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Università della Calabria - DiSPeS. Corso di laurea magistrale in Sociologia e ricerca sociale a.a Raccontami di te

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Università della Calabria - DiSPeS

Corso di laurea magistrale in Sociologia e ricerca sociale a.a. 2019-20

Insegnamento di Metodologia della ricerca sociale Dispensa integrativa

Raccontami di te

Dai racconti autobiografici nella vita quotidiana all’intervista biografica

di Paolo Jedlowski

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Indice

Premessa

Capita a tutti di parlare di sé Raccontarsi

Riconoscersi Verso l’intervista Appendice

Nota: Questo testo è stato preparato espressamente per gli studenti del corso di laurea in Sociologia e ricerca sociale dell’Università della Calabria. Si basa su diverse pubblicazioni precedenti dell’autore (in particolare: Parlami di te, in F. Batini, S.

Giusti, a cura, Milano, Unicopli, 2010, e Culture e narrazioni di sé, “Sociologia della comunicazione”, 50, 2015), che sono qui tuttavia rielaborate.

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Premessa

L’intervista biografica è un colloquio in cui l’intervistatore invita l’intervistato a raccontare la storia della propria vita.

Per quanto l’intervista sia, per chi è intervistato, un evento raro, non è affatto raro tuttavia che egli o ella si sia già trovato in situazioni almeno parzialmente analoghe. Nella vita ordinaria, vi è infatti una moltitudine di occasioni in cui ciascuno di noi si trova a raccontare qualcosa attorno a sé.

Per quanto sia banale, questa osservazione è importante. Significa che l’intervista, pur nella sua specificità, condivide certi elementi con quanto avviene ordinariamente, ogni volta che una persona racconta di sé ad un’altra.

Per questo rivolgersi alla forma e alle funzioni del racconto di sé nelle occasioni ordinarie, per prepararsi alle interviste biografiche, ci è utile: ci aiuta a comprendere cosa avviene, in generale, quando una persona racconta di sé.

Ed è per questo che sui racconti di sé che si realizzano nella vita quotidiana presterò attenzione in queste pagine. All’intervista biografica in sé stessa dedicherò attenzione alla fine.

Tra le premesse necessarie a queste pagine vi è ovviamente che l’intervista biografica è lo strumento principe di un insieme di approcci alla ricerca che vengono chiamati per l’appunto “biografici”.

Approcci biografici alla ricerca sono stati praticati nel corso degli ultimi cent’anni da tutte le scienze umane 1 . Per quanto riguarda la sociologia, a partire dal classico lavoro di Thomas e Znaniecki su Il contadino polacco, realizzato agli inizi del Novecento 2, i sociologi raccolgono storie di vita mediante interviste narrative (di solito affiancando a questo strumento l’uso di altre fonti). Questo metodo dipende da una consapevolezza dei compiti della sociologia che possiamo far risalire a Max Weber: in questi compiti non può mancare lo sforzo di comprendere il senso che le

1 Per una introduzione multidisciplinare vedi L. Formenti, Presentazione. Oltre le discipline, in W.

Linden, B. Merrill, Metodi biografici per la ricerca sociale, tr. it. Milano, Apogeo, 2012.

2 W. I. Thomas, F. Znaniecki, Il contadino polacco in Europa e in America, tr. it. Milano, Comunità, 1968.

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persone danno a quello che fanno 3. E il senso che le persone danno a ciò che fanno lo si può cogliere quasi solo ascoltandone la voce.

In Italia, dopo alcuni lavori pionieristici come quelli di Danilo Montaldi o di Danilo Dolci, l’uso sistematico e teoreticamente avvertito della raccolta di storie di vita nella ricerca sociale è stato avviato da Franco Ferrarotti negli anni settanta 4. Molti altri hanno sviluppato e raffinato il campo, e oggi gli approcci biografici alla ricerca sociale sono diffusissimi 5.

Lavorando in questo campo, i sociologi hanno imparato diverse cose sul racconto di sé. Ne indico almeno due (che ritroveremo mano a mano nel discorso):

Innanzitutto, si è imparato che chiedere a qualcuno di parlare di sé corrisponde ad offrirgli un certo riconoscimento: vi è nel raccogliere storie di vita un valore morale e politico, non soltanto scientifico, che non va sottaciuto.

In secondo luogo, abbiamo imparato che ogni racconto di sé è legato alla situazione in cui la narrazione si svolge, e che è una costruzione più o meno temporanea dei fatti narrati (cioè una selezione e una interpretazione di questi ultimi) la quale largamente dipende dall’immagine di sé che il narratore coltiva o che intende promuovere.

A ciò va aggiunto che una certa consapevolezza autobiografica oggi è considerata necessaria anche da parte del ricercatore riguardo a se stesso/a. Chi osserva infatti è parte del campo di osservazione: l’osservatore è situato esistenzialmente tanto quanto lo sono gli attori su cui fa ricerca, e il modo in cui lo è influenza la relazione che intrattiene con loro, e di ciò deve tenere conto6.

3 Per rinfrescare la memoria sul tema del senso nella sociologia weberiana si rimanda lo studente a P. Jedlowski, Il mondo in questione. Introduzione alla storia del pensiero sociale, Roma, Carocci, 2009, p. 123 e sgg.

4 Si veda in particolare Vite di baraccati, di F. Ferrarotti, Napoli, Liguori, 1974. Di Ferrarotti si veda anche Storia e storie di vita, Roma-Bari, Laterza, 1981. Per uno dei primi resoconti dell’uso delle storie di vita in Italia vedi M. I. Macioti (a cura), Biografia, storia e società, Napoli, Liguori, 1985.

5 A testimonianza dell’interesse e della ricchezza degli sviluppi attuali, in stretta relazione con il contesto di ricerca europeo, rimando al numero monografico Biography and Society, curato di R.

Breckner e M. Massari, della “Rassegna Italiana di Sociologia” (LX, 1, 2019).

6 Ciò corrisponde a quella che Bourdieu chiamava la “auto-analisi” propria dello scienziato sociale:

non si tratta di mettersi in scena narcisisticamente, ma di riconoscere il carattere socialmente e culturalmente situato del proprio punto di vista. Cfr. P. Bourdieu, Questa non è un’autobiografia, tr.

it. Milano, Feltrinelli, 2005. L’importanza di una consapevolezza autobiografica del ricercatore (e anche della necessità di renderne conto, almeno in parte, nei propri rapporti di ricerca) è da alcuni decenni molto diffusa: per la sociologia italiana rimando almeno ad A. Melucci (a cura), Verso una sociologia riflessiva, Bologna, Il Mulino, 1998.

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Non credo serva premettere altro. Collocate fra l’insegnamento di Metodi della ricerca e quello di Teoria sociale, queste lezioni costituiscono in un certo senso un ponte fra i due. Dell’importanza della vita quotidiana, del concetto di senso e dei rapporti fra biografie e società si è parlato nel corso di Teoria sociale; dell’importanza di mettere a punto strumenti diversificati per soddisfare le nostre esigenze di ricerca e delle caratteristiche generali dei metodi cosiddetti “qualitativi” (entro cui l’intervista narrativa si situa) si è parlato in quello di Metodi.

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Capita a tutti di parlare di sé

Capita a tutti di parlare di sé. Il che non significa che scriviamo tutti autobiografie. Ma nella vita quotidiana, in diverse occasioni, ci troviamo a raccontare di noi stessi.

È di questi racconti che parlerò nelle prossime pagine. Ciò di cui mi occuperò sono i casi in cui il racconto di sé è il più spontaneo, frequente, banale: i casi in cui una persona racconta qualcosa di sé a qualcun altro, faccia a faccia, oralmente, in una situazione informale, una di quelle conversazioni che punteggiano la nostra vita ordinaria: al lavoro, sul tram, a casa propria, al bar o camminando per la strada 7.

Come qualche giorno fa, in un albergo. A colazione, a un tavolo vicino a quello dove sono seduto una signora parla vivace con un’altra signora. Racconta quanto ha faticato il giorno prima a rintracciare in auto l’albergo; ricorda a chi ha chiesto la strada; dice di aver finito per comprare una mappa della città. “Mio marito, sai, in macchina usa il navigatore, ma io non mi ci trovo”. Continua raccontando come ha dormito e come si è svegliata.

Io, seduto con il mio cappuccino, non potevo fare a meno di stare a sentire. Il racconto era pieno di verve, ma il contenuto era davvero molto poco eccitante. Mi trovai quasi a invidiare la sicurezza di questa signora, che non pareva neppure sfiorata dal dubbio che i suoi racconti potessero essere men che interessanti per la sua interlocutrice.

In ogni caso, quello che ascoltavo era un racconto autobiografico. L’io della narratrice e l’io narrato si sovrapponevano. E questa è la definizione elementare di ogni autobiografia: un racconto in prima persona in cui il soggetto di cui si racconta la storia è lo stesso che proferisce il racconto.

7 Naturalmente, osservare le conversazioni presenta qualche difficoltà. È difficile registrare o filmare una conversazione reale: le persone non parlerebbero più tra di loro come farebbero se fossero sole. Se lo si fa di nascosto (come avviene nell’esempio riportato nelle righe seguenti) si devono fare i conti con il diritto altrui alla riservatezza (nell’esempio, è la narratrice a rinunciarvi, parlando in uno spazio pubblico a voce molto alta). Per questo nelle prossime pagine farò spesso uso di esempi tratti dalla letteratura (e anche dal cinema). Sull’uso di questo tipo di fonti nel lavoro sociologico la riflessione oggi è molto sviluppata, e nel nostro Dipartimento ce ne siamo occupati ampiamente: tra gli interventi più teorici a riguardo vedi R. Siebert, S. Floriani (a cura) Incontri fra le righe. Letterature e scienze sociali, Cosenza, Pellegrini, 2010; E. G. Parini, Tra sociologia e letteratura, “Rassegna Italiana di Sociologia”, 1, 2016.

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Racconti come quello ora evocato compaiono entro conversazioni ordinarie.

(Rammento che la conversazione è una sequenza di atti comunicativi che si svolge tra due o più interlocutori in modo tale che questi si scambiano a turno la possibilità di parola. Le conversazioni ordinarie sono quelle caratterizzate da una interazione di tipo paritetico: in cui esiste cioè, almeno in linea di principio, un’uguaglianza dei diritti e dei doveri comunicativi di tutti gli interlocutori) 8.

La conversazione è una delle forme più elementari della comunicazione umana. Serve a un’infinità di scopi diversi ma, qualunque sia l’argomento, conversando noi costruiamo una sorta di ponte, una relazione con gli altri.

Conversando ci offriamo reciprocamente un riconoscimento elementare ma decisivo:

ci attribuiamo l’un l’altro dignità di parola. E con l’altro (per quanto ciò avvenga di norma implicitamente, in modo temporaneo e parziale) ci accordiamo su come sia possibile parlare del mondo. Come scrivevano Berger e Luckmann, la conversazione è il mezzo più importante della costruzione e della ricostruzione continue di ciò che intendiamo come “realtà” 9.

Ciò di cui andremo a occuparci sono però soltanto le conversazioni in cui hanno posto delle narrazioni di sé.

Di autobiografie e di racconti autobiografici si occupano naturalmente molte discipline. Storia della letteratura e critica letteraria innanzitutto. Per queste discipline, l’autobiografia è un genere letterario. La sua definizione è questa:

un racconto retrospettivo in prosa che una persona reale fa della propria esistenza, quando mette l’accento sulla sua vita individuale, in particolare sulla storia della sua personalità 10.

8 Per l’avvio degli studi sociologici sulla conversazione vedi H. Sacks, L’analisi della conversazione, tr. it. Roma, Armando, 2007. Le conversazioni ordinarie si differenziano dalle conversazioni istituzionali, dove la definizione della situazione è più formale e che comportano di necessità certe asimmetrie nella distribuzione del potere di gestire gli scambi comunicativi. Il diritto di fare domande, di stabilire gli argomenti della conversazione e cambiarli, di controllare insomma e di influenzare l’andamento degli scambi, qui è sbilanciato (si pensi alle interazioni che avvengono in un’aula scolastica, nello studio di un medico, o in tribunale…). Ciò non toglie che anche nelle conversazioni ordinarie contino certe posizioni di potere: età, status sociale o prestigio determinano diritti e doveri diversi, o comunque possibilità di agire differenti. Più la situazione è informale, tuttavia, più tale distribuzione del potere può in generale essere contestata, modificata o sottoposta a negoziazioni. (Su tutto ciò vedi F. Orletti, La conversazione diseguale, Roma, Carocci, 2000).

9 P.L. Berger, T. Luckmann, La realtà come costruzione sociale, tr. it. Bologna, Il Mulino, 1966, pp. 208-9.

10 Ph. Lejeune, Il patto autobiografico, tr. it. Bologna, Il Mulino, 1986, p. 12.

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È la definizione che offre Philippe Lejeune, piuttosto autorevole (anche se può essere discussa). L’elemento decisivo è questo: l’idea che il racconto riguardi l’esistenza della stessa “persona reale” che lo proferisce. Questa idea, il lettore è chiamato a condividerla con lo scrittore. Si tratta di un patto, come scrive Lejeune: un patto che il narratore e i suoi destinatari stipulano implicitamente, il quale che stabilisce appunto che la vita narrata è quella della stessa persona che la narra. (La menzogna è possibile, naturalmente, ma è possibile considerarla tale solo quando esiste un patto del genere).

Ora, Lejeune pensava alle autobiografie letterarie, ma questo elemento definisce anche il racconto autobiografico orale 11. Se qualcuno dice “Sono stato a pescare”, normalmente intendiamo che a esserci andato è proprio lui. Ma vi sono anche delle differenze.

Innanzitutto, rispetto a un’autobiografia scritta, il racconto è più breve: la

“retrospezione” di cui parla Lejeune riguarda solo qualche episodio; raramente è in gioco un profilo autobiografico complessivo del narratore.

Frammentario ed esposto in occasioni non necessariamente vicine fra loro, il racconto orale può comportare inoltre una dose di contraddizioni maggiore di quella di un racconto scritto. È fluido, è sottoposto a rimaneggiamenti continui.

Si intreccia inoltre più marcatamente del racconto scritto con altre forme del discorso, e soprattutto è legato al contesto in cui la narrazione si svolge. Quest’ultima avviene in faccia a un altro, e coinvolge il corpo: gesti, sguardi, postura, uso dello spazio; ci sono persino gli odori. Ma, specialmente, il racconto orale dipende in maniera stringente dall’interlocutore. È cioè un evento relazionale.

Il fatto è che, come scriveva Alberto Melucci,

11 La legittimità di questo confronto potrebbe essere contestata. Essa deriva però da un movimento scientifico e culturale che si è prodotto negli ultimi trent’anni, il quale ha riposizionato le autobiografie, e ogni altro genere narrativo a dire il vero, entro l’universo assai più ampio di tutte le pratiche comunicative che hanno a che fare con la narrazione. Tra il racconto che fa un padre ai suoi bambini prima di mandarli a letto, un romanzo, un film, una soap opera, o qualunque altra pratica comunicativa in cui si narra qualcosa c’è continuità: in gioco sono indubbiamente alcuni fattori che fanno differenza, ma vi è anche molto di comune. In tutti i casi il discorso assume la forma di un racconto, e in tutti i casi vi sono narratori e destinatari, fra i quali la pratica comunicativa fa transitare una storia. Nella prospettiva proposta da questo movimento, anche fra l’autobiografia scritta e pubblicata da un famoso autore e i racconti di sé che una persona qualunque fa ad un’altra c’è continuità: certe regole che definiscono il tipo di discorso sono le stesse, pur entro le differenze che ovviamente si riscontrano. Per un’ampia disamina della questione e per una bibliografia in merito vedi J. Brockmeier, Narrazione e cultura, tr. it. Milano, Mimesis, 2014.

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… non si può separare il narrare dalla relazione in cui si situa. Le narrazioni sono sempre dei racconti che le persone […] fanno a qualcuno e per qualcuno, delle attività comunicative che hanno luogo in un certo contesto relazionale 12.

Questo è vero anche per le narrazioni scritte (dove il contesto relazionale è mediato, ma non è inesistente). In effetti, è vero per ogni enunciazione, la quale per definizione postula un destinatario 13. Ma quando si tratti di un racconto svolto in concreto da qualcuno in faccia ad un altro, la natura relazionale della narrazione è più evidente. Se uno può esporre il proprio racconto, è perché un altro è disposto ad ascoltarlo. In questo senso, a narrare si è in due 14.

Il primo, il narratore, appare il protagonista dell’azione comunicativa; ma il secondo, il destinatario del racconto, non è affatto passivo. Con le sue aspettative determina ciò che viene detto. E non è mai completamente muto: espressioni del viso, posture, interiezioni, domande: si tratta di vere e proprie collaborazioni al racconto.

La sua attenzione o la sua disattenzione, la sua partecipazione emotiva o il suo disinteresse agiscono sul narratore. Insomma: il racconto orale è il frutto di una collaborazione.

Naturalmente nelle conversazioni non è sempre facile distinguere il discorso narrativo da altri aspetti del discorso, e dunque la narrazione in senso stretto dalla più ampia pratica del conversare. La condizione minimale perché un’enunciazione possa essere qualificata come narrativa è che qualcuno dica ad un altro che “è successo qualcosa” 15. Esprimere un’opinione o dichiarare una preferenza, in questo senso, non

12 A. Melucci, Costruzione di sé, narrazione, riconoscimento, in D. della Porta et al. (a cura di), Identità, riconoscimento, scambio, Roma-Bari, Laterza, 2000, p. 40.

13 Come scriveva Emile Benveniste: “ogni enunciazione […] è un’allocuzione che postula un destinatario”. Aggiungeva che persino un monologo “… deve essere considerato, malgrado l’apparenza, come una varietà del dialogo […]: un dialogo interiorizzato” (E. Benveniste, L’apparato formale dell’enunciazione, in Problemi di linguistica generale, tr. it. Milano, Il Saggiatore. 1985, p. 102-103).

14 Conviene ricordare che “racconto” e “narrazione”, a rigore, non sono sinonimi. Il racconto è un testo (orale, scritto o figurato che sia: l’insieme di segni che evoca una certa storia); la narrazione è un’azione (quella di chi proferisce - o comunque produce - il racconto). E questa azione è propriamente una inter-azione. Sul tema mi permetto di rimandare a P. Jedlowski, Storie comuni. La narrazione nella vita quotidiana, Milano, Bruno Mondadori, 2000..

15 B. Herrnstein Smith, Narrative Versions, Narrative Theories, in W. J. T. Mitchell (a cura), On Narrative, Chicago, University of Chicago Press, 1984, p. 228. Secondo la narratologia, un discorso è narrativo se comporta la raffigurazione di un processo che si svolge nel tempo. Come scrive Gerard Prince: “la narrativa può essere definita come la rappresentazione di avvenimenti e situazioni reali o immaginari in una sequenza temporale” (G. Prince, Narratologia, tr. it. Parma, Pratiche, 1984, p. 6). Per quanto possano comparire entro un racconto, non sono in sé enunciati

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sono narrazioni: benché ovviamente compaiano nelle conversazioni e benché altrettanto ovviamente possano dire molto a proposito di chi sta parlando 16. Io cercherò di attenermi alla discussione di enunciazioni strettamente narrative: ma non è difficile rintracciarle, perché sono molto frequenti.

In altra occasione mi è capitato di notare quanto la narrazione sia presente nella quotidianità 17. È vero che il tempo per dispiegare un racconto oggi è più raro di quanto non sia stato in passato. Ma sono racconti anche quelli che scambiamo con conoscenti, come quando rispondiamo a domande come: “E poi, com’è andata?”. O con i figli a cui domandiamo come è andata la scuola. Con i colleghi con i quali vantiamo un affare o lamentiamo un’ingiustizia; con i vicini con cui scambiamo un pettegolezzo; con gli amici o i parenti con i quali ricordiamo all’infinito le storie che condividiamo.

I caratteri, le forme e le funzioni che questi racconti assumono sono variabili tanto quanto sono variabili le situazioni entro cui ci troviamo a raccontare. A volte si racconta per il puro gusto di intrattenersi reciprocamente. A volte per confidarsi, oppure per trovare uno sfogo. A volte si racconta per trasmettere un certo insegnamento, o per affermare con l’efficacia di un esempio un consiglio o un certo precetto morale. Un elenco è impossibile: la narrazione segue la vita in ogni piega delle sue necessità.

E parte di questi racconti ha carattere autobiografico. Ha per argomento qualcosa che è successo a noi stessi. Può capitare in risposta a una domanda diretta (“E poi, che ti è successo?”), o possiamo essere noi a prendere l’iniziativa (“Ma lo sai cosa mi è successo?”). Possiamo fare a gara a raccontare oppure aspettare di esservi spinti. Ma lo facciamo. Quando e dove? Molto spesso, dovunque.

Certo, la maggior parte delle interazioni si basa su una forte dose di impersonalità. Non potremmo chiedere a ciascuno dei passanti che incrociamo nella folla di parlarci di sé, né lo facciamo con il commesso del supermercato, con il funzionario a uno sportello, con coloro coi quali partecipiamo a una riunione di lavoro (anche se in qualche caso un piccolo segno di interessamento personale può essere d’obbligo, o quanto meno agevolare il rapporto). Ma non mancano spazi per una socialità distesa e per relazioni personalizzate. Anche la società contemporanea conosce luoghi in cui la conversazione si può dispiegare, e in cui non di rado si parla di sé.

narrativi una descrizione, un giudizio, una lista o un teorema, ad esempio: in tutti questi casi il tempo non è rappresentato.

16 Una dimensione espressiva è del resto presente in qualsiasi enunciazione. È su ciò che si basa la possibilità di dire che qualcuno “si racconta” anche quando, propriamente, non sta raccontando nulla.

17 P. Jedlowski, Storie comuni. La narrazione nella vita quotidiana, cit.

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Come nei caffè per esempio. Dove il racconto di sé è diffusissimo:

In tutti i caffè sono frequenti racconti o vere proprie confessioni riguardanti problemi o questioni personali: giovani innamorati che si raccontano incertezze individuali o analizzano la loro liason sentimentale; amici che affrontano gioie o dolori personali e la complessità delle proprie relazioni affettive; studenti alle prese con regole famigliari, problemi della convivenza, incomprensioni con i coinquilini, disagi esistenziali e prime crisi all’ingresso nell’ambito lavorativo; trentenni fedifraghi o traditi - sia uomini che donne - che cercano una spalla amica su cui piangere o un orecchio fidato che possa prestare ascolto […]; anziani che tessono la trama delle esistenze dei propri figli e nipoti… 18.

Motivi, forme e funzioni di questi racconti sono molti, variabili, spesso intrecciati o sovrapposti fra loro. In ogni caso, poiché ho detto poc’anzi che a narrare si è in due, la prima cosa che possiamo osservare è che le occasioni in cui il racconto riguardi il sé del parlante sono quelli in cui la natura relazionale della narrazione è più macroscopica. Quanto meno, ha i maggiori effetti sul racconto stesso: ciò che si racconta dipende in modo assolutamente stringente dalla relazione. In breve: non a tutti raccontiamo di noi in modo uguale.

Non penso a particolari segreti, a quei racconti che per definizione non si fanno a chiunque. La relazione che sussiste tra narratore e destinatario informa comunque la narrazione di sé. Lo esprime bene un passo di Joshua Meyrowitz:

Verso la fine degli anni Sessanta, quando ero studente universitario, passai tre mesi di vacanze estive in Europa. Feci un’ampia gamma di esperienze nuove ed eccitanti e, quando tornai a casa, ne parlai agli amici, alla mia famiglia e ad altri conoscenti. Ma non a tutti riferii esattamente la stessa versione. Ai miei genitori diedi ragguagli sulla sicurezza e la pulizia degli alberghi in cui avevo soggiornato e su come il viaggio mi avesse reso meno pignolo nel mangiare. Ai miei amici parlai di pericoli, di avventure e di una breve storia d’amore. Agli insegnanti descrissi gli aspetti

“educativi” del viaggio: visite a musei, cattedrali, luoghi storici e osservazioni sulle differenze culturali e comportamentali. Ognuno dei miei pubblici udì un discorso diverso. Le storie del mio viaggio erano diverse tanto nel contenuto quanto nello stile. Cambiavano anche costruzioni grammaticali, modi di pronunciare le frasi, termini gergali. Cambiavano le espressioni del viso, le posizioni del corpo e i gesti delle mani… 19.

Aveva forse mentito a ognuno dei suoi pubblici? si domanda l’autore. No:

aveva tenuto conto delle differenze che sussistono fra i suoi interlocutori, o meglio fra le relazioni che intrattiene con loro.

18 M. Cerulo, La danza dei caffè. L’interazione faccia a faccia in tre luoghi pubblici, Cosenza, Pellegrini, 2011, pp. 37-38.

19 J. Meyrowitz, Oltre il senso del luogo, tr. it. Bologna, Baskerville, 1985, p. 3.

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Raccontarsi

La relazione che il narratore ha con il destinatario determina forma e qualità del racconto.

È una constatazione facile a farsi se si osservano le narrazioni faccia a faccia. È meno evidente a chi si concentra su testi scritti. La mediazione offerta dal testo comporta infatti la separazione del narratore dai suoi destinatari, e così ne emancipa la prestazione dai vincoli che raccontare in faccia a un altro comporta.

È per questo che il romanziere Edward M. Forster, ad esempio, sosteneva la relativa superiorità del romanzo rispetto a ciò che si può narrare all’interno di una conversazione. Proprio a causa della separazione tra il narratore e il destinatario, il romanzo permette infatti di toccare argomenti che in una situazione faccia a faccia potrebbero venire affrontati solo eccezionalmente, con cautela, o non venire affrontati per nulla: l’anonimità della relazione permette di aggirare il riserbo e il pudore di cui le relazioni personali devono tener conto molto più attentamente. Sono gli argomenti che riguardano quella che Forster chiamava la “vita nascosta”:

... le pure passioni, quei sogni, quelle gioie, quei dolori e quei colloqui con se stesso di cui l’educazione o il pudore vietano di fare parola 20.

È vero che è stata la diffusione di scrittura e lettura che in buona misura ha dato origine all’idea stessa di questa “vita nascosta”, all’idea di una “interiorità” celata alla vista 21. Ma, una volta diffusa, questa idea è divenuta concreta. Avvertiamo la discrepanza fra ciò che possiamo e ciò che non possiamo dire. La maggior parte delle conversazioni pone un limite alla possibilità di nominare la “vita nascosta”.

Sfidare questo limite comporta un certo pericolo. I racconti autobiografici hanno in effetti una differenza rispetto ad altri racconti: raccontare di noi è un po’ più rischioso.

Un primo aspetto del rischio riguarda la nostra capacità di interpretare le regole della decenza. Dunque non imbarazzare e non imbarazzarsi. Non è da poco: a riguardo, sbagliare significa squalificarsi.

In cerchie sociali diverse e nel corso del tempo i limiti di ciò che decentemente

20 E. M. Forster, Aspetti del romanzo, tr. it. Milano, Garzanti, 1991, pp. 57-58.

21 Per una sintesi delle riflessioni su scrittura e sviluppo del “sé”: G. Pecchinenda, Homunculus.

Sociologia dell’identità e autonarrazione, Napoli, Liguori, 2008.

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è possibile dire variano considerevolmente. Le conversazioni nei salotti europei del Sei e Settecento - per cui disponiamo di buone testimonianze 22 - ponevano limiti angusti al racconto di sé. Era così ancora nella prima metà del Novecento. Come annotava Georg Simmel, gli aspetti più personali della vita non trovano spazio alcuno nella cornice della conversazione socievole: si tratterebbe di “assenza di tatto” 23.

Questi limiti oggi, almeno in Occidente, sono considerevolmente più larghi.

Ma non inesistenti. (È difficile che in una conversazione qualcuno racconti esattamente che cosa fa in bagno, per dire).

Naturalmente, vi sono diverse inclinazioni al racconto autobiografico: per età, ceto, genere e generazione. Da noi, secondo Adriana Cavarero, sono soprattutto le donne a raccontare di sé:

Nelle cucine, sui treni, nei corridoi delle scuole e degli ospedali, davanti a una pizza o a un bicchiere, sono soprattutto le donne a raccontarsi storie di vita 24.

Gli uomini - dice - raccontano di sé meno facilmente. Dipende forse dalla propensione a nascondersi dietro idee astratte, a inseguire generalizzazioni: mentre l’arte del racconto si basa sul particolare. Ma non saprei quanto insistere. Conta la generazione. Mio padre non parlava di sé. Questione di pudore, ma anche di una certa idea della virilità. Nella sua generazione gli uomini si facevano vanto di essere di poche parole. Oggi non mi pare così. E sembra vero del resto che, almeno nei ceti più elevati, fin dall’Ottocento l’amicizia maschile potesse ospitare occasioni narrative che germogliavano nei collegi, nei pensionati, sui banchi delle università. Come ha notato uno storico, la conversazione maschile era qui

uno dei versanti dell’educazione sentimentale e sessuale, il versante cioè della rivisitazione, attraverso il linguaggio, dell’esperienza vissuta 25.

Anche quanto alle donne, del resto, la faccenda non è così ovvia. In un’intervista con Renate Siebert, la scrittrice algerina Assia Djebar, commentando un proprio lavoro autobiografico, dice quanto sia stato difficile per lei usare il pronome

“io” in quell’occasione, dal momento che in Algeria

22 Vedi fra gli altri B. Craveri, La civiltà della conversazione, Milano, Adelphi, 2001.

23 G. Simmel, La socievolezza, tr. it. Roma, Armando, 1997, p. 45.

24 A. Cavarero, Tu che mi guardi, tu che mi racconti. Filosofia della narrazione, Milano, Feltrinelli, 1997, p.73.

25 A. Corbin, Relazione intima o gioia del rapporto, in Ph. Ariés, G. Duby (a cura), La vita privata.

L’Ottocento, tr. it. Roma-Bari, Laterza, 1988, p. 407.

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… persino nella vita di tutti i giorni, la parola femminile evita l’“io” della prima persona.

L’educazione, la morale, non ci spinge a parlare di noi 26.

A sua volta, Siebert nota altrove come anche in Italia le donne più anziane, almeno in contesti rurali, non abbiano necessariamente un gran facilità a raccontarsi.

Dire “io” e associarvi la propria esperienza soggettiva corrisponde all’assunzione di una responsabilità, è un momento di emancipazione che non è sempre facile né sempre scontato. Certamente dicono “io” volentieri le ragazze più giovani. Fin troppo, pare a Siebert: al punto che la diffusione di un atteggiamento auto-riflessivo sembra rovesciarsi a volte in una sorta di “azzeramento della curiosità per il mondo”, una specie di “eccesso autobiografico” 27.

Oltre a differenze di genere e di generazione, esistono differenze ascrivibili alla cultura. Negli Stati Uniti due psicologi, Qi Wang e Jens Brockmeier, hanno messo a confronto giovani americani e giovani immigrati cinesi. L’atteggiamento dei secondi rispetto al racconto di sé pare loro espresso perfettamente da alcune frasi dell’autrice della celebre autobiografia La donna guerriera, Maxine Hong Kingston. Cresciuta in una comunità cinese immigrata, Maxine va poi a scuola e impara l’inglese.

Ricordandolo scrive:

Non potevo capire “Io” [in inglese “I”, N.d.T.). La parola cinese che vuol dire “io” ha sette linee, è intricata. Come poteva l’”Io” degli americani […] avere solo tre linee, e con quella in mezzo così dritta, marcata? 28

26 R. Siebert, Andare ancora al cuore delle ferite. Intervista a Assia Djebar, Milano, La Tartaruga, 1997, p. 21.

27 R. Siebert, Cenerentola non abita più qui, Torino, Rosenberg & Sellier, 1999, p. 212. (Vedi anche Ead., E’ femmina però è bella. Tre generazioni di donne al sud, Torino, Rosenberg & Sellier, 1991). Ma l’importanza della presa di parola autobiografica va valutata caso per caso. A ridosso di un’altra ricerca, riguardante la presa di parola di donne vittime di soprusi mafiosi, Siebert commenta: “È significativo che la presa di parola - la trasgressione della legge dell’omertà per quelle che vengono da un ambiente mafioso o comunque contiguo alla mafia, il superamento della timidezza o dell’abitudine alla riservatezza per quelle donne che sono mogli, madri o sorelle di uomini morti nella lotta contro la mafia - rappresenti un punto di svolta decisivo […]. Prendere la parola, vincere riservatezza e pudore - ma anche l’opportunismo dell’ambiente sociale - mobilita le forze di Eros contro Thanatos” (R. Siebert, La mafia, la morte e il ricordo, Soveria Mannelli, Rubbettino, 1995, pp. 34-35).

28 M. Hong Kinston, The woman warrior: memoirs of a girlhood among ghosts, New York, Random House, 1976, p. 166, cit. in J. Brockmeier, Localising oneself: autobiographical remembering, cultural memory, and the Asian American experience, in “International Social Science Journal, 203/204, 2011, p. 128. La donna guerriera è stato tradotto in italiano dalle edizioni E/O, ma non è più disponibile.

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Il segno cinese per “io” è 我. E più avanti si chiede: com’è possibile che I sia scritto in maiuscola, e you con la minuscola? “No, non è educato, davvero!”.

Come sottolineano Wang e Brockmeier, non possiamo dare per scontato il nostro modo di dire io 29. A parere di altri, provenienti da altre culture, vi mettiamo un’enfasi decisamente eccessiva. Fra le culture non esistono differenze nette, ma, quanto al discorso autobiografico, ci sono almeno differenze di grado, di stile.

Secondo le ricerche citate, gli occidentali imparano fin da bambini a parlare di sé in uno stile che privilegia i valori dell’autonomia e dell’indipendenza; i cinesi imparano a parlare di sé con maggiore modestia, sottolineando di più l’interdipendenza fra ciascuno ed i suoi famigliari.

Le ricerche comparate su questo argomento sono meno sviluppate di quanto si desidererebbe. Ma è plausibile dire che, nei termini più generali, le culture occidentali sono caratterizzate da un peculiare rilievo attribuito all’idea di “individuo”, e che la stessa diffusione dell’autobiografia come genere letterario moderno è espressione di questo rilievo 30.

Ma quanto al rischio, per tornare al cuore del discorso che sto sviluppando, non si tratta comunque solo di quello di essere inopportuni. Il rischio è anche che l’altro

29 Q. Wang, J. Brockmeier, Autobiographical remembering as Cultural Practice, in “Culture &

Psychology”, 8 (1), 2002.

30 Si vedano in proposito le voci della ricca Encyclopedia of Life Writing. Autobiographical and Biographical Forms, a cura di M. Jolly, London, Fitzroy Dearborn Publishers, 2001. Il rapporto fra individualismo e nascita della moderna autobiografia è un argomento frequente negli studi sull’autobiografia come genere letterario. Effettivamente l’autobiografia sembra trarre una linfa speciale da entrambi i versanti dell’individualismo moderno: da un lato l’idea dell’uguaglianza dei diritti di ognuno (in questo senso siamo tutti “individui”, a prescindere dalle differenze di nascita o censo, e abbiamo dunque diritto a narrarci); dall’altro l’idea dell’unicità della vita e della personalità di ciascuno (in questo senso ognuno è “individuo” a suo modo, e raccontarsi serve a testimoniarlo). Una miscela di uguaglianza e di diversità che trovò forse la prima espressione nelle Confessioni di Rousseau: “Se pure non valgo di più, quanto meno sono diverso” (J. J. Rousseau, Confessioni, tr. it. Milano, Garzanti, 2000, p. 5). Uguali per diritto e diversi per predisposizione, gli individui della modernità occidentale sono chiamati a autorealizzarsi nei propri corsi di vita: una certa attenzione autobiografica si lega a questo progetto sia come testimonianza di ciò che si è conseguito sia, e forse soprattutto, come strumento per indagare le proprie stesse disposizioni. I testi autobiografici diventano così modello per l’autocomprensione del sé, appoggiandosi sulla precedente tradizione cristiana della confessione ma emancipandosene quanto al senso che vi è attribuito, ora marcatamente connesso alle problematiche dell’autorealizzazione e dell’emancipazione. I contatti coloniali fra Europa e altre parti del mondo hanno portato a una diffusione assai ampia di questo modello e delle sue giustificazioni. Ciò non toglie però che certe forme di autobiografia esistessero in tradizioni diverse: dai racconti delle proprie esperienze di formazione scritte dai sufi fin dal XI secolo a racconti di viaggio come quelli di Ibn Khaldoun e Ibn Battuta del XIV, da testi antichi cinesi fino a scritti persiani.

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utilizza ciò che diciamo a nostro danno. Rammento in proposito un film americano, Interview 31.

Un giornalista deve intervistare una diva. Il clima non è del tutto sereno. A entrambi è chiaro che parlare di sé significa offrirsi a potenziali minacce: più le informazioni sono personali, più l’altro potrà usarle per nutrire pettegolezzi, montare scandali, addirittura per esercitare ricatti. Anche per questo la diva, nel corso dell’incontro, rovescia più volte le parti: è lei a intervistare il giornalista, a aggredire.

C’è qualcosa di agonistico, nel film, nel tentativo dei due di portare l’altro a raccontare di sé.

Ma, verso il termine dell’incontro, la donna sembra infine confessare un segreto che davvero farebbe gola ai giornali. Lo fa dietro giuramento di riservatezza, ma soprattutto, prima di farlo, convince l’uomo a svelare a sua volta ciò che ha di più inconfessabile. Sarà lei a registrare la sua confessione con la videocamera. Una sorta di parità sarà così stabilita.

Ma è un inganno: il segreto che lei gli rivela è solo quello del personaggio che lei impersona in una soap opera (che il giornalista non conosce: e di ciò lei si era offesa). Lui lo scambia per un racconto autobiografico vero; si precipita a comunicarlo al giornale. Quando scopre l’inganno è già troppo tardi: adesso è lei a conoscere quello che lui non avrebbe mai voluto rivelare a nessuno.

Nel film, la consapevolezza del rischio connesso con il parlare di sé è acuita dal fatto che ambedue i personaggi lavorano nel mondo dei media. Ma, per quanto in misura minore, è qualcosa che conosciamo tutti. Raccontarsi è esporsi a un pericolo.

Ciò che raccontiamo, così, dipende da quanto ci fidiamo dell’altro.

Al di qua di esempi così radicali, se raccontare di sé è delicato è anche perché la rappresentazione che forniamo di noi si confronta con le rappresentazioni di noi che gli altri ci restituiscono. Il fatto è che, prima di essere in gioco ciò che gli altri eventualmente faranno di quello che raccontiamo, conta la messa in scena di noi stessi che operiamo nel momento della narrazione.

Per comprenderlo bisogna rammentare la struttura specifica del racconto autobiografico. Questa è definita dal fatto che il pronome “io” nel racconto si riferisce all’io empirico di chi il racconto lo proferisce. Questa coincidenza non è ovvia. La coincidenza dell’“io” testuale con la persona concreta del narratore non è obbligatoria: in un romanzo, ad esempio, può darsi benissimo il caso che l’“io”

dentro al testo non coincida affatto con il romanziere (“Chiamatemi Ismaele”, dice la

31 Interview, regia di S. Buscemi, U.S.A. 2007.

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prima riga di Moby Dick, ma Ismaele non è ovviamente Melville). In un racconto orale, tuttavia, questa coincidenza di norma è scontata.

Ora, all’“io” del testo il racconto fornisce certe caratteristiche: può farlo esplicitamente (dicendo ad esempio dov’è nato o quando), ma anche implicitamente:

per il modo in cui la voce narrante parla, il destinatario può essere spinto a immaginare un uomo coraggioso, un codardo, un uomo compassato o irascibile, o ironico, e così via. Poiché nel racconto orale l’“io” del testo e l’io del narratore coincidono, ciò che il testo in questo modo suggerisce si proietta direttamente sulla persona concreta del narratore.

Ma la congruenza tra l’immagine dell’io che il testo produce e quella attribuibile alla persona del narratore può venir messa in dubbio. Davanti a chi pensiamo sia un “fanfarone”, ad esempio, distinguiamo bene l’“io” costruito dal suo racconto - per definizione pieno di ogni virtù - dal narratore concreto. L’immagine che il racconto cerca di proiettare non è quella che attribuiamo a chi racconta.

Insomma: il destinatario può non credere al narratore. E questi rischia la faccia.

Visti i pericoli, c’è da chiedersi perché ci si racconti. Ma lo facciamo. Perché?

Tanto quanto sono varie le occasioni, sono vari i motivi. Si può raccontare di sé per condividere una certa emozione (un dolore o una gioia). Per suscitare considerazione, per “reclamizzarsi”. Si può raccontare di sé per giustificarsi. Per vantarsi o per farsi compatire. Per sedurre. Per chiedere aiuto. Per farsi consolare o per consolare. Per chiedere consiglio o per darlo. Forse più spesso si racconta di sé semplicemente per confermarsi di esistere.

A volte in una conversazione il discorso autobiografico si dispiega come un vero e proprio racconto: uno degli interlocutori tiene la parola più a lungo, l’altro interloquisce solo per brevi commenti, esclamazioni o domande che agevolano la narrazione. Più spesso il discorso è frammentario: brevi frasi, accenni, notazioni quasi fra parentesi. Magari un elemento autobiografico fa capolino entro un racconto su un altro argomento (i racconti orali conoscono spesso una complicata architettura di digressioni e di incastonamenti).

Anche lo stile conosce infinite varianti. Nelle sue Lezioni di stile Raymond Queneau ha mostrato come la stessa storia possa venire raccontata in 100 modi diversi 32. Vale lo stesso per le storie di sé.

Ripensiamo alla conversazione fra il giornalista e la diva che poco sopra ho citato, ad esempio. Quando accetta lo scambio che lei gli propone, il giornalista

32 R. Quenau, Esercizi di stile, tr. it. Torino, Einaudi, 1983.

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racconta un episodio di cui ha assoluta vergogna, e lo stile è serissimo, persino tragico. La narrazione si svolge lentamente, inframmezzata da pause. L’uomo è seduto, chino in avanti, le mani intrecciate. La diva ascolta in silenzio. La forma è quella di una confessione.

Ma si può raccontare di sé in tutt’altri modi. Estraggo un esempio da un racconto a fumetti, un episodio di una serie famosa per gli appassionati del genere, Julia, di Giancarlo Berardi. A conversare sono Julia, la criminologa protagonista della serie, e i due principali coprotagonisti, l’irascibile tenente Webb e il grasso e pacioso sergente Irving. Dopo aver visitato il luogo di un assassinio, i tre si sono ritirati in un caffè a fare il punto della situazione. È tarda notte. Una coppia lascia il locale e ad alta voce dichiara di andare a finire la nottata in discoteca. Conclusa la discussione di lavoro i tre escono in strada: Webb osserva torvo un orologio pubblico e nota ironicamente:

Webb: “Cinque e un quarto. Andiamo a fare quattro salti anche noi?”

Julia: “In discoteca? Scherza?”

Irving interviene sornione: “Ne conosco una che sta aperta fino all’alba…”.

Julia: “Accidenti, siete diventati uomini di mondo!...”

Webb: “A dire il vero, non metto piede in un posto del genere da secoli”.

Irving: “Io da martedì scorso!”

È qui che interviene un breve aneddoto autobiografico:

Irving: “Rose m’ha iscritto a una scuola di danza…”

Julia commenta giudiziosamente: “È bello avere un interesse in comune, dopo tanti anni di matrimonio!”

Irving: “Bellissimo… Ieri sera mi ha proposto il divorzio!”

Julia: “Chi? Rose!?”

Webb: “Tutta colpa delle ninfette che ti ronzano intorno sulla pista, giusto?”

Julia: “In effetti, una bella prova da superare…”.

Irving: “Non le noto neanche, sono troppo impegnato con i passi!...”

Julia: “Allora, perché Rose vuole divorziare?”

Irving: “Perché sono così impegnato a non pestarle i piedi che non la guardo in faccia!...

Dice che si sente trascurata!” 33.

Il racconto si conclude con un autocommiseratorio sospiro. Gli altri sorridono.

Ci si dà appuntamento per l’indomani.

In questo caso la narrazione si svolge in piedi. Le battute si incalzano con rapidità. Le pose di Irving sono piuttosto studiate, quella che mette in scena a

33 Trascrivo da “Julia” n. 67, 2004, La chiamavano Betsy Blue, soggetto di Giancarlo Berardi, sceneggiatura di Giancarlo Berardi e Lorenzo Calza, disegni di Thomas Campi.

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beneficio dei colleghi è dichiaratamente una recita. La risata che la chiude è il suo premio. Lo stile del racconto è insomma autoironico 34.

Fra questi due esempi, uno tragico, l’altro leggero, potremmo trovarne altri mille. Lo stile del racconto può assumere sfumature infinite, così come i motivi soggettivi per cui si racconta di sé, e per cui si sta ad ascoltare.

Al di là dei motivi soggettivi, è probabile che le funzioni della narrazione di sé nelle conversazioni ordinarie vadano rintracciate innanzitutto in certe necessità elementari della vita, pratiche, cognitive e psicologiche insieme. Raccontarci e ascoltare altri raccontare di sé serve a collocarci nello spazio e nel tempo sociali.

Sono modi di connetterci, di collocarci nel mondo, di posizionarci in una realtà spazio-temporale dalle coordinate comuni.

Questa collocazione non avviene una volta per tutte e non avviene, di norma, con un racconto soltanto. La costruzione narrativa del nostro passato e di “chi” siamo noi è dunque un processo, un insieme di racconti intrecciati attraverso cui quella che si produce è una “auto-localizzazione” del sé 35.

Alla richiesta di procedere a questa localizzazione ci si può anche sottrarre. Il giovane Holden - il celebre personaggio del romanzo di Salinger - inizia il proprio racconto ad esempio dicendo:

… magari vorrete sapere prima di tutto dove sono stato e com’è stata la mia infanzia schifa e che cosa facevano i miei genitori e compagnia bella […], ma a me non mi va proprio di parlarne […]; quella roba mi secca 36.

Più avanti, incontrando in treno la mamma di un compagno di scuola, dà un nome sbagliato, e invece di dire che va a casa perché è stato espulso dice che va in ospedale: “Ho un piccolo tumore nel cervello”. Al che lei “… si portò la mano alla

34 L’aneddoto di Irving era disegnato ad allentare la tensione che il lavoro aveva accumulato.

Appartiene a quello che potremmo chiamare il suo ruolo nel terzetto, nel sistema di relazioni, di definizioni reciproche e attese che si è cristallizzato fra loro. In questo sistema Irving ha una parte:

le sue possibilità di discorrere ne sono limitate. Potremmo notare che è così per tutti. Se all’improvviso raccontiamo in modi o di argomenti che non si confanno alla parte consolidata, alle aspettative che i compagni hanno nei nostri confronti, generiamo sconcerto; gli altri si chiederebbero: cosa c’è che non va? In generale, il punto è che tutte le conversazioni hanno qualcosa di un sistema, vale a dire di un insieme di posizionamenti reciproci e interdipendenti degli attori coinvolti. Questi sistemi, nel corso del tempo, possono cristallizzarsi al punto che, per cambiare stile o argomento dei propri racconti, una persona a volte non può che cambiare i propri interlocutori abituali.

35 Si veda in proposito l’ampia trattazione in J. Brockmeier, Narrazione e cultura, cit.

36 J. D. Salinger, Il giovane Holden, tr. it. Torino, Einaudi, 2008, p. 3.

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bocca eccetera eccetera” 37. Del resto, se c’è una cosa che lui odia è l’ipocrisia che regola le conversazioni ordinarie. Se ne fa beffe aumentando la falsità a dismisura.

Ma con ciò, quello a cui si sottrae è tutto un mondo.

Usualmente non ci si sottrae a questo modo. La costruzione narrativa del sé avviene in collaborazione con gli altri. Senza questa collaborazione il sé si disintegra.

È difficile coltivare rappresentazioni di sé che nessuno attorno a noi ci conferma.

Avverrebbe come per il giovane protagonista di La vita è sogno di Calderon de la Barca: prigioniero in una torre, riesce infine a scappare e giungere a corte, dove è riconosciuto come il figlio del re; ma di notte gli danno un sonnifero, lo riportano in cella; e al risveglio nessuno fra quelli con cui può parlare gli conferma l’identità che credeva di aver conquistato: di fronte alla testimonianza contraria di tutti, non può credere alla propria memoria. Conclude di avere solo sognato 38.

L’autoposizionamento del sé che avviene nella maggior parte delle conversazioni ordinarie può tuttavia a volte apparirci insoddisfacente. È un posizionamento temporaneo, contestuale, legato alle nostre esigenze all’interno delle cerchie sociali cui in quel momento ci riferiamo.

In momenti di passaggio, o di crisi, in cui si impongono magari certe scelte o certi riorientamenti complessivi della nostra esistenza, questo posizionamento non basta, e abbiamo bisogno di rappresentazioni del sé più complesse. Le rappresentazioni del sé sono infatti costitutive del nostro agire: le scelte che compiamo dipendono dall’idea che abbiamo di noi stessi, della nostra storia, delle nostre inclinazioni o della nostra personalità. La sensazione di non sapere chi siamo ha per questo qualcosa di paralizzante. In momenti di disagio o di crisi abbiamo bisogno così di saperlo.

37 Ivi, p. 69.

38 Calderon de la Barca, La vita è sogno, tr. it. in Id., Teatro, Torino, UTET, 1984.

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Riconoscersi

Stendhal cominciava la Vita di Henry Brulard dicendosi stupefatto di avere cinquant’anni, ed osservando che “sarebbe pur tempo di conoscermi” 39.

Non che fosse poi soddisfatto delle risposte che riusciva a fornirsi. Il suo testo è costellato di dubbi; ripete di continuo “Mi distraggo…”, “Divago…”. “Che cosa sono stato, che cosa sono - scrive - sarei in verità molto imbarazzato a dirlo” 40. Ma la domanda orienta il suo sforzo di raccontare. Uno sforzo che corrisponde a un certo piacere, ma il piacere non comanda del tutto il discorso: la tensione fra le parole e ciò che con esse si cerca anima il testo.

È una tensione che anima difficilmente le conversazioni ordinarie. L’imbarazzo denunciato da Stendhal probabilmente lo riconosciamo. Anzi, nelle condizioni odierne è probabilmente più accentuato che mai. Alberto Melucci scriveva qualche anno fa che la definizione delle nostre identità oggi è per ciascuno una “sfida” 41, e i motivi li sappiamo. Perché nelle società contemporanee le esperienze che compiamo in diverse sfere di vita sono molteplici e sono difficili da integrare. Perché siamo sottoposti a ripetuti e veloci cambiamenti, più che in tempi passati. E a causa dell’eccesso di risorse simboliche (e di possibilità di azione) che sono a disposizione di ognuno, il che in altre parole significa che ci è difficile avere un’identità perché disponiamo di molte identificazioni possibili. D’altro canto, ci è necessario identificarci, e in questo compito di fatto investiamo una parte cospicua delle nostre energie. Ci è necessario se non altro perché le rappresentazioni del sé sono costitutive del nostro stesso agire. Ripetiamolo: in gran parte, le scelte che compiamo dipendono dall’idea che abbiamo di noi stessi. Però, le relazioni frettolose che intratteniamo nella vita quotidiana consentono solo di rado racconti orientati ad affrontare la questione.

Quello che avviene così è che i racconti autobiografici che si sviluppano entro queste relazioni tendano essenzialmente ad essere delle presentazioni di sé, più o meno coerenti fra loro ma ogni volta dipendenti dalle necessità del momento.

Per intendere la logica della presentazione di sé possiamo pensare a un

39 Stendhal, Vita di Henry Brulard, tr. it. Milano, Adelphi, 1997, p. 4.

40 Ibidem.

41 Vedi A. Melucci, Costruzione di sé, narrazione, riconoscimento, cit.

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curriculum. È un caso estremo, ma per questo è istruttivo. Wislawa Szymborska ne ha ben descritto la forma:

A prescindere da quanto si è vissuto il curriculum dovrebbe essere breve.

È d’obbligo concisione e selezione dei fatti.

Cambiare paesaggi in indirizzi e ricordi incerti in date fisse.

Di tutti gli amori basta quello coniugale, e dei bambini solo quelli nati […].

Scrivi come se non parlassi mai con te stesso 42.

Il curriculum è una presentazione di sé determinata dall’effetto che si desidera suscitare. Forma e contenuti dipendono da ciò che immaginiamo che l’altro si aspetti e possa valutare (auspicabilmente in modo positivo). È un caso limite, ma la maggior parte dei racconti autobiografici che svolgiamo nelle conversazioni ordinarie ha una logica analoga. Raccontiamo secondo modalità che non turbino le attese altrui che immaginiamo e che servano ai risultati che intendiamo raggiungere 43.

Naturalmente, a questa presentazione non lavoriamo soltanto verbalmente. Per mostrarlo, in La vita quotidiana come rappresentazione Erving Goffman traeva da un romanzo questa citazione, riguardante tale signor Preedy, un uomo al mare, in vacanza, al primo giorno di spiaggia:

... Per prima cosa Preedy doveva mostrare chiaramente a quei potenziali compagni di vacanza che essi non lo interessavano minimamente. Guardava attraverso, intorno, sopra a loro, con lo sguardo perso nel vuoto; la spiaggia avrebbe potuto essere deserta. Se per caso una palla veniva lanciata nella sua direzione, sembrava stupito; poi faceva vagare sul suo volto un sorriso divertito (che gentile quel Preedy!), si guardava attorno sorpreso di accorgersi che c’era gente sulla spiaggia, rilanciava la palla sorridendo a se stesso e non alla gente, e riprendeva quindi con indifferenza il suo disinvolto studio dello spazio. Era ora di fare un po’ di messa in scena [...]. Con complicati maneggi dava modo a chiunque ne avesse voglia di leggere il titolo del suo libro - una traduzione spagnola di Omero, perciò un classico - ma non troppo - e anche di tono cosmopolita; poi riuniva l’accappatoio

42 W. Szymborska, Scrivere il curriculum, tr. it. in Gente sul ponte, Milano, Scheiwiller, 1996, p.

69.

43 Il curriculum ha qualcosa di una comunicazione pubblicitaria. A questo tipo di comunicazione oggi siamo assuefatti, ma vorrei notare che ciò comporta effetti che possono rivelarsi pericolosi.

Quella pubblicitaria è infatti una comunicazione conativa, cioè la funzione prevalente dell’enunciazione è quella di spingere il destinatario a qualcosa; ma questo tipo di enunciazione ha una caratteristica: non può essere esposto al giudizio di verità o falsità. Pensiamo a enunciati come

“Comprami!”, oppure “Amami”: non si può dire se sono veri o falsi, ciò che si può fare è soltanto accettare o meno l’invito. Il che significa che, più questo tipo di comunicazione si diffonde, più ci si disabitua a porsi la questione della verità o falsità di un enunciato. Il che è una conseguenza rilevante: di fatto è la possibilità stessa di ogni discorso critico a venire messa in crisi.

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e la borsa in un’ordinata costruzione (che giudizioso e metodico quel Preedy!), si alzava lentamente per stirare meglio la sua enorme corporatura (che gattone quel Preedy!), e infine gettava via i sandali (dopo tutto anche spensierato quel Preedy!) 44.

Le frasette che il romanziere inserisce fra le parentesi indicano esattamente l’effetto che i gesti dell’uomo intendono avere. Si tratta di costruire una presentazione di sé, per l’appunto.

Un testo come questo serviva a Erving Goffman per concentrare l’attenzione sulla ricchezza e sulla complessità delle interazioni ordinarie. L’uomo alla spiaggia si occupa accuratamente dell’impressione che i suoi gesti susciteranno negli altri, e conta sul fatto che i suoi maneggi saranno compresi dagli altri secondo codici comuni, anticipandone così gli effetti attesi. Si tratta di comportamenti banali, ma la comunicazione che è in gioco è il frutto di strategie e di competenze piuttosto complesse.

Ma strategie e competenze analoghe sono presenti anche nella comunicazione verbale. I tentativi di invitare gli altri a farsi un’idea positiva di noi possono essere condotti in modi grossolani oppure più raffinati. In infinite conversazioni (sul lavoro, al bar, in un party o quando siamo presentati a qualcuno) lavoriamo a quello che potremmo chiamare il capitale della nostra reputazione. È particolarmente rilevante quando si fanno mestieri in cui una valutazione oggettiva di quel che sappiamo fare è difficile (come nel campo intellettuale o artistico, per esempio), e quello che conta è il prestigio di cui riusciamo ad ammantarci. Oppure quando il lavoro lo si sta cercando: non per caso conversazioni orientate a farsi pubblicità e a costruire un buon capitale di relazioni sociali sembrano diffuse nei pub e all’ora degli aperitivi fra i giovani in cerca di opportunità 45.

Però non è solo questione di farsi pubblicità. La presentazione di sé comporta di norma anche un altro elemento. Nella quotidianità si tratta per lo più di collocare se stessi e le cose che raccontiamo in una cornice che corrisponda a quello che possiamo chiamare il “senso comune” delle cerchie sociali in cui ci collochiamo 46. Il repertorio delle cose che possono plausibilmente accadere, dei motivi, le cause, le ragioni accettabili, e delle stesse identità che si possono assumere sono tutte cose in genere abbastanza stereotipate. Nelle sue lezioni Sacks notava che

44 E. Goffman, La vita quotidiana come rappresentazione, tr. it. Bologna, il Mulino, 1969, p. 15. Il romanzo da cui la citazione è tratta è A Contest of Ladies di William Sansom, London, Hogarth, 1956.

45 Sul tema mi permetto di rimandare a P. Jedlowski, Presentazione a Luoghi terzi. Forme di socialità e sfera pubbliche, numero monografico di “Rassegna Italiana di Sociologia”, 1 (LII), 2011.

46 Per una trattazione introduttiva al concetto di senso comune rimando lo studente a P. Jedlowski, Il mondo in questione, cit., p. 148 e sgg.

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… un aspetto assolutamente interessante delle conversazioni ordinarie è che quando si parla di un evento, si racconta non già quello che di imprevedibile potrebbe essere accaduto, ma la natura ordinaria di ciò che è accaduto 47.

Certo, un minimo di interesse, e dunque di scostamento da ciò che sarebbe così ovvio da non dover neppure venir menzionato, è necessario perché ci sia narrazione.

Ma ciò a cui siamo più impegnati nella vita quotidiana, dice Sacks, è ad apparire

“normali”. (La messa in scena di un po’ di eccentricità, eventualmente, ne è appena una vernice sottile). E questo è “un vero lavoro” 48. La maggior parte dei nostri racconti di sé vi coopera.

Ma in questa “normalità” possiamo anche star stretti. Vi sono così anche racconti di sé che oltrepassano la soglia di quello che parrebbe lecito, opportuno o conveniente narrare. Possiamo avvertire che nel tipo di riconoscimento permesso dai racconti coi quali ci presentiamo manca qualcosa, e questo ci mette a disagio. La presentazione di sé è una negoziazione: più o meno implicitamente, negoziamo attraverso il racconto fra il nostro desiderio di raccontarci e quello che per i nostri interlocutori ci pare accettabile. Ma l’identità che assumiamo, così, può farci stare come in un letto di Procuste: qualcosa di noi non vi corrisponde.

Potrei evocare la questione rammentando dei versi di Auden:

... dietro la dama che ama il ballo e dietro il signore che beve come un matto, sotto l’aspetto affaticato,

l'attacco di emicrania e il sospiro c’è sempre un’altra storia 49.

Ecco: certi racconti autobiografici hanno per oggetto qualcosa di simile a queste altre storie. O vorrebbero averlo. Non dimentichiamo infatti quanto la comparsa di elementi autobiografici troppo intimi, di espressioni troppo intense della soggettività del parlante, possa essere fonte di disagio per il destinatario: può eccederne la sua disponibilità, o noi possiamo temerlo.

Così, avviene spesso che le “altre storie”, quelle che si sporgono oltre ciò che è più facile dire o che il destinatario presumibilmente accetterà senza sforzo, si limitino

47 H. Sacks, op. cit., p. 35.

48 Ivi, p. 37.

49 W. H. Auden, Alla fine il segreto vien fuori, tr. it. in La verità, vi prego, sull'amore, Milano, Adelphi, 1994, p. 47.

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