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1. PASCOLO E PASCOLAMENTO 1.1 Introduzione

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1.

PASCOLO E PASCOLAMENTO

1.1 Introduzione

Nella storia dell’umanità, la pastorizia, ha da sempre rappresentato la prima forma di attività agricola, basata sullo sfruttamento della vegetazione spontanea da parte degli animali erbivori. Ancora oggi, molte forme di allevamento si mantengono grazie all’approvvigionamento di foraggi prodotti dalle formazioni naturali, specialmente, in quei paesi del terzo mondo ove gli animali si nutrono esclusivamente di foraggi spontanei, altrimenti non utilizzabili dall’uomo.

Nei paesi dove la pressione demografica è forte, la trasformazione dei prodotti zootecnici, ha un rendimento tanto basso da essere economicamente ingiustificato, mentre, dove la pressione demografica non è eccessiva e il livello di mezzi adeguato (i paesi industrializzati della fascia climatica occidentale), i sistemi agricoli prevedono anche colture intensive di foraggere.

L'utilizzo delle colture foraggere negli avvicendamenti colturali, ha da sempre comportato un gran miglioramento della fertilità agronomica del terreno, basti pensare, all’introduzione della Medicago sativa all'epoca dell'impero Romano, o all'introduzione della stessa erba medica nelle praterie americane e nella pampa argentina.

Una coltivazione foraggera è una coltura esclusivamente deputata alla produzione di foraggio, quest’ultimo definito genericamente prodotto vegetale (come pianta o parte di essa), derivato sia da coltivazione, sia da sviluppo spontaneo, non utilizzabile per l’alimentazione umana, né per usi industriali, ma adatto, esclusivamente all’alimentazione degli animali domestici erbivori. (A. Masoni et al, 2001)

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Non si considerano foraggi i prodotti vegetali a basso contenuto in fibra e con un alto valore nutritivo come i semi, i frutti o i panelli che sono definiti mangimi "concentrati", per la loro elevata concentrazione calorica.

Nel mondo la maggiore produzione di foraggi proviene da formazioni erbacee naturali, come le praterie, costituite in gran parte da graminacee, specie arbustive e arboree, site in zone tropicali nella fascia compresa tra le foreste pluviali e i deserti.

Nella corrente definizione, si usa indicare come foraggere, tutte le specie vegetali il cui prodotto viene utilizzato nell'alimentazione del bestiame, mentre con la parola foraggio si intende il solo prodotto della attività vegetativa della pianta cioè l'erba o i suoi derivati: fieno e insilato.

Alcuni autori, ai fini di una maggiore caratterizzazione degli alimenti per il bestiame, propongono di considerare come foraggi solo i materiali con un contenuto di fibra superiore al 17 %. Questo suggerimento non ha trovato rispondenza nella pratica, perciò si definisce con il termine generico di "foraggio", tutta l'erba più o meno matura allo stato fresco o conservato. (R. Baldoni, L. Giardini, 1993)

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1.2 Classificazione

delle colture foraggere

Le colture foraggere sono suddivise in due grandi gruppi: le foraggere permanenti e le avvicendate. Nelle prime, troviamo i pascoli, i prati permanenti asciutti e i prati permanenti irrigui; mentre nelle seconde, rientrano i prati avvicendati e gli erbai. La differenza fondamentale tra i due gruppi è rappresentata dalla durata temporale in campo.

Le foraggere permanenti, sono quelle che hanno durata illimitata o comunque superiore a dieci anni, mentre le avvicendate, sono quelle che si seminano, entrano in rotazione ed hanno durata variabile da meno di un anno (erbai) a più anni (prati).

In base alla modalità di utilizzazione del foraggio, si distinguono, i pascoli, i prati-pascolo, i prati e gli erbai.

ƒ Il pascolo è una coltivazione foraggera generalmente comprendente più specie, nella quale si ha direttamente l'utilizzo del foraggio, con il pascolamento diretto degli animali, senza alcun tipo di intervento da parte dell’agricoltore.

ƒ Il prato-pascolo è una coltivazione foraggera che viene sfruttato in parte per pascolamento, in parte mediante sfalcio e successiva conservazione.

Questo sistema foraggero è praticabile su pascoli particolarmente produttivi; infatti, il primo ricaccio primaverile, generalmente più abbondante, è destinato allo sfalcio mentre i successivi ricacci, in quanto hanno una produzione foraggera meno importante, sono destinati al pascolamento degli animali.

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ƒ I prati sono colture intensive, il cui prodotto viene sfalciato e somministrato sia fresco che conservato; si classificano in avvicendati o permanenti, in funzione del fatto che siano previsti o meno nell’avvicendamento colturale.

ƒ Gli erbai sono caratterizzati dalla brevità del loro ciclo colturale (al massimo un anno); si dicono annuali, se occupano nell’avvicendamento il posto di una coltura principale, intercalari, se attuati nell’avvicendamento tra una coltura principale e l’altra.

Gli erbai sono normalmente classificati in base alla stagione in cui svolgono il proprio ciclo, ovvero: autunno-primaverili se seminati in autunno e vengono raccolti a primavera, primaverili se seminati a fine inverno, primaverili-estivi con semina in giugno, e estivi con semina in estate dopo la raccolta della precedente coltura principale. In Italia le superfici destinate a pascolo (Tabella 1), occupano quasi 3 milioni e mezzo di ettari e hanno un valore in resa che risulta più basso rispetto agli erbai e ai prati; la superficie destinata a pascoli e prati permanenti raggiunge un valore di 4,5 milioni di ha.

La Sardegna e Sicilia rappresentano quasi un terzo dell'intera superficie nazionale destinata a pascoli (Tabella 2), seguono Piemonte (9,9 %), Trentino Alto Adige (7,8 %), Lazio (5,2 %), la Toscana è rappresenta con il 4,0 %. (ISTAT, 2000)

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Tabella 1: Superficie, produzione e resa delle colture foraggere in Italia, ISTAT [2004]

Superficie (mila ha)

Erbai monoliti 581.000 Erbai polititi 421.000 Erbai 1.002.000 Prati monoliti 1.022.000 Prati polititi 231.000 Prati avvicendati 1.253.000 Prati permanenti 950.000 Pascoli 3.429.000 Totale 6.634.000

Tabella 2: Superficie occupata da pascoli e prati permanenti per regione (ha x 1000), ISTAT [2000]

Regioni ha %

Piemonte 440,1 9,9

Valle d'Aosta 90,8 2,0

Lombardia 287,8 6,5

Trentino Alto Adige 345,8 7,8

Veneto 164,8 3,7

Friuli Venezia Giulia 72,2 1,6

Liguria 45,8 1,0 Emilia Romagna 137,2 3,1 Toscana 180,2 4,0 Umbria 75,9 1,7 Marche 92,9 2,1 Lazio 230,6 5,2 Abruzzo 196,2 4,4 Molise 51,3 1,2 Campania 135,9 3,1 Puglia 172,8 3,9 Basilicata 80,0 1,8 Calabria 191,0 4,3 Sicilia 373,5 8,4 Sardegna 1081,7 24,3 Italia 44464,5 100

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1.3 Definizione e classificazione dei pascoli

Qualsiasi superficie di terreno destinata alla produzione di biomassa naturale e direttamente utilizzata in campo dagli animali, costituisce da un punto di vista agronomico, un pascolo.

Sulla base del tempo d'utilizzo di un terreno destinato a pascolo, si possono evincere due tipologie: permanenti e saltuari.

Nel caso di pascoli permanenti non si hanno altre destinazioni colturali alternative, se non quella della forestazione naturale o artificiale, spesso per le limitazioni agro-pedologiche del territorio, quali l'eccessiva pendenza, la scarsa profondità dei terreni, l'elevata rocciosità affiorante. Questi vincoli ostacolano ad esempio l’agibilità per le macchine operatrici, in particolare durante alcune lavorazioni, come per la preparazione del letto di semina.

La saltuarietà della destinazione a pascolo, presuppone una precedente e una successiva destinazione colturale, come accade per i terreni destinati a seminativi; oppure per i terreni lasciati a riposo per cicli di durata poliennale.

In base alla scala potenziale della produttività agronomica si differenziano pascoli:

ƒ Saltuari

ƒ Permanenti sfalciabili ƒ Permanenti non sfalciabili

I pascoli "saltuari" e i pascoli "permanenti sfalciabili" sono utilizzati prevalentemente con il pascolamento, ma a volte, possono essere utilizzati per la produzione di fieno; i pascoli "permanenti non sfalciabili" sono esclusivamente utilizzati con il pascolamento, in quanto sono precluse le operazioni di raccolta.

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Le tre tipologie di pascolo seguono anche una diversa scala di produttività potenziale:

saltuari > permanenti sfalciabili > permanenti non sfalciabili.

E' bene evidenziare che i pascoli saltuari, nel corso del primo periodo vegetativo, dato che derivano da seminativi abbondanti o a riposo, raggiungono dei livelli produttivi discreti. (R. Baldoni & L. Giardini, 1993)

¾ La situazione in Italia

Le superfici destinate a pascolo e a prati permanenti in Italia, secondo gli ultimi dati forniti dall' I.S.T.A.T. (5° censimento dell'agricoltura nell'anno 2000), erano presenti nel 20,3% delle aziende, incidendo sul 25,8% della SAU e per il 17,4% della superficie totale. La consistenza delle superfici investite a pascolo e a prati permanenti ammontava a 4,4 milioni di ettari comprendenti però anche le superfici prative permanenti. (ISTAT, 2000) In Italia, le superfici destinate a pascolo sono largamente presenti in montagna e collina (circa il 93% dell'intera superficie), mentre in pianura sono piuttosto limitate, a differenza di altri paesi Europei come la Germania, la Francia o l' Olanda dove si trova una situazione opposta.

Nel nostro paese, nelle forme più avanzate di agricoltura, il pascolo di pianura rappresenta una forma non molto razionale di sfruttamento del suolo, dove si preferisce coltivare specie più remunerative. Non mancano, tuttavia, esempi di pianura irrigua destinata a pascoli, come in alcune aziende della Pianura Padana, dedite all'allevamento della vacca da latte. I pascoli montani alpini ed appenninici rappresentano una ricchezza fondamentale della montagna; è importante ricordare come il pascolo, in queste zone, non esaurisce la sua funzione soltanto con la produzione di foraggio, ma porta ad una serie di vantaggi in termini agronomici, di conservazione, tutela e difesa del territorio.

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Le zone pascolive nel nostro paese sono caratterizzate da condizioni climatiche e pedologiche molto eterogenee; è opportuno, quindi, distinguere i pascoli alpini da quelli che si trovano nell'Italia centrale, meridionale e insulare.

Lungo la dorsale Appenninica, il pascolo, si estende da quote piuttosto basse, rappresentate dai terreni marginali lungo le vallate, fino ad altitudini poco superiori ai 1000 metri; le associazioni vegetali presenti in questi ambienti, sono estremamente variabili, ma la qualità del foraggio è più scadente rispetto a quello delle Alpi, dato che, la carenza di precipitazioni nei mesi estivi, limita fortemente la formazione di un cotico duraturo e continuo nel tempo. (J. Rieder et al, 1978)

Nelle zone meridionali e nelle isole (Sardegna e Sicilia), prevalgono le specie xerofile di scarso valore nutritivo, spesso munite anche di spine; qui il pascolamento viene effettuato con specie come gli ovi-caprini meno esigenti dei bovini.

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Tabella 3: Fattori che rendono marginale un terreno e possibili forme di utilizzazione

Fattori naturali Forma possibile di utilizzo

1.

Scadente qualità del terreno: a) Terreni pianeggianti molto

ciottolosi e poco produttivi b) Terreni fortemente limosi-argillosi che non si prestano a

lavorazioni meccaniche c) Terreni sterili

Pascolo estensivo o forestazione

Pascolo

Forestazione

2. Pendenza del terreno

Pascolo, e se la pendenza non è eccessiva forestazione

3. Altitudine

Con il progredire dell'altitudine si verificano utilizzazioni a pascolo sempre

più estensive

4. Avvallamenti

Pascolo per motivi paesaggistici tali zone non vengono rimboschite, ma si preferisce ricavare bacini di riserva di acqua che vengono anche utilizzati ai

fini ricreativi e sportivi 5. Carenza idrica Pascolo estensivo

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1.4 Tipologie di pascolamento

Il pascolamento degli animali può essere continuo o turnato: nel primo caso, alle essenze che formano il pascolo, non è consentito un periodo di crescita perché gli animali possono utilizzare il cotico per tutta la stagione, mentre nel secondo caso, è concesso un periodo di crescita indisturbato. Il pascolamento continuo è definibile "brado" quando gli animali sono allevati all'aperto per tutto il periodo del pascolamento, e si nutrono delle sole essenze disponibili sul cotico erboso, mentre risulta "semibrado" quando gli animali, pur vivendo all'aperto e nutrendosi del pascolo, usufruiscono di ricoveri e si alimentano con altri tipi di foraggio.

Inoltre il pascolamento continuo si divide in:

¾ Pascolamento libero: quando la superficie pascolata ed il carico di bestiame rimangono costanti per tutta la stagione; durante tutto il periodo di pascolamento, gli animali, sono lasciati liberi di muoversi su tutta la superficie e l'unico parametro tecnico preso in considerazione dal pastore è il carico di bestiame.

Rappresenta il più semplice sistema di gestione di un pascolo e può portare a diversi inconvenienti poiché il movimento casuale degli animali provoca un eccessivo calpestio, un imbrattamento del pascolo con le feci e una selezione delle essenze migliori e delle parti vegetative più tenere. Inoltre, con questo sistema non è possibile tener conto delle esigenze nutritive dei diversi animali come ad esempio vitelli, lattifere, ecc. Generalmente la prolungata libertà porta l'animale a una sovralimentazione o a una sottoalimentazione.

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¾ Pascolamento continuo intensivo: quando il carico istantaneo è dimensionato e viene fatto variare nel tempo, in relazione alla offerta dell'erba e alle esigenze degli animali, che tuttavia sono lasciati liberi di muoversi.

Nel pascolamento turnato l'intera superficie viene divisa in sezioni ed alle essenze vegetative è permesso un periodo di crescita indisturbato, quando gli animali sono confinati in altri recinti. Con queste operazioni il carico istantaneo determina una capacità di ingestione superiore al ritmo di crescita dell'erba.

Il pascolamento turnato può essere guidato, quando c'è la continua presenza dell'allevatore alla guida della mandria, oppure razionato, quando l'offerta dell'erba risulta sufficiente solo per le esigenze di parte di una giornata (alcune ore). (R. Baldoni, L. Giardini, 2002)

Tra i vari tipi di pascolamento, quello che permette la migliore utilizzazione del pascolo, è il pascolamento a rotazione, che rispetto al pascolamento libero determina i seguenti vantaggi:

ƒ l'utilizzo dell'erba avviene in uno stadio vegetativo ottimale, per cui si raggiunge il miglior compromesso tra la produzione e l'appetibilità del foraggio;

ƒ migliore coefficiente di utilizzazione del foraggio (fino al 70%); ƒ il bestiame può essere suddiviso in gruppi omogenei per esigenze

alimentari (vitelli,lattifere..), a ciascuno dei quali riservare delle apposite sezioni;

ƒ un periodo di tempo sufficiente per eseguire le eventuali cure culturali quali la concimazione, lo sfalcio delle erbe rifiutate dagli animali, lo spandimento delle deiezioni;

ƒ dove possibile consente uno sfalcio a fieno;

ƒ diversifica le essenze presenti nelle diverse sezioni impiantando specie e/o cultivar con precocità diversa.

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1.5 Tecnica

di

pascolamento

La tecnica di pascolamento può essere definita come l’insieme delle azioni che regolano il prelievo dell’erba da parte degli animali. Essa è basata sulla determinazione del:

ƒ momento ottimale di pascolamento; ƒ periodo di permanenza;

ƒ periodo di riposo; ƒ carico di bestiame.

Inoltre, risulta importante conoscere l'evoluzione quanti-qualitativa della biomassa e l'azione selettiva da parte degli animali nei riguardi delle specie presenti.

Si parla di momento ottimale di pascolamento quando viene raggiunta la produzione migliore per iniziare il pascolamento di una superficie.

Generalmente il momento ottimale per l'inizio del pascolamento delle specie graminacee si ha quando l’altezza della vegetazione varia da 10 ai 20 cm., cioè nel momento di passaggio tra la fine della fase dell’accestimento e l’inizio della fase di levata. (A. Masoni et al, 2001) Il periodo di permanenza del bestiame su un determinato appezzamento è il numero di giorni necessari per la completa utilizzazione dell’erba; se il periodo di permanenza è troppo lungo, si ha un eccessivo calpestio del cotico erboso e un forte compattamento del terreno, che determina una conseguente asfissia radicale e riduzione del numero di piante per unità di superficie. La progressiva riduzione di alimento, inoltre, fa si che il bestiame sfrutti troppo in profondità la vegetazione, asportando anche le gemme basali, compromettendo la produzione successiva che dipende direttamente da queste.

Al contrario, se il periodo di permanenza risulta troppo breve, si ha la non completa utilizzazione della biomassa presente, con perdita di produzione.

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altezza, in genere è consigliabile adottare tempi di permanenza brevi con carichi elevati, ad esempio con tempi di permanenza di 2-4 giorni e carico di bestiame di 20-40 capi/ha al giorno.

Il periodo di riposo tra due pascolate successive è il periodo necessario alla vegetazione del pascolo per ricrescere dopo essere stata utilizzata. L’intervallo di tempo esistente tra due pascolamenti successivi di uno stesso appezzamento, chiamato "turno", dipende dal ritmo di crescita giornaliero ed è definito Crop Growth Rate (CGR). Considerato che il tasso di crescita delle piante è strettamente legato all’andamento climatico, il turno è molto variabile durante l’anno, essendo molto breve in primavera e molto lungo in estate. I valori medi dei pascoli in Italia variano tra 25-30 giorni nella stagione più favorevole per la crescita delle piante, a circa 50-60 giorni durante il periodo estivo.

Il carico di bestiame è il numero dei capi mantenibile dalle unità di superficie, durante un dato periodo di tempo (un giorno). Per mantenere una buona produttività nel tempo, il prelevamento del foraggio da parte degli animali non dovrebbe superare i ¾ della biomassa presente.

Con un carico troppo ridotto, oltre ad avere una perdita immediata di produzione, si avrà una maggiore infestazione da specie scarsamente pabulari, in conseguenza della scelta degli animali, che brucheranno le essenze migliori permettendo alle altre di riprodursi indisturbate.

In ogni caso si deve tener presente il momento ottimale nel disporre gli animali sulla superficie pascoliva: immettere animali su di un appezzamento troppo presto causa una diminuzione produttiva, in quanto le piante non hanno ancora raggiunto il momento di utilizzazione ottimale. Mentre, immettere animali troppo tardi, aumenta la selettività di utilizzazione in quanto verranno scelte solo le essenze migliori.

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1.6 Produzione dei pascoli

Generalmente la produzione di un pascolo dipende dall’effetto combinato della temperatura, della pioggia e delle caratteristiche pedologiche del terreno.

Per un buon accrescimento delle essenze foraggere la temperatura minima giornaliera deve essere superiore a 5°gradi. Della pioggia è importante conoscere sia l’entità che la distribuzione; secondo Cavazza a 1 mm di pioggia corrisponde un incremento produttivo di 0,9 kg/ha di fieno a cui corrisponde a sua volta circa 0,5 U.F./ha. (A. Masoni et al, 2001)

Fra i principali elementi climatici quelli che maggiormente influenzano la produttività sono:

ƒ la variabilità nella entità delle precipitazioni, durante l’anno e tra un anno e un altro;

ƒ i periodi di tempo privi di precipitazioni, che specialmente al sud limitano lo sviluppo della vegetazione nel periodo estivo;

ƒ la presenza di lunghi periodi con valori di temperature ridotte o la presenza della neve sul terreno;

ƒ la forte escursione termica giornaliera.

La produzione di un pascolo viene valutata attraverso:

¾ la produzione totale annua: con valori che nel nostro paese restano molto bassi, pari circa a 700 kg/ha fieno, corrispondente a circa 300 U.F./ha.; le rese sono comunque molto variabili da una zona ad un’altra, in base alla entità e alla distribuzione delle piogge;

¾ la distribuzione stagionale: facendo riferimento a periodi di tempo convenzionali, la distribuzione è un parametro importante perché determina il periodo del pascolamento; varia da una zona ad un’altra in relazione alle condizioni climatiche che bloccano la crescita

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¾ l'accrescimento giornaliero riferito all’unità di superficie o CGR variabile da meno di 1 kg/ha·die a 200, in dipendenza delle condizioni climatiche, edafiche e del periodo dell’anno;

¾ il coefficiente di utilizzazione, espresso come percentuale fra biomassa utilizzata dagli animali al pascolo e biomassa pabulare presente utilizzabile prima del pascolamento. Il coefficiente può essere riferito anche alle unità foraggere utilizzate dal bestiame rispetto a quelle presenti.

I parametri comunemente utilizzati per quantificare la produzione sono: ƒ produzione di erba fresca in t/ha;

ƒ produzione di fieno normale in t/ha; ƒ produzione di sostanza secca in t/ha; ƒ produzione di U.F. Unità Foraggere/ha.

In relazione alla distribuzione delle precipitazioni e alla persistenza delle temperature al di sotto della soglia critica di vegetazione, si instaurano diverse tipologie di pascolo, come durata dei periodi di produzione e di stasi.

Durante i periodi di stasi vegetativa la produzione giornaliera di biomassa è nulla; nei pascoli alpini e in generale nelle zone altimetriche più elevate, il fattore limitante lo sviluppo è costituito nei mesi invernali, dal persistere di temperature molto inferiori alla soglia critica di vegetazione.

Nei pascoli dell'Italia meridionale e insulare, si hanno accrescimenti nulli nel periodo estivo, per il perdurare di deficit pluviometrici; tali andamenti creano non pochi problemi nell'utilizzazione razionale dei pascoli, in quanto a periodi di surplus alimentare, seguono periodi caratterizzati da disponibilità nulle o limitate ai residui disseccati. In questi casi, è necessario sopperire all'irregolare distribuzione della produzione, nel corso dell'anno, attraverso due scelte: con l'integrazione di opportune scorte

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basse, alle quote più alte e viceversa, in relazione alla durata dei periodi produttivi (l'alpeggio al nord e la transumanza al sud).

In dipendenza dell’andamento climatico i pascoli italiani possono essere suddivisi:

ƒ pascoli con stasi vegetativa invernale dipendente dalle basse temperature, generalmente situati nelle zone montuose alpine e appenniniche;

ƒ pascoli con stasi vegetativa estive, dipendente dalla ridotta presenza o assenza completa di precipitazioni, generalmente situati nelle zone pianeggianti e collinari del meridione;

ƒ pascoli con due periodi di stasi vegetativa: il primo durante l’inverno dipendente dal freddo e il secondo durante l’estate, dipendente dalla siccità, generalmente situati nelle zone appenniniche.

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1.7 Vantaggi e limiti del pascolamento

Tra i numerosi vantaggi del pascolo ricordiamo:

ƒ l'utilizzo e lo sfruttamento in modo economicamente conveniente di quantità di erba altrimenti troppo modeste per consentire il taglio e la conservazione del foraggio;

ƒ lo sfruttamento di aree non idonee alla meccanizzazione;

ƒ i ridotti input energetici e di lavoro, gli interventi di tecnica colturale sono ridotti al minimo così come le lavorazioni vengono quasi del tutto eliminate;

ƒ la conservazione del suolo e la sua fertilità potenziale, in conseguenza della eliminazione e della estrema riduzione delle lavorazioni del terreno;

ƒ l'azione favorevole sulla salute degli animali rispetto all’allevamento in stalla, consentendo un allevamento di tipo estensivo;

ƒ la gestione agronomica e territoriale di ampie superfici altrimenti abbandonate, con un importante funzione paesaggistica come nelle zone Alpine e Appenniniche;

ƒ la riduzione dello smaltimento dei liquami, che sono distribuiti uniformemente sulla superficie pascoliva;

Rispetto ad altri paesi, dove il pascolo occupa gran parte della superficie agricola, nel nostro paese si trova generalmente in zone dove per problemi edifici o climatici non è possibile compiere nessun altro tipo di coltivazione in modo proficuo.

Principalmente sono due le cause che hanno portato alla riduzione delle superfici dedite al pascolamento: la modesta possibilità di trasferire nel tempo la disponibilità di erba e la presenza di vincoli strutturali.

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allevati. In quel periodo sarebbe utile poter raccogliere e conservare il foraggio, spesso però, nelle realtà di collina e montagna, a causa della posizione stessa dei cotici, sono, le operazioni di meccanizzazione diventano difficili se non impossibili, costringendo gli allevatori a non raccogliere il foraggio.

La seconda causa è determinata dalle ridotte dimensioni aziendali e dalla parcellizzazione della superficie (realtà comune nelle aziende agricole italiane), questo rende difficile ridurre i costi di gestione, creando spesso diseconomie di scala; la situazione ottimale sarebbe poter disporre di ampie superfici, raggruppate in un corpo unico, come nelle aziende argentine o irlandesi.

Oltre a queste cause, ne esistono altre di natura "socio-colturale", come la diffusa opinione che il pascolamento sia adatto solo a poche specie animali (con ridotte esigenze alimentari e poco produttive), e la modesta immagine sociale che l’opinione pubblica attribuisce all'attività pastorale, non conoscendo in verità, l'importante funzione, oltre che agronomica anche ai fini del presidio territoriale.

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1.8 Miglioramento dei pascoli

La terminologia comunemente adottata con "miglioramento dei pascoli" comprende una serie di interventi rivolti al potenziamento della capacità produttiva in termine di biomassa pabulare, in modo da ottenere, la produzione foraggera migliore dal punto di vista quanti-qualitativa.

Gli interventi di miglioramento di un pascolo, riguardano anche interventi volti a realizzare migliori condizioni gestionali: di abitabilità per l'uomo e per gli animali allevati. (A. Cavallero et al, 2002)

Tra questi possiamo citare i miglioramenti di natura fondiaria, l'incremento della viabilità, la realizzazione di ricoveri per gli animali, l'approvvigionamento idrico, la predisposizione di recinti in funzione del pascolamento turnato, la regimazione idraulica etc.

Gli interventi agronomici mirano invece ad incrementare la produttività delle cotiche naturali, come accade spesso in ambienti collinari o montani, con limitazioni pedologiche (superfici con accentuata pietrosità, eccessiva pendenza, limitata profondità del terreno...).

Altro elemento conoscitivo per migliorare un pascolo è la conoscenza dei fenomeni di degradazione delle cotiche erbose:

¾ gli elevati carichi di bestiame e i tempi di permanenza prolungati, comportano diradamenti del cotico erboso, che si traduce in aeree più o meno estese prive di cotica. Quando tale tipo di degradazione è particolarmente accentuato, specialmente nelle aree acclivi e a clima caldo, si può giungere a un terreno spoglio di vegetazione (fenomeno della desertificazione);

¾ l'eccessiva pressione di pascolamento modifica la composizione floristica; le specie pabulari non reagiscono alla competizione delle non pabulari, sia erbacee che arbustive, le quali prendono il sopravvento, come ad esempio nelle cotiche in cui predominano il

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nardo o la felce; in questi casi si tratta di fenomeni degradativi produttivi, in quanto la biomassa pabulare è quantitativamente ridotta rispetto alle potenzialità esprimibili senza flora infestante. I mezzi proponibili per arrestare o attenuare i fenomeni di degradazione sono diversi, il più importante, è sicuramente l'adeguata gestione dei carichi, fino a raggiungere l'equilibrio fra le esigenze nutritive degli animali e la produzione disponibile. Una soluzione è la sospensione del pascolamento degli animali, nel momento in cui avviene il picco di produzione, in modo che le specie pabulari affrontano più vantaggiosamente la competizione con le specie non pabulari.

In quelle zone ove le caratteristiche del terreno lo consentano, lo sfalcio effettuato in epoche successive alla fruttificazione delle specie pabulari, può controllare in maniera efficace lo sviluppo di infestanti tardive, come nell’esempio ricordato di felci e cardi.

Per la progettazione degli interventi per il miglioramento dei pascoli è necessario conoscere la giacitura del terreno, le caratteristiche chimico-fisiche, la profondità del terreno, il grado di pietrosità. (A. Cavallero et al, 2002)

Gli interventi agronomici si propongono di aumentare la produzione foraggera ottenibile da quel pascolo, attuando:

ƒ la definizione del carico ottimale di bestiame, in modo da utilizzare completamente la disponibilità foraggera, ma allo stesso tempo conservando intatte le risorse produttive del pascolo;

ƒ il completo rinnovo della cotica erbosa, che prevede la semina di nuove essenze, dopo aver distrutto la cotica preesistente mediante una lavorazione del terreno;

ƒ il controllo della flora infestante;

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Quest'ultima operazione consiste nella semina di essenze foraggere all'interno della cotica preesistente senza distruggerla. E' consigliabile ricorrere a tale tecnica, quando in un pascolo le specie pabulari scendono al di sotto del 50% della produzione totale; si effettua una operazione meccanica con il passaggio di un erpice a denti rigidi in modo da fessurare il terreno in superficie, dopodiché si opera la semina a spaglio o a file. Altri interventi agronomici utilizzabili per la trasformazione dei terreni in pascoli sfalciabili e incrementare le rese, comprendono anche: lo spietramento, il decespugliamento e la concimazione. (A. Cavallero et al, 2002)

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1.9 Composizione

floristica

Normalmente la flora presente sui pascoli è molto eterogenea e in genere è determinata dalla presenza contemporanea di specie vegetali diverse (erbacee, arbustive, arboree), la biomassa utile deriva nella maggior parte dei pascoli da un numero limitato di famiglie.

Nelle cotiche naturali, la famiglia delle graminacee è quella più rappresentata e fornisce il maggior apporto ponderale alla produzione; seguono poi le leguminose, le composite, le ombrellifere e altre specie appetite dal bestiame e quindi di buon interessere pabulare.

Da questo punto di vista, gli studi e le indagini sulle associazioni floristiche, pur apportando un contributo fondamentale alla conoscenza dei pascoli, non danno informazioni sull'apporto specifico delle specie presenti alla biomassa. La composizione floristica dei pascoli presenta un'elevata variabilità che deriva dalle diverse condizioni climatiche, dalle caratteristiche fisico-chimiche del terreno e dalla pressione di pascolamento. Per valutare la produttività e la pabularità del pascolo è importante individuare specie pabulari e specie non pabulari.

1. specie pabulari: rappresentano le specie che sono utilizzate o utilizzabili dagli animali al pascolo.

2. specie non pabulari: sono quelle rifiutate dagli animali in normali condizioni di alimentazione; queste specie possono essere rifiutate dagli animali perché spinose (cardo), o perché velenose (ranuncoli). Le specie non pabulari sono delle vere e proprie infestanti del pascolo, e spesso sono la principale causa di degrado perché capaci di estendersi su tutta la superficie con grande facilità

3. specie senza interesse pabulare: specie che pur essendo appetite dagli animali (pabulari), sono poco frequenti nel pascolo, o per le loro ridotte dimensioni (Plantago spp.), contribuiscono in misura molto limitata alla

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I più importanti fattori che governano le variazioni della composizione floristica delle cotiche naturali, vale a dire la maggiore o minor frequenza di una specie o di più specie sulle altre presenti, sono il clima, la tipologia del terreno e la pressione di pascolamento.

Sono da attribuire a cause pedoclimatiche le differenze nella composizione floristica, riscontrabili sia fra pascoli di pianura e di montagna (differenze di altitudine), che fra quelli del sud e del nord Italia (differenze di latitudine).

Nella valutazione della bontà del pascolo, si considera anche il tipo di animale pascolante, dato che la modalità di brucatura e il tipo di calpestio possono provocare effetti diversi sulla composizione e la persistenza della flora presente. Ad esempio i bovini e gli ovini rappresentano due specie che data la loro differente stazza, e le loro differenti scelte alimentari, sfruttano il pascolo in maniera molto diversa. Gli ovini date la loro minor mole, compattano meno il terreno, sono meno selettivi, e brucano le piante molto più a fondo. I bovini invece, oltre ad essere animali più pesanti, sono molto selettivi, lasciando sul terreno un’elevata quantità di residui, preferendo la vegetazione erbacea.

La flora dei pascoli alpini si differenzia da quelli dei pascoli dell'Italia centrale, meridionale e insulare per la presenza delle specie poliannuali, rispetto alle specie annuali. Questa predominanza, più accentuata nelle aree a tipico clima mediterraneo caratterizzate da carenza di precipitazioni per periodi più o meno lunghi, è da interpretare come un'interazione negativa fra pascolamento e andamenti climatici.

Le poliennali, nei periodi della tarda primavera e dell'inizio dell'estate, sono le specie preferite dagli animali al pascolo, e quindi maggiormente ostacolate nella fase produttiva, poiché prolungano in misura maggiore il periodo vegetativo.

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Al contrario, le specie annuali, per l'influenza di condizioni frequenti e precoci di stress idrico, tendono rapidamente a lignificare, e completano entro breve tempo, il ciclo produttivo, dissecando.

I residui della vegetazione delle specie annuali, sebbene caratterizzate da scarso valore nutritivo, sono utilizzati nei pascoli meridionali ed insulari dal bestiame nei mesi di tarda primavera, e per tutto il periodo estivo, fino alla ripresa vegetativa autunnale.

L'azione selettiva degli animali al pascolo in queste condizioni, si orienta preferibilmente sulle specie che permangono più a lungo allo stato erbaceo, in pratica sulle poliennali, ostacolandone però la fase riproduttiva.

Nei pascoli alpini, caratterizzati da regolarità di precipitazioni anche nei mesi estivi, le specie poliennali, se sottoposte a pascolamento con carichi di bestiame equilibrato, svolgono senza ostacoli la funzione vegetativa e riproduttiva. Le variazioni della composizione floristica, oltre che alla pressione selettiva dei fattori climatici e agli effetti del pascolamento, sono da attribuire anche all'influenza esercitata dal grado di reazione del terreno, com'è facilmente rilevabile dalla presenza delle cosi dette "specie guida" alcune tipiche dei terreni acidi e altre dei terreni alcalini.

Le specie idonee per i pascoli devono essere dotate di una buona resistenza agli stress climatici, sia in termini idrici che termici, al pascolamento e al calpestio degli animali. Considerata la durata del pascolo, devono essere scelte specie poliennali, dotate di elevata vivacità, capacità produttiva e elevato potere competitivo.

Le specie più utilizzate sono quindi le graminacee microterme, con elevata capacità di ripresa vegetativa alla fine dell'inverno e tra queste sopratutto la

Festuca arundinacea, Dactylis glomerata, Lolium perenne, Phleum pratense.

La Festuca arundinacea è più precoce, rispetto al Lolium e alla Dactylis è poco resistente ai tagli frequenti ed è meno appetita dal bestiame,

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quest'ultima è un'ottima graminacea da pascolo, è più adatta rispetto al

Lolium, specialmente per essere inserita negli ambienti caldo-aridi,

risultando più longeva. In caso di forte siccità estiva, particolarmente adatte sono anche Phalaris e Bromus.

Il Lolium perenne è la graminacea tipica dei pascoli delle regioni a clima temperato e umido, fornisce una resa di 60-100 q·ha-1 di sostanza secca, risulta ottimo quando il pascolamento prevede defogliazioni frequenti, ha un'ottima appetibilità anche nello stadio di spigatura e quindi può essere pascolato anche in uno stadio vegetativo avanzato.

Tra le leguminose la scelta è ancora più ristretta, per la loro ridotta durata e per la predisposizione a fenomeni di timpanismo negli animali, tra queste sono le più idonee risultano il Trifolium repens e il Lotus corniculatus.

Figura

Tabella 2: Superficie occupata da pascoli e prati permanenti per  regione (ha x 1000), ISTAT [2000]
Tabella 3: Fattori che rendono marginale un terreno e possibili forme  di utilizzazione

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