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Le interviste narrative sono colloqui in cui all’intervistato si chiede di raccontare qualcosa. Le interviste biografiche ne sono una specie: ciò che si chiede all’intervistato di raccontare è la storia della propria vita. Ciò a cui si invita è una narrazione di sé, ovvero una narrazione “autobiografica”. Sono interviste più libere di altri tipi di intervista. Non c’è una “scaletta” rigida: l’intervistatore avvia e conduce il colloquio, ma l’andamento del discorso è cooperativo.

Quanto abbiamo osservato fin qui non riguardava però specificamente le narrazioni che avvengono in un’intervista. Riguardava le narrazioni riguardanti se stessi che compaiono in conversazioni ordinarie. È la forma elementare del racconto autobiografico. Rispetto ai racconti di sé che compaiono nelle conversazioni ordinarie, il caso dell’intervista propone evidentemente alcune differenze.

Innanzitutto, l’intervista non è una conversazione simmetrica. I ruoli degli interlocutori sono definiti e diversi, ed è l’intervistatore ad avviare e a guidare (almeno fino a un certo punto) l’incontro.

La situazione in se stessa è definita esplicitamente: è un’intervista, per l’appunto (dunque non una conversazione informale, un esame, una confessione, o qualunque altra cosa), e ciò comporta da parte di entrambi gli interlocutori certe aspettative specifiche.

Infine si svolge entro un setting prescelto. Non avviene per caso e non un posto qualunque: avviene in un momento predeterminato e in uno spazio prescelto. E il tempo destinato al narratore è lungo, molto più lungo di quanto non sia concesso a un interlocutore di solito. Il racconto di sé dunque avrà una ampiezza e una continuità che possiede di rado.

Per altri elementi però interviste biografiche e narrazioni di sé più ordinarie si assomigliano.

Poiché la narrazione è un’interazione, ed è un’interazione situata, ciò che il narratore racconta dipende in gran parte dalla relazione che stabilisce con l’intervistatore e dal momento in cui narra.

Poiché l’intervistato è chiamato a parlare di sé, corre certi rischi: sono grosso modo gli stessi che abbiamo esaminato nelle pagine precedenti.

E quelli che offre sono racconti orientati a una certa presentazione di sé.

Questi racconti costeggiano però a volte quella che ho chiamato la “ricerca di sé”. Possono farsi cioè problematici, interrogativi. Non credo avvenga spesso che si

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dispieghino come tali (l’intervistatore non è un amico, né uno psicologo, né un confessore). Ma possono costeggiare la dimensione della “ricerca” in forma accennata, come nei momenti che abbiamo definito ante-narratives.

Questi ultimi sono momenti interessanti per il ricercatore: spie di racconti diversi, potenziali, che si nascondono sotto la superficie del detto. A riguardo si deve rammentare che un sociologo non ha il diritto di investigare ciò che il soggetto intervistato intende tacere. Però può registrare i silenzi. Se sceglie di chiedere, deve farlo con rispetto, e anche con cautela. Perché deve sapere che raccontarsi, se da un lato può essere una attività soddisfacente, capace in sé persino di curare, a volte, dall’altro lato può fare male: si possono toccare punti dolenti della propria storia e del proprio mondo affettivo, si può sfiorare qualcosa di cui, proprio mentre si racconta, ci si accorge di non avere le parole per dirlo, o di non essere capaci di affrontarlo di petto, magari perché stride con quanto usualmente preferiamo pensare di noi. Cautela dunque, e rispetto.

Non va dimenticato comunque che, nella contemporaneità, l’esigenza degli individui di riflettere su sé stessi è particolarmente marcata. Di esempi di presentazioni di sé ne abbiamo a bizzeffe, ma abbiamo anche l’esigenza di affrontare scelte che ripetutamente ci invitano a rivisitare quello che facciamo. Nei saggi compresi in Sociologia e vita quotidiana, studiati nel corso di Teoria sociale 68, si nota spesso che le persone oggi, prive di ancoraggi sicuri in un senso comune affidabile, sono spesso impegnate a “monitorare” per così dire le proprie azioni, sviluppando dunque per necessità competenze auto-narrative e cercando le occasioni per farlo.

Ciò significa che l’intervista che proponiamo, per quanto eccezionale per la sua durata e per l’attenzione che viene richiesta, si iscrive in fondo in un universo di pratiche che l’intervistato conosce, e viene a partecipare di un processo di auto-riflessione che era già in corso e che presumibilmente continuerà.

Non è raro del resto che l’intervista abbia effetti sull’intervistato. A volte, a distanza di tempo, dirà all’intervistatore di essersi accorto di qualcosa proprio in quell’occasione, di aver ripensato in modo nuovo a un certo evento, di aver cambiato o allargato il proprio sguardo riguardo a certi vissuti.

Insomma: l’intervista è un’azione, interviene nella vita stessa di colui al quale chiediamo di raccontarsi. Una certa responsabilità ce la abbiamo: come e forse di più del destinatario di qualunque racconto di sé.

68 S. Floriani, P. Rebughini, a cura, Sociologia e vita quotidiana, Napoli-Salerno, Orthotes, 2019.

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Ciò che abbiamo osservato nei capitoli precedenti dunque, benché non toccasse direttamente il problema delle interviste, è utile a farle: mette a punto una sorta di consapevolezza di sfondo riguardo a che significa raccontare di sé.

Naturalmente nessun racconto descrive la storia di una vita nella sua interezza.

Neanche quello prodotto nell’intervista più lunga e libera che possiamo realizzare.

Come nota Duccio Demetrio in un bel volume intitolato Raccontarsi, ogni racconto finisce per privilegiare certi temi, episodi, aspetti della vita che racconta: opera cioè secondo certe focalizzazioni 69.

Vi sono racconti che si focalizzano sulla storia affettiva del narratore, altri che privilegiano la sua storia professionale, altri ancora che sottolineano viaggi, spostamenti; e così via.

Poiché la narrazione è una interazione, la scelta su cosa focalizzare l’attenzione è in parte prodotta dall’interazione stessa: l’intervistatore può spingere il narratore a una certa focalizzazione o a un’altra a seconda dei suoi interessi di ricerca e di come li propone, e l’intervistato a sua volta può proporre focalizzazioni differenti.

Il lavoro che poi l’intervistatore compirà sul testo raccolto potrà del resto comportare focalizzazioni ancora diverse: rileggendo il testo trascritto, distanziandosi dunque dalla relazione con l’intervistato, riemergeranno il suo apparato teorico e i suoi interessi di ricerca, o ne emergeranno di nuovi, e la sua attenzione potrà appuntarsi su come il testo tocchi - magari anche implicitamente - certi aspetti della vita o certi altri (la collocazione generazionale del narratore per esempio; le sue esperienze scolastiche; l’importanza della parentela, e così via). Oppure potrà concentrarsi su certe reticenze, e magari azzardarsi a qualche spiegazione sociologica di queste (il pudore è un fatto sociale, ad esempio). O ancora potrà interessarsi a certe

“frasi fatte” o a certi termini gergali (spia in genere di una certa collocazione culturale). Ogni racconto di sé è un impasto di elementi personali e sociali.

A volte sono importanti le singole parole. Voglio sottolinearlo, e prendo a prestito di nuovo un esempio narrativo. Questa volta è tratto da un romanzo di Gianrico Carofiglio, La versione di Fenoglio. Una donna e un uomo, che sono solo conoscenti, stanno conversando. Si sono nominati i figli della donna. A un certo punto la donna chiede:

- Lei ha figli maresciallo?

- No. Purtroppo no. Non… non è stato possibile.

- Mi perdoni, sono stata indiscreta (…)

69 D. Demetrio, Raccontarsi, Milano, Raffaello Cortina, 1996.

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- Non si preoccupi, non è stata indiscreta. Era una curiosità normale. Avrei voluto, con mia moglie ci sarebbe piaciuto, ma non è successo. Abbiamo fatto tutte le analisi, ed è risultato che era colpa mia. (…)

- Colpa mia. Che espressione assurda, Che c’entra la colpa?

- Niente, in effetti. Però le parole che scegliamo, soprattutto quelle inconsapevoli, riflettono il nostro modo di vedere le cose. Giusto o sbagliato che sia 70.

È esatto: la scelta della parola “colpa” riflette un modo di vedere le cose. Altre parole avrebbero potuto essere usate, ma il narratore ne ha scelta una, e quella che sceglie dice gli eventi ma apre anche, a chi ci voglia badare, un intero universo di considerazioni, dubbi e risposte tramite cui egli è collocato in un mondo sociale. La parola è una spia. Una storia di vita è un dialogo fra il soggetto e il suo mondo.

Ma è opportuno ora sottolineare una cosa. Avrei potuto inserirla all’inizio, ma preferisco inserirla alla fine: forse così è più chiara. Il fatto è che le storie di vita possono essere life histories oppure life stories 71. Devo usare l’inglese perché in italiano la traduzione è la stessa, ma si tratta di oggetti diversi.

Le prime sono, per intenderci, quelle a cui si riferisce il lavoro di uno storico:

una ricostruzione il più possibile oggettiva della vita di qualcuno. Lo storico utilizza varie fonti, tra le quali racconti autobiografici della persona di cui si narra la vita possono giocare anche un ruolo, ma in ogni caso non sono gli unici materiali utilizzati, che consistono in documenti, lettere, testimonianze altrui ed altro ancora: lo storico dichiara, confronta, intreccia e controlla, fin dove è possibile, una molteplicità di fonti al fine di ricostruire le cose “come sono andate”.

Le seconde sono i racconti che le persone stesse fanno della propria vita;

possono farlo per iscritto o a voce, possono anche accludervi fotografie o disegni, in ogni caso qui è di una prospettiva soggettiva che si tratta: ciò che emerge è come le cose sono state “vissute” 72.

Quello che noi raccogliamo, con le nostre interviste, sono evidentemente life stories.

70 G. Carofiglio, La versione di Fenoglio, Torino, Einaudi, 2019, p. 58.

71 La distinzione si è imposta internazionalmente a seguito delle riflessioni sviluppate in Francia negli anni ottanta da Daniel Bertaux sulla distinzione fra histoire de vie e rècit de vie. A riguardo è utile D. Bertaux, Racconti di vita, a cura di R. Bichi, Milano, Angeli, 1998.

72 A rigore, andrebbe introdotta qui una distinzione ulteriore, quella tra vita vissuta e vita ricordata (quella che di fatto è raccontata). Il punto però ci costringerebbe a riflessioni sulla natura della memoria che in questa sede preferisco tralasciare. Se ne parla comunque nell’intervista a Gabriele Rosenthal pubblicata in “Rassegna Italiana di Sociologia”, LX, 1, 2019, di cui gli studenti dispongono.

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La life history del nostro intervistato potremo eventualmente ricostruirla affiancando all’intervista altre fonti, ma quanto agli eventi, alle date, alla “fattualità”

per così dire della vita narrata, la life story non è la sola fonte e non è neppure la fonte più adatta. Essa svolge altre funzioni per il ricercatore. Come scriveva Chiara Saraceno agli albori della ricerca biografica in Italia, ogni testimonianza autobiografica va assunta come un testo “la cui verità fattuale è di rilevanza marginale rispetto alla verità del vissuto e della sua elaborazione” 73.

Ciò a cui l’uso di fonti autobiografiche permette l’accesso è la dimensione del senso che il soggetto attribuisce al proprio agire interpretando e reinterpretando i ricordi legati alla propria esistenza. O, come scrive a sua volta Sonia Floriani, è una

“combinazione delle esperienze fatte e delle modalità narrative con cui il soggetto ha saputo rielaborarle e trattenerle” 74.

In questa ultima definizione l’accento cade sulla congiunzione fra esperienze vissute e modi di raccontarle, e tale congiunzione è rilevante, dobbiamo sottolineare anche questa. Poiché si tratta di una performance linguistica, l’autobiografia che raccogliamo permette anche di scorgere la cultura delle cerchie sociali al cui interno hanno preso forma le pratiche discorsive del narratore. In questo senso un’autobiografia parla sempre di qualcosa di più della vita di un soggetto: parla della società in cui egli o ella ha vissuto e della cultura grazie a cui ha imparato a interpretare la sua vita 75.

Ritorniamo così a una delle premesse da cui siamo partiti: l’approccio biografico corrisponde allo sviluppo di una domanda centrale per la sociologia, ovvero quale sia il senso che i soggetti attribuiscono alle proprie azioni. In fondo, il sociologo è sempre interessato a quello che chiamerei il “senso degli altri”. Anche nella vita quotidiana, indubbiamente, ciascuno di noi affronta continuamente il problema di comprendere il senso delle azioni di altri (così come delle proprie, come abbiamo visto). È ciò che mostravano sia Alfred Schutz che Berger e Luckmann.

Ordinariamente risolviamo il problema ricorrendo alle tipizzazioni che il senso

73 Saraceno, C., Corso della vita e approccio biografico, “Quaderni del Dipartimento di Politica Sociale”, n. 9, Università di Trento, 1986, p. 19.

74 S. Floriani, Identità di frontiera. Migrazione, biografie e vita quotidiana, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2004, p. 15.

75 Questa frase merita una precisazione. Dicendo che un soggetto impara a interpretare la vita

“grazie” a una cultura non intendo che la sua soggettività ne sia determinata. Non solo perché ogni cultura è tutto fuorché un monolite (comprende subculture, culture locali, declinazioni infinite) ma anche perché un soggetto può interpretare la vita negoziandone i significati con la propria cultura, riformulandola, o addirittura opponendovisi. In generale, i rapporti fra i contesti sociali e la soggettività sono sempre bidirezionali: discutendone in relazione alle interviste da lei realizzate, sviluppa con chiarezza questo punto Simona Miceli in Un posto nel mondo. Donne migranti e pratiche di scrittura, Cosenza, Pellegrini, 2019, p. 69 e seguenti, cui rimando.

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comune ci offre. Ma a volte queste tipizzazioni non bastano, e quello che mettiamo in atto è così uno sforzo di comprendere l’altro che utilizza tutti gli strumenti interpretativi di cui disponiamo: facciamo domande, interpretiamo gesti, riflettiamo sulle parole che l’altro ci dice. Un’intervista è un modo più sistematico, mirato e controllato di mettere in atto lo stesso sforzo. E ciò che potremo comprendere sarà simultaneamente singolare e plurale: la persona che intervistiamo ha certe particolarità che appartengono a lei sola, ma contemporaneamente affronta problemi, compie azioni, utilizza frasi e pensieri e modi di raccontarsi che la accomunano a molti. La particolarità potrà colpirci, e spesso emozionarci, ma la parziale generalizzabilità di ciò che dice (il suo carattere potenzialmente “idealtipico”) potrà essere uno strumento del nostro specifico fare ricerca sociale.

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APPENDICE

Sulla realizzazione concreta di interviste biografiche esistono svariati manuali

76. Ma a fare interviste si impara con la pratica. E leggendo ricerche in cui di questa pratica viene dato conto.

Personalmente, in questa sede, mi limiterò a qualche raccomandazione. (Anche se forse non serve: in concreto le regole di un’intervista biografica sono semplici, il buon senso aiuta).

Innanzitutto ricordiamo che l’intervistatore è tenuto alla cortesia: quello che sta ricevendo è un dono (l’intervistato gli regala parte del suo tempo e della sua attenzione). E non dimentichiamo che anche noi, nell’intervista, agiamo: con la nostra comunicazione verbale ma anche con quella non verbale. Si tratta di far trasparire nella nostra comunicazione il nostro interesse e il nostro riconoscimento riguardo al dono che ci è offerto. (E anche il rispetto per lo sforzo dell’intervistato:

ciò che gli chiediamo può essere a volte molto impegnativo).

Prima dell’intervista ci sono alcune cose da fare. Ricordiamole:

- scegliere il tipo di intervistati necessari al nostro progetto di ricerca;

- individuare gli intervistati potenziali;

- contattare gli intervistati potenziali;

- nel primo contatto definire le regole a cui ci si atterrà: dichiarare cioè gli scopi generali dell’intervista e i modi in cui sarà trattato il materiale raccolto;

anticipare la lunghezza approssimativa dell’intervista; nominare la presenza di un registratore; dichiarare il carattere più o meno riservato del materiale raccolto (es.: lo leggeranno i miei collaboratori, non altri); promettere (o meno) la restituzione all’intervistato del materiale raccolto;

- individuare e predisporre un setting adeguato all’intervista (tipicamente:

sufficientemente appartato, riservato, e non rumoroso);

- assicurarsi che il registratore funzioni.

Durante l’intervista si tratta di permettere all’intervistato di sentirsi a proprio agio e di manifestargli a più riprese il nostro interesse. Si possono fare domande, si può incoraggiare l’intervistato su di un certo tema. Che noi siamo curiosi è giusto.

Ma il rispetto dell’altro (anche dei suoi silenzi) è comunque sempre la guida. Se l’intervistato a un certo punto è stanco, possiamo fare una pausa (a volte del resto

76 Si veda ad esempio R. Bichi, L’intervista biografica, Milano, Vita & pensiero, 2002; R. Atkinson, L’intervista narrativa, tr. it. Milano, Cortina, 2002. Personalmente trovo di grande sensibilità e particolarmente utile il capitolo “La raccolta dei racconti di vita” in D. Bertaux, Racconti di vita, cit.

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l’accordo inziale può prevedere più sedute, oppure si può decidere insieme di proseguire un’altra volta).

Dopo l’intervista ci sono altre cose da fare. Innanzitutto trascrivere l’intervista seguendo queste regole:

- trascrivere il più fedelmente possibile, dunque rispettando eventuali errori sintattici, ripetizioni, incespicature del discorso, interiezioni; l’unico fattore che può imporre qualche aggiustamento è la necessità di rendere il testo leggibile;

- trascrivere anche gli interventi dell’intervistatore (eventualmente marcandoli con un corpo tipografico differente);

- riportare fra parentesi quadre le principali espressioni non verbali dei due interlocutori; ad es.: [sorride], [lunga pausa], [in tono irato], e simili.

Se promesso nel primo contatto, bisogna anche consegnare copia del testo all’intervistato. In ogni caso, è buona regola consegnare a chi abbiamo intervistato una copia del rapporto di ricerca conclusivo.

Buon lavoro.

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