiva e pur essendo elastico, l’avrebbe mantenuta nel tempo.

Successivamente fu inventata una pressa che, grazie ad una membrana di gomma, non richiedeva la presenza

dello stampo superiore, riducendo così i costi della lavorazione.

Uno stampo, dal Museo Michelacci

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Dopo la formatura a macchina, i fattorini lo portavano ad altre fabbriche, dove sarebbe stato guarnito.

Se era da uomo, mettevano internamente la fodera ed esternamente un nastro, se era da donna, oltre alla fodera interna si metteva un nastro a colori vivaci all’esterno e anche guarnito con fiori, per le ragazze, frutta, per le signore.

Le piume erano invece per le persone altolocate o le attrici, che non dovevano mai passare inosservate.

Una pressa a vapore per cappelli, per gentile concessione del Museo Michelacci.

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Anche noi, al museo Michelacci, abbiamo fatto dei laboratori e con l’aiuto della Dott.ssa Emirena Tozzi.

siamo riusciti a guarnire i nostri cappelli con ago, filo e colla; poi tutti a provarseli davanti allo specchio!

Molti hanno cominciato a scambiarseli e a fare commenti, a tutti veniva da ridere e poi i selfie, le foto, il film.

I laboratori del museo Michelacci sono stati molto

divertenti:

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Il cappello era pronto per la vendita sul mercato interno o destinato ai mercati esteri e quindi era spedito a Livorno e lì imbarcato per andare in altre nazioni.

Il Granduca aveva promosso la costruzione della ferrovia da Firenze a Livorno per agevolare le esportazioni.

Questa linea era sicuramente molto utile per l’economia toscana, ma non tutti avevano la stessa lungimiranza di Leopoldo.

Alcuni latifondisti si erano trovati i campi tagliati in due dalla linea ferroviaria e pensarono di creare una serie difficoltà all’amministrazione centrale. Riuscirono a convincere il contado del probabilissimo incendio dei loro campi di grano, da parte del carbone infuocato che le locomotive avrebbero sicuramente perso per strada. Vi sarebbe stata la conseguente mancanza di raccolti e così nessun guadagno ... e lo spettro della fame e poi la miseria!...e poi... e poi...

Il Granduca cercò di parlare con la folla, poi mandò degli incaricati, ma le manifestazioni aumentavano...

La ferrovia era utile per l’industria dei cappelli, del fiasco e del vino di tutta la vallata: sarebbero stati creati molti posti di lavoro... la gente avrebbe potuto spostarsi con poca spesa e poco disagio... ma il malcontento non si placava... I proprietari terrieri agitavano i lavoratori della zona, particolarmente tra Empoli e S. Miniato, a questi si aggiunsero anche i barrocciai della zona che non

avrebbero più trasportato le merci. Con il tempo e con la paglia matura la sorba e la canaglia!

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La ferrovia fu fatta ugualmente, fu fornita di stazioni per tutto il tragitto, ma non a Fucecchio, dove le proteste erano state più accese; i fucecchiesi dovevano arrangiarsi: per andare alla stazione per prendere il treno a Empoli o S. Miniato, si doveva andare a piedi, in carrozza o con il ciuco!

La ferrovia finiva a Livorno, dove i cappelli, le borse e altri accessori in paglia, venivano imbarcati sulle navi che li avrebbero portati in Francia, in Inghilterra ed anche più lontano...

La destinazione finale dei cappelli erano i negozi di abbigliamento di lusso;

dove erano molto richiesti: spesso la domanda superava l’offerta.

La loro fabbricazione passava attraverso molte fasi e da più operatori, il loro costo finale non poteva essere modesto... ma chi li portava aveva una nota d’eleganza e sapeva di non passare inosservato.

La moda italiana era già da allora molto apprezzata e si stava già diffondendo nel mondo!

Tutta l’erba finisce in paglia!

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24 Conclusione

Hanno partecipato a questa attività gli insegnanti della scuola media Manzoni di Firenze: Abate, A. Carone, F. Chesi, C. Chiari, C. Donatini, V. Nardi, S. Nobili – Tartaglia,

Hanno partecipato le classi 2°A, 2°C, 2°E, con alcuni alunni della classe 1°B, che hanno prodotto alcuni disegni, un ricamo punto in croce e una miniatura con tre trecciaiole.

La V classe elementare della scuola Balducci con le maestre L. Tedeschi, R. Cisotto e P.

Martinisi, hanno organizzato gli assaggi sulle “merende delle trecciaiole”, mentre alcuni alunni della scuola Media, hanno imparato a fare i cialdoni, con panna e fragole:

le merende dei ragazzi dei palazzi fiorentini.

Gli alunni hanno svolto il progetto acquisendo la capacità di lavorare con ordine e responsabilità, si sono divisi i ruoli sia nell’organizzazione come nelle varie attività.

Tra queste vi sono state la conoscenza di semplici tecniche di ripresa e l’uso della macchina fotografica e della telecamera, la gestione al computer dei file prodotti e il successivo montaggio su software di editing. I ruoli sono stati: cameraman, tecnici per le voci, regia, montaggio del film e doppiaggio.

Tutti gli alunni hanno cercato di acquisire del materiale, per realizzare questo fascicolo, con interviste ai nonni e agli esperti del territorio, il Cav. Biagiotti ed il Sig.

Conti, che hanno svolto le loro lezioni presso la scuola.

I docenti hanno svolto alcune ore allo svolgimento di quest’attività, con lezioni frontali sulla matematica della treccia, sull’alimentazione, sull’aspetto storico – sociale, sulla stesura di un articolo, sull’uso di un word processor e sulla successiva impaginatura e sull’uso della telecamera.

Il museo Michelacci con il Prof. Lunardi e la Dott. Tozzi, hanno svolto una lezione per la conoscenza delle tradizioni lavorative della paglia nel comprensorio e poi attivato un laboratorio sulla guarnitura dei cappelli di paglia che è stato molto seguito.

Sono stati prodotti questo fascicolo e un semplice film.

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