CAPITOLO 1
CONCETTI TEORICI ALLA BASE DEL CASH HOLDINGS
1.1 Motivi dell’accumulo di liquidità
L’essere a corto di liquidità è costoso per l’azienda, per cui essa formerà delle riserve di liquidità fino al punto in cui i costi eguaglieranno i benefici che derivano dal detenere cash. Trattenere un’unità addizionale di riserve liquide permette di diminuire la probabilità che l’impresa si trovi in una situazione di mancanza di liquidità ed abbassare i costi che ne derivano.
1.1.1 Motivo delle transazioni
Un’impresa che si trova a corto di liquidità deve reperirla sul mercato dei capitali, o vendere assets, o tagliare i dividendi e investimenti, o infine rinegoziare i contratti finanziari esistenti. Trovare sul mercato risorse fresche è molto costoso e non è sempre possibile, ma anche le altre opportunità che si offrono all’impresa risultano tutte più costose se riferite alle risorse interne prontamente disponibili come il cash. Il problema di quest’ultimo è che la creazione ed il mantenimento di riserve di cash comportano degli oneri da sostenere. Si tratta quindi di bilanciare il costo marginale delle riserve liquide con il costo marginale dell’essere a corto di liquidità.
In letteratura, a partire da Keynes nel 1936, emergono due ragioni importanti per detenere liquidità: il motivo dei costi di transazione e il motivo precauzionale1. Nel primo caso si può generalmente affermare che le imprese mantengono in forma liquida una parte dei loro portafogli per far fronte alle esigenze che derivano dalle transazioni correnti. Alcuni modelli
1 Keynes parla anche di un terzo motivo, quello speculativo. Questo dipende dalla previsione sul livello futuro del tasso
classici della finanza (Baumol 1952, Miller e Orr, 1966) derivano la domanda ottima per il cash quando un’azienda incorre in costi di transazione nel momento in cui converte un asset finanziario non liquido in cash ed utilizza il contante per i pagamenti. I due modelli principalmente riconosciuti sono quello deterministico di Baumol e Tobin (1952;1956) e quello stocastico di Miller e Orr (1966). I modelli, presentati nella teoria monetaria, sono consistenti con la teoria dell’impresa e sono largamente accettati in finanza. E’ opportuno precisare che entrambi gli approcci si riferiscono alla domanda di moneta delle imprese, quindi alla liquidità in senso stretto.
Baumol è il primo ad osservare che la gestione dei saldi di cassa è assimilabile alla gestione delle scorte. Se si suppone di possedere una riserva di liquidità a cui attingere con regolarità per fare fronte ai pagamenti, quando essa si riduce a zero le si ricostituisce vendendo buoni del tesoro. Il costo di ordinazione è rappresentato dalle spese amministrative fisse che ogni vendita dei buoni del tesoro comporta.
L’importanza del modello di Baumol è la messa in luce della scelta fondamentale che il cash manager deve fare fra i costi che conseguono alla negoziazione dei titoli ed i costi che conseguono dal mancato investimento della liquidità.
Il modello di Baumol aiuta a capire perché le piccole e le medie imprese tendono a detenere saldi di liquidità proporzionalmente più consistenti. Per le imprese più grandi i costi di transazione connessi alla vendita e all’acquisto di titoli sono trascurabili, se paragonati al costo opportunità di mantenere saldi di cassa eccedenti.
Il modello di Baumol si basa sul fatto che la riserva di liquidità viene creata ed usata costantemente. Nella realtà però in certe settimane l’incasso di alcune ingenti fatture può dare origine ad un’entrata netta di cassa, in altre invece si può avere, per effetto ad esempio dei pagamenti ai fornitori, un’uscita netta di cassa.
Il modello di Miller e Orr (1966) tiene conto proprio dell’incertezza dei cash flows. Il loro approccio fa si che i cash flows netti fluttuino in modo totalmente stocastico tra un limite
superiore ed un limite inferiore di controllo. Quando uno di questi limiti è raggiunto l’impresa provvede a comprare o vendere titoli scambiabili sul mercato.
Si può affermare che il modello di Baumol e Tobin e quello di Miller e Orr implicano entrambi che ci sono economie di scala nell’uso della moneta o, detto in altro modo, che l’elasticità della domanda di moneta rispetto alle transazioni è inferiore all’unità.
In presenza di costi di transazione, un’impresa che massimizza il valore valuta i costi marginali ed i benefici marginali del cash holdings per determinare un ottimo (trade-off theory).
Nei modelli precedentemente esaminati il costo dell’investimento in liquidità è un costo opportunità, dato dalla rinuncia al rendimento dei titoli di stato. Nel caso in cui l’azienda si indebiti per ottenere denaro, il calcolo del costo fa riferimento al tasso d’interesse che generalmente è assunto essere più alto di quello a cui si rinuncia vendendo i titoli. Il calcolo diventa più complicato se si considera l’incertezza del cash flow, come avviene in Miller e Orr. Si supponga questo esempio: per poter massimizzare gli interessi percepiti, si vuole mantenere basso il saldo di cassa, ma ciò comporta una maggiore probabilità di dovere ricorrere all’indebitamento in situazioni di scarsità di contante. Si supponga che si debba decidere se mantenere liquidità senza percepire interessi o investire i liquidi in titoli che fruttano il 10%. Il costo della liquidità in questo caso è pari al 10%. Tuttavia, vendere titoli potrebbe essere difficile e costoso, soprattutto con un preavviso piuttosto breve. Si può però ottenere un prestito bancario al 12%. Per massimizzare il risultato atteso, il saldo di cassa deve essere mantenuto ad un livello tale per cui la probabilità di ricorrere al debito bancario è pari a 10/12, lo 0,83. Il saldo di cassa dipende quindi dall’indebitamento e dall’incertezza dei flussi di cassa futuri. Se, rispetto ai titoli, il costo dell’indebitamento è elevato, ci si deve assicurare che la probabilità di ricorrere a tale forma di copertura sia bassa. Se i flussi di cassa sono molto incerti, può essere necessario mantenere un saldo di cassa piuttosto elevato in modo da non dover ricorrere al prestito bancario. Al contrario se la varianza del cash flow è bassa, si può mantenere un minore saldo di cassa.
Come detto prima, questa considerazione di costo della liquidità ha senso nei modelli di Baumol-Tobin e Miller-Orr, in quanto studiano la liquidità in senso stretto, ossia come domanda di moneta.
Il concetto di cash holdings invece contiene al suo interno non solo la cassa, il contante, ma anche titoli di stato, banche c/c attivi e commercial paper, generando comunque un rendimento, al contrario del semplice contante che non genera interessi. Damodaran (2000) distingue tra wasting cash e non-wasting cash, dove nel primo caso si tratta di cash lasciato in conti che non fruttano interessi. Riprendendo l’esempio della Microsoft, la maggior parte dell’investimento in liquidità è in treasury bills e commercial paper.
Il costo più rilevante dell’accumulo di liquidità è dato dal suo basso ritorno monetario risk adjusted, se si assume che i managers massimizzano la ricchezza degli azionisti. Tale costo è usualmente chiamato cost of carry: rappresenta la differenza tra il ritorno che si ha dall’investimento in cash e l’interesse che si deve pagare per finanziare un dollaro addizionale di cash. Infatti le attività liquide, come tutte le altre attività, devono essere finanziate: coerentemente, il costo della liquidità può essere immaginato come il differenziale tra l’interesse ricavato dall’investimento dei fondi in attività liquide ed il costo del loro finanziamento. Se l’impresa potesse indebitarsi ed impiegare allo stesso tasso di interesse non ci sarebbero costi nel detenere liquidità.
Infine, se si considera che i manager possono non agire in linea con gli interessi degli azionisti, vi sarà un ulteriore costo rappresentato dai costi di discrezionalità manageriale. Come vedremo nel seguito del capitolo, i manager tendono ad accumulare liquidità per ottenere benefici personali a discapito degli altri portatori d’interesse.
In presenza di costi di transazione il beneficio derivante dell’investimento in liquidità è quello di poter convertire gli assets in cash evitando (o quanto meno riducendo) i costi fissi dell’accesso al mercato dei capitali.
Il motivo del costo delle transazioni porta a molte predizioni circa l’accumulo di cash delle imprese. Quella che appare più evidente è la diversità di comportamento delle imprese in base alla dimensione. E’ già stato visto come la presenza di economie di scala determini una maggiore propensione a detenere cash da parte delle imprese più piccole. Tale tesi è avvalorata dal fatto che un’impresa che accumula assets che possono essere convertiti ad un prezzo equo in cash può trovare fondi a costi bassi vendendo tali assets. Quindi le imprese con un alto grado di specificità degli assets tendono ad avere un accumulo di cash più alto. Un’ipotesi correlata è che le imprese più grandi sono generalmente più diversificate e possono liquidare assets in segmenti non core, permettendo quindi loro di trattenere meno liquidità.
Un altro modo per mantenere cash all’interno è la riduzione dei dividendi: poniamo il caso di due imprese che si trovano a corto di liquidità. L’impresa che correntemente paga dividendi può ottenere fondi a basso costo con la riduzione del pagamento dei dividendi, evitando quindi di approvvigionarsi sul mercato dei capitali ad un costo maggiore.
Ancora, il ciclo di conversione in cash2 è collegato al livello di liquidità poichè esso misura l’ammontare medio di tempo, espresso in giorni, in cui i flussi in uscita relativi all’acquisto dei fattori produttivi e alle spese rientrano in cassa attraverso i crediti verso clienti.
Kim, Mauer e Sherman (1998), Deloof (2001) affermano che un’impresa con un ciclo più lungo dovrebbe avere livelli di cash più bassi, in quanto un più basso livello di cash significa un più alto livello di scorte e crediti commerciali che possono essere convertiti in cash velocemente. Al contrario Drobetz (2006) spiega che un ciclo di conversione più corto migliora il timing dei pagamenti in entrata ed in uscita (dei cash flows), richiedendo in tal modo posizioni di cassa più modeste.
Un ciclo più corto è caratteristico delle imprese maggiori, che generalmente presentano un’elevata forza contrattuale. Alcune imprese presentano cicli addirittura negativi, con payable
2 Il ciclo di conversione in liquidità è dato da: ciclo economico (acquisto-produzione-vendita) + ciclo incassi dei crediti
maggiori dei valori di inventario e receivables sommati. Ciò vuol dire avere denaro disponibile per il proprio business, prima ancora di doverne spendere.
Andando ad analizzare i pagamenti dei debiti commerciali, le imprese con più potere riescono ad avere indici molto elevati, cioè riescono a ritardare i pagamenti ai loro fornitori per molti mesi. Un esempio estremo è quello della Coca Cola che possiede un indice pari a 220, cioè paga i creditori dopo sette mesi.
Infine le imprese che operano in mercati finanziari maggiormente sviluppati manterranno meno liquidità, perché i costi di transazione saranno minori nel momento in cui l’impresa necessità di risorse liquide.
1.1.2 Il motivo precauzionale
Il motivo precauzionale si collega all’ineliminabile incertezza del futuro. Si tratta di eventi inattesi, non pianificati, quindi non inseriti in documenti di pianificazione economico-finanziaria. La mancata disponibilità di liquidità può infatti in molte circostanze rappresentare un costo notevole. Generalmente si possono verificare due situazioni base:
• mancanza di liquidità, intesa come incapacità dell’impresa di far fronte agli impegni di pagamento assunti, comunemente associabile ad una situazione di debito eccessivo o di attivo patrimoniale eccessivamente immobilizzato;
• inadeguatezza di liquidità, ovvero carenza di fondi per scopi ritenuti fondamentali per la normale operatività o per politiche di sviluppo dell’azienda, che non comportano un rischio immediato di insolvenza, ma che di fatto rallentano la crescita nell’ambito dei programmi previsti e limitano i margini di manovra disponibili.
La liquidità si pone in questo caso come una sorta di cuscinetto che ha la funzione di ammortizzare l’effetto di impreviste necessità finanziarie, evitando in tal modo che si creino difficoltà nel fronteggiare le obbligazioni aziendali, nell’attuare progetti di sviluppo previsti, nel mantenere le posizioni di mercato. Inoltre essa permette all’azienda di fornire alla gestione un’idonea flessibilità che le consenta una più ampia libertà di scelta tra differenti alternative di sviluppo, permettendole di cogliere improvvise opportunità di crescita. A conferma di ciò un’interessante survey di Graham e Harvey (1999) mostra come la flessibilità è un obbiettivo di primaria importanza nelle scelta della struttura finanziaria delle imprese. In un’altra survey di Lins, Servaes e Tufano del 2007, viene chiesto alle imprese i motivi dell’accumulo di cash definito strategico (cioè non legato alle operazioni quotidiane). Le risposte hanno evidenziato una tendenza delle imprese al motivo precauzionale, visto che la ragione primaria è quella di prevenirsi contro ammanchi futuri di cash flow.
Possiamo dire che il motivo precauzionale è collegato ai problemi d’informazione e agli agency cost, o parlando più genericamente, ai cosiddetti financial constraints. Questi ultimi sono determinati da tutte quelle frizioni, derivanti da imperfezioni del mercato dei capitali, che non permettono all’impresa di finanziare tutti gli investimenti desiderati (ad esempio vincoli di credito, incapacità di emettere equity, dipendenza dal prestito bancario..).
E’ importante comunque specificare la differenza esistente tra financial constraints e financial distress, ossia dissesto finanziario, sebbene questi due concetti sono indubbiamente collegati (Lamont, Polk e Saa-Requejo (2001)). Per Whited e Wu (2001) per distinguere un’impresa in situazione di crisi finanziaria da un’impresa vincolata finanziariamente può essere utile immaginare la differenza tra un’impresa sull’orlo della bancarotta ed una giovane impresa che vorrebbe crescere rapidamente ma la cui velocità è frenata a causa di mancanza di finanziamenti. La prudenza nasce dal fatto che uno shock negativo di cash flow può rendere difficile l’investimento in progetti profittevoli, essendo il finanziamento esterno eccessivamente costoso o non disponibile. Risulta evidente il collegamento con il “financial
slack” di Myers e Majluf (1984) della celebre teoria della gerarchia di finanziamento, che verrà approfondita nel seguito del lavoro.
E’ evidente che, riguardando gli investimenti futuri, il collegamento con le opportunità future d’investimento è necessario3. Quando un’azienda ha la possibilità di investire in un progetto d’investimento a NPV positivo4, la liquidità diventa importante quando l’impresa per varie ragioni non può approvvigionarsi nel mercato dei capitali. In tal senso i fondi interni sono importanti anche quando non vi è la possibilità di prevedere con una certa precisione quando tali opportunità arrivano, ed il mercato non è reattivo nella fornitura di capitale.
In ultimo, le imprese con un grande ammontare di debiti di breve periodo potrebbero affrontare una maggiore incertezza riguardo il grado di rifinanziamento (Holmstrom Tirole 2000), che diviene più incerto quando c’è una possibilità che il rollover dei debiti futuri sia negato.
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1.2 Modigliani Miller: irrilevanza della struttura finanziaria
In un mondo alla Modigliani Miller vi è perfetta sostituibilità delle fonti di finanziamento. Il teorema di Modigliani Miller introduce infatti il concetto di irrilevanza della struttura finanziaria: in un mercato perfetto e completo, ed in assenza di arbitraggio, la politica di finanziamento delle imprese è irrilevante. Il teorema, approfondendo la relazione tra costo del capitale ed investimenti, dimostra che il valore di un’impresa è indipendente dal suo grado d’indebitamento: l’accumulazione di beni di capitali da parte delle imprese ed il flusso di risorse che questa può determinare sono dati ed indipendenti dalla struttura finanziaria. La prima proposizione di Modigliani Miller sostiene che un’impresa non può cambiare il valore complessivo dei titoli in circolazione modificando la ripartizione tra debito e azioni. Ciò
3 Le opportunità future d’investimento sono centrali anche per il motivo speculativo.
4 E’ il valore atteso dell’investimento (VAN). Esso è dato dalla somma dei cash flow futuri scontati ad un tasso che riflette il
equivale ad affermare che nessuna struttura finanziaria è migliore di qualsiasi altra per gli azionisti della società.
Il modello è basato su due ipotesi quali la perfezione del mercato dei capitali ed assenza d’imposizione fiscale, che appaiono lontane dalla realtà. Quand’è che un mercato dei capitale è perfetto? Quando le seguenti condizioni sono rispettate:
• Non ci sono tasse
• I manager interni all’organizzazione hanno lo stesso set d’informazioni degli investitori esterni
• Non ci sono costi di transazione
• Gli investitori e il mercato sono razionali
• Non ci sono costi di ricontrattazione o di bancarotta • Gli interessi dei managers e degli azionisti sono allineati
La condizione di perfezione del mercato, ed in particolare quella di razionalità degli investitori, consente di assumere che, se all’imprese indebitate viene attribuito un prezzo troppo alto, gli investitori (razionali) possono indebitarsi personalmente, al posto delle società, per acquistare azioni nelle imprese prive di debito; possono cioè imitare senza costi qualsiasi struttura finanziaria che l’azienda intende scegliere. Ciascun operatore ha l’opportunità di replicare tutte le combinazioni finanziarie possibili, dunque di effettuare qualsiasi operazione di arbitraggio. Questa sostituzione si basa sulla possibilità di indebitamento a livello personale. Finchè gli individui si indebitano e finanziano alle stesse condizioni dell’impresa, possono riprodurre gli effetti dell’indebitamento aziendale. In tal modo il valore di un’impresa è determinato esclusivamente dalla sua capacità di produrre reddito e, quindi, proprio dalle sue scelte d’investimento che si sono considerate date.
Occorre però sottolineare che il risultato di Modigliani-Miller dipende dall’assunzione fondamentale che gli individui possano indebitarsi allo stesso tasso delle società. Il concetto, in estrema sintesi, è che l’impresa non è in grado di fare per gli investitori ciò qualcosa che essi non possano fare di propria iniziativa.
Con le assunzioni di Modigliani Miller (1958) c’è chi afferma che il contante abbia sempre VAN negativo, essendo il suo costo la perdita di interessi; come detto prima l’investimento in buono del tesoro hanno si un basso rendimento, ma comunque si tratta di un rendimento equo. Un investimento in BOT è un investimento a VAN zero, e perciò non ha un effetto sul valore dell’impresa. Di conseguenza l’investimento in contante è al di sotto del tasso di rimunerazione di mercato conseguendone un abbassamento del valore dell’impresa. Damodaran, come già detto, distinguendo tra wasting cash e non-wasting cash propone un modo semplice per vedere quanto l’investimento in liquidità, inteso in senso lato, possa distruggere valore. Il metodo consiste nell’esaminare gli interessi guadagnati da un’impresa sulla posizione di liquidità durante il corso dell’anno e comparare questo interesse di libro sul cash con il tasso d’interesse di mercato durante il periodo. Se il cash è investito produttivamente, i due tassi dovrebbero convergere. Si consideri un esempio: un’impresa ha un saldo di liquidità di 200 milioni di dollari nel 2004 e guadagna interessi di 4,2 milioni di dollari da questo investimento. Se il tasso medio dei treasury bill del periodo è stato del 2,25% si può stimare la componente wasting in questo modo:
Interesse guadagnato nel 2004 = 4,2 milioni di dollari Tasso d’interesse sul saldo di liquidità = 4,2/200 = 2,1% Tasso d’interesse di mercato dei treasury bill = 2,25%
Proporzione di liquidità che è considerata wasting-cash = 1- 0,021/0,0225 = =0,0667 (6,7%) Perciò il 6,67% di 200 milioni di dollari, pari a 13,34 milioni di dollari, sarà considerato wasting cash, ossia liquidità che distrugge valore all’azienda.
La liquidità quindi è un elemento che non solo non è in grado di incrementare la ricchezza dell’azionista, ma, a meno che non è tutta investita in titoli di stato, la sottrae.
Nel 1963 tuttavia gli stessi autori dimostrano che l’esistenza di sussidi fiscali sui pagamenti degli interessi avrebbero fatto aumentare il valore dell’impresa con l’ammontare del debito, per una somma pari al valore capitalizzato del beneficio fiscale. Ma questa linea di argomento non implica che l’impresa potrebbe essere finanziata solo interamente col debito. Modigliani e Miller stessi infatti commentano che ciò non significa che l’impresa dovrebbe sempre cercare di usare il massimo livello di debito, perché ci sono limitazioni imposte dai creditori, così come altri tipi di costi nei problemi reali di strategie di finanziamento.
Gli autori affiancano ai benefici fiscali del debito i costi del dissesto finanziario che agiscono in senso contrario allo scudo fiscale, riducendo il valore dell’impresa indebitata. Essi arrivano all’individuazione di un punto in cui l’incremento del valore attuale dei costi di dissesto dovuto ad un dollaro addizionale di debito eguaglia l’incremento del valore attuale dello scudo fiscale; il punto definisce la quantità ottima di debito, la struttura ottimale del capitale.
Jensen e Meckling (1976) criticano questa teoria in quanto essa implica che nessun debito sarà utilizzato in assenza di sussidi fiscali se i costi di bancarotta sono positivi. E’ però risaputo che il debito è stato usato da sempre anche prima dell’esistenza di sussidi fiscali sugli interessi, per cui la teoria non cattura alcuni aspetti della struttura del capitale di un’azienda. Inoltre né i costi di bancarotta né i vantaggi fiscali riescono a spiegare l’utilizzo di warrants o preferred stock che non hanno la possibilità di usufruire di scudi fiscali.
Secondo gli autori, la presenza di costi di agenzia può fornire ragioni più forti per il superamento della teoria di Modigliani-Miller del 1958, rispetto a quelle della deducibilità degli interessi passivi o dei costi di bancarotta5. I problemi di moral hazard e di adverse selection (dovute alle asimmetrie informative sugli assets correnti e sui progetti futuri), gli
agency costs, che ne sono una conseguenza, possono essere raggruppati, tenendo conto anche dei costi di transazione, nel concetto più generale di imperfezioni del mercato finanziario.
1.2.1 Asimmetrie informative, agency costs ed incompleta specificazione dei contratti
Il concetto di asimmetria informativa è stato per la prima volta esaminato in Akerlof (1970). Un mercato è caratterizzato da una situazione di asimmetria informativa quando alcuni individui possiedono informazioni privilegiate rispetto ad altri e la utilizzano per il proprio tornaconto, assumendo comportamenti poco corretti (moral hazard) come, ad esempio offrire prodotti mentendo sulla loro qualità. Tali comportamenti generano sfiducia e producono un appiattimento del prezzo dei prodotti: gli operatori non informati non potendo conoscere con esattezza il valore effettivo della merce disponibile, offriranno un prezzo che rispecchia un livello di qualità medio (adverse selection). Tale valore medio se da un lato è troppo basso per soddisfare gli offerenti prodotti di alta qualità, dall’altro lato è sufficientemente alto da incentivare i proponenti prodotti di qualità scadente, la cui offerta si intensifica rispetto a quella della merce buona, riducendo gradualmente gli standard qualitativi del mercato, destinato nel tempo a scomparire.
Secondo Holmstrom e Tirole (1998, 2000), le asimmetrie informative tra le imprese e i mercati finanziari aggravano le difficoltà di reperimento dei finanziamenti esterni, aumentandone il costo, e quindi creano una domanda precauzionale di liquidità aziendale.
Le asimmetrie informative causano frizioni, le quali impediscono o quanto meno complicano la sostituibilità del capitale proprio e di debito. Infatti, proprio a causa di queste asimmetrie, nascono i cosiddetti agency cost, ossia quei costi che derivano dai rapporti di agenzia. La
teoria dell’agenzia nasce da un’idea introdotta da Adam Smith già nel 17766 e sviluppata successivamente da Jensen e Meckling nel 1976.
Secondo Jensen e Meckling (1976) la relazione principale-agente avviene ogniqualvolta un individuo, l’agente, prende decisioni per conto di qualcun altro (il principale), per le quali egli influenza sia il benessere proprio sia quello di altre persone. L’agente ha una propria funzione di utilità e di benessere. Se essa coincide con quella del principale, quindi se la realizzazione degli obiettivi definiti massimizza l’utilità di entrambe le parti, ci sono buone ragioni per ritenere che l’agente agirà nell’interesse del principale. Se invece gli obiettivi contrattualmente definiti massimizzano principalmente l’utilità del delegante, si creano i presupposti per il manifestarsi di un problema di agenzia, che può compromettere irrimediabilmente l’efficienza e, quindi, l’efficacia della relazione.
Questo conflitto è chiamato “principal-agent conflict”, e la perdita risultante dall’azione dell’agente rispetto quella ottimale rappresenta una parte dei cosiddetti agency costs.
Jensen e Meckling individuano tre tipi di costi di agenzia: i costi di monitoring, necessari per controllare l’eventuale azione sleale del suo agente; i costi di cauzione (bonding costs) tramite i quali l’agente offre garanzie e rassicura il principale che non si comporterà slealmente; la perdita residua (residual loss) definita come “perdita del valore dell’impresa che sopporta il principale e che deriva dalla delega data all’agente”.
Nei lavori di Jensen e Meckling (1976) e Fama e Jensen (1983) è sviluppata la cosiddetta visione contrattuale dell’impresa, proposta in precedenza da Coase (1937). Quest’ultimo caratterizza i confini dell’impresa come lo spazio entro il quale l’allocazione delle risorse non segue una logica di mercato ma procede in base ai principi di autorità e di indirizzo. Per Coase l’impresa dovrebbe internalizzare tutti i processi per i quali l’uso del mercato (che si attua per mezzo dei contratti e quindi dello scambio) presenta un costo superiore all’esercizio
6 “Non possiamo aspettarci che i dirigenti di società, chiamati a gestire il denaro di altre persone, si dedichino a tale attività
con la stessa cura con cui agirebbero i soggetti titolari di una partecipazione in una società nell’amministrazione del proprio denaro (……). Nella gestione di tali attività, pertanto, negligenza e sprechi saranno sempre presenti.”.
dell’autorità di indirizzo. L’impresa in tal modo è un organismo che cerca di bilanciare i benefici interni di una struttura di governo con i benefici esterni delle transazioni di mercato. Jensen e Meckling (1976), riprendendo i concetti espressi da Alchian e Demsetz7, affermano che il problema di monitoraggio e quindi dei costi di agenzia esiste per tutti i tipi di contratto, indipendentemente dal fatto che si realizzi o meno la produzione congiunta: “l’impresa privata è semplicemente un’invenzione legale che funge da legame tra le relazioni contrattuali che esistono tra gli individui”. Per la prima volta emerge la definizione di impresa come nesso di contratti (nexus of contract).
1.3 Corporate governance: introduzione
L’essenza della teoria dell’agenzia è la separazione tra management e finanza, cioè della proprietà dal controllo. In termini semplicistici, i finanziatori ed i manager stipulano contratti che specificano come i manager utilizzano i fondi, e come i ritorni sono divisi tra loro e i finanziatori.
Idealmente il contratto dovrebbe essere completo, specificando cosa il manager farà in tutti gli stati futuri del mondo e come i profitti saranno allocati. Nella realtà è facilmente intuibile che molte circostanze future non possono essere descritte e previste nel contratto. Emerge allora il problema di allocare i diritti di controllo residuali, ossia i diritti di prendere determinate decisioni nelle circostanze non previste dal contratto (Grossman e Hart (1986), Hart e Moore (1990)). Da qui nasce il concetto di possesso di diritti di controllo residuali: il possessore di un
7 Alchian e Demsetz (1972) mettono in risalto il ruolo dei contratti come veicolo per lo scambio anche all’interno
dell’impresa. La definizione contrattuale si traduce, in pratica, nell’implementazione di processi produttivi congiunti che coinvolgono tutti i fornitori di input di produzione e si sintetizzano nell’esercizio dell’attività economica. L’esistenza di una produzione congiunta o in team può generare un problema di asimmetrie informative in termini di non controllabilità della prestazione, che rende necessario il monitoraggio dei partecipanti al processo produttivo.
asset ha “residual control rights” quando ha il diritto di decidere tutti i possibili usi di questo asset nel rispetto del contratto, del costume o della legge.
Le tematiche lasciate senza specificazione saranno spesso più importanti delle tematiche oggetto di specificazione all’interno dei contratti. In questo quadro è evidente che qualcosa deve completare i dettagli. Il diritto di voto assume importanza in quanto svolge questo compito.
Il diritto di voto è il diritto di prendere tutte le decisioni non altrimenti previste dal contratto o dalle norme di legge. Secondo Easterbrook e Fischel (1991) il voto dà il potere di agire (o delegare) quando i contratti non sono esaurienti.
Gli azionisti sono titolari delle pretese sul residuo attivo dell’impresa. I creditori hanno diritti prestabiliti, mentre i dipendenti di solito concludono accordi retributivi precedenti alla prestazione. Gli azionisti, come titolari delle pretese sul residuo, normalmente hanno gli incentivi appropriati per prendere decisioni discrezionali. Gli altri soggetti attori, invece, mancano degli incentivi appropriati. Chi vanta diritti prestabiliti sul flusso di cassa può ricevere solo un beneficio impercettibile (nel senso di una garanzia maggiore) dallo sviluppo di un nuovo progetto. Gli azionisti ricevono la massima parte dei guadagni marginali e sopportano la massima parte dei costi marginali. Ciò è in linea con la visione tradizionale della massimizzazione del valore degli azionisti. Quanto descritto fino ad ora è valido solo in prima approssimazione. Nella realtà vi possono essere situazioni in cui il controllo e quindi le pretese sul residuo non spettano agli azionisti. Ad esempio quando l’impresa si trova in stato d’insolvenza, la pretesa sul residuo degli azionisti viene a cadere ed essi perdono l’incentivo appropriato a perseguire la massimizzazione marginale. Altri gruppi invece, come gli azionisti privilegiati o i creditori, ricevono i benefici di nuove decisioni e di nuovi progetti fino a che i loro diritti vengono soddisfatti. Gli azionisti perdono i loro voti di controllo quando le loro azioni vengono congelate o per contratto o per l’applicazione delle norme sul fallimento; gli amministratori dovranno quindi rispondere ad altri investitori.
Sul tema, essenziale è il paper di Aghion e Bolton (1992) i quali introducono il concetto di allocazione contingente del controllo. Essi costruiscono un modello intertemporale a tre periodi, dove, in presenza di un contratto di debito incompleto e nel caso di vincoli di ricchezza dell’imprenditore8, l’allocazione del controllo dipende dalla realizzazione di un segnale di profittabilità futura che si manifesta nel periodo intermedio. Nel contratto di debito (rispetto ad altri tipi di relazioni, quali ad esempio con un contratto di venture capital o di titoli convertibili) l’imprenditore mantiene il controllo quando il ritorno atteso nel periodo di mezzo è abbastanza alto da coprire le spese iniziali dell’investitore. Nel caso in cui il segnale è negativo, ossia i ritorni nel periodo intermedio sono bassi, il controllo passa nelle mani del creditore.
1.3.1 Corporate governance: definizioni
La relazione contrattuale principale-agente è alla base della disciplina della corporate governance. Secondo Hart (1995) i temi di corporate governance emergono in un’organizzazione ogni qual volta si verificano due condizioni. In primo luogo quando si è in presenza di un problema di agenzia, ovvero di un conflitto d’interessi, che coinvolge i membri dell’organizzazione (siano i proprietari, i manager, i lavoratori, o i consumatori). In secondo luogo, quando i costi di transazione sono tali che questo problema di agenzia non può essere risolto attraverso un contratto. In linea con questa idea la governance è vista da Zingales (1998) come sinonimo di esercizio di autorità, direzione e controllo. Il principio di autorità nasce proprio da un vuoto contrattuale.
La definizione di Corporate Governance più citata in letteratura è quella di Schleifer e Vishny (1997): si tratta di quel complesso sistema di regole che devono assicurare un rendimento
8 In quest’ultima ipotesi Aghion e Bolton si distinguono da Hart e Moore, dove gli agenti sono in grado di comprare
adeguato al capitale fornito dagli investitori. E’ una prospettiva basata chiaramente sul rapporto di agenzia e a volte riferita alla separazione della proprietà dal controllo.
La distinzione tra diritti di controllo in diritti formali e diritti reali è fondamentale per la comprensione del meccanismo di governance. Il diritto formale di controllo spetta ai soci, e non, come si potrebbe pensare, ai manager.
I manager usufruiscono di un diritto di fatto di controllo che scaturisce dalle già note asimmetrie informative. Essi hanno a disposizione e gestiscono le principali informazioni che si creano internamente all’azienda. La distribuzione efficiente dei diritti di controllo che la governance mira ad ottenere consisterà nella soluzione di due problemi: l’attribuzione efficiente dei diritti formali e la loro possibilità di essere esercitati, cioè di diventare diritti effettivi.
Nelle imprese generalmente si assiste alla coesistenza di molteplici tipi di securities con diversi diritti di controllo. Tuttavia, soltanto un gruppo alla volta detiene il controllo (Easterbrook e Fischel (1991)). Di conseguenza gli investitori che hanno il controllo non internalizzeranno il benessere degli altri investitori, creando così esternalità. Si è in presenza di una vera e propria architettura di titoli da parte delle imprese in cui la liquidità assume un ruolo rilevante mostrando, oltre ai suoi lati positivi, anche il suo lato oscuro (Myers e Rajan “The paradox of liquidity” (1998)).
1.4 Costi di agenzia del debito
Jensen e Mackling (1976) analizzano gli effetti di incentivazione associati al debito in un’ottica uniperiodale. Questi mostrano come il proprietario-manager, nel caso abbia la possibilità di emettere titoli di debito prima di scegliere quale investimento realizzare, possa manifestare un comportamento scorretto nei confronti dei creditori. Egli infatti promettendo di intraprendere un progetto a bassa rischiosità, dopo aver raccolto capitale di debito, può investire in un
progetto più rischioso trasferendo valore dai nuovi bondholders ai portatori di equity e quindi a se stesso. Tutto questo è possibile per le responsabilità limitata (limited liability) di cui gode il proprietario che detiene azioni e se gli obbligazionisti non prevengono tale comportamento; se loro percepiscono che il manager ha l’opportunità di intraprendere il progetto più rischioso, pagheranno un prezzo più basso per i titoli di debito. In questo modo non ci sarà alcun trasferimento di valore e quindi nessuna perdita di ricchezza. Questo fenomeno è conosciuto come risk shifting e rappresenta la componente principale degli agency costs del debito. Un’ altra parte importante, legata al trasferimento del rischio, è il costo di monitoraggio che viene espressa attraverso dei patti (covenants) inseriti nella fase di contrattazione, che rappresentano dei vincoli all’effettuazione di operazioni a danno dei creditori. I costi associati a questi covenants rappresentano i costi di monitoring. I creditori avranno l’incentivo a monitorare le azioni dei manager fino al punto in cui il costo marginale nominale di tale attività eguaglia il beneficio marginale che loro percepiscono sempre dalla stessa. Si parla di costo nominale perché in pratica i portatori di debito non sopportano tali costi. Come detto prima, gli azionisti scontano il costo atteso dei possibili effetti redistributivi ed i costi di monitoraggio.
Esempi pratici di covenants possono essere i limiti all’assunzione di nuovo debito, limiti alla concessione di garanzie, l’obbligo di mantenere alcuni valori finanziari minimi, o ancora, limiti alla distribuzione dei dividendi.
Riguardo quest’ultimo vincolo, è interessante vedere come i dividendi siano utilizzati come strumenti per modificare il rischio dell’impresa, attraverso una modifica del rapporto indebitamento/equity. Infatti se l’impresa prima assume debito e poi finanzia nuovi progetti senza gli utili mantenuti, allora il rapporto scende. Più esso si abbassa più il rischio diminuisce, e più grande sarà il dono conferito ai creditori. Vi sarà un trasferimento di ricchezza dagli azionisti ai portatori di debito. Così, come gli azionisti preferiscono un aumento dei dividendi per evitare che la ricchezza sia trasferita ai portatori di debito, così i debitori vogliono limitare i
dividendi per evitare che gli azionisti si avvantaggino, una volta che i tassi d’interesse sono stati fissati. (Easterbrook (1982)).
La teoria di Jensen e Mackling regge sull’ipotesi di decisione singola di investimento-finanziamento. In un modello multiperiodale subentrerebbero dinamiche più complesse, come ad esempio una questione di reputazione da parte del manager-imprenditore. Il suo comportamento influirà negativamente sui termini con cui otterrà capitale da risorse esterne nel futuro.
Chi spiega gli agency costs del debito con un modello multi periodale è Myers (1977). Secondo l’autore quando l’azienda è già indebitata, un investimento aggiuntivo finanziato con equity trasferirà valore dagli azionisti, che intraprendono l’investimento, ai portatori di debito, che invece non contribuiscono all’investimento. Questo perché il valore del debito esistente dipende dal valore dell’impresa e dall’incertezza riguardante il valore futuro della impresa stessa. Ponendo che la volatilità sia uguale a zero (la classe di rischio dell’impresa non è influenzata dalla decisione che si deve prendere) la variazione del valore del debito, rispetto alla variazione del valore dell’impresa, sarà sempre positiva a meno che non si tratti di debiti free-risk. Di conseguenza si osserverà un trasferimento di valore verso i creditori; se l’investimento abbassa la volatilità, si ha un trasferimento più alto; se invece l’investimento incrementa la volatilità il trasferimento potrebbe anche essere negativo, come in Jensen e Mackling, inducendo l’azienda ad investire anche in progetti a NPV negativo.
Si afferma quindi che l’esistenza di debiti rischiosi nel periodo t della scelta indebolisce l’incentivo ad investire (anche in progetti a NPV positivo) e induce ad una strategia d’investimento subottimale, riducendo il valore dell’impresa in tutti i periodi prima di t.
Le asimmetrie informative non incidono solamente sul costo del finanziamento esterno ma in alcuni casi anche sulla quantità di risorse disponibili. In tal caso si ha a che fare con fenomeni di credit rationing. Un borrower è detto razionato quando non può ottenere il prestito che
desidera anche se cerca di pagare gli interessi che il creditore richiede, essendo a volte disposto a pagare anche un interesse più alto.
Stiglitz e Weiss (1981) affermano che se un imprenditore non ottiene credito ed un altro, indistinguibile dal primo per la banca, lo ottiene, allora sicuramente c’è razionamento ed il fenomeno è rilevante per il benessere sociale. Gli autori, insieme con altri economisti quali Russell (1976) e Keaton (1979), arrivano alla conclusione che il credit rationing sia un fenomeno di equilibrio guidato dalle asimmetrie informative tra debitori e creditori. Queste, attraverso i fenomeni di selezione avversa e di azzardo morale, spiegano perché un creditore non voglia alzare i tassi d’interesse anche se il debitore è disposto a pagare tassi più alti, e perché i mercati sono in equilibrio nelle quantità (limiti nel credito) così come nei prezzi (tassi d’interesse).
Il tasso d’interesse svolgerà una duplice funzione: avrà un ruolo d’incentivo (azzardo morale) ed un ruolo selettivo (selezione avversa). Nel primo caso un incremento del tasso d’interesse indurrà gli imprenditori a scegliere i progetti più rischiosi e di conseguenza più profittevoli (ovviamente in caso di successo), sacrificando il profitto atteso9. Si avrà selezione avversa quando, in una situazione in cui i creditori non possono distinguere tra debitori buoni o cattivi, un più alto tasso d’interesse attrarrà debitori di bassa qualità. I creditori di conseguenza vorranno mantenere bassi i tassi d’interesse per ottenere un campione migliore di debitori.
1.4.1 Costi di agenzia dell’equity
In Jensen e Mackling (1976), il proprietario-manager può entrare in conflitto con i nuovi azionisti esterni, operando in modo tale da massimizzare la sua utilità. Per ottenere tale risultato, egli trova un mix ottimale di benefici pecuniari e non pecuniari (questi ultimi sono i cosiddetti perks: uffici più grandi, migliori assicurazioni, maggior prestigio e segni del potere
in genere) che si ha quando l’utilità marginale che deriva da un dollaro addizionale di spesa è uguale per ogni voce non monetaria ed allo stesso tempo uguale all’utilità marginale di un dollaro addizionale di potere d’acquisto dopo il pagamento delle tasse.
Se il proprietario-manager vende titoli di equity identici a quelli da egli stesso posseduti (suddivisi proporzionalmente in base ai profitti dell’azienda e aventi responsabilità limitata), i costi di agenzia saranno generati da una divergenza tra i suoi interessi e quelli degli azionisti esterni. Questo perché il manager sopporterà solo una frazione dei costi dei benefici non monetari ma ne riceverà tutti i benefici collegati. Egli riceverà i benefici totali di questi costi attesi finchè il mercato dell’equity anticiperà questi effetti. Gli azionisti futuri capiranno che gli interessi dei manager si discosteranno dai loro; per cui il prezzo (ridotto) che loro pagheranno per le azioni rifletterà i costi di monitoraggio e gli effetti della divergenza di interessi.
Myers e Majluf (1984) sviluppano un modello in cui i managers agiscono nell’interesse degli azionisti, in particolare di quelli vecchi. Essi teorizzano che il fenomeno di selezione avversa può tenere conto della reazione negativa del prezzo delle azioni associata all’offerta di equity. Tale reazione negativa non è un fenomeno ovvio. Infatti gli investitori possono capire da un annuncio di offerta di un titolo stagionato che l’impresa stia per intraprendere opportunità d’investimento nuove ed attraenti. Una spiegazione logica deriva dal fatto che l’emissione può essere motivata dal desiderio di partire con assets sopravvalutati. Il manager, infatti, che possiede tutte le informazioni, e che quindi è a conoscenza del fatto che gli assets dell’impresa sono sottovalutati dal mercato, è riluttante ad emettere azioni in condizioni che potrebbero essere favorevoli ai nuovi investitori e potrebbe, per difendere gli interessi dei vecchi azionisti, preferire abbandonare un’opportunità d’investimento profittevole. Gli investitori interpreteranno l’emissione di azioni come un bad signal, un segnale negativo riguardo la profittabilità dell’azienda10.
10 Un ragionamento simile si applica al riacquisto di azioni. I segnali sono molteplici: a) l’intenzione del management di
non impegnarsi in acquisizioni o altre spese inutili; b) il fatto che l’azienda non avrà bisogno di cash per coprire spese future; c) l’assenza di nuove opportunità d’investimento.
Myers e Majluf trovano che i costi di agenzia dell’equity sono superiori a quelli del debito. Tale ipotesi è alla base della Pecking Order Theory, secondo la quale l’impresa preferisce utilizzare i fondi interni (equity iniziale ed utili non distribuiti) per finanziare i propri investimenti. Se questi sono insufficienti ed è richiesta una forma di finanziamento esterna, l’impresa prima contrarrà debiti, che sono i titoli più sicuri, poi emetterà titoli ibridi, come ad esempio le obbligazioni convertibili, ed infine, come ultima risorsa, si affiderà all’emissione di equity. L’idea che sta alla base è che né i le fonti interne né i debiti default-free soffrono di asimmetrie informative generalmente associate alle altre fonti esterne. Per questo l’equity interno è anche chiamato equity informato. Quando le fonti interne non bastano, l’impresa cercherà di emettere titoli a bassa intensità di informazione, ossia quei titoli la cui valutazione è meno contaminata dalle asimmetrie informative.
La gerarchia delle fonti di finanziamento tuttavia non viene sempre rispettata perché l’informazione asimmetrica non è l’unica forza al lavoro, ma ve ne sono altre che influenzano le scelte delle imprese. Ad esempio sempre Myers e Majluf introducono la Pecking Order Theory modificata, che tiene conto dei costi di dissesto finanziario (oltre che delle asimmetrie informative). Tale modifica permette al finanziamento di equity di avere un ruolo più importante e significativo. Le imprese possono emettere equity al posto del debito per mantenere sia assets liquidi che capacità di debito per futuri investimenti, evitando quindi potenziali problemi di sottoinvestimento ed abbassando i costi attesi di bancarotta.(in linea con il motivo precauzionale). In questo caso l’annuncio di emissioni di azioni non sarebbe affatto una cattiva notizia.
Anche le imprese ad alta tecnologia e ad alta crescita sono credibili emittenti di azioni. Le attività di queste imprese sono per lo più immateriali, ed il fallimento o il dissesto sarebbero particolarmente costosi. L’unico modo per crescere e per mantenere un livello d’indebitamento prudente è emettere azioni.
In effetti le cose sono più complicate rispetto a quanto affermato nel modello della Pecking Order Theory. Ad esempio l’equity accumulato dai precedenti progetti sarà sicuramente privo di asimmetrie informative, ma invece gli utili non distribuiti sono endogeni; il management può avere la necessità di dover convincere gli azionisti a non distribuire grandi dividendi e a mantenere cash in azienda per reinvestirlo. Gli azionisti si allineeranno alle raccomandazioni dei manager se avranno fiducia nella profittabilità scaturente dalla reintroduzione di cash in azienda e dal conseguente reinvestimento. Per questo motivo la finanza interna non è libera dalle asimmetrie informative. Inoltre cosa costituisce un finanziamento a bassa intensità di informazione dipende dalle informazioni che sono in possesso dell’emittente, per cui non si può sempre associare un finanziamento a bassa intensità di informazione con il debito.
1.4.2 E la liquidità?
In questo quadro la liquidità svolge un ruolo importante. In Jensen e Meckling si intravede il “dark side” della liquidità che, come vedremo, verrà fuori nei lavori di Jensen (1986) e Myers e Rajan (1998). Infatti un buon livello di assets liquidi accentua il problema dell’assets sobstitution da parte dei portatori di equity, . In Myers (1977), invece, mantenere un alto livello di liquidità riduce la probabilità di dissesto finanziario, e quindi riduce gli agency costs associati con l’incentivo da parte dei proprietari al sottoinvestimento.
Complessivamente si può notare però che i costi di agenzia del debito, quelli dell’equity ed il razionamento del credito hanno conseguenze simili che li accomunano, cioè quelle di portare in ogni caso ad un problema di sottoinvestimento. Il capitale esterno (nella forma di debito o azioni) viene a costare troppo o (nel caso del credit rationing) può non essere disponibile. Una buona scorta di liquidità permette di essere indipendenti dalle fonti più costose di finanziamento e soprattutto di non dover rinunciare ad investimenti profittevoli.
In letteratura, come si è già detto, si parla di costrizioni finanziarie (“financial constraints”) che appaiono a causa di imperfezioni dei mercati dei capitali. In tali mercati il finanziamento esterno non è perfetto sostituto di quello interno e si assiste ad un “wedge” tra fonti interne ed esterne relativamente al loro costo. A questi vincoli finanziari è associato il motivo precauzionale della liquidità descritto da Keynes (1936).
1.5 Investment cash flow sensitivity e cash flow sensitivity of cash
1.5.1. Investment cash flow sensitivity
Il capostipite della letteratura sui financial constraints può essere considerato il lavoro di Fazzari Hubbard e Petersen del 1988.
In realtà precedenti studi economici avevano già suggerito che le costrizioni finanziarie tra le imprese erano importanti determinanti degli investimenti aggregati. Meyer e Kuh (1957) osservano che le considerazioni sulla liquidità interna e la forte preferenza per le finanze interne sono i primi fattori nel determinare il volume d’investimento11.
Fazzari Hubbard e Petersen (1988) studiando la sensibilità dell’investimento al cash flow cercano di testare la presenza di vincoli finanziari, mostrando come la disponibilità di fonti finanziare svolge un ruolo importante nelle decisioni reali d’investimento. Gli autori esaminano l’importanza della gerarchia di finanziamento creata dalle imperfezioni del mercato dei capitali, in linea con l’argomento della selezione avversa di Myers e Majluf (1984). L’esistenza di questo premio, legato alle imperfezioni del mercato dei capitali, fa aumentare il differenziale di costo tra le finanze interne ed il nuovo equity, e, di conseguenza, aumenta la probabilità che
11 John Meyer e Edwin Kuh, The investment decision: an empirical study (Cambridge, Massachussetts: Harvard University
l’impresa si trovi nel punto di discontinuità dove tutti i profitti sono trattenuti, non si pagano dividendi e le prospettive future dell’impresa non sono così buone da indurla ad emettere nuove azioni.
I fondi interni quindi assumono importanza per poter finanziare l’investimento: tale concetto è sottolineato da una significatività positiva nell’equazione di investimento. Infatti, qualora l’impresa dovesse riconoscere un premio rilevante per l’ottenimento di capitale di mercato, senz’altro cercherà di aumentare la sua capacità di generare cassa e le sue decisioni reali saranno maggiormente sensibili al cash flow disponibile.
Gli autori, utilizzando un campione di 421 imprese americane appartenenti al settore manifatturiero, stimano un’equazione d’investimento utilizzando il valore del “Q” di Tobin12 e aggiungendo, come termine che rappresenta la variabile finanziaria, il rapporto cash flow/capitale.
Il lavoro di Fazzari, Hubbard e Petersen porta ad un dibattito ancora irrisolto sul tema della sensibilità dell’investimento al cash flow. Numerosi sono stati gli studi successivi che hanno confermato i loro risultati così come numerose sono state le critiche ricevute, a partire dall’articolo di Kaplan e Zingales del 1997.
Kaplan e Zingales di fatto confutano l’ipotesi fondamentale di Fazzari, Hubbard e Petersen (1988), che vi sia una relazione monotona positiva (monotonicity hypothesis) fra la severità dei vincoli finanziari e la sensibilità dell’investimento al flusso di cassa.
Kaplan e Zingales, pur constatando la relazione positiva tra investimenti e cash flow, spiegata dall’evidente maggiore onerosità del capitale di terzi rispetto alle risorse prodotte internamente, dimostrano che non necessariamente l’intensità della risposta degli investimenti alla disponibilità di cash flow aumenta all’aumentare del grado di costrizione finanziaria. Le loro affermazioni sono sostenute attraverso un modello teorico (uniperiodale) che evidenzia come gli investimenti siano legati positivamente alla disponibilità di risorse interne, giustificabile dal
12 Aggiustato in considerazione delle tasse a livello corporate e a livello personale. Per un approfondimento sul significato
fatto che l’accesso ai fondi esterni comporta almeno costi di transazione, ma anche come la sensibilità dell’investimento al flusso di cassa aumenti all’aumentare dei fondi interni, ovvero al ridursi del vincolo finanziario.
La replica di Fazzari, Hubbard e Petersen (2000) non tarda ad arrivare. Questi criticano l’uso dei criteri quantitativi utilizzati da Kaplan e Zingales per la classificazione delle imprese: stocks di liquidità, linee di credito inutilizzate ed indebitamento. Le imprese potrebbero infatti avere un basso indebitamento semplicemente perché non riescono a convincere i creditori a concedere loro ulteriore finanza, probabilmente per la scarsa disponibilità di garanzie, e pertanto anche imprese con un basso leverage potrebbero sottostare a notevoli vincoli finanziari. Allo stesso modo, la presenza di riserve di liquidità non permette di escludere la presenza di vincoli finanziari. Infatti in caso di una forbice maggiore tra costi del finanziamento interno ed esterno (maggiori vincoli finanziari), ci potrebbe essere un maggiore incentivo ad accumulare liquidità o conservare sufficiente capacità di debito al fine di preservare la possibilità di cogliere le opportunità future di crescita.
Ultimo atto del dibattito è il commento di Kaplan e Zingales del 2000, che, in modo decisamente provocatorio evidenziano come, in effetti, i risultati di Fazzari, Hubbard e Petersen (2000) non facciano altro che confermare più che confutare la loro tesi: un’alta sensibilità dell’investimento al cash flow non può essere interpretata come un segnale di elevata costrizione finanziaria. Inoltre gli autori rispondono alla critica sulle riserve di liquidità riportando l’esempio della Microsoft, che secondo loro non può essere classificata come impresa financially constrained13.
In definitiva, Kaplan e Zingales (1997) trovano una relazione non monotona tra cash flow ed investimento, ma non specificano che tipo di relazione sia.
13 Kaplan e Zingales mostrano, come secondo i criteri di Fazzari, Hubbard e Petersen del 1988 (nessun payout agli
azionisti) e del 2000 (enormi stock di liquidità), la Microsoft sarebbe dovuta essere classificata come azienda financially constrained, ipotesi rafforzata dai risultati positivi della sensibilità dell’investimento al cash flow. Tuttavia Kaplan e Zingales trovano implausibile considerare imprese come la Microsoft (vedi anche la Hewlett-Packard) come imprese costrette finanziariamente. Infatti, secondo i loro criteri, la Microsoft non è considerata financially constrained.
A questo proposito studi successivi, come quelli di Almeida (1999) e Povel e Raith (2001), mostrano come la relazione tra fondi interni ed investimenti sia a forma di U (U shaped), confermando così l’ipotesi di non monotonicità di Kaplan e Zingales.
Ipotesi ulteriormente rafforzate in modelli ancora più recenti che, utilizzando, a differenza degli studi precedenti, dei modelli multiperiodali (biperiodali), analizzano la relazione tra cash flow ed investimenti.
Myers (1984) e, più recentemente, Fama e French (2000), hanno notato che modelli intertemporali possono avere importanti conseguenze sulla scelta della struttura del capitale, nelle scelte di finanziamento, investimento e cash holdings. Le imprese possono decidere di mantenere financial slack (definito come cash più capacità di credito inutilizzata) se hanno opportunità d’investimento nel futuro che sono più attraenti rispetto a quelle correnti. In altre parole, le imprese, dati i flussi di cassa derivanti dai progetti correnti e le prospettive sui futuri investimenti, possono allocare la loro liquidità intertemporalmente. In questo filone rientrano i lavori di Boyle e Guhtrie (2001), Dasgupta e Sengupta (2001), Lyandres (2007).
La principale conseguenza di questi lavori è che una sensibilità più alta non può essere interpretata come evidenza della presenza di vincoli finanziari: anche imprese in buona salute finanziaria possono fare affidamento sulle risorse interne di finanziamento a causa di fattori non collegati solo alla mancanza di disponibilità di finanziamenti esterni ma anche alle prospettive di investimento future, esibendo quindi un’alta sensibilità dell’investimento al cash flow.
1.5.1 Cash flow sensitivity of cash
Queste conclusioni spingono alcuni autori a cercare una via alternativa per testare la presenza di vincoli finanziari. In questo senso Almeida, Campello e Weisbach (2004) sviluppano un
modello teoretico che collega i vincoli finanziari con la domanda di liquidità dell’impresa. In particolare Almeida, Campello e Weisbach affermano che le costrizioni finanziarie creano una domanda di liquidità, che quindi nasce perché la liquidità rappresenta un mezzo per assicurare all’impresa la possibilità d’investire in un mercato dei capitali imperfetto. Il loro modello formalizza le intuizioni di Keynes14.
In esso un’impresa il cui accesso al mercato dei capitali è limitato dalla natura dei propri assets, può venire a conoscenza con anticipo del fatto che affronterà costrizioni finanziarie quando dovrà intraprendere progetti d’investimento nel futuro. Il cash holding assume valore perché fa aumentare le probabilità che l’azienda sarà capace di finanziare questi investimenti. Lo studio di Almeida, Campello e Weisbach suggerisce che i vincoli finanziari potrebbero essere collegati alla propensione dell’impresa ad accantonare cash dai nuovi flussi di cash flow (la cosiddetta cash flow sensitivity of cash). Partendo da Almeida, Campello e Waisbach (2004) i lavori basati sulla variazione di cash in risposta a nuovi cash flow (vedi Han e Qiu (2006)) portano ad un risultato quasi univoco, spiegando come la propensione all’accumulo di risorse liquide da parte delle aziende derivi da un atteggiamento prudente di queste verso il futuro. Il motivo precauzionale può essere evidenziato solo se si utilizza un modello teoretico dinamico, in cui le costrizioni finanziarie che agiscono sulle imprese creano un trade-off intertemporale tra investimenti correnti e futuri. Grazie alla possibilità di allocare intertemporalmente la liquidità l’impresa può decidere se portare tale liquidità in stati futuri in cui vi potrebbe essere il rischio di incontrare vincoli finanziari. In questo modo si abbassa il rischio che l’impresa non possa essere in grado di intraprendere progetti nel futuro.
Han e Qiu (2006) propongono un modello molto simile a quello di Almeida, Weisbach e Campello (2004). L’unica differenza riguarda la possibilità di coprire i guadagni con strumenti
14
Keynes (1936) affermava che il principale vantaggio della liquidità è che essa permette alle imprese di intraprendere progetti d’investimento di valore quando essi sorgono e sono disponibili. Tuttavia lo stesso autore affermava come l’importanza dell’accumulo di liquidità fosse influenzata dalla misura con cui l’impresa aveva accesso al mercato esterno dei capitali. Se un’impresa ha un accesso senza restrizioni al mercato dei capitali, allora la liquidità aziendale non ha rilevanza; se invece l’impresa fronteggia frizioni finanziarie la gestione della liquidità diviene un problema chiave per le politiche a livello corporate.
adeguati di copertura. Mentre in Almeida, Campelo e Weisbach è possibile coprirsi ad un prezzo equo, in Han e Qiu non vi è un mercato esterno perfetto per coprirsi, lasciando come unica opzione l’investimento in cash ed equivalenti.
Han e Qiu (2006) partono dal modello di Almeida, Campello e Weisbach (2004) e affermano che, laddove non vi sia la possibilità di coprire totalmente dall’esterno la rischiosità del cash flow, l’impresa costretta finanziariamente (quelle unconstrained non hanno lo stesso una politica di cash holdings) tratterrà più denaro di quanto lo faccia un’impresa constrained del modello di Almeida, Campello e Weisbach, che in questo modo sottostima il cash holdings ottimale di un’impresa costretta. Questo cash holdings aggiuntivo rappresenta il vero e proprio motivo precauzionale che sta dietro le scelte delle aziende con vincoli finanziari..
Altri autori apportano differenze al modello di Almeida, Weisbach e Campello, e, non come in Han e Qiu, arrivano a conclusioni in alcuni casi contrastanti da quelle di Almeida, Weisbach e Campello. Infatti, vi è la possibilità di assistere ad una sensibilità dell’investimento in cash alla variazione di cash flow negativa, un risultato opposto a quello ottenuto precedentemente in letteratura.
Gli stessi Almeida, Campello e Weisbach in uno studio successivo del 2007 migliorano il modello teorico alla base della cash flow sensitivity of cash.
La differenza fondamentale rispetto al precedente modello è che l’impresa può anche utilizzare l’investimento reale per gestire la liquidità intertemporalmente. Prima il cash è assunto essere l’unico modo con cui l’impresa può trasferire fondi nel tempo, motivo per cui gli autori ottengono sempre una sensibilità del cash al cash flow positiva per le imprese costrette finanziariamente. Nel modello più recente, invece, gli autori mostrano che in presenza di un investimento liquido alternativo, meno liquido e più rischioso del cash, la sensibilità può essere negativa.
Il loro modello funziona in questo modo: un aumento del cash flow corrente porta ad una riduzione dei financial constraints sia correnti che futuri. In questo modo l’azienda può
investire maggiormente in investimenti meno liquidi, più rischiosi. L’incremento di tali investimenti fa aumentare la domanda corrente di finanziamento esterno, con la conseguente diminuzione dell’investimento in cash holdings. Questo è il caso che può portare ad una diminuzione della propensione all’accantonamento di cash dal cash flow. Rimane la possibilità di trovare una sensibilità positiva poiché l’aumento del cash flow corrente porta direttamente ad una diminuzione dei financial constraints correnti. Se questo effetto è forte abbastanza, la sensibilità è positiva.
Tuttavia, in altri studi emergono altri fattori che possono influire sulla positività o negatività della sensibilità del cash al cash flow. Infatti il cash flow corrente può essere correlato non solo ai financial constraints, ma anche ai cash flow futuri oppure alle opportunità d’investimento future.
Ad esempio, l’analisi teorica di Riddick e Whited (2007) si differenzia da quella di Almeida, Campello e Weisbach (2004) in quanto un incremento del cash flow è accompagnato da un incremento della produttività di capitale, per cui l’impresa potrebbe avere l’incentivo a trasformare gli assets liquidi in assets fisici. Questo è ciò che gli autori definiscono effetto sostituzione (in contrapposizione all’effetto ricavo, che induce le imprese ad accantonare cash dal cash flow). Quando un’impresa subisce shocks positivi dei ricavi, il suo cash flow aumenta. Se l’effetto degli shocks non è troppo transitorio, ossia se gli shocks positivi sono serialmente correlati, la produttività del capitale, sia corrente che futura, aumenta, e tale produttività convergerà ad un valore medio molto lentamente. L’impresa quindi desidera investire maggiormente in assets fissi, e per questo trasformerà alcuni dei suoi assets finanziari in asset fisici. Si assiste ad una diminuzione della propensione dell’impresa all’investimento in cash. Acharya, Almeida e Campello (2005) creano un modello teoretico nel quale il cash ed il debito sono congiuntamente determinati all’interno di un problema intertemporale d’investimento. L’impresa può migliorare le sue disponibilità liquide, o salvando fondi interni disponibili in quel momento o contraendo ulteriori debiti, o, alternativamente, l’impresa può salvare la sua
capacità di credito usando i cash flow correnti per ridurre i debiti esistenti o evitando di contrarre ulteriori debiti (i financial slacks di Myers e Majluf).
Più alti stock di cash e una più alta capacità di debito incrementano la capacità di finanziamento futura dell’impresa, e quindi l’abilità dell’impresa di intraprendere nuovi progetti d’investimento. Il cash ed il debito non utilizzato possono essere entrambi usati per trasferire risorse nel tempo. Gli autori tuttavia mostrano che questi fondi possono non essere equivalenti quando c’è incertezza riguardo il cash flow futuro e le future opportunità d’investimento. Il ragionamento è questo: si consideri un’impresa che contrae debiti rischiosi contro cash flow futuri. Siccome i cash flow sono incerti, il valore corrente del debito sarà largamente supportato da stati futuri del mondo nei quali i cash flow sono alti. Contraendo debiti rischiosi oggi l’impresa trasferisce valore dagli stati futuri con alti cash flow al presente. Successivamente, mantenendo in azienda la somma derivante dall’emissione del debito, l’impresa colloca fondi in tutti gli stati futuri, includendo quelli in cui i cash flow ed i valori del debito sono bassi. In altre parole, contrarre debiti rischiosi e trattenere il ricavato nelle riserve di cash, significa trasferire risorse da stati futuri con alti cash flow a stati futuri con bassi cash flow. Ovviamente il ragionamento vale non per i debiti revocabili, ma per finanziamenti a medio lungo termine.
A questo proposito Ferrando e Pal (2006) trovano che solo per le imprese unconstrained, che sono capaci di ottenere debiti finanziari, i risparmi di cash sono usati per l’allocazione intertemporale di risorse sia interne che esterne. Le imprese possono decidere di allocare il debito di lungo termine ottenuto nel tempo e non investire l’intero ammontare disponibile nel primo anno. Inoltre, un incremento del leverage dell’impresa risulta in un incremento della liquidità per soddisfare i più alti interessi e il pagamento del debito nel futuro. Per Acharya Almeida e Weisbach solamente le imprese soggette a vincoli finanziari, preferiranno accantonare cash (piuttosto che ridurre i debiti) se le opportunità d’investimento tendono ad arrivare in stati di cash flow bassi. In pratica la loro propensione a ridurre il debito e ad