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Conoscenza, partecipazione e libertà : esce il nuovo ebook di perunaltracittà

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Academic year: 2022

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“Conoscenza, partecipazione e libertà”: esce il nuovo ebook di perUnaltracittà

written by Marvi Maggio

Questo libro affronta la questione della partecipazione pubblica in una prospettiva di radicale trasformazione sociale, cioè di costruzione di alternative che creino un nuovo rapporto sinergico con la natura non umana, e quindi un nuovo motore economico differente dal capitale, e nuovi rapporti sociali non alienati.

Perché la partecipazione si ponga in questa prospettiva deve essere all’altezza dei problemi da affrontare, cioè da un lato deve saper trattare delle alternative all’organizzazione economico sociale esistente, nelle loro specificazioni particolari e generali, astratte e concrete, e dall’altro deve saper discernere come si possa produrre conoscenza critica e riflessiva, e quindi antagonista, al sistema economico e sociale (spazio temporale) esistente.

Un progetto che richiede la presa di parola e l’azione da parte di tutti coloro che vogliono produrre giustizia sociale e ambientale: una partecipazione che è autogestione.

La domanda di partecipazione degli abitanti e cittadini attivi, che interpretano il patrimonio territoriale come bene comune, implica la necessità di nuove forme di democrazia partecipativa.

La tesi è che le questioni poste da questi soggetti investano direttamente le leggi di sviluppo economico spaziale e territoriale del capitale, le trasformazioni

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territoriali prodotte dal mercato immobiliare e finanziario, il funzionamento della pubblica amministrazione e che per trattarle è necessario attivare un progetto di ri-territorializzazione come quello avanzato dal bioregionalismo urbano, che a sua volta prefigura forme di partecipazione nuove sia per i temi trattati che per le forme organizzative innovative richieste.

La forma della libertà, come organizzazione collettiva dei processi decisionali, fondata sulla giustizia sociale e l’eguaglianza, è costituita da questioni da affrontare, quelle proprie del bio-regionalismo e della costruzione di una economia radicalmente differente da quella capitalista, e da strutture organizzative da attivare, da ispirare alle forme di autogestione proprie dei movimenti urbani autonomi.

Ma come si forma la conoscenza critica e riflessiva? Il secondo capitolo affronta il significato complesso e profondo del rapporto fra produzione della conoscenza e pratica dell’appropriazione degli abitanti del territorio (Magnaghi, 1998). A partire da una disamina della letteratura scientifica più rilevante sul tema, il testo osserva al microscopio il nucleo più nascosto della formazione della conoscenza e della nostra capacità critica e riflessiva e indaga come questa, una volta iniziata la sua formazione individuale e collettiva, si debba scontrare con il potere che ha lo scopo di svilirla, esautorarla e negarla.

Analizzeremo il regime della verità, la tensione tra oggettivo e soggettivo, la capacità riflessiva, e come i soggetti singoli e collettivi possano costruire conoscenza oggettiva a partire dal proprio punto di osservazione come abitanti del territorio. Lo scopo della giustizia sociale comporta il riconoscimento della politicità delle scelte sul territorio e richiede una serrata critica della compravendita dello spazio, della messa al lavoro dello spazio attraverso il mercato capitalistico che distrugge una vasta gamma di pratiche urbane e ostacola il diritto alla città per la maggioranza degli abitanti.

E’ necessaria una critica all’urbanistica che si propone come spazio politico del pensiero unico e così facendo contribuisce a chiudere e restringere il campo del possibile. La partecipazione deve essere tale da ampliare i confini del possibile e da costruire «la pratica dell’appropriazione all’essere umano del tempo e dello spazio, modalità superiore della libertà» (Lefebvre, 1973:160).

Questa la pagina per scaricare i nostri eBook

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Marvi Maggio, autrice

Disparità di genere in Regione Toscana

written by Marvi Maggio

Gli effetti della discriminazione contro le donne in Regione Toscana Più donne che uomini

La consistenza degli organici in Regione Toscana mostra che le donne rappresentano il 59,42 % dei dipendenti e gli uomini sono il 40,58 %.

Ma direttori e dirigenti…

Le figure di vertice, contratto di diritto privato, (direttori), sono al 85% uomini.

I dirigenti sono 116 di cui 42 donne (36,21 %) e 74 uomini (63,79%) mentre, come già evidenziato, in Regione Toscana, c’è una maggioranza di lavoratrici: 59,42%

donne e 40,58% uomini.

Anche le Posizioni Organizzative

Le PO donne sono il 54,02 % a fronte di una presenza di donne fra i dipendenti del 59,42% e le PO uomini sono il 45,98% a fronte di una presenza di uomini fra i dipendenti del 40,58%.

A pagina 16 del Rapporto Annuale sulla situazione e sule dinamiche del personale maschile e femminile della Regione 2020 (quello del 2019 è già su amministrazione trasparente e quello 2020 lo sarà presto), si afferma che la percentuale maschile di PO prevale in direzioni “che per la tipologia di attività svolte, da sempre risultano appannaggio del genere maschile”, tuttavia

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l’affermazione appare in contraddizione con il fatto che la presenza femminile in categoria D nelle direzioni citate non è tale da giustificare la differenza fra PO maschi e femmine, infatti nella Direzione Difesa del suolo ci sono 79 donne e 91 uomini; nella direzione politiche per la mobilità 43 donne e 43 uomini; nella direzione Agricoltura 89 donne 125 uomini; Ambiente 97 donne e 100 uomini.

E i titoli di studio..

Per quanto riguarda i titoli post laurea li posseggono il 64,89 % delle donne, mentre per gli uomini la percentuale è del 35,11 %.

Per quanto riguarda la laurea, sono laureate il 60,12 % delle donne e il 39,88%

degli uomini.

Si evidenzia una grave discrepanza fra grado elevato di istruzione delle lavoratrici e il loro minore accesso alle progressioni di carriera e alla dirigenza rispetto ai colleghi maschi.

Meno male che ci sono i concorsi pubblici (ma per quanto?)

L’accesso con concorso al pubblico impiego ha consentito a molte donne di trovare lavoro malgrado la discriminazione, mentre l’accesso fondato sul

“rapporto fiduciario” sembra proprio privilegiare chi non è donna. Alla fine non si tratta solo del fatto che le donne potrebbero assentarsi per la riproduzione o per il lavoro di cura, ma soprattutto di una semplice discriminazione basata su semplici pregiudizi del tutto infondati. Altrimenti le donne che non hanno figli non sarebbero discriminate.

Soluzioni

Che ai vertici mettano di forza delle donne con le quote rosa non cambia la discriminazione per tutte le altre. Anzi è un pinkwashing (come dicono gli americani, cambiamento di facciata) che non cambia i rapporti sociali e i rapporti di potere.

I rapporti sociali si cambiano praticando quelli differenti e giusti. E perché non farlo in una pubblica amministrazione?

L’ingiustizia dell’assenza delle donne dai posti di potere e di prestigio, non si risolve avvantaggiando poche donne appartenenti alle élite e mettendole al

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potere, ma iniziando a costruire una società più giusta. In cui il lavoro di tutti sia apprezzato e valorizzato, non contrapposto a quello degli altri in una competizione distruttiva: ci vuole cooperazione e giustizia. E anche una democrazia organizzativa che ponga la partecipazione, come contributo di tutti, al centro del lavoro.

Insomma la lettura di un sintomo negativo come la discriminazione, come stimolo per creare una nuova organizzazione più equa e giusta e non per sostituire una percentuale minima di privilegiati con un nuova categoria di privilegiati. Il vero problema è che esistano dei privilegiati.

Marvi Maggio

Otto marzo 2021: giornata di lotta per i diritti delle donne e di memoria delle lotte

written by Marvi Maggio

Otto marzo 2021: anche quest’anno l’otto marzo è un giorno di lotta nella consapevolezza che l’ingiustizia non si accetta, si ribalta!

Oggi, come tutti i giorni, affermiamo la nostra libertà ed il nostro valore, contro la violenza maschile (patriarcale) sulle donne e contro ogni forma di sfruttamento sia nel lavoro retribuito (seppure retribuito sempre troppo poco a causa della strenua lotta quarantennale per la riduzione del costo del lavoro operata da Confindustria & Co.), che in quello riproduttivo (di cura), spesso non retribuito e fatto fra mille difficoltà e con la consapevolezza che sarebbe un compito che dovrebbe svolgere la società nel suo complesso con opportuni servizi sociali, invece di essere imposto in base al genere (cioè a presupposti caratteri naturali in realtà costruiti attraverso imposizioni).

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E’ un giorno di lotta contro la violenza maschile:

maschilista, misogina e patriarcale che dallo stupro, alle intimidazioni, all’assassinio (femminicidio) mostra una incapacità di riconoscere la nostra autonomia e la nostra autodeterminazione. Una violenza che è anche fatta di regole patriarcali che introdotte nei codici, nelle religioni e nei rapporti sociali dominanti (perfino nei diritti dell’ ”uomo”) non ci riconoscono il diritto di scelta e costruiscono l’angusto spazio in cui dovremmo ricondurre il nostro essere che invece eccede quei pregiudizi e quelle regole. L’autonomia delle donne e la contraccezione e l’aborto come condizione per la scelta se essere madri o no, è osteggiata dalle interpretazioni più retrive delle religioni, che spesso sono quelle dominanti, come avviene per il Vaticano. Sulle donne incombe l’esproprio della nostra capacità riproduttiva.

Dagli anni settanta il movimento delle donne ha affermato il diritto alla libertà di costruire sé stesse individualmente e collettivamente oltre le regole e le imposizioni che dettano una identità eterodiretta che con violenza impedisce la realizzazione dei nostri desideri e progetti.

Non possiamo né vogliamo accettare chi continua a vedere in noi, in come ci vestiamo, in come ci muoviamo, la provocazione che giustifica la violenza sessuale; né possiamo accettare di coprirci in base a dettami più o meno rigidi per evitare quella violenza. Se la nostra sola presenza e i nostri corpi sono provocatori per qualcuno è lui che va educato ad accettare che siamo esseri autonomi e in nessun modo qualcuno può pensare di avere dei diritti su di noi. Su questo non ci può essere relativismo culturale che tenga.

L’accesso per concorso nella PA ha consentito a tante donne di trovare un lavoro, mentre la continua ricerca di eccezioni a questa norma di carattere costituzionale, con l’ingresso che elude questa norma in nome del rapporto fiduciario, ha creato la compresenza, con chi di competenze ne ha davvero, di un sottobosco di prediletti e prescelti privi delle competenze necessarie a far funzionare gli uffici, che sono quelli che fanno fulminee carriere e determinano i noti malfunzionamenti della PA.

Nei posti di lavoro sussiste il rischio che il nostro valore non sia riconosciuto per

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semplice discriminazione. I metodi per pagarci molto meno degli uomini prevedono che il nostro grado di istruzione spesso superiore a quello degli uomini conti ben poco in carriere fatte soprattutto di appartenenza di classe e di tessere di partito o ad altri gruppi di potere. Le donne nemiche dei diritti di tutte le altre donne, alla ricerca solo di potere per sé, sfruttano le lotte delle donne per una società equa e giusta, per le loro carriere squallide: loro sono in posti di potere malgrado siano donne, per appartenenza di classe e per nepotismi politico familiari, e grazie alla lotta delle donne per un mondo più equo e giusto. Ma il fatto che loro raggiungano il potere non sposta di una virgola i rapporti di potere sociali complessivi e dominanti se tutta l’organizzazione della società e i rapporti sociali non cambiano. Il movimento delle donne per primo, quasi 50 anni fa, ha mostrato l’ingiustizia dell’assenza delle donne dai posti di potere e di prestigio, ma lo ha fatto per affermare la necessità di trasformare tutta la società, non di avvantaggiare poche donne appartenenti alle elite. Le quote rosa avvantaggiano quasi sempre questo tipo di donne e se non si scardinano le discriminazioni e i discorsi misogini, tutte le altre resteranno subalterne.

Contro la violenza maschile sulle donne; contro il divario salariale a sfavore delle donne; contro le discriminazioni; contro lo sfruttamento sul lavoro e le prevaricazioni; contro il fatto che il lavoro di cura, che è responsabilità sociale, sia ancora scaricato sulle donne. Per la giustizia sociale, la libertà, la creatività, la felicità!

Marvi Maggio – Cobas Regione Toscana

L’ipocrisia sull’abolizione della pena di morte in Toscana: quando l’oppressore diventa mito

written by Marvi Maggio

Pietro Leopoldo, Granduca di Toscana dal 1765 al 1790, abolisce la pena di morte nel 1786, ma la reintroduce nel 1790. Sostiene con forza ed impegno la reazione

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realista contro la rivoluzione francese in difesa del regno della sorella Maria Antonietta. Pietro Leopoldo è un uomo che nei momenti chiave ha scelto l’ancien régime e che appartiene al casato Asburgo Lorena, da sempre ben noto simbolo di reazione e oppressione.

È un uomo da festeggiare e ricordare come paladino della giustizia? I fatti dicono di no.

Dal 2001 la Regione Toscana ha istituito la festa commemorativa del 30 novembre, per ricordare il giorno in cui ricorre l’anniversario della riforma penale che prevedeva l’abolizione della pena di morte, promulgata nel 1786 da Pietro Leopoldo.

Tuttavia l’abolizione della pena di morte ebbe breve durata. Nell’aprile 1790, un mese dopo la partenza di Leopoldo per Vienna per diventare imperatore del Sacro Romano Impero con il nome di Leopoldo II, scoppiarono tumulti in tutto il Granducato, soprattutto a Firenze e Livorno.

Leopoldo II prima di insediare come suo successore il figlio Ferdinando III il 22 febbraio 1791, reagì con una dura repressione che portò al ripristino della pena di morte, che i suoi successori non avrebbero mai più abolito. Solo il 30 aprile 1859, dopo la fine del Granducato, venne abolita di nuovo la pena di morte rifacendosi alla legge di Pietro Leopoldo che tuttavia lui stesso aveva cancellato.

Fratello di Maria Antonietta, regina di Francia e di Maria Carolina regina di Napoli, Pietro Leopoldo si impegnò per evitare che la Rivoluzione francese uscisse dai confini francesi, invitò il governo francese con appelli a salvare le sorti del regno e si rivolse poi direttamente ai realisti sostenendo la presa delle armi contro i rivoluzionari. Fece una vera e propria crociata contro la Rivoluzione francese. Nel 1790 forzò centinaia di servi boemi liberati dal fratello Giuseppe II a tornare alla servitù dei loro vecchi padroni.

È questo un uomo da festeggiare e ricordare come un paladino della giustizia sociale? Decisamente no.

La distinzione fra oppressione e libertà non può comportare dubbi, né nel passato, né nel presente.

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Altrimenti, cosa ci possiamo aspettare se non oppressione raccontata come libertà?

Marvi Maggio

Lavoro e ambiente: i diritti da ricostruire

written by Marvi Maggio

Dall’ANSA abbiamo appreso che il 30 giugno 2020 Maurizio Bigazzi, neo eletto presidente di Confindustria Firenze in una conferenza stampa ha affermato che i dipendenti della Pubblica Amministrazione devono aiutare chi non ha. “Lavorano a casa? Diano contributo solidale a chi non ha nulla”, i lavoratori della Pubblica amministrazione “ancora sono in lavoro agile, e addirittura si sta pensando di portare questo lavoro agile fino alla fine dell’anno”, per cui “penso che ci sarebbe una giusta misura nel far pagare a loro un contributo di solidarietà da far giungere a tanti cittadini”, soprattutto “alle persone che non hanno più niente…Stando a casa ho l’impressione che risparmino dei soldi, perché non vanno a lavorare con i mezzi pubblici o privati; risparmiano del tempo, quindi hanno più tempo libero; e poi non sono minimamente controllati, infatti Ichino parla di ‘ferie‘”. (Ansa).

Impoverimento e disoccupazione: un progetto politico

Prima di tutto il contributo di solidarietà i lavoratori dipendenti del pubblico impiego lo danno da sempre attraverso le loro tasse, pagate sempre fino all’ultimo centesimo e anche in anticipo, visto che l’85% dell’IRPEF arriva da dipendenti pubblici e privati e pensionati. Sarebbe l’ora piuttosto di far finire l’odiosa evasione fiscale (110 miliardi di evasione fiscale annuale secondo le stime del ministero dell’Economia) e le fughe di capitali nei paradisi fiscali appartenenti a soggetti che poi grazie alle dichiarazioni false si accaparrano facilitazioni, finanziamenti e bonus. E bisognerebbe interrompere le facilitazioni a imprese che non sono benefattrici della patria, ma semplici produttrici di profitti per sé. Che non “danno lavoro”, il ricatto utilizzato per costruire le infrastrutture più

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distruttive e inquinanti e attivare le imprese più inutili e pericolose, ma semplicemente utilizzano il lavoro troppo spesso senza assicurargli le sicurezze e i diritti necessari per distinguere un paese civile da uno incivile. D’altra parte se non sono obbligati dalla comunità perché dovrebbero sottrarre risorse a loro stessi per darle ad altri?

Dagli anni ’70 in poi si è verificato un arretramento dei diritti dei lavoratori a favore di quelli delle imprese: un progetto politico reazionario e classicamente fascista. Obbligo di assumere dalle liste di disoccupazione eliminato per garantire il “diritto” di assumere chi si vuole, obbligo a reintegrare i lavoratori ingiustamente licenziati scavalcato e nei fatti superato, obbligo a farsi carico dei periodi di scarsa domanda da parte del datore di lavoro graziosamente scaricato sulla collettività. E non dimentichiamo la fiera lotta per “abbassare il costo del lavoro” che per gli sfruttatori sarebbe stata la ragione della scarsa produttività del lavoro, e che ha prodotto quei soggetti che non hanno nulla, e che fanno tanto comodo per ricattare i lavoratori e dir loro “se tu non stai alle regole dico che sono in crisi, ti licenzio e ne assumo un altro” oppure “tu sei fortunato a lavorare”. Fortunato a dover lavorare sotto patrone per vivere? Lavorare è una attività che va pagata non solo in termini di reddito, rapportato alla qualità del lavoro erogato e tale da sostenere i costi della vita quotidiana (basti pensare al costo della casa), ma anche di diritto alla pensione che è stato sottratto in modo infame, aumentando di fatto l’orario di lavoro totale della vita lavorativa: la riduzione dell’orario di lavoro giornaliero a parità di salario (la lotta per le 8 ore lanciata nel 1889!!), annuale (ferie) e della vita lavorativa (pensione) non a caso è uno dei punti della lotta dei lavoratori per i diritti fondamentali da più di un secolo. Il problema è che i legislatori si sono posti sempre più spesso nell’ottica (di classe) di predisporre il regime normativo più favorevole alle imprese invece di imporre le tutele più adeguate per i lavoratori. Un esempio infame di questa pratica è stato il Job act del 2015. Con norme che difendono il datore di lavoro anche quando ha comportamenti illegittimi come il licenziamento senza giusta causa, è ovvio che i lavoratori sono ricattabili e sono più deboli nel rivendicare i

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loro diritti. E’ facile poi accusare la vittima. La mancanza di regole in favore dei lavoratori, la mancanza dell’obbligo ad assumere sempre e solo a tempo indeterminato, garantendo il pieno pagamento nei periodi di fluttuazione della domanda, pagando un salario che permetta di vivere in modo degno, questo è il motivo per cui ci sono lavoratori sottopagati che ora non hanno nulla. Tutto questo ha portato un extra-profitto alle imprese che prima o dopo dovrà essere restituito non solo “alle persone che non hanno più niente” ma a tutta la società.

Non sono i dipendenti pubblici e privati a dover dare un contributo ma invece gli evasori, gli elusori e poi occorre guardare dove i soldi ci sono: per esempio ai 36 miliardari italiani con un patrimonio di 125,6 miliardi di dollari (Dati Forbes 2020). Rappresentano certo meglio una classe di privilegiati dei pubblici dipendenti che lavorano per vivere con redditi bassi. Abbiamo bisogno di un sistema di tassazione che colpisca maggiormente il capitale e non il lavoro.

L’impoverimento è il sintomo di un processo di arricchimento smisurato a livello locale e globale. Per ridurre la povertà bisogna ridurre l’accaparramento di ricchezza agendo su come la ricchezza viene prodotta: non deve più essere possibile arricchirsi sfruttando i lavoratori e distruggendo il patrimonio comune, ambiente e natura.

Smart work is work

Se si guarda all’affermazione del presidente di Confindustria sembra poi che non abbia cognizione che c’è stata una rivoluzione informatica dagli anni ’90. Infatti per tornare al lavoro pubblico ogni lavoratore è un video terminalista che usa il computer per lavorare: banche dati on line, posta elettronica certificata, posta elettronica, istruttorie su piani e programmi che sono nei fatti già condotte on line e sul computer, gare e appalti online, procedure e procedimenti informatizzati. In particolare la Regione Toscana ha condotto da anni una lotta contro il cartaceo per rendere ogni procedura e processo informatizzato, facilitando in questo modo la possibilità di consultare e scaricare i documenti online. Si trova tutto sul sito online, basta informarsi prima di parlare. Il lavoro dei lavoratori pubblici viene controllato con molteplici mezzi (anche eccessivi e ridondanti): i piani di lavoro con obiettivi individuali da realizzare vengono verificati attraverso valutazioni semestrali con tanto di voti sui diversi compiti, i report settimanali sul lavoro svolto in smart work, infine il fatto che il lavoro, per esempio della Regione Toscana, è stato effettivamente effettuato e non si è mai interrotto bensì è continuato durante tutto il lockdown e nelle fasi successive. Le prove? Basta

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informarsi per esempio visionando il sito della regione con tutte le attività in essere.

Ogni scelta politica comporta l’attività dei lavoratori degli uffici della giunta e del consiglio regionale. Tra l’altro molte della attività riguardano l’erogazione dei finanziamenti alle imprese che vengono elargiti da UE o dallo Stato o direttamente dalla regione attraverso le istruttorie degli uffici, con capitale a fondo perduto o attraverso prestiti garantiti, oppure riguardano la costruzione di infrastrutture che vengono utilizzate a costo zero dalle imprese sebbene ne siano i principali fruitori. Oppure ancora si tratta di bandi per appalti di beni e servizi oppure per opere pubbliche che danno lavoro alle imprese. E poi controllo del rischio idrogeologico e ambientale, cura del territorio e del paesaggio, la programmazione degli interventi di edilizia scolastica e la manutenzione di scuole e strade, le opere infrastrutturali sono gestiti e programmati grazie agli uffici regionali. Le recenti istruttorie della cassa integrazione in deroga sono state predisposte da dipendenti regionali in telelavoro straordinario. E’ sicura Confindustria attraverso il suo Presidente, di voler affermare che questi sono lavori che non sono stati effettuati in questi mesi? Tutto è andato avanti durante il lockdown.

Lo Stato più che un nemico sembra essere un amico che sostiene economicamente e facilita le imprese, offre appalti di lavori e di servizi, e queste attività riguardano molti dei settori in cui è organizzata la pubblica amministrazione. Ma a ben guardare è noto che il problema per le imprese sono le regole sul lavoro e sull’ambiente, quelle che secondo loro non permetterebbero di competere con altri paesi con regole meno restrittive. E queste regole e controlli, che riguardano un’altra parte delle competenze pubbliche, continuano ad essere attive grazie a norme conquistate in periodi di maggior forza dei lavoratori e di maggiore consapevolezza dell’importanza della qualità dell’ambiente per la salute e il benessere di tutti, malgrado siano contestate duramente da chi si avvantaggia dello sfruttamento del lavoro e dell’ambiente e malgrado troppo spesso siano state ridotte e ridimensionate da interpretazioni giurisprudenziali, modifiche e stravolgimenti o siano semplicemente bypassate da presunti altri interessi pubblici. Senza regole in loro favore il lavoro si dissangua, fino a estinguersi prematuramente (vedi morti e infortuni sul lavoro e malattie professionali), e l’ambiente si dissipa fino a rendere impossibile la nostra vita sul pianeta. Le imprese, la loro incapacità di investire in innovazione e di competere

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sul mercato, la imputano alle regole di civiltà che proteggono la dignità del lavoro e salvaguardano l’ambiente e la salute dimostrando miopia, unilaterialità e furbizia. In realtà il vero limite della produzione capitalista è che non risponde alla domanda d’uso di tutti su beni e servizi fondamentali e si limita a produrre solo per la domanda solvibile e per quella selettiva delle élite. Le promesse di

“gocciolamento dall’alto verso il basso” sono sempre rimaste solo una promessa.

In un periodo in cui la crisi ambientale e il riscaldamento globale, con incendi, allagamenti, frane, desertificazioni, inquinamenti di aria, acque, suolo, rischio di epidemie, non può essere negata, le regole a favore di ambiente e lavoratori devono diventare sempre più stringenti: devono impedire, negando i permessi, che vengano attivate produzioni nocive e i finanziamenti pubblici devono essere indirizzati a garantire la qualità della vita di tutti e non i profitti.

La Regione Toscana, in base a disposizioni statali, ha estenso alla stragrande maggioranza dei suoi lavoratori il lavoro agile, dimostrando di avere cura della salute dei lavoratori, ma anche della collettività, e su questo la sollecitazione della RSU e del sindacato COBAS ha trovato una risposta davvero soddisfacente. Ad oggi solo una quota minima dei lavoratori per compiere le loro attività devono recarsi al lavoro in ufficio, ma il numero esiguo e le regole da seguire tassativamente, rendono il rischio di contrarre il covid19 inesistente, mentre tutti gli altri lavorato in smart work. Lavorano: hanno un orario, il solito, e sono presenti come sempre per telefono e per e mail. Il mondo immaginario di alcuni è diverso dal mondo reale. Certo, da un punto di vista politico, la Regione potrebbe aver un’altra struttura organizzativa e altre priorità politiche. Meno gerarchia e meno differenza fra reddito dei dirigenti e del comparto sono da tempo una rivendicazioni dei lavoratori, ma questo non tocca il fatto che i lavoratori abbiano lavorato in periodo di lockdown. La qualità dei servizi pubblici e l’offerta di servizi pubblici dipendono in via prioritaria da scelte di priorità politica, basti pensare alle privatizzazioni, e organizzative di attribuzione di personale, e non certo da quanto lavorano i dipendenti pubblici.

La crisi, in questo caso il virus, ha fatto fare un salto obbligato: chi non era convinto che si potesse lavorare in lavoro agile ha verificato che era possibile.

Abbiamo imparato tutti a usare le piattaforme per le videoconferenze e le riunioni di lavoro. E’ stata una scelta obbligata per contribuire a salvaguardare la salute di tutti che ha accelerato un processo di cambiamento e consapevolezza. Il lavoro agile, svolto a casa porta un vantaggio collettivo, la riduzione del pendolarismo

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casa – lavoro con conseguente riduzione dell’inquinamento, mentre al lavoratore dà la possibilità di usare il tempo di viaggio per vivere, compensando il fatto che gli orari di lavoro continuano ad essere di certo troppo lunghi, 40 o 36 settimanali. Situazione assurda se si pensa che c’è chi invece non lavora.

Distribuire ore di lavoro a tutti garantendo a tutti un salario pieno: lavorare meno, lavorare tutti (ma proprio tutti, anche quelli che oggi comandano, ma non lavorano, che non è la stessa cosa).

Finanziamento pubblico selettivo

Tornando all’economia, nella giungla c’è chi vince e c’è chi perde. Alcune imprese hanno tratto vantaggio dal lockdown: quelle che si occupano di servizi informatizzati su internet non ultimo di videoconferenze; quelle farmaceutiche; le vendite di prodotti on line, solo per fare degli esempi. Le imprese devono accettare che c’è il rischio di impresa, avrebbero dovuto prevedere ed essere capaci di prendersi cura di se stesse, come chiedono di fare alle persone in visione neo-liberista “Se non ce la fai è colpa tua”. D’altra parte si può vivere di immeritati finanziamenti pubblici diretti e indiretti e dell’uso di risorse di tutti per i propri vantaggi oppure riconvertire la produzione verso merci e servizi davvero utili e necessari. Il virus ha insegnato che c’è un metro per giudicare la produzione che non è la semplice produzione di profitti, ma che rimette al centro il valore d’uso di quello che si produce e i suoi effetti sull’ambiente e sulla giustizia sociale.

E’ noto anche ai liberisti che esistono i cosi detti “fallimenti del mercato” cioè l’incapacità del mercato capitalista di produrre certi beni e servizi di vitale importanza, come le abitazioni per tutta la popolazione e non solo per chi può pagare alti prezzi, oppure la sanità e l’istruzione per tutti. Lo stato dovrebbe farsi carico della produzione e finanziare quelle produzioni di beni e servizi necessari che il mercato non produce e non finanziare imprese che producono beni il cui solo scopo non è rispondere a bisogni essenziali, ma semplicemente essere vendute magari alle elite, quelle che i soldi li hanno e li fanno anche in tempo di crisi. E le produzioni che non sono davvero socialmente necessarie non dovrebbero essere permesse, altroché finanziate. Cosa, quanto, come, dove produrre dovrebbe essere al centro del dibattito politico. Con la crisi ambientale la produzione che implica uso di risorse e inquinamento dovrebbe essere sottoposta a oculata disamina. Pensiamo alle auto, producono profitto ma sono altamente inquinanti e inefficienti, e per funzionare necessitano di costose

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infrastrutture dedicate, di cui si fa carico la collettività. Ci vuole una riconversione verso altre forme di mobilità: trasporto pubblico davvero efficiente e pubblico, non sottoposto alle regole inique del profitto, per esempio. Invece di finanziare imprese con la sola giustificazione che producono profitto e occupano personale, bisognerebbe finanziare solo le attività davvero necessarie, considerarne il peso sociale in termini di capacità di produrre risposta ai bisogni sociali di tutta la popolazione. E i lavoratori andrebbero rioccupati in attività utili.

Le risorse pubbliche dovrebbero essere utilizzate in primo luogo per re-impiegare direttamente i lavoratori che hanno perso il lavoro per la crisi economica conseguente al corona virus, nel pubblico impiego: istruzione, sanità, cultura, cura degli anziani, cura del territorio e dell’ambiente, produzione di edilizia abitativa sociale di alta qualità per tutti, solo per fare degli esempi. C’è una miniera di lavoro da attivare. Contemporaneamente il pubblico impiego deve essere riorganizzato con meno strutture gerarchica e più collaborazione orizzontale, quella democrazia organizzativa che i lavoratori propongono da tempo. E poi permettere di andare in pensione a chi ha più di 60 anni e sostituirlo occupando i disoccupati, giovani e meno giovani, in base a concorsi pubblici e quindi assicurando loro tutti i diritti, è un progetto ineludibile di civiltà. Abbiamo persone costrette a lavorare fino a 67 e oltre e abbiamo persone giovani che non hanno mai lavorato. Ovviamente prevedendo pensioni degne e salari degni di questo nome.

Non vanno solo attutiti i sintomi ma vanno costruite le nuove strutture istituzionali, ancora più che regole, per agire sulle cause. Come sosteneva Saint Just nei Discorsi sulle Istituzioni repubblicane (1793) sono necessarie poche leggi e molte istituzioni, intese come configurazioni organizzate di relazioni sociali. Le legge è una limitazione delle azioni mentre l’istituzione è un modello positivo di azione.

Sempre nella conferenza stampa Bigazzi afferma “qualche volta ci troviamo di fronte a dei cittadini privilegiati” che “sono ancora in lavoro agile, mentre tutte le nostre imprese sono in funzione, e alcune non hanno mai chiuso” (Ansa).

Infine, da che pulpito viene la predica. Confindustria è stata fra le forze che si sono espresse con pervicacia contro il lockdown e per il ritorno celere dopo che è stato imposto, dimostrando in modo evidente che la salute dei lavoratori e della popolazione è in lontano subordine dopo il loro guadagno. La loro preoccupazione è stata soprattutto non essere ritenuti responsabili dal punto di vista civile e

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penale nel caso un lavoratore si ammali, dopo che INAIL aveva riconosciuto la contrazione del virus covid 19 come infortunio sul lavoro. L’infezione dipende da quante persone sono in giro e da quanti contatti hanno, quindi tenere aperto se non è strettamente necessario dal punto di vista della produzione di beni con valore d’uso (quella aperta anche nel lockdown) e il vantaggio è solo la produzione di profitti, è egoismo, non prodigalità. Molti lavoratori hanno protestato per il fatto di essere costretti a lavorare in presenza mettendosi a rischio. Devono avere la possibilità di scegliere un posto di lavoro migliore, con più diritti. Nuove istituzioni.

Non semplicemente far ripartire l’economia, ma riconvertire la produzione verso beni e servizi davvero necessari e capaci di rispondere alla domanda di valore d’uso di tutti con l’obiettivo della giustizia sociale e ambientale e di un nuovo rapporto sinergico con la natura non umana.

*Marvi Maggio – Dirigente Sindacale COBAS Regione Toscana, Coordinamento RSU Regione Toscana, rappresentante eletta in RSU Regione Toscana – Architetta e Dottoressa di ricerca in Pianificazione Territoriale ed Urbana – Abilitazione Scientifica Nazionale alle funzioni di Professore universitario di seconda fascia in Pianificazione e progettazione urbanistica e territoriale.

Come ne vogliamo uscire

written by Marvi Maggio

Partire da sé per cambiare il mondo. Parlare in prima persona è la condizione per creare uno specifico tipo di conoscenza. Ma su cosa ha senso creare conoscenza a partire da una percezione critica del proprio punto di vista come interpretazione e osservazione su quello che si vede dal proprio punto di vista?

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Questa conoscenza non si limita mai all’esistente, ma contemporaneamente esplora le possibilità e quindi riguarda la scelta politica intesa come ipotesi di trasformazione dell’organizzazione sociale, delle sue specificità geografiche e storiche, e del funzionamento della struttura economica, sociale, culturale. La scelta politica non è direttamente il prodotto della verità, sebbene si fondi sulla conoscenza, non è una scelta fra vero e falso, ma per esempio fra interessi di classe oppure più in generale fra progetti di economia e società differenti da quelli esistenti.

Le donne che hanno partecipato ai movimenti femministi negli anni Settanta in Italia e avevano contemporaneamente l’obiettivo di costruire una società egualitaria e libertaria, hanno discusso a partire da sé cosa significava per loro la definizione eterodiretta di donna, per costruire un altro modo di essere donna, individuale e collettivo. Si partiva da sé nel senso che il discorso non era astratto, ma la teoria procedeva da un progetto di sé diverso da quello prescritto perché l’impegno nel movimento nasceva proprio dalla distanza e dalla differenza fra ciò che era prescritto e dato e ciò che era contenuto nei propri desideri e necessità, altrettanto materiali e immateriali quanto le prescrizioni del potere che si volevano smantellare: organizzazione gerarchica e sessista nella famiglia, obbligo di cura, obbligo al dono e alla disponibilità, alla subordinazione, accettazione ad essere esclusa da contesti sociali e spaziali e da possibilità offerte agli altri. Quel movimento si è opposto al modello tradizionale dominante per proporne altri, o per proporre più in generale la libertà di progettare sé stesse senza limiti imposti a priori. Questo è stato un progetto politico di trasformazione sociale profondo e non a caso le femministe degli anni Settanta a cui ci riferiamo, lo mettevano in stretta relazione con quello della sinistra rivoluzionaria, che come compagne avevano contribuito a definire e arricchire.

Questa parte del movimento femminista degli anni Settanta in Italia non investiva solo l’identità sessuale interpretata come fatto specifico e separato, bensì anche e soprattutto: gli effetti, anche in termini di teorie e di pratiche, che il concetto discriminante ed eterodiretto di donna produceva nelle sfere dei rapporti sociali, in relazione e tensione con i rapporti di classe e di “razza”, dove questa è

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presupposta; la questione della riproduzione della specie, con la differenza, in termini fisici e materiali, in temi come l’aborto, rispetto agli uomini, laddove la donna non è un contenitore ma una persona, con tutto quello che questo comporta in termini di potere decisionale che non deve essere lo stesso, non deve essere uguale, perché farebbe parti uguali fra differenti; la riproduzione della vita quotidiana interpretata in stretto rapporto di influenza con i sistemi di produzione e i processi lavorativi; la relazione con la natura in una visione non più predatoria ma di rapporto sinergico; le concezioni intellettuali sul mondo i cui limiti emergono con chiarezza con il palesamento dell’esclusione delle donne, come soggetto considerato nelle teorie e come soggetto creatore di teorie, e richiedono una revisione e trasformazione complessiva; l’organizzazione istituzionale e amministrativa chiamata in causa per la visione sessista e discriminatoria inscritta nelle leggi e nelle pratiche, nella sanità, nella scuola e nell’università, nelle politiche per la casa, nella giustizia e nel diritto di famiglia, nelle leggi per l’aborto e nell’assenza di leggi contro la violenza contro le donne; le tecnologie e le forme organizzative con la messa in discussione dell’ideologia inscritta e nascosta in assunti sessisti che pretendono di essere scientifici.

Rispondere alla discriminazione e all’esclusione delle donne richiede la trasformazione di tutte le sfere sociali, proprio come una trasformazione che sostituisca il capitalismo con un altro motore economico.

Va ricordato poi che il noto slogan “Il personale è politico” significa che la trasformazione sociale deve investire in pieno quegli ambiti, come le relazioni sociali, i ruoli imposti e la famiglia, fino ad allora esterne alla lotta politica. Quello stesso slogan nel 1977 viene assunto come emblema da tutto il movimento. Si tratta di un punto centrale su cui si dispiega una grande battaglia tutt’oggi. Non a caso le relazioni ineguali sancite nella famiglia contro cui lottavano questi movimenti, sono quelle stesse che spesso le dichiarazioni dei diritti dell’uomo difendono, sancendo il diritto ad opprimere e ad essere oppresse in una sorta di relativismo, tanto che sembrano affermare “ognuno è padrone a casa sua nell’ambito dello spazio privato della famiglia”. L’art.12 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani approvata dall’assemblea generale delle Nazioni Unite 10 dicembre 1948 afferma “Nessun individuo potrà essere sottoposto ad interferenze arbitrarie nella sua vita privata, nella sua famiglia, nella sua casa, nella sua corrispondenza, né a lesione del suo onore e della sua reputazione. Ogni individuo ha diritto ad essere tutelato dalla legge contro tali interferenze o

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lesioni”. In questo modo però si celebra il trionfo del patriarcato ovunque esso si presenti, sottraendo dal diritto, i diritti delle donne all’interno delle famiglie, facendo un danno enorme alle donne che lottano per le libertà.

Il mondo delle possibilità

Non c’è un modo di essere donna vero e uno falso. Come non c’è un solo femminismo, ma ce ne sono stati e ce ne sono molti con visioni e progetti differenti dell’essere donne e più in generale dell’essere umani. Tuttavia non è femminismo l’accettazione supina dei rapporti patriarcali esistenti e chiamarla tale è una truffa ed è falso, semplicemente falso. La subordinazione, anche quando è accettata è subordinazione. E chi la accetta, indirettamente crea problemi a chi non la accetta, mettendola a rischio. Giustificare con l’autodeterminazione la subordinazione al profitto o alle tristi possibilità offerte dal patriarcato (rispetto delle norme patriarcali, prostituzione), è un tentativo di usare strumenti di liberazione, come l’auto-determinazione, per accettare l’esistente nelle sue parti più infami. Non scomodiamo la libertà per motivare la sottomissione o il profitto. La sottomissione e la subordinazione hanno già i loro, sempre troppo numerosi, teorici ed adepti.

Per i femminismi veri, quelli cioè che si propongono di costruire un ruolo femminile sostanzialmente differente da quello prescritto nel patriarcato, in cui cioè siano aperte le possibilità della libertà, tutto sta a definire qual è l’elemento centrale: l’ingresso delle donne nella struttura di potere, nell’ipotesi che patriarcato e capitalismo possano essere separati, ma questo non è un quesito teorico e deve essere verificato nella realtà, e rimane il fatto che nella corsa dei topi (apertura di “pari” opportunità a correre la corsa dei topi) nella società capitalista solo una esigua minoranza vince, oppure la costruzione di una prospettiva che vuole impedire tutte le discriminazioni, compresa quella di classe, che è tra l’altro strettamente attorcigliata a quella delle donne, come è prevedibile, visto che il capitale usa i discrimini di potere per avvantaggiarsene, prima di tutto in termini di differenziali di valore economico e quindi di costo di mano d’opera.

Una donna, in quanto donna e per il fatto di essere una donna non ha il potere di parlare a nome di tutte le altre donne, forse di una parte, se ne ha il mandato.

Così un movimento delle donne non può parlare a nome di tutte le donne, può parlare a nome di quelle che hanno la stessa prospettiva politica intesa come il

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possibile, che è parte del reale.

Le categorie che individuano e identificano gruppi di persone hanno sempre un elemento di aleatorietà: sono storiche, specifiche, funzionali e fondate su caratteri la cui importanza deriva da considerazioni non sempre condivisibili. In certe sfere non ha senso la distinzione in base al sesso o in base a caratteristiche fisiche di vario tipo. Portando il discorso alle estreme conseguenze gli esseri umani sono estremamente simili e contemporaneamente estremamente diversi: ogni persona è un tipo in sé. A volte vorremmo semplicemente essere considerati esseri umani e non essere identificati con categorie che statuiscono la nostra subordinazione e il potere esercitato su di noi in modo quindi arbitrario. Categorie create per esercitare il potere difficilmente sono quelle da adottare e con cui vivere per esercitare il diritto di fare di noi stessi quello che vogliamo. Come ha scritto Aure Lorde nel 1979 “The master’s tools will never dismantle the master’s house” (gli strumenti del padrone non smantelleranno mai la casa del padrone). Non possiamo distruggere la nostra oppressione usando la logica che giustifica l’oppressione. La categoria di classe serve alla lotta di classe (pensate a quanto lavoro teorico è stato utilizzato per negarne l’esistenza, e poi distruggerla nei fatti, nel periodo in cui è stato un efficace strumento di lotta politica); quella di genere, contrapposta a quella di sesso che presume caratteri astorici e asociali, serve a lottare contro le regole che determinano le possibilità in base al genere; i raggruppamenti politici e i movimenti servono a creare uno spazio in cui si condivide un modo di essere che non dipende dalla presunta o reale appartenenza ad altre categorie ma da un progetto di che tipo di persone vogliamo essere, che tipo di rapporti vogliamo intrattenere con gli altri (relazioni sociali) e con la natura non umana, quali stili di vita, tecnologie e che tipo di città vogliamo (Harvey, 2008, p.23). Categorie come quella di “razza”, inventata per esercitare il potere, diventano delle realtà sociali e politiche che non possono essere semplicemente ignorate, ma vanno affrontate nelle loro specifiche esplicitazioni nello spazio geografico e nel tempo storico e presente.

L’importante è come ne vogliamo uscire

La aleatorietà, contestualità e funzionalità delle categorie che raggruppano le persone devono sempre essere oggetto di riflessione e soggette al pensiero critico, fra etero-definizione e auto-definizione. James Baldwin spiega in modo molto chiaro di cosa si tratti descrivendo lo shock di un bambino che scopre di non essere parte della popolazione o quando afferma che è la società americana

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che si deve chiedere perché ha costruito la categoria di nero, perché lui è semplicemente una persona. «The future of the negro on this country is precisely as bright or is dark as the future of the country. It is entirely up to the american people and our representatives… what the people have to do is to try to find out in their own heart why it was necessary to have a negro in the first place. Because I am not a negro, I am a man. But if you think I am a negro mean that you need it.

The question the white population of this country have to ask itself north and south: if I am not a negro here and you invented it you the white people invented it, you have to find out why. And the future of the country depend on that, weather you are able to ask that question» (trad. il futuro dei neri in questo paese è precisamente altrettanto luminoso o oscuro come il futuro del paese. È interamente nelle mani del popolo americano e dei suoi rappresentanti… quello che la gente deve fare è cercare di scoprire nel loro stesso cuore perché in primo luogo è stato necessario avere un nero. Perché io non sono un nero, sono un uomo. Ma se voi pensate che io sia un nero significa che voi ne avete bisogno. La questione che la popolazione bianca in questo paese si deve chiedere al nord e al sud: se io qui non sono un nero e voi l’avete inventato, la popolazione bianca lo ha inventato, dovete scoprire perché. E il futuro del paese dipende da questo, da se voi siete capaci di rispondere a questa domanda) (Baldwin, 1963:

min.23.22-24.59).

Il possibile fa parte del reale è “la via aperta verso l’orizzonte” (Lefebvre, 1973, p.55). Non è l’oppressione ad accomunarci, ma come ne vogliamo uscire.

Marvi Maggio

Bibliografia

Adorno Theodor W., Horkheimer Max, (1966), Dialettica dell’illuminismo, Einaudi, Torino.

Baldwin James, (1963), James Baldwin interview, (sito visitato il 16 agosto 2018) http://openvault.wgbh.org/catalog/V_C03ED1927DCF46B5A8C82275DF4239F9 Foucault Michel, (1977), Microfisica del potere. Interventi politici, Giulio Einaudi Editore, Torino.

Lefebvre, Henri (1973), La rivoluzione urbana, Armando, Roma

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Lorde, Audri (1979), The Master’s Tools Will Never Dismantle the Master’s House,

Maggio, Marvi, (2016), “A proposito di libertà”, Rivista Anarchica, 404.

Maggio, Marvi, (2017), “Donne, non mamme. Il disordine simbolico della libertà”, Rivista Anarchica, 414.

Maggio, Marvi, (2019), “Conoscenza, potere e libertà”, Rivista Anarchica, 436

La cattiva coscienza del padrone, anche in Regione Toscana

written by Marvi Maggio

L’amministrazione regionale toscana ha recentemente disposto che per fruire dei bar interni e di quelli esterni per brevi pause, fino a un massimo di 15 minuti, comunque da recuperare, i dipendenti debbano timbrare e recuperare il tempo perduto.

Ma si tratta di pause che sono connaturate al lavoro, le soste sono necessarie.

Ovviamente questa regola riguarda solo i lavoratori del comparto, non i direttori e i dirigenti che per contratto non hanno un debito orario cioè non hanno un orario obbligatorio da assolvere, la loro attività è valutata in base al raggiungimento degli obiettivi (ma anche la nostra attività è valutata ogni 6 mesi, dico: ogni sei mesi con voti e se non si raggiunge un certo livello non si ha diritto alla produttività piena). Né riguarda i politici che non solo non timbrano la presenza, ma a quanto ci risulta, non hanno una riduzione dei loro lauti compensi per ogni caffè che prendono, o per ogni sigaretta che fumano. Non si era detto lavorare meno, lavorare TUTTI?

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La direttrice della direzione Organizzazione, nel messaggio inviato a tutti i dipendenti il 3/12/2018, ore 12, intitolato Modifiche all’orario di lavoro, scrive: “A seguito del confronto con le OO.SS., l’amministrazione ha rivisto le disposizioni sull’orario di lavoro introducendo la PAUSA BREVE, le cui caratteristiche sono riportate al relativo paragrafo a pag. 5 delle disposizioni citate“.

Come se ci fosse un rapporto di causa ed effetto fra il confronto e le disposizioni.

Una formula simile viene utilizzata nel decreto a firma del Direttore Generale

“Valutato agli esiti del sopracitato confronto di rivedere la disciplina dell’orario di lavoro…”.

Tecnicamente, in base al CCNL vigente, per l’articolazione dell’orario di lavoro è previsto il confronto, ma in questo caso quello che caratterizza davvero l’operazione è che le proposte della RSU, ma anche quelle delle organizzazioni sindacali, sono state tutte sistematicamente disattese: non hanno influenzato in alcun modo la decisione che, quello era e quello è rimasta. E in questo modo visto che la RSU è un organo democratico eletto dai lavoratori, sono state disattese le proposte dei lavoratori, che con sfumature diverse andavano tutte in una direzione: ribadire che il rispetto dei lavoratori viene prima di tutto e che di esso fanno parte condizioni di lavoro soddisfacenti.

Ogni lavoro di qualità richiede interruzioni, pensiero critico, intelligenza, discussioni e confronti con i colleghi, non testa china. Inoltre ogni due ore di lavoro al videoterminale è necessaria una interruzione di 15 minuti facente parte dell’orario di lavoro a tutti gli effetti e quindi retribuita (guarda caso proprio 15 minuti) per salvaguardare la salute, che per la nostra costituzione repubblicana è un diritto primario.

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La RSU ha indetto in modo unitario l’assemblea del 25 settembre in Santa Apollonia, che ha visto la partecipazione di 660 lavoratori e molti altri dalle sedi esterne avrebbero voluto partecipare ma la distanza li ha ostacolati, e non era possibile la videoconferenza.

Una seconda assemblea nel cortile di Novoli ha visto una partecipazione di 560 persone. I lavoratori che hanno partecipato erano tutti costernati che con tutta la professionalità, le conoscenze e le competenze che mettiamo a disposizione (tra l’altro sottopagate), l’amministrazione non trovi di meglio da fare che escludere dall’orario “una pausa per il recupero psico-fisico” decretando che non è a carico del datore di lavoro.

La democrazia partecipativa, di cui la giunta si fa vanto, non abita nei cancelli della Regione Toscana. Partecipare significa che quanto emerge viene considerato e non cestinato. Il padrone ascolta e poi fa di testa sua: questa non è partecipazione democratica.

Se guardiamo ai fatti vediamo un surrettizio aumento dell’orario di lavoro per chi utilizzerà la pausa. Proprio la durata dell’orario di lavoro è il campo di conflitto storico, di lunga durata, fra padroni e lavoratori. E le limitazioni dell’orario giornaliero, mensile e della vita lavorativa (il diritto alla pensione) sono conquiste delle lotte dei lavoratori, che evidentemente continuano ad essere mal viste dai nemici dei nostri diritti. La limitazione all’orario di lavoro (a parità di salario) è finalizzata da sempre alla salute e al benessere del lavoratore, che deve riprodurre la sua capacità lavorativa per poter lavorare: in questo senso proprio perché serve anche per lavorare la riproduzione è in parte a carico del datore di lavoro: mai sentito parlare delle ferie? Quanto di questa riproduzione è a carico del datore di lavoro e quanto no, dipende dai rapporti di forza (dovrebbe dipendere dalla giustizia, ma purtroppo non è così).

La qualità del lavoro non nasce dal controllo e dalla disciplina, nasce invece dalla democrazia organizzativa, dalle conferenze di organizzazione, dal confronto, dalla valorizzazione delle conoscenze e delle capacità dei lavoratori. Nasce dalle nostre capacità relazionali.

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C’è una vera urgenza: la democrazia organizzativa deve entrare nei cancelli della Regione, insieme al pieno rispetto per i lavoratori della Regione Toscana. Non siamo disposti a essere il capro espiatorio delle carenze del pubblico impiego che dipendono direttamente da scelte politiche. Non siamo disposti a prendere lezioni da chi elabora regole per gli altri, ma non le deve rispettare perché non ha obblighi di orario.

Il grande compagno Brecht ha scritto “Quando l’ingiustizia diventa legge, la resistenza diventa un dovere“.

*Marvi Maggio – Cobas Regione Toscana

Sull’uso dei fatti di Massa da parte della Regione Toscana per appesantire il controllo repressivo sui dipendenti

written by Marvi Maggio

A volte si deve ribadire che esiste un confine che non può essere oltrepassato.

Quando le parole non bastano, quando la ragione non trova ascolto, è necessario dire NO in modo secco e deciso. Non si può esitare. Esiste una soglia insuperabile, quella oltre la quale il “datore di lavoro” nega il rispetto e la dignità che è insita in ogni essere umano, in ogni lavoratore. Stiamo parlando del rispetto dell’umanità delle persone, qualcosa che esiste prima di ogni contratto. E’ la premessa di qualsiasi relazione sociale che non sia di alienazione e annichilimento della nostra umanità.

Nessuno può negare che un lavoratore è prima di tutto una persona, prima ancora di essere un lavoratore. E come tale ha un valore assoluto, non economico, un valore di esistenza, per il puro fatto di esistere, non per la sua utilità o tanto meno per la sua attitudine ad essere sfruttato (cioè sottopagato come siamo noi) e

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spremuto per gli interessi (economici e politici) di altri.

Quello che sta succedendo qui, la paura che serpeggia, non è un caso. I fatti di Massa vengono utilizzati esattamente per quello per cui le norme Madia (e quelle Bongiorno) sono state predisposte: umiliare i dipendenti pubblici, ridurli a bambini da punire e zittire, renderli ridicoli chiamandoli furbetti e fannulloni, impedire che siano il traino delle rivendicazioni per i diritti di tutti i lavoratori (in particolare di quelli con meno diritti), impedire che pretendano paghe adeguate al del lavoro che fanno.

Il permesso personale di 36 ore serve per fare commissioni personali, non certo per assolvere a bisogni fisici come andare al bagno, bere acqua, mangiare una caramella o un panino e bere un caffè. Perché? Perché sono pratiche necessarie alla vita che richiedono pochi minuti, esattamente come alzarsi dalla sedia almeno ogni due ore perché il sangue circoli e sospendere il lavoro al computer.

Ricordando che ogni due ore chi utilizza il computer deve interrompere per un quarto d’ora l’uso del videoterminale, certo può fare un altro lavoro, ma questo segna il fatto che non siamo macchine ma umani e che l’interruzione fa parte dell’orario di lavoro. Tuttavia proprio chi dovrebbe assicurarsi che siano prese queste precauzioni necessarie alla nostra salute si dimentica che non siamo macchine. E il rispetto se non viene riconosciuto va preteso.

Ognuno paghi per le sue colpe, non per quelle degli altri

I fatti di Massa, (i colleghi che sono accusati di non aver timbrato in modo corretto, innocenti fino a verifica di prova contraria), sono fatti specifici da analizzare nella loro specificità: prima di tutto la giustizia sommaria non è propria di uno stato di diritto. Quando i potenti hanno per caso un loro amico inquisito o rinviato a giudizio gridano contro il giustizialismo, chiedono garantismo. Nessuno lo fa per i dipendenti pubblici di cui si presume la colpevolezza. Esistono tre gradi di giudizio in Italia per quasi tutti i reati, proprio per poter valutare la consistenza e la credibilità delle accuse. E’ veramente incredibile che timbrare in modo scorretto sia uno dei pochi reati che prevede l’arresto. Quasi mai lo stupro, mai l’omicidio, derubricato a colposo, dei lavoratori sui posti di lavoro, mai l’evasione fiscale da 180 miliardi di euro all’anno (anzi si fanno condoni e pace fiscale).

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A chi pensa che bere un caffè in un bar interno non sia da fare in orario di lavoro, che vorrebbe un lavoratore che non interrompe mai il suo lavoro, ricordiamo che ogni tanto invece si deve interrompere il fare per pensare e verificare quello che si sta facendo, per porsi delle domande sui risultati e su come potrebbero essere migliori. E questo lo si può fare camminando, facendo le scale e bevendo il caffè.

Theodor Adorno scrive (in Minima Moralia, meditazioni sulla vita offesa) che quello che è da temere è la cieca furia del fare, l’aumento della produzione in direzione di uno sviluppo in una sola direzione dominato dalla quantificazione, ed ostile alla differenza qualitativa.

Proprio la qualità deve diventare il fulcro della PA e non il fare senza sosta e senza pensare.

Come si fanno lavorare le persone? Rispettandole, gratificando (soprattutto economicamente) le loro capacità e competenze, rispettando la loro umanità, stimolando qualità e non quantità, qualità che nasce dalla libertà, non dalla costrizione, qualità che nasce dalla cooperazione e non dalla competizione, dal rancore e dalla rabbia. Vorremmo sentire parlare non solo di quantità, ma anche di qualità.

Il 25 settembre ci troveremo in assemblea: tratteremo della produttività semestrale non ancora erogata, ma sarà anche opportuno definire forme di lotta per impedire che si usino fatti di cronaca per ridurre i nostri diritti di lavoratori.

Quando le parole non bastano ci vuole la lotta!

*Marvi Maggio – Cobas Regione Toscana

No alla soppressione dell’art.18

nei contratti dei lavoratori della

mensa e del bar in Regione

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Toscana

written by Marvi Maggio

La RSU della Regione Toscana ha scritto una lettera indirizzata al presidente Rossi e all’assessore Bugli perché intervengano sulla soppressione dell’art. 18 nei contratti dei lavoratori da parte della ditta vincitrice della gara d’appalto della Regione Toscana per la gestione del bar e della mensa.

Questa esclusione dell’art.18 rappresenta un peggioramento delle condizioni di lavoro e una riduzione dei diritti dei lavoratori. Purtroppo la terziarizzazione (esternalizzazione di attività interne agli uffici regionali come il portierato e la mensa, ma anche le pulizie) ha comportato non certo un risparmio di fondi pubblici ma di certo un netto peggioramento delle condizioni di lavoro, delle retribuzioni, dei diritti dei lavoratori.

*Marvi Maggio – Cobas Regione Toscana

Regione Toscana: da 130.000 a 147.000 euro all’anno per un direttore generale, dove sta il risparmio?

written by Marvi Maggio

C’è una nota stonata in tutto questo rigore sui conti per quanto riguarda i dipendenti della Regione Toscana: tutto deve stare al di sotto del tetto, ma a volte questo tetto non appare così insormontabile.

La DGR 706 del 1 luglio 2015 stabiliva che il trattamento economico del direttore generale fosse determinato in 170.000 euro lordi annui e quello dei direttori in 130.000 euro lordi annui.

In un comunicato del 13 luglio 2015 intitolato “La Regione si riorganizza, ecco le

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nuove direzioni. Scompare il premio di risultato” la Regione vantava, con la solita veemenza trionfalistica, i risparmi ottenuti con il nuovo assetto: non più premi di risultato per i direttori, ma uno stipendio lordo annuo (al netto degli oneri riflessi, quindi ci costano ben di più) di 170.000 per il direttore generale mentre i 13 (in realtà oggi 14 con l’avvocatura generale) direttori percepiranno 130.000 euro (anche in questo caso annue lorde, al netto degli oneri riflessi), non un euro di più. Il comunicato sottolineava infatti che non saranno più previsti compensi per i risultati conseguiti: “I direttori continueranno a essere valutati rispetto agli obiettivi annuali assegnati, ma il lavoro svolto bene non comporterà alcun premio.

In caso di valutazione negativa decadranno dall’incarico”. (Avete visto mai?).

M a c o n D G R 8 2 d e l 2 9 / 1 / 2 0 1 8 s i

“ridetermina” quanto statuito dalla DGR 706 del 1 luglio 2015 e si stabilisce che il t r a t t a m e n t o e c o n o m i c o a n n u o onnicomprensivo relativo all’incarico di direttore della Direzione Diritti di cittadinanza e coesione sociale non è più 130.000 (che già sembravano eccessive) ma 147.000 euro lordi annui, al netto degli oneri riflessi.

Con decreto presidenziale n.19 del 30 gennaio 2018 poi, il Presidente nomina Monica Calamai come direttrice della direzione Diritti di cittadinanza e coesione sociale. Il dispositivo delle delibera dà atto che all’avviso di selezione pubblica per titoli sono state presentate 4 candidature e che si è svolta una istruttoria e un colloquio con i candidati finalizzato a valutare professionalità e la concreta idoneità. Calamai era Direttrice generale presso l’Azienda Ospedaliera Universitaria di Careggi. Lo stesso giorno Monica Piovi, la precedente direttrice della direzione Diritti di cittadinanza, è nominata direttore generale ESTAR con decreto del presidente della giunta regionale n.18 del 30 gennaio 2018.

Va detto per inciso che ogni volta che abbiamo posto questioni relative a un aumento di retribuzione per i lavoratori della Regione Toscana, in termini di progressioni orizzontali, di progressioni verticali (tali da riconoscere il lavoro più elevato già svolto), di aumento del fondo del salario accessorio, ci è stato detto, con la solita veemenza: MA NON CI SONO I SOLDI!!! oppure “dobbiamo rispettare il tetto!”.

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Abbiamo detto: “ma con i nuovi compiti assunti con la riorganizzazione si potrebbe aumentare il fondo del salario accessorio”, “NON SI PUO’”, risponde la Regione. Sulla “armonizzazione” fra trattamenti accessori del personale regionale ex provinciale e regionale abbiamo ottenuto un’assicurazione dall’assessore Bugli che la Regione intende coprire il gap, ma noi chiediamo oltre al riequilibrio (che è questione di giustizia imprescindibile) anche progressioni orizzontali per tutti:

regionali storici ed ex provinciali e su questo una risposta positiva va pretesa.

I soldi ci sono, solo che si usano per finanziare altre imprese, non si utilizzano per retribuire in modo congruo i lavoratori. Tutto aumenta, ma non le nostre retribuzioni. Le Posizioni Organizzative non sono una progressione di carriera, ma fanno la differenza, tuttavia solo una esigua minoranza vi ha accesso. E almeno fossimo trattati con rispetto, invece le grida d’allarme che riceviamo da parte dei lavoratori raccontano un’altra storia.

Tutto a posto?

Sarebbe meglio alzare la testa!

*Marvi Maggio Cobas Regione Toscana https://rtcobas.wordpress.com/

Regione Toscana facciamo il punto, sì… bocciata!

written by Marvi Maggio

Nel 2015 è entrata in attività la nuova RSU (rappresentanza sindacale unitaria) dei lavoratori della Regione Toscana, che è eletta dai lavoratori ogni tre anni circa, le prossime elezioni sono previste entro il 20 aprile 2018. Ma siamo entrati in funzione proprio in concomitanza con l’inizio della legislatura regionale 2015-2020. Loro, la giunta della Regione Toscana, fanno il punto, a metà legislatura, noi lavoratori del comparto della Regione Toscana (non dirigenti e non direttori) facciamo il nostro.

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Prima di tutto va detto che in nome della diseguaglianza, che sembra essere un (dis-)valore della struttura iper-gerarchica della Regione Toscana (che è diventata così, perché non era nata così), abbiamo il direttore generale della Giunta Regionale che percepisce 170.000 euro annui lordi e ben 14 direttori pagati 130.000 euro lordi annui; cui va aggiunta la Segreteria generale del consiglio regionale con 150.000 euro annui lordi.

I lavoratori della Regione Toscana invece hanno questi redditi: B in categoria iniziale 19.358 annue lorde; C in categoria iniziale 21.783 annue lorde; D in categoria iniziale 23.725 annue lorde. A questo si aggiunge la produttività annuale lorda che è condizionata dalla valutazione dei risultati e ammonta a 3000 – 4000 euro lordi annui per i regionali storici (già regionali prima dell’ingresso dei provinciali) ed è molto inferiore per gli ex provinciali. Il totale di tabellare e produttività è quindi fra i 24.000 e i 28.000 euro lordi annui.

Il nostro stipendio infatti è formato da una parte stabile e una variabile, definita salario accessorio, una parte del quale è la produttività, che è così definita perché è assegnata in base alla valutazione di quanto siamo produttivi. Per inciso va rilevato che, invece di parlare di produttività ed efficienza, per i servizi e per le attività di una pubblica amministrazione bisognerebbe utilizzare il concetto valutativo di qualità degli effetti delle politiche pubbliche, perché il concetto di produttività reifica i risultati del lavoro in cose (magari il numero delle pratiche o dei soldi spesi), mentre invece il focus dovrebbe essere semplicemente la qualità degli effetti delle politiche pubbliche, cioè i risultati del nostro lavoro collettivo nella pubblica amministrazione sulla qualità del territorio, del paesaggio, dell’ambiente, della società, dell’ambiente costruito, del processo di urbanizzazione, della struttura idro-geo-morfologica, della struttura eco- sistemica, della struttura insediativa, della struttura agroforestale. In sintesi quella della produttività è una valutazione burocratica e formale invece che sostanziale e costruttiva di qualità.

Va detto poi che siamo 2.935 negli uffici della Giunta e 226 negli uffici del consiglio (esclusi i dipendenti del consiglio e della giunta individuati dai politici e che non sono né assunti in base a concorso pubblico ma a cooptazione legalizzata,

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né sono sottoposti a valutazione). E quindi i fondi del salario accessorio di cui tratteremo qui di seguito sono condivisi da un gran numero di persone e sono lordi.

Il fondo del salario accessorio

Nel 2015 abbiamo subito chiesto progressioni orizzontali per tutti, per incrementare in modo stabile e non condizionale il nostro stipendio: in modo cioè da aumentare la parte stabile che deve essere pagata automaticamente e non sottoposta alle valutazioni. Abbiamo anche pensato a modi per aumentare gli stipendi di quelli che avevano già ottenuto l’ultima progressione possibile (gli apicali di ogni categoria). Contavamo sulle risorse liberate con gli esuberi e sul fatto che nel 2015 non “dovrà procedersi alla decurtazione dell’ammontare delle risorse per il trattamento accessorio in relazione all’eventuale riduzione del personale in servizio” (Circolare del Ministero dell’Economia e delle Finanze n.20 del 8/5/2015). Secondo i nostri calcoli si trattava di 2.295.000 euro disponibili in relazione ai pensionamenti del comparto. Ma contavamo anche sulla possibilità di ottenere una quota di quanto liberato dagli esuberi dei dirigenti (circa 4.000.000 di euro). La RSU proponeva, con la piattaforma unitaria del 2015, di firmare un nuovo contratto decentrato integrativo finanziato con il mantenimento sul fondo delle risorse del salario accessorio relative ai pensionamento e agli esuberi, cosa possibile grazie al fatto che dal 2015 non era necessario tagliare il fondo in relazione ai pensionamenti. Chiedevamo poi che le PO fossero assegnate attraverso procedure trasparenti e non discrezionali; che la mobilità rispondesse alle esigenze dei lavoratori; e chiedevamo anche, pensate un po’ il “miglioramento della gestione organizzativa del rapporto di lavoro”. La Regione ha detto no, malgrado le nutritissime assemblee e presidi dei lavoratori, rendendo così esplicito che la democrazia non abita negli uffici regionali, e a decidere è una minoranza di privilegiati super-pagati che non sembra proprio abbiano il senso della giustizia.

Insomma: chi guadagna 130.000 (i direttori scelti direttamente dai politici) euro lordi annui o 170.000 euro lordi annui (come il direttore generale) oppure i 13.000 euro lordi mensili (come Rossi) oppure 11.549,62 euro lordi al mese (come Bugli e tutti gli assessori) ha ritenuto che avevamo chiesto troppo. Ma non si capisce proprio perché debbano guadagnare 6 volte quello che guadagniamo noi lavoratori.

E’ noto che le progressioni orizzontali le hanno fatte quasi dappertutto, ma qui in

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Regione Toscana no, perché i soldi li hanno usati non per migliorare la situazione di tutti e quindi della maggioranza, ma per irrigidire la struttura gerarchica pesantemente influenzata dallo spoil system. Un sistema inefficiente malgrado tutti i reiterati auto-elogi che d’altra parte caratterizzano tutti i regimi poco o per niente democratici, un sistema che non premia quasi mai le capacità e le conoscenze, ma sempre le appartenenze e le tessere di partito.

Nel contempo mentre nell’accordo di previsione per le risorse decentrate per il 2016 il taglio in conseguenza degli esuberi era di 664.002 euro (per i regionali cui non si applica la lr22/2015), nell’accordo definitivo il taglio è diventato di 1.314.129 con l’effetto (conseguente al fatto che il 2016 è l’anno di riferimento come tetto da non superare nel 2017) che nel preventivo del 2017 si tagliano altri 1.227.209 euro. Un taglio di 2.541338 che è inaccettabile perché questi soldi sono dei lavoratori. Va detto che per il 2016 il taglio in relazione ai pensionamenti era previsto, ma non lo è più per il 2017. La RSU ritiene che il taglio di 664.002 sia quello corretto e non quello di 1.314.129. In sede di accordo sull’utilizzo del fondo 2016 delle risorse decentrate (8 giugno 2017) l’amministrazione ha preso l’impegno di verificare se il taglio proposto in sede preventiva fosse corretto attraverso un apposito quesito “da presentare nelle opportune sedi istituzionali”.

Non ci risulta che sia stato inviato.

Eguaglianza di reddito

Con l’ingresso dei colleghi ex provinciali sarebbe stato scontato per chiunque di buon senso che avessero da subito un reddito equivalente al nostro, di regionali storici. Mi riferisco al salario accessorio ovviamente, perché i tabellari sono gli stessi. Invece no: fondi separati, nessuna risorsa aggiuntiva. Addirittura quando i fondi si unificheranno perché avremo il contratto collettivo nazionale e potremo procedere a quello decentrato, c’è il rischio che si divida fra più bocche da sfamare lo stesso magro raccolto. L’amministrazione tempo fa ci ha comunicato che avrebbe chiesto con forza allo Stato di mettere a disposizione le risorse necessarie, ma se lo Stato non lo farà, noi abbiamo la Regione Toscana come datore di lavoro e sono loro a dover risolvere una situazione inaccettabile: redditi diversi fra lavoratori che stanno fianco a fianco. E notate bene, qui siamo stati ridotti a difendere prima di tutto il reddito esistente e quindi chiedere aumenti diventa più lontano (ma noi non smettiamo di chiederli). D’altra parte una volta creata la separazione fra dirigenza e comparto, è lo scopo di chi comanda (le alte gerarchie regionali politiche e tecniche) proteggere il proprio reddito (lauto) a

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