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«Nubi tempestose sull’Italia»

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Academic year: 2021

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Capitolo secondo

«Nubi tempestose sull’Italia»

Gli allarmi della stampa estera

Quando ancora le dimissioni del governo Moro erano di là da venire, sulla stampa estera comparve il primo articolo che gettava l’allarme sulla situazione generale dell’Italia e che faceva esplicito riferimento alle manovre eversive in atto. La corrispondenza, pubblicata il 23 giugno dal quotidiano conservatore «Die Welt», era destinata a inaugurare un filone informativo che si sviluppò parallelamente allo svolgersi della crisi politica e che vide come principali protagonisti i mass media tedeschi e francesi.

Il pezzo del «Die Welt», intitolato «Nubi tempestose sull’Italia»,1 fu introdotto da una riflessione storica secondo cui le origini della situazione rivoluzionaria che si stava creando nel nostro paese erano rintracciabili nella fine del progetto politico di Alcide De Gasperi e nella successiva incapacità della Democrazia cristiana di gestire il potere. Su questo “cappello” si innestava l’allarmata corrispondenza da Roma dell’inviato Friedrich Meichsner. «Nel cielo dell’Italia - scriveva il giornalista - si moltiplicano i segnali di tempesta. Su Roma e Milano si addensano nervosismo, irritazione e una paura cieca come prima di una bufera. Si mormora di svalutazione della lira, di piani rivoluzionari e di colpi di stato. C’è fermento tra i lavoratori. L’economia è paralizzata da un’angosciante incertezza. Il governo esita. Fra gli ufficiali si diffonde l’agitazione, l’anima popolare rimbomba come un vulcano. Nessuno sa quando arriverà l’eruzione, ma è certo che se le cose continueranno ad andare come ora, essa arriverà. Forse in ottobre, forse nel tardo

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autunno, forse ancora più in là». I sintomi più evidenti della crisi erano da un lato nella difficile congiuntura economica, dall’altro nel precario scenario politico in cui «una opposizione comunista ben guidata e consapevole dei suoi obiettivi, si confronta con una maggioranza governativa eterogenea e indecisa».

La gravità della situazione avrebbe potuto favorito l’affermazione del Pci, ma questo partito si mostrava ancora titubante temendo una reazione di opposto segno politico: «l’attuale condizione economica e politica, qualora non corretta a tempo potrebbe presto sfociare in una situazione rivoluzionaria. Per il momento sembra che i comunisti siano ancora esitanti di fronte al passo decisivo. Con tutta probabilità, temono la reazione di un colpo di stato di destra. Ma cosa accadrà - si chiedeva l’inviato - se, per esempio a ottobre, la disoccupazione e il malcontento saranno così cresciute da spingere le masse nelle strade?».

A parere di Meichsner, insomma, l’ora imponeva di agire subito e con decisione, anche perché ulteriori dubbi si addensavano sul possibile sbocco della crisi: «il governo Moro? Per la sua composizione, così come per i suoi metodi di lavoro, non è ancora riuscito a convincerci di poter innescare una svolta. Forse un nuovo governo aperto a destra? Con tutta probabilità sarebbe l’ultima tappa sulla via della conquista del potere da parte comunista… Un’altra possibilità sarebbe il ricorso a nuove elezioni, ma dato l’attuale rapporto di forze queste non deciderebbero nulla. Ciò che resta… è la continuazione della politica di centro-sinistra con un’altra guida».

L’indicazione del quotidiano era quindi rivolta alla ricerca di un candidato alternativo a Moro, da individuare all’interno del partito di maggioranza relativa. Lo scenario all’interno della Dc, tuttavia, era alquanto sconcertante, perché «nessuno dei diadochi

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democristiani, in continua lotta tra loro, reca sulla fronte il segno del salvatore». L’ultimo appello era rivolto al presidente della Repubblica: «soltanto la personalità di Antonio Segni, nonostante i ristretti limiti d’azione impostigli dalla Costituzione, tiene viva la speranza che almeno il peggio venga evitato».2

La corrispondenza fu approfondita nei giorni successivi da altri due quotidiani tedeschi, il «Sueddeutsche Zeitung» di Monaco e il «Koelner Stadt-Anzeiger» di Colonia, e alcune parti di questi articoli furono pubblicate sui giornali italiani. In particolare, «Il Popolo», quotidiano della Democrazia cristiana, citò un passaggio del «Koelner Stadt-Anzeiger» in cui si affermava che di fronte a una situazione in sfacelo, gruppi di estrema destra avevano già approntato i preparativi per un golpe, con l’appoggio di ufficiali in servizio attivo.3 Le prove a supporto della notizia erano piuttosto vaghe e risalivano a voci corse nell’ambito dell’assemblea dell’Unione europea occidentale, la cui decima sessione ordinaria era stata inaugurata a Roma il 22 giugno con la partecipazione di 80 parlamentari delle sette nazioni aderenti: «a Roma corre voce che siano stati scoperti preparativi per un colpo di stato: vi avrebbero preso parte sconosciuti ufficiali di Marina e di Aviazione. Anche i partecipanti al consiglio dell’Ueo parlano di preparativi dietro le quinte per il rafforzamento delle forze dell’ordine per ogni eventualità, e di tendenze al colpo di mano, che del resto sono considerate cialtronerie di destra».

2 L’articolo terminava lanciando un appello agli alleati europei dell’Italia affinché si interessassero maggiormente alle sorti del nostro paese e sostenessero con più convinzione i suoi referenti politici: «certamente l’Europa dovrebbe, anzi deve, aiutare l’Italia. Deve aiutarla con del denaro, ma soprattutto incitando gli uomini politici italiani a saper aiutare se stessi più decisamente di quanto abbiano fatto finora».

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Il 29 giugno, il francese «Le Figaro», quotidiano di orientamento gollista, approfondì la crisi di governo italiana con una corrispondenza del suo inviato speciale Raymond Millet, dal titolo «Il presidente Segni ha avviato delle difficili consultazioni. Una strana psicosi di colpo di stato cresce in Italia».4 Anche in questo caso l’articolo partiva dalla prudenza dei comunisti e citava i gruppi di estrema destra, la Marina e l’Aviazione, ma a differenza dei giornali tedeschi, parlava soprattutto dell’Arma dei carabinieri, considerata potente, sicura e popolare. Inoltre, mancava il convinto appello a Segni come “salvatore della patria” e ci si limitava a prospettare l’ipotesi di un governo di salute pubblica, aderente nella forma ai dettati costituzionali, ma capace di provocare un vuoto di legalità.

«Le dimissioni del governo Aldo Moro - attaccava il pezzo - provocano degli strani brusii. I giornali hanno avuto appena il tempo di contribuire alla diffusione di questi allarmi, prima di subire, come l’agenzia di stampa Ansa, lo sciopero dei loro servizi tipografici. Una strana psicosi di colpo di stato induce i prudenti a moderare i propri discorsi al telefono. I più preoccupati parlano persino di “atmosfera pre-rivoluzionaria”. A sentire loro, i comunisti, “per il momento, si comportano con prudenza per non fornire il pretesto a un putsch dell’estrema destra”. Essi considerano possibile un giorno un movimento negli alti quadri militari, soprattutto, dicono, nell’Arma dei carabinieri, che è “potente, sicura e popolare”».

Del resto, continuava Millet, «qualcuno arriva persino a diffondere gratuitamente la voce che la Marina e l’Aviazione abbiano esercitato un’influenza, nella notte tra giovedì e venerdì, affinché il governo desse le dimissioni».

4 Raymond Millet, «Le président Segni a entamé de difficiles consultations. Une étrange psychose de coup d’Etat grandit eu Italie», «Le Figaro», 29 giugno 1964.

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Nella seconda parte, l’articolo si soffermava invece sulle opzioni a disposizione per contrastare quelle inquietudini e quegli allarmi. «La prima - scriveva l’inviato - tende a una riappacificazione del centro-sinistra, ma con dei duri correttivi per isolare, questa volta seriamente, il Partito comunista, e per raddrizzare la situazione economica, finanziaria, sociale… la seconda reazione chiama in causa al contrario un capovolgimento di maggioranza - psicologicamente problematico - o uno scioglimento delle Camere, il che è costituzionale, e il ricorso a un governo di salute pubblica, il che, nelle circostanze attuali, potrebbe causare un vuoto di legalità».

Il 2 luglio toccò al settimanale «L’Express», tradizionale voce della sinistra democratica francese, prendere posizione sull’evoluzione del quadro politico italiano, con un articolo scritto dall’inviato Giorgio Bontempi e intitolato «L’apertura si ferma».5 Il testo era assai diverso da quelli esaminati in precedenza e spaziava dalla rinuncia della Juventus ad acquistare il centravanti dell’Olympique di Lione, Nestor Combin, decisa da Gianni Agnelli come segno di austerità, all’incriminazione del cantante Luciano Straniero, che nell’ambito del Festival dei due mondi di Spoleto aveva intonato un ritornello antimilitarista. Alla fine di una corrispondenza tutta basata sui temi politici e di costume,

5 Giorgio Bontempi, «L’ouverture se ferme», «L’express», 2 luglio 1964. La settimana prima, il settimanale francese aveva pubblicato un pezzo di Maurice Roy, intitolato «Al capezzale del malato», che approfondiva l’analisi dello sviluppo economico italiano, partendo dalle condizioni del paese subito dopo la fine della seconda guerra mondiale, passando per i presupposti che avevano permesso il boom del “miracolo economico” e finendo con le difficoltà dell’attuale congiuntura. Roy prendeva poi spunto dalle raccomandazioni che il vice-presidente della Commissione economica europea, Robert Marjolin, aveva suggerito durante la recente visita nel nostro paese, per affermare che l’Europa non poteva certo disinteressarsi delle sorti dell’Italia. Anche perché, evidenziava Roy nel sottotitolo dell’articolo, «in pericolo mortale non è solamente l’economia italiana, ma la sua stessa democrazia». Cfr. Maurice Roy, «Au chevet du malade», «L’Express», 25 giugno 1964.

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però, Bontempi giocava sulla contrapposizione tra la calma dimostrata dal presidente Segni e le preoccupazioni che si diffondevano a Roma, concentrate in particolare sull’Arma dei carabinieri. Il tutto era poi esaltato dall’“occhiello” posto sotto il titolo dell’articolo, che riportava a caratteri cubici «Gli stessi generali dei carabinieri nutrono delle ambizioni politiche».

La parte iniziale dell’articolo, comunque, riepilogava le tappe principali che avevano portato alla caduta del governo Moro, sottolineando il fatto che l’unione tra i quattro partiti della maggioranza poteva essere considerata “contro natura”, perché «annovera alle sue estremità i rappresentanti della grande destra economica e i sindacalisti socialisti della Cgil, diretta dal comunista Agostino Novella. Pure a dispetto di certi rumori, non c‘è stato complotto né a destra né a sinistra. La coalizione è crollata a causa della congiuntura economica».

L’inviato esaminava le contraddizioni interne alla Dc e al Psi e, in chiusura, si soffermava sulla figura di Antonio Segni, sulla sua contrarietà alla formula del centro-sinistra e sulla sua preferenza per un governo tecnico: «il presidente della Repubblica, che conserva un’influenza personale molto forte all’interno della Democrazia cristiana, si dimostra favorevole a un governo tecnico ed è pronto a sotterrare, almeno momentaneamente, il progetto di associare i socialisti al potere. Segni non si affretta a risolvere la crisi. Ha tranquillamente interrotto le consultazioni per andare ad assistere, a San Rossore, al matrimonio del figlio, lasciando Roma inquieta, in preda alle voci più allarmistiche. Si dice che anche i generali dei carabinieri stiano nutrendo delle ambizioni politiche».

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La stampa italiana seguì questi articoli con una certa attenzione e spesso ne propose ampi stralci ai suoi lettori. In accordo con la gran parte degli uomini politici, li interpretò generalmente come sintomo della pressione che gli ambienti conservatori della Germania, della Francia e di Bruxelles esercitavano sul nostro paese. Del resto, le raccomandazioni economiche avanzate dal vice presidente della Commissione economica europea, Robert Marjolin, in visita a Roma ancor prima delle dimissioni del governo; il giudizio critico sulla situazione economica e politica dell’Italia espresso all’inizio di luglio dal ministro dell’Economia tedesco, Kurt Schmücker; il paragone fatto da De Gaulle con il quadro politico francese prima della crisi istituzionale del 1958, furono accolti in Italia come pesanti interferenze da parte di forze e interessi stranieri.

La grande maggioranza dei commenti, invece, considerò i riferimenti ai pericoli eversivi e ai movimenti all’interno delle forze armate con tono distaccato, se non proprio ironico. Queste informazioni finirono, così, per essere catalogate come stravanti trovate dei corrispondenti della stampa internazionale a caccia di improbabili “scoop”. É sintomatico quanto Vittorio Gorresio scrisse su «La Stampa» del 7 luglio: «molti all’estero, alcuni anche in Italia hanno creduto nella favola del colpo di stato. La radio francese ha parlato di situazione rivoluzionaria. Vari giornali hanno raccolto voci di imminente congiura; “Paris Match” ha addirittura spedito quattro inviati per assistere alla seconda marcia su Roma. Ma chi doveva essere il protagonista? In certi ambienti si sono mormorate le ipotesi più diverse: i carabinieri, i generali, Pacciardi, gli agrari del principe Sforza Ruspoli. Adesso c’è anche chi parla di Gedda. Tutte voci insensate: nessuno si è mosso: ma certe fiabe sono dure a morire».6

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Non rappresentarono un’eccezione nemmeno i due settimanali, «L’Espresso» e «L’Astrolabio», che quasi tre anni dopo furono gli artefici delle denunce sui pericoli corsi durante la crisi del giugno-luglio 1964. Tuttavia, accanto alla valutazione di quegli allarmi come frutto di una “psicosi della soluzione militare”, “fantasie alimentate dagli ambienti reazionari”, “complotti immaginari” o “impasto di grottesco e velleitario”, si affacciarono altre considerazioni, destinate a incidere nell’analisi futura dell’episodio. In particolare, «L’Espresso» scrisse di un “bluff” e di uno “spauracchio blandamente ricattatorio” che fu utilizzato dai delegati democristiani per avere una posizione di maggior forza durante le trattative di Villa Madama; «L’Astrolabio» di un suggerimento rivolto al presidente Segni a utilizzare tutti gli strumenti a sua disposizione per dare una svolta alla crisi politica.

Il giornale fondato nel 1955 da Arrigo Benedetti affrontò per la prima volta il tema del golpe il 12 luglio, nel periodo centrale della crisi di governo.7 «La psicosi della “soluzione militare” - sostenne - ha un suo calendario che inizia alla data del 25 giugno 1964. Quel giorno, battuto su un capitolo del bilancio della pubblica istruzione, il governo Moro si dimette. E con la notizia della crisi, con i primi commenti e le prime indiscrezioni sulle incerte prospettive che ne derivano, si diffonde tra la gente anche una voce preoccupante: ci sono 20 mila soldati in perfetto assetto di guerra accampati alle porte della capitale; una intera divisione corazzata pronta ad intervenire per fronteggiare una situazione di emergenza. Siamo dunque ad un golpe italiano? Alla vigilia di un colpo di stato della destra, appoggiato da generali e colonnelli? L’ipotesi di un intervento militare fu ventilata per la prima volta nel luglio 1960... Anche allora i fatti dimostrarono che si

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trattava di una ipotesi fantastica. A parte ogni considerazione, l’esercito italiano ha una tradizione di apoliticità che lo mette al riparo da ogni suggestione. Tuttavia oggi fantasie di questo genere, alimentate dagli ambienti più reazionari del paese, hanno ricominciato a circolare».

Dopo la formazione del secondo governo Moro, «L’Espresso» tornò sull’argomento pubblicando un pezzo dal titolo «Il mancato colpo di stato».8 «In nessun caso - si diceva nel testo - l’onorevole Segni (quand’anche glielo consentissero le sue personali convinzioni, il che certamente non è), potrebbe favorire una soluzione antipartitica, che finirebbe per scavalcare a destra tutto lo schieramento democristiano, puntando su forze extracostituzionali». L’articolo continuava accennando alla possibilità che lo spauracchio del golpe fosse stato strumentalizzato dai delegati democristiani per avere una posizione di forza durante le trattative di luglio: «detto questo è pur vero che, al tavolo dei negoziati di Villa Madama, l’ipotesi di una involuzione autoritaria fu fatta accortamente pesare dai delegati della Dc per ottenere dai loro interlocutori le condizioni più favorevoli. Ma avrebbe dovuto esser facile accorgersi che si trattava di un “bluff”. Ed il miglior modo di non farsi intimidire dal “bluff” è quello di andarlo a vedere».

8 «L’Espresso», 2 agosto 1964. La settimana prima aveva commentato l’accordo per il nuovo governo scrivendo che «Nenni appariva distratto, forse non aveva più voglia di ascoltare. In verità, l’unico problema era quello di mettere insieme il governo in qualche modo, per soffocare l’ondata di qualunquismo che andava salendo nel paese, e per mettere a tacere le inconsulte vociferazioni sullo stato di emergenza e sulle consultazioni fra militari e presidente della Repubblica, che stavano circolando con sempre maggiore insistenza in ogni parte d’Italia. Una volta fatto, il centro-sinistra avrebbe finito per marciare». La citazione, ripresa da «L’Espresso» del 26 luglio 1964, è in: Fondazione Pietro Nenni, Appunti sulla crisi di governo del giugno 1964 e ritagli di giornale, cit.

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La settimana seguente, il settimanale ribadì le sue convinzioni attraverso un intervento di Arrigo Benedetti nella rubrica «Diario Italiano».9 «Il complotto di luglio - scrisse l’ex direttore - seguita a divertire gli italiani che specialmente d’estate amano le distrazioni. Soddisfa la destra, come i sogni erotici gli adolescenti viziosi. Dunque saremmo stati vicini a un colpo di stato che, anziché svilupparsi sediziosamente, avrebbe dovuto essere provocato dall’alto per difendere la Costituzione. L’Esercito, la Marina, l’Aviazione, con la collaborazione dei Carabinieri, si racconta che aspettassero solo un segnale... Come nel luglio del 1943, quando il Gran Consiglio decise di liquidare il regime di cui era organo supremo, oggi la Presidenza della Repubblica sarebbe stata disposta a fomentare la crisi salutare, che, contro i partiti, ci avrebbe portato ad un nuovo tipo di Repubblica parlamentare senza segreterie, direzioni, comitati centrali, insomma senza una pubblica opinione. Eppure ci voleva tanto poco per capire che si trattava di un complotto immaginario o al massimo di uno spauracchio blandamente ricattatorio. La stessa biografia del presidente della Repubblica contiene la smentita cui sarebbe difficile replicare con dei fatti positivi».

Il settimanale di Ferruccio Parri pubblicò, nell’edizione del 25 luglio, un intervento dello stesso esponente politico dal titolo «Il fantasma autoritario».10 «Prima insinuate, poi ripetute, infine sostenute con insistenza - scriveva l’autore - le voci di un colpo di stato hanno avuto il loro posto nelle cronache della crisi. La tendenza a risolvere con un colpo d’autorità (che sbocchi in un regime autoritario) è antica in certe forze di destra anche se è una vocazione “all’italiana” e cioè un impasto in cui il grottesco e il velleitario superano

9 «L’Espresso», 9 agosto 1964. 10 «L’Astrolabio», 25 luglio 1964.

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di gran lunga l’aspetto di seria e concreta minaccia». Quelle voci, continuava Parri, erano il frutto sia delle pressioni estere che di manovre interne allo scacchiere politico italiano: «Questa mormorazione sul colpo di stato in fondo è piaciuta all’estero, negli ambienti e nei circoli di quell’autoritarismo politico e tecnocratico che si lega a Parigi, a Bonn e a Bruxelles… Alla pressione esterna… ha fatto riscontro un’analoga pressione interna. Il colpo di stato, sulle colonne più o meno caute di tanta stampa moderata e conservatrice italiana, non è apparso mai come un ricorso puro e semplice all’Armée ma come un suggerimento, combinato con altri suggerimenti di natura politica e costituzionale, al presidente della Repubblica perché fosse consapevole degli strumenti sui quali fare affidamento nel caso di un risolutivo intervento nel mezzo della crisi».11

Un organo di stampa che, certamente, non nutrì alcun dubbio sulla consistenza delle ipotesi golpiste fu il settimanale di estrema destra «il Borghese». Nelle settimane che accompagnarono lo svolgimento della crisi, il giornale di Mario Tedeschi invocò più

11 Il settimanale «Mondo Nuovo», espressione del Psiup, indicò invece nella piccola e media borghesia il ceto direttamente interessato a creare un clima di tensione nel paese, attraverso l’uso strumentale delle voci sul colpo di stato. In un articolo del 26 luglio, intitolato «I piccoli per i generali i grandi per Nenni», Piero Ardenti scrisse che nelle manovre relative ai pericoli eversivi «la destra italiana ha chiaramente dimostrato di essersi “spaccata” in due. Se un settore - che può essere facilmente identificato soprattutto nella componente delle medie e piccole aziende e degli agrari - può aver appoggiato (sia pure non esponendosi) questo disegno autoritario, un altro settore (quello che comprende tutti i gruppi oligopolistici) ha preferito giocare ancora la carta del centro-sinistra, in questo dimostrando non solo maggiore sensibilità politica ma soprattutto più attenta valutazione della crisi cui il riformismo italiano è pervenuto, proprio in questa occasione». «La partita italiana - proseguiva l’autore - è, comunque, sempre aperta. Nel cassetto dei sogni della borghesia italiana l’eventualità di un colpo di stato ha sempre un doppio fondo segreto in cui essere collocata. Anche perché essa può essere tenuta di riserva come appoggio a soluzioni “costituzionali” al primo passaggio (non si è sentita forse circolare la voce di un governo-ponte, pre-elettorale, affidato ad un padre della patria?) e può costituire pur sempre una “prospettiva” politica anche per generali inquieti». Cfr. «Mondo Nuovo», 26 luglio 1964.

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volte uno sbocco autoritario, sulla scia di quanto fatto da Fernando Tambroni nel luglio 1960, e attaccò con grande violenza Aldo Moro, ritenuto politico funzionale agli interessi comunisti. Soprattutto, intavolò una sorta di “dialogo” unilaterale con il presidente Segni, prima spingendolo esplicitamente ad assumere le vesti di “salvatore della patria” e poi rimproverandolo, attraverso una lettera scritta a crisi conclusa, per aver “mollato” dopo due giorni di tentennamenti e per non aver corrisposto alle rappresentazioni che autorevoli personaggi, degni di fede, avevano fatto di lui nei mesi precedenti.

Già nell’edizione del 2 luglio il settimanale pubblicò un articolo a firma di Tedeschi, dal titolo «Primo: “distendere” i comunisti», che giudicava le dimissioni del governo Moro come un’opportunità, visto che esse avevano sconvolto il calendario previsto dal presidente del Consiglio e, insieme, dal Pci.12 «Il programma di Moro e delle sinistre - affermò il giornalista - era quello di aprire la crisi a novembre, o a febbraio, quando i disoccupati sarebbero stati circa un milione, per trovare in queste masse disperate la giustificazione alla resa definitiva: cioè la nascita del “fronte popolare” come “stato di necessità”… la crisi è giunta in anticipo sulle previsioni di Moro e del Pci, ed ora in piazza scenderanno soltanto gli attivisti di partito». La soluzione proposta non lasciava margini di incertezza: «Ora, contro gli attivisti di partito si può e si deve agire con la massima violenza e spregiudicatezza… Non dimentichiamo che nel luglio 1960, se Moro non avesse pugnalato alle spalle Fernando Tambroni, quel governo aveva già ridotto all’impotenza il Pci, colpendolo sia a Reggio Emilia sia a Roma». E dopo aver ricordato che la situazione ricordava il periodo immediatamente precedente all’avvento del fascismo, concludeva con un appello a Segni: «Ecco: gli italiani sono stufi di queste cose,

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proprio come ne erano stufi nel 1919-1922. Allora, vista la incapacità di reagire da parte dello stato, nacque il fascismo. Questa volta le cose possono andare diversamente: purché, però, l’onorevole Segni decida di non essere Facta».

La settimana successiva Tedeschi proseguì la sua analisi in un pezzo dal titolo «Comunismo “moroteo”»13 e, a proposito di Antonio Segni, scrisse che «costretto a scegliere fra la comoda via della sottomissione ai partiti e quella, difficile e ardua, della rivolta contro i partiti, il presidente della Repubblica ha preferito imboccare la più facile, ed ha richiamato Moro al Quirinale. La vecchia massima secondo cui “la debolezza è il sol difetto che non si possa correggere”, è stata così confermata». Sempre rivolgendosi indirettamente al capo dello stato, inserì gli allarmi su un possibile colpo di stato all’interno della strategia promossa dal Partito comunista per disarmare il presidente Segni e per “sponsorizzare” Moro: «desideriamo soffermarci a dimostrare allo stesso onorevole Segni come il Pci approfitti della situazione per cercare di disarmare il Quirinale, e come ciò avvenga proprio mentre la stampa comunista innalza sperticate lodi alla persona di Aldo Moro. È un piano che si sviluppa sfruttando l’indecisione e le paure degli uomini che dovrebbero difendere la libertà degli italiani, anche a dispetto dei partiti».

Dopo aver ripercorso quella che, secondo Tedeschi, era la tecnica comunista di diffusione delle voci su pericoli eversivi per ottenere dei vantaggi politici e aver evidenziato l’alleanza politica che univa il Pci a Moro,14 il giornalista rivolse un ultimo

13 «il Borghese», 9 luglio 1964.

14 «Nel 1960 - scrisse Tedeschi - quando i comunisti ebbero necessità di far cadere Tambroni, e strinsero per questo alleanza con Aldo Moro, furono poste in circolazione le medesime voci di “colpo di stato”. Chi le accreditò, in campo democristiano? Ebbene… ad avvalorare le false notizie diffuse dai

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appello a Segni: «preferiamo pensare che l’onorevole Segni sia un galantuomo incapace di riconoscere la doppiezza altrui, anziché immaginarlo complice di Moro in certe turlupinature. Ma adesso il presidente sa; e l’opinione pubblica lo attende alla prova».15

Partendo da queste premesse, non sorprende la decisione di rivolgere una lettera diretta al presidente della Repubblica, dal titolo «Le responsabilità di Antonio Segni», subito dopo l’accordo per la formazione del secondo governo di centro-sinistra.16 «Signor Presidente - recitava il testo - prima di indirizzarLe questa lettera aperta, abbiamo voluto attendere che Aldo Moro costituisse il suo nuovo governo. La speranza è sempre l’ultima a morire, e noi, come la grande maggioranza degli italiani, fino all’ultimo abbiamo atteso che Lei ponesse fine all’indegno spettacolo offerto da quattro partiti, intenti a dividersi in segreto le spoglie d’Italia». All’interno dell’articolo, i passaggi

comunisti fu proprio l’onorevole Moro, che se ne andò a cercare rifugio per la notte in case amiche, come chi debba temere d’essere arrestato. Non è strano che la medesima manovra propagandistica si ripeta oggi, negli stessi termini e con identici protagonisti (Pci da un lato, Aldo Moro dall’altro), proprio nel momento in cui si profila l’ultima occasione per arrestare la cosiddetta “svolta a sinistra”?». Cfr. «il Borghese», 9 luglio 1964.

15 Poche pagine più avanti, Piero Buscaroli chiariva, in un articolo dal titolo «L’ipotesi autoritaria», cosa il settimanale si attendeva come “prova” da parte del capo dello stato: «il ricorso ad un progettato governo di salute pubblica, o di unità nazionale, o, più semplicemente, di emergenza, da molti considerato ormai il solo capace di fronteggiare la situazione disperata e di restituire gradatamente la fiducia, porrebbe come problema immediato la necessità di fronteggiare la piazza che il Partito comunista gli scaglierebbe contro. Il Partito comunista è convinto, infatti, che nessun uomo dell’attuale schieramento politico sarebbe disposto ad impartire alle forze di polizia l’unico ordine capace di porre rimedio alla situazione: quello di usare le armi. E, se l’uomo si trovasse, è abbastanza semplice capire che non troverebbe in Parlamento l’appoggio necessario per raddrizzare la situazione; ma sarebbe pugnalato alle spalle dal suo stesso partito, da tutti i partiti dell’attuale maggioranza, e perfino avversato dal Partito liberale. Egli dovrebbe fatalmente trovare fuori del Parlamento e delle istituzioni normali l’appoggio e la forza necessari per trarci dalla rovina». Cfr. «il Borghese», 9 luglio 1964.

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chiave erano due. Nel primo si affermava: «non diremo, come ha fatto un periodico radicale, che Lei è ancora oggi, prima di tutto, il capo della corrente “dorotea”. Non diremo, come ha scritto il quotidiano comunista, che Lei obbedisce ai sogni di potere della classe dirigente cattolica. Tutto questo non interessa il pubblico. Diremo soltanto che Lei, Signor Presidente, dinanzi ad una situazione che giudicava rovinosa, dopo avere tentennato per quarantott’ore, alla fine ha “mollato” come l’ultimo degli uomini politici spaventati». Il secondo partiva da alcuni episodi che, secondo «il Borghese», avevano contribuito ad alimentare, anche all’interno del giornale, l’illusione del “salvatore della patria”. «E come avremmo potuto fare diversamente - chiedeva - quando autorevoli personaggi venivano a riferirci la Sua accorata preoccupazione per le condizioni in cui stava cadendo l’Italia sotto il centrosinistra? Possiamo fare i nomi, indicare i giorni e i luoghi degli incontri, e sappiamo che molti altri colleghi si trovano nella identica nostra condizione. Volutamente o no, negli ultimi mesi Lei ci era stato descritto, da personaggi degni di fede, come l’uomo preoccupato soltanto di trovare, per questo povero paese, una via d’uscita dal marasma politico, economico e sociale del centrosinistra. E noi tutti, da certe confidenze, ci eravamo sentiti quasi incitati a contribuire, ognuno con le proprie forze, a provocare la crisi, ad aiutare il crollo del governo, per offrire a Lei, Signor Presidente, il modo di intervenire».

La lettera si chiudeva con l’amara considerazione che «la Francia del 1958 non diventò comunista, soltanto perché seppe esprimere un uomo come De Gaulle. Lei, Signor Presidente, molto più modestamente, senza bisogno di rivoluzioni e di colpi di stato, aveva avuto l’occasione buona per allontanare il pericolo d’una vittoria comunista anche dal nostro paese. Non lo ha fatto».

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Le precauzioni dei politici

Gli allarmi lanciati dalla stampa tedesca e francese ebbero un’eco nella realtà informativa italiana e circolarono anche all’interno del mondo politico nazionale. In questo senso, i timori dichiarati da Nenni e La Malfa rappresentarono solo l’espressione più consapevole di preoccupazioni diffuse, che trapelarono nelle prese di posizione di leader e forze politiche. Rispondendo a una lettera nella sua rubrica su «Il Venerdì», Eugenio Scalfari è andato anche oltre, scrivendo che della macchinazione orchestrata da De Lorenzo «ne era informato Pietro Nenni e i gruppi dirigenti del Psi e del Pci, che infatti avevano preso tutte le misure di autosicurezza possibili».17 Quest’ultimo passaggio apre uno scenario molto promettente per una ricerca sui fatti del giugno-luglio 1964, perché può fornire elementi utili sia per valutare l’effettiva sussistenza, la concretezza e l’imminenza dei pericoli eversivi, sia per confermare o meno la tesi del cedimento socialista di fronte alla minaccia autoritaria.

Le testimonianze raccolte nel tempo, in verità non tantissime, indicano che all’interno del Partito socialista si disponeva in tempo reale di informazioni utili per avere un quadro sufficientemente preciso delle manovre che si stavano organizzando. Nei giorni cruciali della crisi, infatti, arrivarono segnalazioni attendibili da una pluralità di fonti, la cui origine era direttamente in ambito militare, o in ambienti politici esterni di assoluta credibilità.

La struttura centrale del Psi, fino ai suoi massimi dirigenti, fu allertata sui pericoli eversivi tramite l’avvocato Pasquale Schiano, l’uomo che per conto del partito si

17 Eugenio Scalfari, «Perché il “Piano Solo” fu davvero un golpe», «Il Venerdì», supplemento de «la Repubblica», 30 gennaio 2004.

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occupava di mantenere i rapporti e i collegamenti con il mondo militare. Schiano era un antifascista napoletano, prima azionista e poi socialista, che aveva ricoperto la carica di sottosegretario alla Marina mercantile nel primo governo De Gasperi. Da allora aveva coltivato i contatti con gli ambienti militari, anche grazie all’attività del suo studio legale, che era specializzato in consulenza sulle questioni militari. La sua credibilità è confermata dal fatto che, come vedremo, fu proprio Schiano alla base delle informazioni che nel 1967 portarono agli articoli de «L’Espresso» e de «L’Astrolabio»: in quel caso fu accertato che fonti primarie dell’uomo politico erano stati tre alti ufficiali dei carabinieri, allora in servizio, quali il generale Paolo Gaspari e i colonnelli Luigi De Crescenzo e Ezio Taddei.

Il nome di Schiano è stato citato da Luigi Anderlini, sottosegretario socialista al ministero del Tesoro durante il primo governo Moro e altro personaggio successivamente impegnato nelle denunce pubbliche dei pericoli corsi durante la crisi del 1964. In un colloquio del 1997, Anderlini ha ricordato «un comitato centrale del Partito socialista, svoltosi probabilmente nell’estate “calda” del 1964, in cui Nenni fece un breve accenno all’orizzonte politico carico di difficoltà e di rischi. Egli disse che bisognava avere la capacità di reagire politicamente a questa situazione. In quella sede Pasquale Schiano, che conoscevo già da diverso tempo, mi avvicinò e mi rivelò che la situazione era messa al peggio, che le istituzioni erano a rischio, che era in atto un tentativo di colpo di stato. Allora, seppure in maniera non del tutto precisa, venne fatto il nome del generale De Lorenzo. Quello fu il mio primo contatto con la realtà del tentativo

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eversivo».18 L’ex-sottosegretario, comunque, non dette eccessivo peso alle informazioni date dal compagno di partito, tanto che decise di non allontanarsi dalla sua abitazione: «ricordo confusamente di essere stato allertato sempre da Pasquale Schiano, il quale era convinto che qualcosa di grave poteva succedere. Io non mi allontanai da Roma».19

Anche Antonio Giolitti, ministro del Bilancio del primo governo Moro, ha conservato il ricordo, seppur in forme più sfumate, degli allarmi circolati all’interno del partito alla metà di luglio, così come della sua decisione di non muoversi da Roma. «Effettivamente - ha precisato durante un incontro svoltosi nel 1997 - nel periodo più acuto della crisi di governo correva la voce che qualcosa di pericoloso era in atto. Non ricordo chi mi dette il consiglio di andare fuori Roma, di non dormire nella mia residenza per una o più notti

18 Colloquio del 30 giugno 1997. Nel suo libro di memorie, Anderlini aveva già ricordato questo episodio, precisando che «quel mese di luglio del ’64 è già passato alla storia come il mese del tentativo di colpo di stato di De Lorenzo. Allora se ne seppe ben poco. Nel Comitato centrale socialista che si tenne in un buio locale di via della Lungara Nenni parlò di pressioni pericolose e indebite della destra ma non andò più in là; forse non ne sapeva molto di più. Non diede comunque peso a chi come Pasquale Schiano parlava - nei corridoi - di un vero e proprio “rischio per le istituzioni”». Cfr. Luigi Anderlini, Caro Luca, Roma, Newton Compton, 1994, p.135.

19 Colloquio del 30 giugno 1997. In questa occasione, Anderlini si è comunque detto convinto che le manovre di De Lorenzo abbiano avuto un ruolo decisivo nella scelta del Psi, e di Nenni in particolare, di entrare nel secondo governo Moro. «In realtà - ha sostenuto l’ex sottosegretario - l’operazione tentata dal generale De Lorenzo ha avuto successo, non nel senso che vi è stato effettivamente il colpo di stato, ma nel senso di riuscire a imprimere alla situazione politica italiana un orientamento radicalmente diverso da quello che aveva assunto con il primo centro-sinistra… Nenni approvò il nuovo accordo di governo, lasciando in subordine le riforme, perché era convinto che quella fosse l’unica strada percorribile. Quella scelta, però, gli era imposta dall’ultimatum di De Lorenzo. I successivi governi di centro-sinistra persero la carica dirompente, l’idea intorno alla quale era maturata quella formula politica: da un lato spostare il baricentro della sinistra e convincere i comunisti a entrare nel gioco politico con i fatti, dall’altro mettere in scacco la destra democristiana. Al fallimento di questo tentativo ha certamente contribuito il tentativo di colpo di stato del 1964».

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durante quel mese di luglio. Io, comunque, non lo ascoltai. Ricordo che ne parlai con mia moglie e insieme decidemmo di non dare peso a quelle notizie».20

La testimonianza dell’allora segretario Francesco De Martino chiama in causa, come già era emerso da alcuni accenni di Nenni,21 le informazione fatte filtrare al Partito socialista direttamente da Aldo Moro. Nel suo libro di memorie, dal titolo Un’epoca del socialismo, De Martino ha scritto che «Moro più di una volta parlava vagamente ai delegati

20 Colloquio del 9 giugno 1997. Anche a Pier Luigi Vercesi, Giolitti ha confermato che «qualche compagno mi consigliò di dormire fuori casa. Ma io non ci credevo. C’era preoccupazione, c’era tensione, ma il resto erano solo esagerazioni. Io, infatti, ho dormito tranquillo nel mio letto». Pier Luigi Vercesi (a cura di), «Antonio Giolitti: che follia far passare il presidente Segni da golpista», in «1964-2004 L’affaire De Lorenzo», quinta puntata, «Sette», supplemento del «Corriere della Sera», numero 10, 4 marzo 2004, p.38. Secondo Giolitti, «vi era probabilmente un eccessivo allarmismo, una certa tendenza a sospettare e a temere operazioni di violenza politica. Già negli anni precedenti avevo vissuto esperienze di questo tipo: un segnale di allarme era infatti giunto sia dopo l’attentato a Togliatti del luglio 1948, sia quando nel 1960 si era creata una situazione quasi insurrezionale». Di fronte a quanto emerso negli anni, tuttavia, l’esponente socialista ha precisato che «per quanto riguarda la mia esperienza personale ho certamente sottovalutato quei pericoli, ritenendo che i motivi della crisi fossero riscontrabili sul terreno della politica economica. Il pericolo era reale ed io avrei fatto meglio ad ascoltare i consigli e ad andare a dormire fuori casa per qualche notte». A parere di Antonio Giolitti, durante la crisi dell’estate del 1964 il Psi «non si trovò di fronte alla necessità di sventare un colpo di stato, ma ad una offensiva di più largo respiro che aveva come protagonisti il mondo dell’industria e dell’impresa, la Confindustria, la Banca d’Italia e che mirava a bloccare le presunte velleità riformiste». Cfr. Colloquio del 9 giugno 1997. Questo giudizio è sostanzialmente condiviso da Giovanni Pieraccini, ministro dei Lavori pubblici nel primo governo Moro: «nei giorni centrali della crisi - ha detto durante un incontro nel 1997 - regnava un’atmosfera di estrema tensione e si avvertiva il pericolo di una involuzione autoritaria… Così, nelle varie valutazioni che vennero fatte in quel periodo e che portarono alla costituzione del secondo governo Moro rientrò anche la minaccia di un tentativo di colpo di stato… Tuttavia, almeno stando ai miei ricordi e a ciò che quotidianamente mi diceva Nenni, l’elemento eversivo non fu l’unico punto determinante della crisi e soprattutto non causò, così come spesso si è voluto vedere, il cedimento del Psi e la fine della politica delle riforme». Cfr. Colloquio del 10 luglio 1997.

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socialisti di voci intorno a movimenti di generali, rafforzando in essi ed in particolare in Nenni la preoccupazione derivante dallo stato del paese di una vera e propria crisi della democrazia. Senza dubbio tale preoccupazione influì sui socialisti e li indusse ad accettare ridimensionamenti del programma, pur senza rinunciare ad alcuna delle riforme previste… È da escludere che Nenni o altri dirigenti socialisti fossero a conoscenza del piano De Lorenzo, detto “Piano Solo”, che venne rivelato più tardi… Ma essi traevano da un complesso di fatti e di indizi seri che esistevano dei pericoli non solo di brusca interruzione del processo appena iniziatosi con il centro-sinistra, ma addirittura di involuzione antidemocratica. Questo pesava su Nenni in modo particolare perché egli aveva vissuto la tragedia dell’avvento del fascismo ed aveva per istinto e per esperienza personale il convincimento che le classi dominanti in Italia accettavano il sistema democratico fin quando non fossero venuti in giuoco interessi fondamentali del capitalismo».22

Il leader socialista ha nuovamente puntualizzato le informazioni in suo possesso nel 1990, in una lunga intervista concessa a Gianni Corbi de «la Repubblica». «Nessuno di noi - ha ricordato De Martino - neppure Nenni, seppe qualcosa di quelle riunioni riservate tra Segni, Moro, Rumor, con De Lorenzo e i comandi della polizia e dei carabinieri… Gli accennò vagamente (Aldo Moro a Pietro Nenni) - nel suo modo non sempre chiaro - del possibile intervento di organizzazioni che miravano a salvaguardare la democraticità del paese e che avevano collegamenti di carattere internazionale… Si può dire che Nenni, dimostrando buon fiuto, intuì qualcosa di non chiaro. Temette che i militari sarebbero intervenuti nel caso in cui noi socialisti non avessimo “marciato”.

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Erano le cose dette e non dette da Moro che inquietavano Nenni, e lo spingevano ad affrettare i tempi dell’accordo. Dei suoi colloqui con Moro e i capi della Dc Nenni mi mise sempre al corrente. Se ci fosse stato qualcosa di più preciso e concreto a me lo avrebbe detto, anche per il fatto che io partecipavo direttamente alle trattative con la Dc».23

Un’ultima testimonianza particolarmente significativa è contenuta in una lettera inviata nel 1991 da Aurelio Banfi, sottosegretario socialista al ministero degli Affari esteri durante il primo governo Moro e vicepresidente nazionale dell’Anpi, all’allora presidente della Commissione stragi, Libero Gualtieri.24 Il testo inizia richiamando il clima esasperato della crisi del 1964: «a metà luglio Giolitti, ministro, Anderlini, Gatto ed io, sottosegretari, ci riunimmo con Lombardi per fare il punto della situazione ed esso ci

23 Gianni Corbi, «La sciabola di Gladio che domò i socialisti», «la Repubblica», 4 dicembre 1990. Ancora in un intervento su «L’Unità», di pochi mesi successivo a quello appena citato, De Martino ha ulteriormente specificato che «ora finalmente si saprà che di minaccia di colpo di stato militare non si ebbe alcun sentore nel 1964 e che noi giungemmo alla conclusione positiva di chiudere la crisi di governo molto difficile per considerazioni di ordine politico, temendo un grave arretramento democratico, che avrebbe giovato soltanto a chi combatteva con tutti i mezzi le riforme da noi sostenute… Il solo sentore di possibile intervento di militari si era avuto nelle inconsuete consultazioni, che lo stesso presidente aveva fatto durante la crisi, del comandante dei carabinieri, generale De Lorenzo, e del capo di stato maggiore dell’esercito, generale Rossi». Sulla soluzione della crisi politica dell’estate del 1964, l’allora segretario socialista ha precisato che «facemmo un compromesso che implicava il mantenimento di tutti i punti essenziali del programma con alcune modifiche, che dopo estenuanti discussioni abbiamo accettato per evitare o un vuoto di potere che avrebbe permesso qualsiasi avventura o un governo con una maggioranza aperta a destra». Cfr. Francesco De Martino, «Vi racconto la lunga crisi del ’64 e le ragioni dei socialisti», «L’Unità», 6 gennaio 1991.

24 Atti parlamentari, Senato della repubblica-Camera dei deputati, X legislatura, Commissione parlamentare d’inchiesta sul terrorismo in Italia e sulle cause della mancata individuazione dei responsabili delle stragi, cartella Sifar-Piano Solo, Lettera del 07/01/91 inviata dal senatore Arialdo Banfi

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riferì che il Psi era sottoposto a fortissime pressioni per la ripresa della collaborazione governativa con la Dc e che Nenni gli aveva fatto presente i pericoli di una soluzione involutiva della crisi: erano i giorni in cui correvano voci di ripetuti incontri tra il presidente Segni e il generale De Lorenzo. Non ebbi rapporti diretti con Nenni: ritenni di dover informare Saragat (di cui era diventato stretto collaboratore, essendo Banfi sottosegretario e Saragat ministro degli Affari esteri) che se la voce di ricatti al Psi fosse vera e se avesse avuto concreta attuazione io avrei rifiutato la pur prevista mia conferma agli esteri».

Proprio da una persona dell’entourage del ministro socialdemocratico arrivò il segnale di pericolo, che portò l’ex sottosegretario ad allontanarsi per qualche giorno dalle residenze di Roma e Milano: «non ricordo esattamente il giorno - continua Banfi - ma fu certamente tra il 15 ed il 17 luglio mentre ero nel mio ufficio alla Farnesina venne da me Malfatti (Franco Malfatti, capo di gabinetto del ministro Saragat) il quale mi consigliò vivamente di allontanarmi da Roma ma di non tornare a Milano a casa mia: alle mie domande Malfatti rispose evasivamente ripetendomi che era un consiglio d’amico e che andassi in un luogo ove non fossi conosciuto. Poiché era luglio pensai di andare in un posto di villeggiatura ove non conoscevo alcuno e mi recai a Punta Ala, abbastanza vicino a Roma per poter rientrare velocemente se fosse stata necessaria la mia presenza: anche all’Anpi prendemmo alcune misure di sicurezza… Dopo tre giorni, questo lo ricordo bene, seppi dalla televisione che i segretari dei partiti del centro-sinistra avevano deciso di riprendere gli incontri sul programma: telefonai a Malfatti il quale mi disse che potevo tornare a Roma il che feci».

Anche l’ultima parte della lettera di Arialdo Banfi è importante, perché riferisce di episodi che riguardano direttamente il leader dei socialdemocratici. «Con Saragat - ha

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concluso - pur dissentendo sulla linea politica, intrattenni un rapporto amichevole e più volte mi invitò a visitarlo quando era presidente della Repubblica: in qualche occasione mi parlò di quel “terribile” luglio 1964 quando lui e Nenni salvarono la democrazia nel nostro paese. Da tutto questo ho sempre tratto la convinzione che Nenni e Saragat sapevano la verità su quel luglio 1964».

La lettera di Arialdo Banfi è sintomatica del fatto che le voci sul colpo di stato ebbero una certa ramificazione. La conferma, anche se esterna al Psi, arriva dalla testimonianza di Vittorio Foa, lo storico leader sindacale ed esponente socialista che all’inizio del 1964 era fuoriuscito dal Psi per fondare il Psiup. Foa ha rivelato che durante i giorni centrali della crisi passò alcuni giorni fuori dalla propria residenza, dopo essere stato allertato da «una signora romana, che era in stretti contatti con l’ex regina Maria José di Savoia, allora in esilio». Proprio dagli ambienti legati a Maria Josè, che anche a livello personale aveva mantenuto buoni rapporti con diversi rappresentanti dell’antifascismo italiano, era partita la segnalazione destinata sia a Foa che al comunista Giorgio Amendola.25

Non ci sono conferme, invece, di una mobilitazione che, oltre le scelte individuali, riguardò le strutture di partito. A parte l’accenno di Banfi alle misure prese all’interno dell’Anpi, nelle memorie dei politici socialisti manca qualsiasi riferimento a indicazioni generali o ad attività di coordinamento da parte del partito. Anche tra le poche testimonianze di cui disponiamo fuori dall’area socialista, soprattutto quelle di fonte comunista, le indicazioni sono decisamente contraddittorie.

Emanuele Macaluso, che all’epoca era responsabile dell’organizzazione del Pci, ha rivelato in un’intervista su «La Stampa» che in quel periodo «ci furono generali che si

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rivolsero proprio a noi del Pci per segnalare la pericolosità del loro collega (Giovanni De Lorenzo), temendo da parte sua operazioni al limite dell’eversione». Alla domanda del giornalista tendente a sapere se durante la crisi del 1964 ci furono fughe da casa per dormire altrove, ha però risposto che «non furono date indicazioni del genere e io lo so per il ruolo che ricoprivo. Quello avvenne più tardi, negli anni ‘70, con la vicenda del colonnello Borghese».26 Pochi giorni dopo quell’intervista, Macaluso ha confermato a Pier Luigi Vercesi che «noi sapevamo poco o niente. C’è chi sostiene che la direzione avrebbe dato, all’epoca, l’ordine di dormire fuori. Ma quando mai: quell’ordine avrei dovuto darlo io».27

Anche Ugo Pecchioli, all’epoca segretario della Federazione comunista di Torino, ma considerato vero e proprio ministro dell’Interno “ombra” del Pci, non sembra aver conservato memoria di una particolare mobilitazione, anche se non ha escluso che qualche membro del partito decise di andare a dormire fuori casa per qualche notte. «Devo dire - ha precisato nel libro Tra misteri e verità, rispondendo alle domande del giornalista Gianni Cipriani - che nel 1964 ero a Torino, segretario di quella federazione, ma non ricordo con precisione cosa ci fu detto di fare, anche perché le segnalazioni che arrivavano dal centro non erano mai prodighe di particolari e non potevamo sapere su quali basi fossero state impartite. Credo che se all’epoca mi avessero detto con chiarezza

26 Marco Neirotti, «La Dc non stava con Segni», «La Stampa», 29 gennaio 2004. Nella stessa pagina è stata pubblicata la testimonianza di Lino Jannuzzi, il giornalista de «L’espresso» che nel 1967 firmò i primi articoli di denuncia sui pericoli eversivi, secondo cui «il clima era di preoccupazione forte fra i comunisti, le liste di proscrizione erano pronte, c’era chi dormiva fuori casa per sfuggire a un eventuale intervento diretto del generale (De Lorenzo) e dei suoi carabinieri». Cfr. Marco Neirotti, «Il burattinaio era De Lorenzo», «La Stampa», 29 gennaio 2004.

27 Pier Luigi Vercesi (a cura di), «Fu vero golpe?», in «1964-2004 L’affaire De Lorenzo», prima puntata, «Sette», supplemento del «Corriere della Sera», numero 6, 5 febbraio 2004, p.35.

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di stare attento perché il generale De Lorenzo e alcuni ufficiali del Sifar e dell’Arma dei carabinieri avevano organizzato un colpo di stato, oggi ne conserverei un ricordo circostanziato. Nel corso degli anni noi abbiamo ricevuto diverse segnalazioni. Ma quella del ‘64 non la ricordo. È molto probabile che anche in quella occasione qualcuno di noi andò per una o due notti a dormire fuori di casa».28

Di segno diametralmente opposto sono i ricordi trasmessi da Sandro Curzi, che nel 1964 era direttore responsabile de «L’Unità» e per un breve periodo responsabile Stampa e propaganda della direzione del partito, e da Sergio Flamigni, che invece faceva parte dell’Ufficio di segreteria del Pci. Il primo ha parlato di una consistente mobilitazione all’interno del Pci, tanto che fu studiata la possibilità di pubblicare il quotidiano del partito in clandestinità. «All’epoca - ha raccontato Curzi - ero vicino a Togliatti. Altro che si parlava di golpe! Tanto che il Pci prese misure molto serie. Pensammo a come far uscire “L’Unità” in clandestinità. Io andai a Ginevra per verificare la possibilità di stamparla lì. De Lorenzo puzzava di golpe, lo sapeva anche Nenni: non ho le prove, ma ho ragione di credere che lui e Togliatti si parlassero».29 Il secondo ha affermato che «molti compagni dormirono fuori, in quelle notti», e ricordato «quando Togliatti, accompagnato da Perna, andò da Segni. Al ritorno, Perna mi raccontò come era andata. Per tutto il tempo Togliatti aveva preso in giro Segni dicendogli: chissà se i soldatini

28 Ugo Pecchioli, Tra misteri e verità. Storia di una democrazia incompiuta, Milano, Baldini e Castoldi, 1995, p.70.

29 Pier Luigi Vercesi (a cura di), «Fu vero golpe?», in «1964-2004 L’affaire De Lorenzo», prima puntata, «Sette», supplemento del «Corriere della Sera», numero 6, 5 febbraio 2004, p.35.

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ubbidiranno? Il presidente era tremebondo. Togliatti lanciava il messaggio: guarda che sappiamo».30

Una situazione di preallarme sembra aver riguardato, infine, l’apparato della Cgil, tanto che Bruno Trentin, uno dei leader storici del sindacato italiano, ha ricordato davanti a Sergio Zavoli: «che ci sia stato un clima di forte tensione e anche di allarme, non solo nei partiti della sinistra, ma anche nel movimento sindacale, è indubbio. Come è vero che vi sono stati giorni in cui i dirigenti sindacali erano, almeno nella Cgil, in situazione di preallarme e avevano provveduto in alcuni casi a trovare delle seconde abitazioni. Che siano state utilizzate, francamente non ne ho conoscenza, a parte qualche caso sporadico».31

30 Pier Luigi Vercesi (a cura di), «Golpe o no? Chi stava con Togliatti e Nenni è ancora diviso», in «1964-2004 L’affaire De Lorenzo», quinta puntata, «Sette», supplemento del «Corriere della Sera», numero 10, 4 marzo 2004, p.40.

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