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Parere sullo schema di regolamento previsto dall'art.58 del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n.29 concernente:

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Parere sullo schema di regolamento previsto dall'art.58 del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n.29 concernente:

“Incarichi extragiudiziari ai magistrati ordinari.

Il Consiglio Superiore della Magistratura, nella seduta 17 marzo 1994, ha deliberato di approvare il seguente parere:

"1. In applicazione della delega conferitagli con l'art.2 della legge 23 ottobre 1992, n. 421, il Governo della Repubblica ha emanato il decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29, il cui art. 58, n.

3, ha previsto l'emanazione di un regolamento ex art. 17, secondo comma, legge 23 agosto 1988, n. 400, col quale "emanare norme dirette a determinare gli incarichi consentiti e quelli vietati ai magistrati ordinari, amministrativi, contabili e militari nonchè agli avvocati e procuratori dello Stato, sentiti, per le diverse magistrature, i rispettivi istituti". Il n. 4, che segue, prevede inoltre che nel caso di inutile decorso del termine entro cui il regolamento dovrebbe essere emanato, "l'attribuzione degli incarichi è consentita nei soli casi espressamente previsti dalla legge o da altre fonti normative". Il Ministro della Giustizia ha ora predisposto uno schema di tale regolamento e tale schema è stato sottoposto al Consiglio per il parere ex art. 10, secondo comma, legge 24 marzo 1958, n. 195.

In proposito è da osservare in primo luogo che la delega di cui all'art. 2 della legge n. 421/1990, che prevedeva l'emanazione di "uno o più decreti legislativi, diretti al contenimento, alla razionalizzazione e al controllo della spesa per il settore del pubblico impiego, al miglioramento dell'efficienza e della produttività, nonchè

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alla sua riorganizzazione", trovava un limite nella lettera e) dell'articolo stesso dove - in sede di determinazione dei principi e criteri direttivi prescritti dall'art. 76, Cost. - si disponeva di

"mantenere la normativa vigente, prevista dai rispettivi ordinamenti, per quanto attiene ai magistrati ordinari e amministrativi, agli avvocati e procuratori dello Stato" e ad alcune altre categorie di dipendenti pubblici. Se, come sembra, tale limitazione implicava l'esclusione dalla delega della materia dell'ordinamento giudiziario, era evidente che essa non poteva riguardare neppure la sub-materia degli incarichi extragiudiziari dei magistrati che dell'ordinamento giudiziario stesso fa parte (cfr. art. 16, r.d. 30 gennaio 1941, n. 12, e successive modificazioni). Sembra perciò che la previsione dell'art.

58, nn.3 e 4, del decreto legislativo citato sia viziata da incostituzionalità per eccesso dai limiti stabiliti con la legge di delegazione.

Questa conclusione è confermata del resto dalla circostanza che, fino ad oggi la materia dell'ordinamento giudiziario è sempre stata tradizionalemnte distinta dalla materia del pubblico impiego, la cui disciplina è stata normalmente ritenuta applicabile ai rapporti regolati dall'ordinamento giudiziario soltanto in via suppletiva, in mancanza di una disciplina specifica (cfr. art.276, 3° comma, r.d. 30 gennaio 1941, n.12).

Ulteriore conferma risulta infine dallo stesso comportamento del legislatore delegato il quale, nel decreto legislativo n.29 del 1993, di tutta la materia dell'ordinamento giudiziario, ha inteso disciplinare soltanto gli incarichi extragiudiziari, laddove se si fosse dovuto intendere che la materia "ordinamento giudiziario" sia compresa in quella "pubblico impiego", avrebbe dovuto estendere la

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sua opera su moltissimi altri problemi, dato che è ben noto come anche l'organizzazione della giustizia abbia bisogno di misure legislative tendenti "al miglioramento dell'efficienza e della produttività, nonchè alla sua riorganizzazione". Il fatto che il legislatore delegato si sia astenuto dal procedere in questa direzione dimostra come esso abbia ritenuto la materia dell'ordinamento giudiziario esclusa dalla delega e come, introducendo nel decreto legislativo un embrione di disciplina degli incarichi dei magistrati, esso si sia posto in contraddizione con sè stesso.

E' chiaro d'altronde che la disposizione contenuta nell'art. 58, n. 3, non può essere intesa come diretta soltanto alla Pubblica amministrazione (quale soggetto eventualmente legittimato a proporre gli incarichi dei magistrati) e non anche ai magistrati stessi (ed al Consiglio superiore della magistratura che li governa), dal momento che in essa si parla di "incarichi consentiti [o] vietati ai magistrati", intendendosi pertanto inequivocabilmente disciplinare il rapporto in questione, non soltanto dal punto di vista dell'autorità che richiede l'incarico, ma in ogni suo aspetto.

A favore dell'interpretazione qui respinta si potrebbe addurre la circostanza che nessuno ha richiesto il parere di questo Consiglio, come pure sarebbe stato necessario - in applicazione dell'art.10, secondo comma, legge 24 marzo 1958, n. 195 - ove si fosse trattato - come in realtà si tratta - di una disposizione riguardante la materia dell'ordinamento giudiziario, ma l'argomento non ha un peso determinante e l'omissione si spiega (anche se non si giustifica) con la considerazione che il decreto legislativo in questione non è opera del Ministero della Giustizia, bensì del Ministero della Funzione pubblica.

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2. Ma la disposizione in esame è incostituzionale anche sotto altri e ben più gravi profili, che attengono, da un lato, all'assetto dei poteri normativi stabiliti dalla Costituzione e, dall'altro lato, alla stessa configurazione costituzionale della distribuzione delle funzioni fra i diversi poteri dello Stato.

In proposito è da osservare che la disposizione in esame richiama esplicitamente l'art. 17, secondo comma, della legge 23 agosto 1988, n. 400, il quale come è noto dispone che "con decreto del Presidente della Repubblica, previa deliberazione del Consiglio dei ministri, sentito il Consiglio di Stato, sono emanati i regolamenti per la disciplina delle materie, non coperte da riserva assoluta di legge prevista dalla Costituzione, per le quali le leggi della Repubblica, autorizzando l'esercizio della potestà regolamentare del Governo, determinano le norme generali regolatrici della materia e dispongono l'abrogazione delle norme vigenti, con effetto dall'entrata in vigore delle norme regolamentari". Si tratta di una categoria di regolamenti che la dottrina aveva da tempo qualificato (con espressione invero assai infelice) come "regolamenti delegati" e che la legge n. 400 ha per la prima vo lta previsto in modo esplicito, affiancandoli alle altre categorie di regolamenti governativi, ora disciplinati dal primo comma dello stesso art. 17.

Nell'art. 58, n. 3, tuttavia, non troviamo, nè "le norme generali regolatrici della materia" (tali non potendo essere considerate ovviamente quelle dettate per la generalità dei pubblici impiegati), nè una disposizione sull'“abrogazione delle norme vigenti, con effetto dall'entrata in vigore delle norme regolamentari”, e ciò costituisce già un primo motivo di perplessità sulla vera portata della norma, dato

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che il suo contenuto prescrittivo risulta in aperta contraddizione col richiamo in essa contenuto al secondo comma dell'art. 17.

3. Ma, al di là di queste perplessità, vi sono due ragioni di fondo che fanno apparire incostituzionale la disposizione in questione. La prima ragione deriva dal fatto che la disposizione stessa incide, come abbiamo visto sopra, nella materia dell'ordinamento giudiziario, laddove tale materia è una di quelle con riferimento alle quali più spesso la dottrina costituzionalistica ha ravvisato un'ipotesi di riserva assoluta di legge sulla base dei precetti contenuti negli articoli 101 e seguenti della Costituzione. Alla categoria dottrinale della riserva assoluta l'art. 17, secondo comma, ha fatto esplicito riferimento per basare su di essa un limite alla prevedibilità dei regolamenti delegati da parte della legge e, se da ciò non derivasse un divieto di esercizio del potere regolamentare del Governo in materia di ordinamento giudiziario, non si vede davvero in qual caso questo limite potrebbe essere ritenuto operante.

Ma ancor più importante e decisiva appare la seconda ragione ostativa all'ammissibilità d el ricorso ad un regolamento delegato (o a qualsiasi altro tipo di regolamento governativo o ministeriale) in una materia come questa. Questa ragione deriva dalla circostanza che il potere regolamentare, la cui più esatta configurazione costituisce, come è noto, oggetto di una ormai lunga tradizione di studi e ricerche, come che lo si intenda, concreta indubbiamente una manifestazione di volontà dello Stato la quale costituisce esercizio della funzione amministrativa, anche se si distingue da altre forme di esercizio di tale funzione per il fatto di concretarsi in atti qualificabili come normativi (donde la vecchia classificazione dei regolamenti

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come "leggi in senso materiale" nel duplice senso di atti dell'esecutivo e di atti a contenuto normativo).

Ora si dà il caso che la materia degli incarichi extragiudiziari dei magistrati rientri in quel circoscritto compendio di funzioni amministrative in materia di ordinamento giudiziario che la Costituzione ha sottratto alla competenza dell'Esecutivo (ed in particolare a quella del Ministro della Giustizia) cui spettava in passato, devolvendola al Consiglio superiore della magistratura, al fine di realizzare una serie di garanzie di indipendenza della Magistratura e dei singoli giudici e pubblici ministeri.

Ora è evidente che, se si riconoscesse che il potere esecutivo ha tuttora il potere di intervenire con propri regolamenti nelle materie che la Costituzione ha attribuito alla competenza amministrativa del Consiglio superiore della magistratura, quest'ultima ne risulterebbe potenzialmente svuotata, in quanto il Governo potrebbe intervenire in qualsiasi momento per disciplinare tali materie e così di fatto far venir meno l'autonomia e l'indipendenza del potere giudiziario.

Se infatti è vero che per abilitare il Governo ad emanare regolamenti delegati occorre pur sempre una legge (art.17, secondo comma, legge n.400 del 1988), occorre tenere presente che esistono altri tipi di regolamenti, previsti dal primo comma dello stesso articolo 17, che il Governo può adottare senza necessità di un'abilitazione legislativa specifica e che sarebbero anch'essi applicabili alla materia dell'ordinamento giudiziario se in contrario non operasse la riserva di legge sopra richiamata.

Anche a prescindere dall'ipotesi, teoricamente controversa, del regolamento-provvedimento (cioè di un regolamento il quale, a somiglianza delle leggi-provvedimento, contenga una norma priva

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dei caratteri dell'astrattezza e generalità e la cui portata si identifichi quindi con quella di un provvedimento amministrativo), è indiscutibile che la portata pratica di un regolamento di questo tipo consiste nell'imporre agli atti amministrativi che dovranno venir adottati in relazione ad un certo tipo di situazioni un certo contenuto e che questo effetto si produrrà bensì soltanto nei confronti degli atti amministrativi destinati ad essere adottati in relazione a casi che si verificheranno in avvenire (stante la normale non retroattività dei regolamenti), ma anche nei confronti di casi la cui verificazione è largamente prevedibile.

Ed è altresì appena il caso di ricordare che la ragione profonda della previsione delle riserve di legge sta nell'esigenza di assicurare i diritti delle minoranze a far sentire la loro voce, il che è sempre possibile nell'ambito di un procedimento legislativo, mentre non sempre lo è nel caso di un procedimento amministrativo quale è quello che porta alla formazione di un regolamento.

Nel caso degli atti amministrativi di competenza del Consiglio, d'altronde, la garanzia costituzionale dell'indipendenza della Magistratura, nonchè di quella dei singoli giudici e pubblici ministeri, deriva dal modo in cui quest'organo è strutturato e tale garanzia non può certamente essere surrogata da atti dell'Esecutivo, tanto che proprio per evitare eventuali esorbitanze di quest'ultimo i costituenti ritennero di istituire il Consiglio e di affidargli queste competenze. Il fatto che le materie attribuite alla competenza amministrativa del Consiglio possano essere regolate con legge - nel rispetto dei limiti stabiliti dalla Costituzione - è invece compatibile con le esigenze salvagardate dagli articoli 101 e seguenti della Costituzione, poichè la legge è l'atto mediante il quale si esercita la

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sovranità popolare, nel rispetto delle garanzie di demo crazia e di libertà che la Costituzione stessa assicura.

4. Le considerazioni esposte inducono a non affrontare neppure l'esame dello schema di regolamento in progetto ed a esprimere il parere che la facoltà prevista dall'art.58, n.3, del d.lgs.3 febbraio 1993, n.29, non debba essere esercitata.

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