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La psicologia in tempo di crisi:
riflessioni etiche, concettuali e operative
- Intervista al prof. Enrico Molinari -
di Antonio Iudici
*Enrico Molinari è professore ordinario dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, dove dirige il Corso di Laurea Magistrale in Psicologia Clinica e della Salute. Per lo stesso ateneo, ricopre il ruolo di Direttore del Laboratorio di Psicologia Clinica ed è Direttore dell’area psicologica dell’Istituto Auxologico Italiano. È stato presidente del Collegio dei professori di Psicologia Clinica delle Università Italiane e fa parte della Commissione del Miur per il riconoscimento delle Scuole di psicoterapia. È stato inoltre membro della Commissione del Ministero della Salute per lo Studio e la cura dei Disturbi Alimentari. Dal 2006 al 2010 è stato Presidente dell’Ordine degli Psicologi della Lombardia e nel 2009 ha ricevuto “l’Ambrogino d’oro”, una delle massime onorificenze del Comune di Milano, per la sua attività clinica e di ricerca.
Incontro il prof. Molinari nel contesto universitario. La sua attenzione nei confronti di alcune concomitanti esigenze studentesche fa sì che l’intervista si concluda qualche giorno più tardi nella sua casa milanese. Mi chiede se preferisco lo studio o il giardino, vista la lucente giornata di luglio. Decidiamo per il giardino. Il corridoio che collega l’ingresso al giardino è una “traversata culturale”: un’imponente libreria, stipata e alta fino al soffitto, crea al passaggio un suggestivo effetto “cresta dell’onda”. Riconosco qualche testo simulacro e dissimulo la tentazione di fermarmi ad ammirare le carte impresse con il religioso culto di chi sniffa inchiostro.
Un elegante salottino di vimini ci ospita in giardino. Anche in quest’occasione, come in precedenti incontri con il prof. Molinari, ho la sensazione che sia un intervistato d’eccezione per l’autentico interesse che nutre per le questioni che gli pongo.
In questa circostanza sono qui per intervistarlo sul libro “Il dono nel tempo della crisi”, a cura di Molinari, E. & Cavalieri, P. (2015). Raffaello Cortina Editore.
AI: Prof. Molinari, in un tempo in cui tra gli psicologi sembra contare molto l’idea di essere scienziato, per lo meno nell’accezione newtoniana, lei usa con dimestichezza nei suoi scritti gli aspetti valoriali e passionali, da cui s’innescano esperienze relazionali come il riconoscimento e la reciprocità. In che modo gli psicologi possono usare i valori senza sconfinare nella morale e al contempo evitare di considerarsi scientifici solo se mettono tra parentesi “se stessi”?
EM: Un modo di intendere la psicologia è quello di considerarla come un grande edificio con tante dimore, tante stanze e diverse tra loro. Direi che c’è spazio per tutti. Diverse sono le psicologie che in qualche misura si contendono il campo, non ce n’è una soltanto. La psicologia clinica si pone su una linea di confine tra le scienze della natura e le scienze dell’uomo, per cui non riesco a immaginare una psicologia clinica unica ma penso a diverse psicologie cliniche che si confrontano per risolvere la complessità dei problemi umani.
Si può paragonare la psicologia clinica a un esaedro che sulla superficie contempla la compresenza di diverse impostazioni, ognuna con la propria originalità. Esse possono integrare la capacità di capire il meglio della teoria e ciò che può essere utile per la persona che ci chiede aiuto.
La psicologia (edificio/esaedro) può essere considerata come una disciplina multiteorica, multiparadigmatica, multimetodologica e multiapplicativa. Per fare esempi “estremi”, c’è chi immagina che la psicologia possa o debba risolvere i sintomi e chi, sul versante opposto, ha un’idea più ermeneutica, interpretativa.
Si è sviluppata poi una grande variabilità del setting: si va da quelli più tradizionali a quelli più innovativi, con le “app” online, agli interventi individuali, di coppia, familiare, di comunità.
La psicologia clinica, via via nel tempo, si è teoricamente ed empiricamente fondata. Lo psicologo clinico non deve partire da zero o dall’improvvisazione, ci sono delle pratiche che nascono dall’esperienza, dalla conoscenza teorica e dalla ricerca. Per quanto riguarda quest’ultima, sono numerosissimi gli studi in grado di dimostrare che gli interventi clinici funzionino: ricerche sia sugli esiti e che sul processo.
Ci si può chiedere quale può essere il filo conduttore, pur nella diversità delle impostazioni: ci vuole una domanda di chi è in uno stato di bisogno, ci vuole una relazione, uno psicologo che si sia formato e abbia la competenza a curare. All’interno dell’incontro “clinico” emerge il concetto di “dono”, che supera una visione esclusivamente utilitaristica del legame sociale e si fonda sulla possibilità di offrire più che di acquisire. Se la psicologia clinica è essenzialmente relazionale, visto che fuori da questo c’è il nulla, lo scambio di “doni” e di “riconoscimento” diventano essenziali per il processo di aiuto. Nella relazione clinica si offre aiuto ma si riceve anche il “dono” che le persone ci fanno rendendoci partecipi dei loro pensieri più intimi. Queste infatti ci offrono la possibilità di entrare nel loro mondo, in una sorta di cella personale. Questo percorso consente quella ricostruzione e rilettura delle esperienze che serve per contrastare ciò che ha portato alla psicopatologia.
AI: Altro costrutto citato nel suo libro è quello di crisi, intesa qui come un’occasione piuttosto che un sinonimo di sventura da cui guarire o per cui farsi curare. In che modo una crisi, in quanto sfondo costante dell’umano come recita il suo libro, può essere un’opportunità di cambiamento?
EM: La crisi è crisi, quando ci sei dentro ci stai male. Con il passare del tempo uno cresce, umanamente e come psicologo clinico, e impara che attraverso le crisi si cresce. La crisi è un momento di apprendimento per acquisire quei trucchi e quelle tattiche che
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descriveva il momento di quando si resta per alcuni lunghi secondi sotto l’onda. Il surfista ha imparato a gestire questo momento, dove è senza punti di riferimento e senza aria, sapendo che poi l’onda che ti sta trascinando si ritira e si risale. Man mano passa il tempo, s’impara che le nuvole e le tempeste che ci sono nel cielo non restano lì per sempre ma sono momenti, a volte anche drammatici, che passano. E poi resta il cielo da contemplare.
Venendo alla questione del dono in psicologia, la vita (e dunque anche la psicologia) è inconcepibile al di fuori della relazione. Non c’è nulla al di fuori della relazione e in questa possiamo avere un atteggiamento, più o meno consapevole, di dono, di scambio, di conflitto, di offesa. E quindi il percorso psicologico consiste nel portare le persone a imparare a badare a se stesse e a essere capaci di vivere relazioni di reciprocità, di generatività, anche sotto il profilo lavorativo (pensa com’è importante il lavoro per le persone con disabilità).
Il lavoro non serve solo per il sostentamento ma anche come dono alla collettività e alla società nella quale uno è inserito. È il contributo che offriamo, nello spazio e nel tempo nel quale viviamo. Quindi, il primo concetto è quello del lavoro. Il secondo concetto è relativo al fatto che diventare adulti e maturi vuol dire amare qualcuno, prendersi cura ed entrare nella logica del dono che è, a mio avviso, ben raffigurato nella generatività umana, nell’esperienza di essere padri e madri. Sono abilità e capacità che necessitano di formazione e allenamento. In quanto psicologi, dobbiamo acquisire la competenza a curare, mentre dall’altra parte la persona che chiede aiuto dovrà mettersi nell’atteggiamento di lasciarsi condurre. Puoi andare anche in montagna da solo, ma nelle ascensioni impegnative meglio farlo con una guida e in cordata.
AI: Inteso in questi termini dunque il costrutto di crisi è utile sia per lo psicologo clinico sia per la persona che si rivolge a lui?
EM: Uno non può aiutare l’altro se non ha vissuto esperienze simili (non
necessariamente le medesime e con la stessa intensità) o non si è preso tempo per riflettere. La differenza è che noi psicologi dedichiamo tempo alla crisi, nostra e dell’altro. Per questo riusciamo a far diventare le crisi un momento di crescita, prima per noi e poi anche per gli altri che ci chiedono aiuto.
A proposito del dono, ci sono delle persone che hanno difficoltà ad accettare i doni e, all’estremo opposto, altre che vorrebbero ricevere solo doni. Sono criteri non descritti dai manuali, ma si potrebbe dire che esiste una sorta di psicopatologia del dono, che aiuta a comprendere prima noi stessi e poi la persona che abbiamo di fronte. Ponendosi alcune domande: perché una persona ha difficoltà a ricevere doni? Forse perché non si sente degno? Forse perché si sente già completo? Forse perché potrebbe essere un affronto alla sua identità e alla sua onnipotenza? Diventare adulti per vivere la vita con benessere è anche essere capaci di ricevere doni e di farli, per creare relazioni che restano e che ci fanno stare bene.
Proprio al termine della seconda domanda, con la scioltezza e il tempismo di un attore che entra in scena, un gatto dal mantello rosso pesca con un collarino rosa vivo
s’inerpica sulla siepe che costeggia il giardino. AI: è suo? EM: no, ma ogni tanto ci viene
a trovare.
AI: Riprendendo il dislivello prometeico di Günther Anders, vale a dire quella condizione esistenziale che sussiste tra i prodotti fabbricati da noi e tutte le altre prestazioni, nel libro si intuisce il rischio per gli psicologi di essere ciechi di fronte ai prodotti della tecnica. Sempre per dirla con Anders “La vita dell'uomo è caratterizzata a tal punto dagli apparecchi che la distanza minima venutasi a creare tra esso e i suddetti apparecchi ne invalida la capacità di assumere una posizione critica”. Quanto dunque un’adesione nozionistica agli strumenti (per esempio quelli testistici, diagnostici, ecc.) si accompagnano ad una sempre più marcata regressione della comprensione? In che senso la posizione critica è un bene irrinunciabile per uno psicologo o per uno psicoterapeuta?
EM: Considerato che l’esistenza dell’uomo è un perenne “adattamento creativo” a una
realtà sempre instabile e mutevole, ogni giorno l’uomo è chiamato a “creare l’uomo”, ma artefice di questa quotidiana creazione non è “l’uomo antiquato”, che non riesce a compensare il dislivello prometeico, quanto piuttosto l’uomo che sa percepire gli effetti della realtà da lui stesso prodotta, che sa ascoltare i propri e altrui sentimenti, che sa trasformare i bisogni dell’altro in criterio di riferimento del suo agire professionale. Come si diceva prima, nella casa della psicologia ci sono molte stanze, molte teorie, molte modalità di applicarle in contesti molto diversi. È diversa la psicologia clinica svolta nell’ambito medico, così come lo è quella in ambito sociale e anche gli strumenti hanno una funzione differente. In alcuni casi possono servirci, tuttavia non possiamo essere asserviti agli strumenti. Per esempio, tra gli strumenti più recenti e innovativi esistono quelli on line, che vanno benissimo in alcune circostanze ma che devono essere maneggiati con particolare attenzione perché la psicologia è e resterà la disciplina dell’incontro, della relazione in una presenza reale, corporea. Non è che si può essere aprioristicamente contrari alla musica riprodotta, però si può riconoscere che un concerto alla Scala offre livelli diversi di emozioni.
AI: Certo, un po’ come quel noto cantautore che invitò provocatoriamente a fare copia abusiva della propria musica, nella consapevolezza che “la musica dal vivo non potrete copiarla mai”.
La metafora musicale stimola qualche pensiero e l’idea di farci accompagnare da un sottofondo musicale. Il prof. Molinari avvia l’ascolto di uno dei notturni di Chopin.
AI: Nel libro è riportata la frase “la malattia mentale, così come la distruttività irrazionale,
sono un difetto della capacità di sincronizzarsi con il cambiamento”. Da questa frase si deduce l’esigenza di relativizzare il comportamento umano all’interno del contesto culturale (e antropologico) in cui questo si inserisce. Può approfondire questa importante asserzione?
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costituisce da tempo una radicata acquisizione della psicologia. Come detto da Alessandro Salvini “anche se il tradizionale modello egocentrico naturalista, psichiatrico, psicoanalitico e comportamentista resiste nelle pratiche cliniche, è sempre più evidente che quello che chiamiamo ‘mente’ non può essere separato dal contesto storico, biografico, sociale e interpersonale che lo crea e lo modifica costantemente”. La malattia mentale può avere delle premesse biologiche ma è sempre un meccanismo di una storia che s’interrompe, di un riconoscimento che non vi è stato. Si tratta di qualcuno, nella storia di una persona con disturbi mentali, che non è stato in grado di sintonizzarsi con la crisi di quel momento e che la persona stessa non è riuscita a sincronizzarsi con il contesto. Ecco perché la cura passa dalle “esperienze emozionali correttive”, che cercano di ripristinare l’esperienza del riconoscimento e della sincronizzazione, che possono produrre un nuovo assetto e quindi un cambiamento. In riferimento ai disturbi mentali, l’estremo del non riconoscimento era rappresentato dai manicomi, che diventarono iatrogeni e amplificatori del disturbo.
AI: Nel libro si fa un largo uso di concettualizzazioni di filosofi, di sociologi e di antropologi. Quanto nella formazione di uno psicologo e di uno psicoterapeuta lei ritiene importante integrare il percorso professionale con studi interdisciplinari? Quanto la differenziazione disciplinare che caratterizza il contesto formativo accademico italiano, per quanto necessaria sotto il profilo organizzativo e gestionale, contribuisce a far credere ai nuovi studenti che la psicologia, la sociologia, l’antropologia o la filosofia siano radicalmente separabili?
EM: Il premio Nobel per l’economia del 1998, Amartya Sen, diceva: “un economista che
è solo un economista è un cattivo economista”. La psicologia è una disciplina dalle diverse appartenenze, per cui privarsi dell’apporto delle altre discipline filosofiche e sociologiche, vorrebbe dire impoverirsi alquanto. Aggiungerei anche che per essere bravi psicologi bisogna amare l’arte, la letteratura, la musica, l’ecologia, la politica. AI: Quanto le nuove generazioni hanno metabolizzato questo aspetto? Quanto i giovani in formazione sono più o meno esposti rispetto alle nuove generazioni?
EM: Accanto alla formazione accademica, di studio e di approfondimento teorico nelle diverse impostazioni, per gli psicologi contano molto le esperienze personali. Dei giovani non sono preoccupato, perché sarà poi anche la vita a costringerli ad allargare il punto di vista sul mondo, soprattutto considerando che la complessità del mondo stesso potrà rendere anche più interessante la psicologia. Bisogna far sì che le altre discipline ci aiutino a valorizzare la nostra e questo può avvenire se noi, con la nostra, sapremo valorizzare le altre discipline.
AI: Questo è un modo per condividere le differenze …
EM: Si possono fare degli esempi: il rapporto di reciprocità tra psicologia e pedagogia, tra psicologia e medicina, tra psicologia e sociologia, tra psicologia e scienze della politica. L’altra operazione intelligente da fare come psicologi è quella di scoprire una
sorta di psicologia implicita nel sapere delle altre discipline, apprendendo anche da queste connessioni, che apparentemente possono sembrare lontane. La psicologia, quindi, come disciplina di confine e come luogo di scambio con altri saperi e con altre modalità di interpretare e di agire nel mondo. Dobbiamo avere la consapevolezza che la nostra è una professione privilegiata perché le persone, le organizzazioni e i gruppi si rivolgono a noi in situazioni di bisogno e questo ci consente di entrare nell’intimo delle situazioni, nella parte più riservata, quasi fossimo degli antropologi urbani che hanno il privilegio di osservare dall’interno il disagio per poterlo comprendere e curare. I pazienti o le situazioni ci fanno il “dono” di qualcosa di molto intimo, di personale. E sono tutte occasioni di grande apprendimento.
AI: Nel libro una parte è dedicata alla narrazione come luogo di riconoscimento, in cui cita la differenza tra “storie”, “storie raccontate” e i “falsi ricordi” della memoria autobiografica. Per dirla con Gabriel Garcia Marquez: “La vita non è quella che si è vissuta, ma quella che si ricorda e come la si ricorda per raccontarla”. In merito a questo, lei sostiene che il lavoro clinico è come confezionare un abito sartoriale, fatto su misura per ciascuno, quindi non si può offrire l’omologazione del già confezionato. Ancora una volta, siamo lontani dalle generalizzazioni che pervadono talvolta la pratica degli psicologi clinici. Quali considerazioni si possono fare su ciò?
EM: Da un certo punto di vista, quello che è enunciato nella domanda è un punto di arrivo, una sorta di ottimizzazione a cui tendere: l’abito su misura. Questo non vuol dire che ci possono essere situazioni nelle quali anche un abito preconfezionato possa rispondere alle esigenze e ai bisogni della persona. Rispetto a quanto detto da Gabriel Garcia Marquez, ritorna il tema che per poter aiutare le persone nella revisione delle esperienze della loro vita (e della loro sedimentazione nella memoria), occorre acquisire molteplici abilità e capacità di cura. Solo con esse si può giungere a una rinarrazione condivisa dei loro “racconti” e trasformare gradualmente le “storie che generano malessere” con le “storie che generano benessere”, le “storie involutive di sofferenza” con le “storie evolutive di crescita”.
AI: Il termine storie evolutive di crescita fa venire in mente prima ancora che il risultato, lo stesso processo, il percorso stesso...
EM: Spesso il lavoro degli psicologi clinici è un catalizzatore che aiuta dei processi che sono in nuce, perché tutti siamo potenzialmente in grado di ottenere salute e benessere. Bisogna avere anche il senso del mistero che ogni persona porta dentro di sé, saper attendere nella consapevolezza che se noi abbiamo fatto la nostra parte, il resto lo farà la vita.