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Capitolo 3 Dalla teoria all’applicazione, strumenti per practicioners e istituzioni.

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Capitolo 3

Dalla teoria all’applicazione, strumenti per practicioners e istituzioni.

a. Inglobare il liquidity risk nelle misure di rischio

Il dibattito in letteratura circa le proprietà delle misure di rischio associate ad un titolo o ad un portafoglio, in contesti di liquidità non perfetta trova il suo necessario completamento nella serie di contributi di taglio più pratico, che hanno il compito di provvedere gli operatori di strumenti corretti per il calcolo e la gestione del rischio in questione.

In tale contesto, alla necessità di rimanere nel solco tracciato dalle raccomandazioni degli studi teorici in materia, e a quella di non scadere nel pericolo, sempre presente, di affidarsi alla “regola del pollice”, fa da contrappunto l’esigenza di proporre metodologie di facile applicazione, il cui calcolo sia basato su dati preferibilmente pubblici, e comunque facilmente reperibili. Da una parte, si tratta di evitare di giungere a risultati troppo approssimativi e dunque inutili, dall’altra di contenere costi e tempi di elaborazione della misura. Un metodo troppo elaborato, o che richieda dati la cui ricerca esige risorse sovradimensionate rispetto allo scopo prefissato, ancorché non si discosti dai canoni dettati dalla dottrina, non ha infatti speranza di incontrare il favore del target a cui si rivolge e rimane, nella pratica, lettera morta.

La difficoltà di trovare nello spazio di queste due dimensioni (il rigore metodologico e la semplicità dell’applicazione) il giusto equilibrio informa l’intero percorso storico delle proposte che, dagli anni ottanta in poi, hanno animato il dibattito sul tema, e del quale, nei paragrafi che seguiranno, si proverà a descrivere alcune tappe.

Si tratta, nella maggior parte dei casi (escluso il caso dello spread implicito di Roll) di misure che si incastonano nel paradigma delle metodologie VaR. Ciò risulta del tutto comprensibile, laddove si consideri la straordinaria fortuna che gli

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strumenti di tipo VaR hanno riscosso negli ultimi quindici anni e la capillare diffusione che essi hanno raggiunto presso gli operatori. Quindi, nonostante, come è noto, non si tratti di una misura coerente e soffra di tutti i difetti, che sono stati menzionati nel capitolo precedente e che non è il caso di ricordare di nuovo, la parte maggiore dei contributi in materia di strumenti per la misurazione del rischio di liquidità ha accettato di lavorare in un contesto VaR, preferendo esporre alcune modificazioni nella formula di calcolo piuttosto che proporre l’introduzione di metodi completamente nuovi. Questa scelta, a prima vista discutibile, anche date le caratteristiche proprie del rischio di liquidità, risulta, a ben vedere, molto sensata e risponde al bisogno di garantire una certa diffusione al metodo proposto. Diffusione, che l’ancoraggio ad un framework consolidato nella pratica come quello del VaR sicuramente agevola, tanto più che il rischio di liquidità, costituisce una categoria di rischio misconosciuta e spesso ignorata, con la quale gli operatori necessitano di familiarizzare.

L’unico dei modelli riportati nelle prossime pagine che non si attiene alla regola altrimenti generale del VaR è quello dello spread implicito di Roll, che peraltro risale ad un periodo precedente ai primi lavori sul Value at Risk. La maggiore preoccupazione dell’autore è quella di fornire uno strumento di facile calcolo a partire dalla semplice serie storica dei prezzi, che consenta di pervenire ad un’idea robusta, benché necessariamente approssimativa, dei costi transattivi legati alla retribuzione del servizio di liquidità da parte dei market makers. Questi costi sono di solito inglobati negli spread, tuttavia, laddove tali spread non siano quotati ma si conosca esclusivamente la serie dei prezzi a cui le diverse negoziazioni vengono concluse, sorge quella necessità cui Roll cerca di dare risposta.

Si tratta, come non è difficile notare, di una visione parziale del problema della liquidità, della quale si prende in considerazione solo la porzione meramente transattiva, trascurando ogni considerazione riguardante l’influenza della dimensione dell’operazione. Inoltre, l’idea di legare lo spread (assunto a misura della liquidità) alla covarianza delle variazioni successive di prezzo discende da un ragionamento, che rischia di apparire eccessivamente semplificativo e perfino irrealistico, quando postula che tutte le negoziazioni vedano il market maker come

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controparte ma soprattutto quando assume nullo il livello di asimmetria informativa presente115.

Passando all’esperienza degli studi che invece rientrano nel paradigma del Value at Risk, cercando di arricchirlo con considerazioni che ne consentano l’utilizzo anche in contesti di illiquidità, la difficoltà più grande che generalmente si incontra è quella di calcolare una quantità, preferibilmente espressa in metro monetario, in grado di dar conto di un fattore di rischio spesso “invisibile”, ma capace di provocare danni ingenti anche in portafogli caratterizzati da un buon grado di diversificazione.

Se, infatti, è ancora relativamente facile fornire una descrizione qualitativa dei rischi legati alla liquidità cui è soggetta una certa posizione, ben più arduo risulta il compito di addivenire alla definizione di una grandezza compatibile con il metodo VaR.

Il primo contributo a fornire un approccio ragionato e consistente, nell’ambito del VaR, alla misurazione del rischio di liquidità, lo si deve a Jarrow e Subramanian116 (1997), i quali correggono il VaR a partire dalla media e deviazione standard di una funzione di costo (che denominano liquidity discount) e di una funzione che tiene conto del ritardo che, per motivi di illiquidità, una certa transazione può soffrire (tale componente è invece denominata execution lag). Questo approccio, che pure si distingue per il merito indubbio di aver focalizzato l’attenzione dell’accademia sul problema, pure ha incontrato fortissime resistenze e scarsa fortuna applicativa, in quanto la stima dei valori delle funzioni da considerare risultava di difficile e costosa esecuzione117.

Maggiore successo ha invece riscosso il famoso modello di Bangia, Diebold, Schuermann e Stroughair (1999), cui è dedicato uno dei paragrafi seguenti, e che si lascia apprezzare per la semplicità dell’approccio. Si aggiusta, infatti, la misura del VaR per un valore, basato sui bid-ask spread effettivi, che viene definito rischio di liquidità esogeno, e che tiene conto dell’effetto di quegli shock, i quali, pur riguardando tutti gli agenti presenti sul mercato, non sono causati da nessuno

115 Postulando, dunque, l’efficienza in forma semi-forte del mercato.

116 R. Jarrow, A. Subramanian, “Mopping up Liquidity”, Risk December 1997. 117

Così, per esempio, si esprime R. Dubil, in “How to include liquidity in market VaR statistic”, University of Connecticut, School of Business 2001 (draft).

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di loro. Il metodo proposto è dunque alquanto semplice, basandosi in pratica sulla traslazione della distribuzione dei valori finali di una misura pari ad un valore calcolato sulla distribuzione (storica o simulata) degli spread relativi.

Il pregio del modello di Bangia et al. è quello di rispettare perfettamente la logica VaR (a partire da un predeterminato livello di confidenza, si calcolano i quantili corrispondenti sia nella distribuzione dei rendimenti che in quella degli spread relativi), giungendo ad un risultato che consente di discriminare le diverse componenti del rischio complessivo e di apprezzare il peso relativo di ognuna di loro. Non sempre condivisibile (e non sempre condivisa dalla letteratura successiva) appare invece la scelta di postulare una correlazione negativa perfetta fra la misura delle variazioni dei mid price e quella degli spread osservati. Se infatti è vero, come visto nel primo capitolo, che parte della dottrina concorda nel ritenere scontata l’esistenza di una correlazione fra rischio di prezzo e rischio di liquidità, non è detto che questa debba essere perfetta e la pur sana esigenza di fornire valori ispirati a prudenza non può comunque giustificare valori troppo superiori a quelli reali. Infatti, se utilizzati in un’ottica regolamentare ai fini del calcolo del requisito patrimoniale, valori eccessivi possono condurre ad un accantonamento sovradimensionato e dunque ad un’errata allocazione del capitale.

Una seconda debolezza della proposta di Bangia et al. consiste nella mancata considerazione del rischio cosiddetto endogeno, ovvero di quello indotto dalla dimensione e dalle velocità delle operazioni. Questo vuol dire che posizioni di dimensione differente sono trattate allo stesso modo, senza tenere presente cioè il fatto che, almeno per volumi superiori alla profondità del mercato, il prezzo di liquidazione può subire dei cambiamenti anche molto rilevanti.

A questo difetto hanno cercato di porre rimedio molti degli studi successivi che, riconoscendo al metodo di Bangia il merito dell’intuitività del funzionamento e della semplicità dell’implementazione, hanno proposto approcci comprensivi anche della dimensione endogena del rischio. Un esempio abbastanza tipico è fornito dallo studio di Angelidis e Benos, i quali modificano il paradigma di Bangia, attraverso la modellizzazione del processo del prezzo (e dello spread). Per i due autori greci, lo spread effettivo è funzione del volume, dei costi di

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informazione e di quelli di inventory. Una volta stimati i parametri che legano queste grandezze, il modello procede alla simulazione della distribuzione degli spread e all’applicazione dell’L-VaR di Bangia.

Benché costituisca un raffinamento della proposta di Bangia, il metodo ora delineato nei suoi tratti principali presenta dei limiti che è bene tener presente. Intanto, muove dal postulare una certa forma delle relazioni funzionali fra lo spread e il volume, che può non essere condivisa universalmente. In secondo luogo, il calcolo dei coefficienti da inserire nelle formule elaborate non può prescindere dalla conoscenza della struttura dei costi transattivi che caratterizzano un certo mercato. Tale conoscenza non è scontata, in quanto informazioni di questo tipo sono solo molto raramente a disposizione degli operatori. La metodologia proposta, dunque, può essere implementata solo in casi particolari e solo da operatori per i quali il costo della ricerca dei dati da utilizzare non sia superiore al beneficio proveniente dalla riduzione dell’inesattezza della misura di rischio.

Un’ultima tipologia di strumenti per la misurazione del rischio, sempre in un’ottica VaR, è esemplificata dal modello di Shamroukh. La peculiarità dell’approccio consiste nel fatto che lo studio considera, oltre alla dimensione del portafoglio da liquidare, anche la velocità di liquidazione. Si tratta, come è facile capire, di un passo in avanti di notevole importanza, data la rilevanza, che trova concorde la dottrina in tema, dell’immediacy nella determinazione della componente endogena del rischio di liquidità118. Tuttavia, ancora una volta, la metodologia proposta è ben lungi dal potersi dire in tutto preferibile a quelle che l’hanno preceduta. Il calcolo si basa, infatti, sulla conoscenza (o sulla stima) della matrice dei valori dei fattori che influenzano il valore del portafoglio e sulla loro modellizzazione attraverso processi stocastici119. Ancora una volta, dunque, la maggiore accuratezza raggiunta è ottenuta solo al costo di sofisticazioni che

118 Ciò risulta peraltro testimoniato da tutto il discorso sulle strategie di liquidazione che si è visto,

dal punto di vista prettamente teorico, nel secondo capitolo di questo lavoro.

119 La considerazione della dimensione temporale è ottenuta definendo uno scadenziario di

liquidazione. Altri approcci consimilari, come quello di Dubil (2001), op.cit. consigliano invece di definire per ogni strumento, un orizzonte “normale” di liquidabilità, che dipende dal grado di liquidità di ogni singolo asset e che può essere fornito, al pari dei coefficienti del requisito patrimoniale, dal regolatore. Si tratta, in ogni caso, di una forzatura, in quanto l’orizzonte “normale” così definito non corrisponde quasi mai a quello effettivo, ed in particolare a quello riscontrabile in situazioni di illiquidità grave.

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rischiano di complicare i calcoli e di rendere troppo onerosa l’applicazione del metodo.

In conclusione, quello che è possibile dire, prima di passare alla descrizione più puntuale dei singoli contributi presenti in letteratura, è che non esiste un approccio standard per il calcolo del rischio di liquidità (o del rischio di portafoglio comprensivo anche della componente di liquidità), e tantomeno esiste un approccio migliore degli altri. Allo stato dell’arte, starà dunque all’operatore scegliere fra le proposte della letteratura quella che maggiormente si attaglia alle proprie esigenze informative e alle proprie disponibilità, in termini di tempo e di risorse da destinare alla ricerca dei dati e all’elaborazione della misura di rischio.

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b. La misura di Roll (1984) e il suo utilizzo nella simulazione storica del VaR

Dal momento che, come si è visto nella prima sezione di questo lavoro, i costi di transazione influenzano il rendimento netto di qualsivoglia investimento, al loro calcolo e alla loro stima sono interessati tutti coloro che operano sul mercato. Una buona approssimazione di tale costo è fornita, nella pratica, dal bid-ask spread, solo che esso non sempre è disponibile per tutti, dal momento che spesso non è quotato. Inoltre, anche laddove esiste una quotazione, è noto che la maggior parte delle negoziazioni avviene all’interno dello spread e non in corrispondenza dei valori estremi dell’intervallo.

Le ragioni sopra esposte rendono dunque costoso per gli investitori venire a conoscenza dello spread effettivo, che dovranno subire e rendono necessaria la presenza di strumenti di stima affidabili ed in grado di calcolare direttamente il valore in questione, per il tramite di procedure semplici e facilmente applicabili. In questo senso si muove la misura proposta da Roll (1984)120, la quale ha il merito della semplicità, in quanto, come si vedrà più avanti, viene calcolata a partire dalle serie storiche dei prezzi osservati.

L’applicazione di tale misura richiede l’accettazione di due assunzioni fondamentali:

1. Il mercato gode di efficienza informativa.

2. La distribuzione di probabilità dei cambiamenti dei prezzi osservati è stazionaria, almeno per intervalli brevi di tempo (l’autore parla di due mesi).

Il fatto che il mercato sia perfettamente efficiente, vuol dire che i prezzi osservati sul mercato contengono tutte le informazioni rilevanti e che non c’è autocorrelazione nei cambiamenti successivi dei prezzi (ovvero nei rendimenti riferiti a momenti contigui e successivi). Il bid ask spread in queste condizioni dà ragione del solo compenso dovuto al market maker ed è pari ad un piccolo

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R. Roll, “A Simple Implicit Measure of the Effective Bid-Ask Spread in an Efficient Market”, The Journal of Finance, September 1984 (pp.1127-1139)

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intervallo di valori, al cui centro si trova il cosiddetto underlying value (m ), t ovvero il valore “reale” dell’asset (che non è osservabile).

Il prezzo osservato p di un asset, in queste condizioni segue questo modello: t

[b.1] pt =mt +12stqt

Dove q è pari a +1 in caso di acquisto e a -1 in caso di vendita, t s è lo spread e t

t

m segue un moto browniano geometrico con varianza costante. Tale valore,

come si è detto, varia in maniera stocastica, non appena nuove informazioni giungono sul mercato, e con esso varia anche lo spread e i suoi valori estremi. Bisogna però distinguere questi cambiamenti, che sono legati a nuove informazioni e che provocano anche sommovimenti dell’underlying value del titolo, da quelli che invece sono causati dal semplice succedersi delle contrattazioni e che hanno un impatto solo sui prezzi osservati e non sul valore dell’asset.

I secondi, infatti, sono, in qualche modo, prevedibili, in quanto caratterizzati da una autocorrelazione seriale negativa, come dimostrato da alcuni studi in materia121. Essa è facilmente spiegabile, e ben esemplificata dal seguente schema:

Figura 1 Possibili path della variazione del prezzo osservata non dovuta a nuova informazione sul mercato.

121 Nel suo articolo, Roll fa riferimento allo studio empirico di V. Niederhoffer e M.F.M. Osborne,

“Market Making and Reversal on the Stock Exchange”, Journal of the American Statistical Association 61 (December 1966) (pp. 897-916). Spread (s) Ask Price Bid Price Value t-1 t t+1

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Se al periodo t-1 c’è stata una vendita al market maker (quindi al bid), in mancanza di nuove informazioni, al periodo t potremmo rimanere al bid, ovvero osservare un prezzo pari all’ask nel caso in cui lo stesso market maker desideri disfarsi della posizione acquisita in precedenza. Al netto dei cambiamenti dovuti a motivi informativi, è dunque la presenza dei market makers (e, dunque, di un certo spread) a determinare i cambiamenti successivi del prezzo osservato p , che indichiamo con ∆pt = ptpt1. La distribuzione di probabilità di tale cambiamenti dipende dal segno della prima negoziazione con il market maker, ovvero dal fatto che essa sia una vendita o un acquisto. Quanto detto può essere apprezzato nel seguente schema:

1 − ∆pt Vendita pt−1Acquisto t p ∆ ∆pt 0 + s - s 0 1 + ∆pt = - s 0 ¼ 1 + ∆pt = - s 0 ¼ 0 ¼ ¼ 0 ¼ ¼ + s ¼ 0 + s ¼ 0

In questo modello semplificato, se la prima transazione è una vendita ad un market maker, il cambiamento successivo di prezzo non può essere negativo, poiché non c’è nuova informazione, e sarà o positivo (se il market maker si sbarazza della posizione acquisita all’inizio) o nullo (se le negoziazioni avvengono solo fra soggetti che non pretendono compensi per la transazione, ovvero non market makers).

Se dalle due tabelle di sopra si passa poi alla rappresentazione della distribuzione di probabilità congiunta di variazioni successive avremo:

t p- s 0 + s 1 + ∆pt = - s 0 18 18 0 18 ¼ 18 + s 18 18 0

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Notando che la media di entrambe le variazioni è pari a zero122, il calcolo della covarianza fra le due variazioni sarà semplicemente:

[b.2] Cov(∆pt,∆pt+1)= 18(−s2 −s2)=−s2/4.

La covarianza è dunque pari al quadrato dell’ half spread, preso col segno negativo. Dal momento che, in mercati efficienti, la covarianza fra variazioni successive di prezzi non può essere dovuta a nuove informazioni (a differenza di quanto avviene per la varianza), secondo Roll, il suo utilizzo ben risponde alle esigenze di studio e di misurazione dei bid ask spread in condizioni di normalità dei mercati, ovvero in assenza di informazioni in grado di cambiare il livello dell’undelying value dell’asset. In altre parole, questo strumento si adatterebbe a misurare l’entità dei costi correnti di liquidità attuali legati alla componente transattiva e a stimare quelli futuri.

Due sono le osservazioni che possono essere svolte circa la covarianza calcolata secondo la metodologia di Roll. Intanto, bisogna citare il fatto che s non è, o almeno non è necessariamente, lo spread quotato, ma il più delle volte è misurato dal cosiddetto effective spread, ovvero quello sopportato nelle negoziazioni reali dall’investitore che opera sui mercati123.

In secondo luogo, è importante tener presente la circostanza per cui la covarianza calcolata secondo l’equazione [b.2] è indipendente dall’intervallo temporale scelto per calcolarla. Essa dipende solamente dal segno delle transazioni successive considerate e non da quando esse avvengono. Tuttavia, ai fini di una stima efficiente possibile è naturalmente preferibile disporre di informazioni quanto più numerose possibile. Ciò in quanto, da un lato la frequenza delle informazioni riduce il rischio di non stazionarietà, e dall’altro essa permette di evitare il pericolo che i risultati siano affetti da troppi disturbi.

122

Questo risultato può derivare anche semplicemente notando che il processo m ha valore atteso costante e che vendita e acquisto sono equiprobabili in ogni periodo.

123 Questo equivale ad ipotizzare che tutte le transazioni sono effettuate da e verso i market

makers. Se questo è irrealistico, si può comunque pensare s come il valore assoluto del cambiamento del prezzo quando avviene in assenza di nuove informazioni.

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Ai fini della ricerca di una misura dei costi di liquidazione, la maggiore implicazione dell’espressione [b.2] è la relazione di inversa proporzionalità fra la covarianza di variazioni successive del prezzo osservato e il bid-ask spread effettivo. Da ciò deriva che gli spread possono essere derivati dalle serie delle variazioni dei prezzi semplicemente calcolandone la covarianza seriale e applicando la formula derivata. Ovvero:

[b.3] st =2 −Cov(∆pt,∆pt+1)

Naturalmente, se invece delle variazioni assolute, si utilizzano i rendimenti, lo spread ottenuto sarà quello percentuale124. Per verificare la validità di questa affermazione, l’autore calcola la covarianza seriale servendosi delle serie storiche relative ai rendimenti giornaliere e settimanali di alcuni titoli quotati sul mercato di New York e sull’American Exchange nel periodo 1963-82, e dimostra quella relazione inversa fra gli spread calcolati in questo modo e market size già ipotizzata, nell’ambito delle teorie sui costi di transazione, da Demsetz (1968)125 e, successivamente, da Copeland e Galai (1983)126. Tale relazione, che risulta statisticamente significativa e fortemente negativa (almeno per i rendimenti giornalieri) fa concludere Roll che il bid ask implicito calcolato secondo la sua formula è una buona misura dei costi associati alle transazioni di mercato e può essere utilizzato, una volta stimati i rendimenti futuri, per calcolare anche i costi di liquidazione attesi.

Più recentemente127, diversi studi hanno poi dimostrato la capacità da parte dello spread di Roll di fornire un’idea corretta del grado di liquidità del mercato. Anche nel campo delle procedure di risk management dei singoli portafogli, ed in particolare del VaR, la misura di Roll mostra più di un pregio. Essa, pur nell’assenza di database dettagliati, si dimostra in grado di fornire un valore indicativo del bid-ask spread che può essere facilmente inglobato all’interno di

124 In questo caso l’espressione [b.2] diviene

1 , ( 200 − ∆ ∆ + = t t t Cov p p

s .In realtà questo vale solo in

maniera approssimata, come si dimostra nell’articolo in questione. R. Roll, op. cit. (p. 1130).

125 H. Demsetz, “The Cost of Transacting”, Quarterly Journal of Economics 82 (February 1968)

(pp. 33-53).

126 T. E. Copeland, D. Galai, “Information Effects on the Bid-Ask Spread”, Journal of Finance 38

(December 1983) (pp. 1457-69).

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D. A . Lesmond, “Liquidity of emerging markets” Journal of Financial Economics, no. 77 (2005).

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procedure di simulazione storica del VaR, quale misura dell’aggiustamento per la liquidità. Infatti, non è richiesta, nell’approccio seguito da Roll, alcuna assunzione circa la distribuzione di probabilità dei rendimenti o degli spread. La distribuzione delle possibili perdite (inclusi i costi di liquidità) su una singola posizione, sulla cui base si calcola il VaR potrà essere costruita, dunque, utilizzando la distribuzione storica dei rendimenti, al netto della distribuzione storica sullo stesso arco temporale delle misure di Roll.

Fra le critiche mosse all’approccio appena descritto, si può citare quella di Stoll (1997)128, che accusa la misura di Roll di sottostimare i costi di liquidità, in quanto, come si è visto, non tiene presente l’effetto dell’asimmetria informativa. Sembra poi opportuno citare alcune altre criticità, che se non altro consigliano altrettante cautele nell’utilizzo di questa misura. In primo luogo, il modello parte dall’assunzione, non sempre realistica, dell’assenza di asimmetrie informative all’interno dei mercati e dell’immediata capacità dei prezzi di tradurre le informazioni nuove. Ciò ha come conseguenza il fatto che l’indice non può essere calcolato se la covarianza è positiva. La costruzione teorica proposta, infatti, non ammette che due variazioni successive di prezzo siano concordi, in quanto ad una vendita al market maker deve seguire una transazione di senso opposto. Succede dunque che i prezzi considerati (il bid e l’ask) non possono mutare se non in presenza di nuova informazione. Si tratta, come è facile vedere, di un’ipotesi molto restrittiva, in quanto si ragiona come se ogni qual volta un market maker acquisisce una posizione è subito costretto a rivenderla, senza poter accumulare più ordini consecutivi dello stesso segno. In seconda istanza, lo spread calcolato tiene in considerazione esclusivamente un solo elemento (cioè il fatto che si tratti di transazioni di vendita o di acquisto) e non, per esempio, la dimensione dell’operazione, che, come si è ampiamente visto, può assumere un ruolo fondamentale nell’influenzare il prezzo effettivo. Ancora, sebbene lo spread implicito di Roll possa tradursi facilmente in una misura monetaria, esso può riguardare solamente gli asset per cui le negoziazioni sono frequenti, e per i quali esistono serie storiche dei prezzi effettivi di una certa lunghezza. Infine, non si

128

R. D. Huang, H. R. Stoll, “The components of the bid-ask spread. A general approach”, Review of Financial Studies, vol. 10, no. 4 (1997).

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tratta di una misura coerente (e nemmeno convessa) dal momento che non vale la proprietà di monotonia.

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98 c. Bangia, Diebold et al (1998), l’L-VaR

In seguito all’avvicendarsi delle bancarotte di alcuni primari attori del mercato finanziario globale, sul finire degli anni ’90 apparve uno studio di Bangia, Diebold, Shuermann e Stroughair129, riguardante l’inadeguatezza delle misure esistenti nel quantificare quel rischio di liquidità che tanta parte aveva avuto nel provocare i default, che si erano osservati. Non considerare all’interno del rischio di mercato la componente legata ai costi di liquidità aveva infatti portato a sottostimare il rischio complessivo di una posizione di circa il 25-30%, in particolare se si tratta di portafogli in asset legati a mercati emergenti.

Nella loro analisi, gli autori concentrano la loro attenzione soprattutto sul VaR, in quanto già allora esso rappresentava lo strumento più utilizzato per il risk assessment di una posizione e, rimarcando la sua incapacità a tenere in considerazione i costi di liquidità, affermano che le modifiche proposte fino ad allora sono o scorrette dal punto di vista teorico o difficilmente traducibili in pratica. Alla prima categoria, appartengono gli approcci che suggeriscono di calcolare il VaR riferendolo a orizzonti temporali più lunghi, corrispondenti a stime soggettive dei periodi di liquidazione. Questo aggiustamento non è appropriato, in quanto si basa sulla moltiplicazione degli elementi della matrice delle covarianze piuttosto che sul ricalcolo delle singole varianze e covarianze per il nuovo più lungo arco di tempo. Alla seconda tipologia, invece, si possono riferire alcune delle impostazioni teoriche che si sono viste nel precedente capitolo, e che, come quella di Jarrow e Subramanian (1997)130, incorporano un liquidity discount al valore su cui applicano il VaR. A queste metodologie si critica non tanto la rigorosità del ragionamento, quanto la difficoltà dell’applicazione, in quanto risulta molto difficile il calcolo delle medie e delle varianze dei quantity discount per le vendite in blocchi più ampi della profondità del mercato in un dato momento.

129 A. Bangia, F. X. Diebold, T. Schuermann, J. D. Stroughair, “Modelling Liquidity Risk, with

Implications for Traditional Market Risk Measurement and Management”, The Warton School, University of Pennsylvania December 1998 (pp. 1-16).

130 R. Jarrow, A. Subramanian, “Mopping up Liquidity”, Risk 10 December 1997 (pp. 170-173).

Similmente si può vedere nel modello di Jarrow e Protter che è stato oggetto del paragrafo b. del secondo capitolo.

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Muovendo da queste considerazioni, la principale preoccupazione degli autori è quella di utilizzare dei dati facilmente reperibili sul mercato per arrivare ad una misura di rischio teoricamente corretta e quanto più affidabile possibile.

L’argomentazione di Bangia e Diebold parte dalla definizione del rendimento giornaliero r di un asset al tempo t come la differenza dei logaritmi dei mid price t

(p) riferiti a due date successive131:

[c.1]       = − = − − 1 1) ln ln( ) ln( t t t t t p p p p r .

Se si considera un orizzonte temporale giornaliero, e si assume normale la distribuzione dei rendimenti giornalieri (con valore atteso pari a zero), il VaR parametrico all’1% sarà espresso nella forma seguente:

[c.2] 1% (1 [ 2,33 ]) t e p VaR t σ − − ⋅ = .

Come noto, quest’espressione, proprio in quanto considera esclusivamente la volatilità del mid price, non si presta a descrivere in modo corretto le situazioni reali, in cui ci aspettiamo che il valore netto finale sia il bid price, ovvero una quantità minore di mezzo spread (12S~) rispetto al mid. Inoltre, anche se si

prendesse in considerazione il solo spread (come fa per esempio la misura di Roll) il problema non sarebbe risolto, in quanto rimarrebbe trascurata ogni considerazione riguardo la componente esogena del rischio, ovvero quella dovuta alle condizioni del mercato. Per superare questa criticità, Bangia e Diebold definiscono il concetto di COL (Exogenous Cost of Liquidity), per un certo livello di confidenza c secondo la seguente espressione:

[c.3] [ ( ~)] 2 1 ) (c t αcσ t p S COL = + ′ .

in cui S è lo spread relativo medio, ovvero il valore medio della distribuzione degli spread relativi storici (S =E(S~t /pt)), mentre la quantità

α

c

σ

~, dipende

dalla volatilità degli spread stessi e dal livello di confidenza prescelto (σ~ pari alla volatilità dello spread relativo e

α

c′ parametro di scala). La principale cautela da

131

E’ banale notare che la formula in questione ricalca pedissequamente quella del rendimento logaritmico, in questo caso, però, si fa esplicito riferimento ai mid price come base per il calcolo.

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osservare nell’utilizzo di questa misura è che solo in rari casi si può considerare gaussiana la distribuzione degli spread, e dunque sorgono alcune difficoltà nel calcolo del parametro

α

c′. Più un mercato è illiquido, più tale distribuzione sarà lontana da quella normale, e più

α

c′ tenderà a crescere

132

. Sarà dunque necessario operare delle simulazioni storiche della distribuzione degli spread, dalle quali derivare il valore corretto del parametro. Una volta determinato il COL, la procedura per inglobarlo nel calcolo del VaR è alquanto semplice. Si parte dall’assunzione, ispirata a prudenza, secondo cui in caso di eventi estremi sul mercato, anche lo spread effettivo tenderà ad allargarsi, stante la correlazione, più volte empiricamente provata, fra variabilità dei rendimenti e variabilità degli spread. La nuova definizione di VaR per un certo livello di confidenza c, prenderà dunque in considerazione non solo il percentile

α

c relativo alla distribuzione (gaussiana) dei rendimenti (-2,33 per c = 99%), ma anche il percentile (calcolato allo stesso livello di confidenza ma su una distribuzione di norma non gaussiana) relativo alla distribuzione degli spread. Formalmente, unendo i risultati di [c.2] e [c.3] si avrà: [c.4] (1 ( ασ )) 21 ( σ~) c t t c p e p S a VaR L− = ⋅ − − c t + + ′

Graficamente, possiamo invece rappresentare i valori del quantile associati al livello di confidenza c in questo modo:

Figura 2 Combinare rischio di mercato e rischio di liquidità (Bangia, Diebold 1998)

132 Nello studio citato, si calcola che il parametro in questione varia da 2,0 a 4,5.

change in risk factor change in spread

VaR(c) L-VaR(c)

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101

L’approccio dell’L-VaR, per come si è visto, si caratterizza per essere ibrido, in quanto, per integrare il rischio di liquidità all’interno del computo del rischio globale della posizione, da una parte suggerisce l’utilizzo di un metodo di calcolo parametrico (per la componente di rischio di mercato), dall’altro quello della simulazione storica (per la distribuzione degli spread). Questo approccio presenta il doppio vantaggio di tenere distinte le due categorie di rischio e di poter essere messo in pratica in maniera relativamente semplice, in quanto i dati necessari per il calcolo della misura sono generalmente disponibili. Proprio grazie a queste due caratteristiche, infatti, gli autori dimostrano, con alcuni esempi133, come portafogli che hanno apparentemente profili simili in termini di rischio (misurato dal VaR tradizionale) possano in realtà nascondere situazioni molto eterogenee in termini della liquidità e del rischio associato.

La maggiore critica a questa misura consiste nell’accusa di una sostanziale sovrastima del rischio complessivo di una posizione, dovuta soprattutto all’ipotesi di correlazione perfetta fra gli shock di liquidità e quelli di mercato134. A tale appunto, gli autori rispondono invocando il fatto che, trattandosi di uno strumento di risk management, il valore del VaR deve essere calcolato in un’ottica di estrema prudenza, e che il rilassamento dell’ipotesi di perfetta correlazione complicherebbe in maniera rilevante i calcoli aggiungendo poco alle potenzialità di utilizzo della metodologia proposta.

133 Si mette in comparazione due portafogli alla vigilia della crisi valutaria del 1997. Uno in Yen

giapponesi, l’altro in Bath tailandesi. Si dimostra come, prima della crisi, la componente di mercato del VaR fosse maggiore per lo Yen, che risultava dunque apparentemente più rischioso. In realtà ciò era dovuto al fatto che il rischio di liquidità era completamente trascurato. Se nel portafoglio giapponese (più liquido) ciò non comportava un grosso errore (la componente di liquidità dell’L-VaR calcolato era pari all’1,5%), il contrario poteva dirsi per quello tailandese, dove la componente di liquidità contava per il 16% del totale. Dopo la crisi, i due valori tendono ad avvicinarsi. Gli autori concludono che l’analisi della componente di liquidità della loro misura ha valore soprattutto preventivo.

134

In questo senso E. Le Saout, “Risque de liquidité et valeur en risque”, Actes des XVèmes journées des IAE, Presses Universitaires de Pau. (2000).

(18)

102

d. La misura L-VaR di Angelidis e Benos (2005)

Fra le proposte più recenti di misure di rischio, pare opportuno ricordare quella di Angelidis e Benos135, che si segnala in quanto offre un emblematico esempio di come, anche a partire da modellizzazioni a prima vista teoriche e astratte, si possa giungere alla costruzione di strumenti utili agli operatori.

Inoltre, essa nasce quale affinamento della misura ideata da Bangia, analizzata nel precedente paragrafo, e oggetto di una serrata critica, da parte dei due autori. Anche sulla scorta di alcuni lavori precedenti e pur riconoscendogli il merito della semplicità del calcolo e dell’intuitività del ragionamento sottostante (ovvero il fatto di separare il rischio totale in due componenti, una riferita al prezzo e l’altra alla liquidità), il lavoro in questione elenca le maggiori criticità associate all’L-VaR di Bangia,.

Innanzitutto, l’assunzione di una distribuzione non normale degli spread, seppur realistica, complica notevolmente il calcolo, in quanto il coefficiente α′ associato al livello di confidenza c prescelto, non può essere conosciuto in anticipo, ma bisogna prima calcolare la funzione di densità. In secondo luogo, la perfetta correlazione fra rischi di mercato e rischi di liquidità è sicuramente un’ipotesi oltremodo restrittiva e in genere non troppo realistica. Non sempre (anche se nemmeno troppo di rado), infatti, eventi estremi colpiscono sia il prezzo che lo spread. Infine, ed è questa l’accusa più forte, si sottolinea il fatto che Bangia mostra di non tenere in considerazione il rischio endogeno, ovvero quello legato alla dimensione di ogni singola operazione. Ciò si traduce in un grave inconveniente, in quanto la misura calcolata resta valida solo in relazione a posizioni che corrispondono al massimo numero di asset che si possono trattare al bid (o all’ask) price.

Per ovviare i problemi che si sono appena menzionati, il contributo in questione non esita a partire dalla formulazione di un modello dello spread basato su precedenti lavori di taglio più spiccatamente teorico, per poi elaborare una nuova

135 T. Angelidis, A. Benos, “Liquidity Adjusted Value-at-Risk based on the components of the

bid-ask spread”, Atti della 1° conferenza internazionale di Applied Financial Economics, January 2005 www.gloriamundi.org (pp. 1-19).

(19)

103

misura di rischio, che denomina sempre L-VaR e che, per non ingenerare confusione, possiamo chiamare L-VaR di Angelidis-Benos.

I due autori greci partono dal modello di Aitken e Comerton-Forbe136 (2003), i quali sostengono l’esistenza di due distinte categorie di costi di transazione, quelli espliciti, che includono commissioni e simili oneri, e che sono materia di investigazione del filone degli studi sulla microstruttura dei mercati, e quelli impliciti, che invece comprendono il bid ask spread e l’impatto della dimensione delle negoziazioni, i quali sono di sicura rilevanza per ogni considerazione riguardante la liquidità e le problematiche ad essa connesse.

Proprio a questa seconda categoria di costi e alla loro quantificazione si rivolge lo studio in questione, il quale mostra di contemplare entrambe le spiegazioni fornite per dare ragione dell’esistenza dei costi di illiquidità (ovvero quelle che nella prima sezione di questo lavoro sono state catalogate sotto i nomi di inventory theory e information theory).

Si definisce intanto con p il prezzo di un titolo all’interno di una transazione al t tempo t. Ogni transazione, è poi contraddistinta da un indice X che assume il t valore +1 in caso di acquisto e di -1 in caso di vendita. Il coefficiente ϕ ≥0 rappresenta il costo unitario (ovvero per singola unità di asset) sostenuto dal market maker per fornire liquidità, mentre si indica con θ il grado di asimmetria informativa e con

µ

t il valore atteso del titolo. Seguendo la modellizzazione proposta da Madhavan et al137 (1997) e Hausman et al138 (1992), infatti, i due autori postulano le seguenti espressioni per spiegare, rispettivamente, il prezzo effettivo e il valore atteso dei titoli.

[d.1.1] pt =

µ

t +

ϕ

Xt +

κ

(Xt Vt) [d.1.2]

µ

t =

µ

t1+

θ

Vt(Xt

ρ

Xt1)

136 M. Aitken, C. Comerton-Forbe, “How should liquidity be measured”, Pacific Basin Finance

Journal, 11 2003 (pp.45-59)

137 A. Madhavan, M. Richardson, M. Roomans, “Why do security prices change? A

transaction-level analysis of NYSE stocks”, Review of Financial Studies 10 (1997) (pp. 1035-1064).

138

J. Hausman, A. Lo, A. C. MacKinlay, “An ordered probit analysis of transaction stock prices”, Journal of Financial Economics, 31 (1992) (pp. 319.379).

(20)

104

Nella prima equazione si possono distinguere due componenti di costo che influenzano il prezzo osservato. Una (ϕ) non dipende dal volume trattato, ma rappresenta una somma fissa che si deve corrispondere per ogni transazione. L’altra (κ), che dà ragione degli effetti correlati alla inventory theory e si riferisce al trade off fra costi di order handling e costi di inventory, è funzione della radice quadrata del volume, come proposto da diversi studi citati nell’articolo, fra i quali merita menzione quello di Barra (1997)139.

La seconda espressione riguarda la formazione del prezzo osservato sul mercato e prevede la presenza di un fattore legato all’asimmetria informativa pari a

) ( tt1

t X X

V

ρ

θ

e dunque anch’esso risulta funzione del volume trattato140. Se si uniscono le indicazioni provenienti dalle due equazioni, si può ricavare il seguente modello per le variazioni giornaliere del prezzo effettivo:

[d.2] t t t t t t t t t t t t p V X X X X X V X V u p1 =

θ

( −

ρ

)+

ϕ

( − 1)+

κ

( − 1 1)+ . 141

A questo punto si può, sempre a partire dall’equazione [d.1.1] e [d.1.2] scrivere l’espressione dell’ask e del bid, che si possono indicare rispettivamente come

1 = t X a e =1 t X b . Si avrà, dunque: [d.3.1] aX 1 t 1 Vt

[

1 E(Xt Xt 1)

]

( Vt) t= =

µ

− +

θ

− − +

ϕ

+

κ

[d.3.2] bX 1 t 1 Vt

[

1 E(Xt Xt 1)

]

( Vt) t= =

µ

− −

θ

+ − −

ϕ

+

κ

.

Lo spread sarà dunque definito come:

[d.4] =

[

θ

+

κ

+

ϕ

]

− = =1−b 1 2 t( ) a V Spread t X t X .

139 La relazione, come si è avuto modo di osservare a proposito di un modello simile presentato,

sebbene in via qualitativa, nella prima sezione di questo lavoro, può assumere sia segno positivo che negativo, in ragione della possibilità (o meno) di realizzare economie di scala detenendo titoli qualora i costi di order handling siano maggiori di quelli di inventory.

140

ρ

è il coefficiente di correlazione fra i segni di due operazioni successive. Si noti che, nel caso di perfetta correlazione negativa, cioè quando ad un acquisto segue sempre una vendita, la porzione soggetta alle due transazioni di segno opposto non influenza il costo dovuto all’asimmetria informativa. Siamo dunque all’interno di un framework molto simile a quello immaginato già da Roll e descritto in un precedente paragrafo di questa sezione.

(21)

105

Lo spread, come si può vedere, è caratterizzato da una correlazione positiva rispetto al volume dello scambio V , al componente di costo dovuto alla selezione t avversa θ e alla componente ϕ. Non sarà invece univoca la relazione con κ, che può essere minore di zero (in questo caso il costo di liquidità decresce all’aumentare del volume trattato) se, come si è visto, i costi di order handling superano quelli di inventory.

Una volta calcolata l’espressione dello spread, addivenire alla nuova misura di rischio è alquanto semplice. Si scriverà infatti:

[d.5] L-VaR(A-B) = +21

[

2

(

α(

θ

+

κ

)+

ϕ

)

]

t V VaR

dove Vtα è il quantile della distribuzione dei volumi relativo al livello di confidenza prescelto per il VaR. Come si può vedere, questa misura non solo tiene presente i costi di transazione che si riversano nello spread, ma ingloba anche l’effetto della liquidità endogena, laddove lo spread dipende dal volume dell’operazione e dunque è fortemente correlato alla dimensione del singolo portafoglio rispetto alla profondità del mercato.

(22)

106 e. Shamroukh (2000) e il LA-VaR

A differenza di Bangia et al142, i quali distinguono fra rischio liquidità esogeno e rischio di liquidità endogeno, Nidal Shamroukh, in un suo lavoro del 2000143, opera una diversa categorizzazione, differenziando quello che chiama market liquidity risk, e che comprende sia l’aspetto endogeno che quello esogeno, da quello che invece definisce cash flow liquidity risk. Quest’ultimo consiste nel pericolo di dover smobilizzare velocemente una grossa posizione per venire incontro a esigenze di liquidità di brevissimo termine.

I due aspetti indagati sono, evidentemente, strettamente collegati. Un investitore è esposto al market liquidity risk esclusivamente qualora si trovi costretto a soddisfare bisogni immediati di numerario dovuti, per esempio, ad impegni in scadenza. Il problema della liquidità, in definitiva, sorge esclusivamente laddove vi siano flussi (certi od incerti) in uscita da sostenere nel breve periodo, mentre il patrimonio è investito, almeno in parte, in asset meno che perfettamente liquidi (ovvero non smobilizzabili immediatamente senza alcun costo). E’ quando si verifica questa circostanza che il VaR si rivela non più sufficiente a garantire una rappresentazione attendibile del rischio della posizione e si sente l’esigenza di alcuni aggiustamenti.

Un’assunzione implicita nei modelli tradizionali di VaR è, infatti, quella che si può ignorare il rischio di liquidità, semplicemente considerando un orizzonte temporale pari alla scadenza del portafoglio. Com’è semplice notare, questo approccio nasconde una palese contraddizione. Infatti se l’obiettivo è quello di evitare ogni costo di liquidità, le negoziazioni mediante le quali ci si libera degli asset devono essere graduali, e, in altre parole, devono avvenire durante l’arco di tempo considerato. In genere, invece, si preferisce immaginare che la liquidazione della posizione avvenga in un’unica soluzione alla fine del periodo, il che, evidentemente, non elimina i costi tipici della vendita in blocco, ovvero i costi di liquidità.

142

A. Bangia, F. X. Diebold, T. Schuermann, J. D. Stroughair, op.cit.

(23)

107

Un approccio alternativo a quello originario, ma che preserva l’assunto secondo cui il rischio di liquidità può essere trascurato, consiste nel tener conto proprio della possibilità di ridurre gradualmente la dimensione del portafoglio all’interno del periodo considerato.

Questa metodologia, che tuttavia prevede la conoscenza della strategia di liquidazione, giacché riduce la varianza dei valori netti finali, perviene ad un minore valore del VaR.

Un’ulteriore impostazione, che ricalca quella seguita dall’autore del contributo in questione, consiste nel rappresentare l’impatto della liquidità per il tramite di uno spread, che si va ad aggiungere (o a sottrarre, a seconda delle situazioni) al mid price.

Come noto, lo spread dipende dalle dimensioni e dalla velocità della liquidazione. Più veloce sarà la liquidazione (maggiore, cioè, sarà la immediacy richiesta) e più alti saranno i costi di liquidazione. Di conseguenza, minore sarà la media dei proventi della liquidazione.

D’altro lato, però, più lenta è la procedura di liquidazione e più alta sarà la varianza dei flussi di cassa netti finali. Il trade off fra la minimizzazione della varianza e la massimizzazione della media può essere apprezzato, sebbene in maniera per ora soltanto qualitativa, nella Figura 3.

La linea tratteggiata indica la distribuzione dei valori per una certa velocità di liquidazione, ed è la stessa in tutti e tre i casi. La linea continua mostra invece la distribuzione dei valori associati ad uno smobilizzo più repentino.

Nel primo caso l’effetto preponderante è quello della diminuzione della varianza, che si traduce in una distribuzione meno dispersa intorno al valore medio, e dunque ad un VaR minore. Nel secondo caso, si può apprezzare l’effetto della decrescita della media, e quindi dell’aumento del VaR. Infine, nell’ultimo grafico, entrambe le dimensioni del cambiamento sono rappresentate.

Queste poche considerazioni iniziali consentono di affermare che un modello che abbia intenzione di rappresentare correttamente le modifiche al VaR in presenza di problemi di liquidità debba incorporare al suo interno una certa attenzione per il trade off appena, seppur sommariamente, descritto.

(24)

108

Figura 3 Effetto sulla media e sulla varianza della distribuzione in seguito al cambiamento della velocità di liquidazione (da Shamroukh, op. cit. fig. 3).

Si considera dapprima un portafoglio di X unità di un certo asset S. Il valore 0

dell’asset è funzione di un solo fattore di rischio w. Una misura di rischio che tiene conto della liquidità deve essere calcolata a partire dalla distribuzione dei valori del portafoglio al primo istante successivo al momento in cui l’intera posizione è stata liquidata ed investita in numerario.

Tale valore é denominato CEV (cash equivalent value), la sua distribuzione dipende dalla velocità della liquidazione e dallo scadenziario144 della stessa (ovvero dalla strategia di liquidazione perseguita).

Figura 4 Scadenziario di liquidazione (Liquidation Schedule).

Posizione Residua X 0 X0X0/n X0X02/nX0X0(n−1)/n 0 Data 0 t 2t (n−1)∆t T Valore Operazione 0 1 0/ ) (X n S (X0/n)S2 … (X0/n)Sn−1 (X0/n)Sn

Si definisce T il tempo in cui tutte le operazioni di liquidazione sono concluse, n il numero totale delle operazioni, e dunque ∆t =T/n indica la frequenza delle operazioni. Il valore del fattore di rischio w al tempo 0 è pari a S e 0 V i

144

Uno scadenziario di liquidazione è definito come una coppia di vettori, uno contenente le date, in cui sono previste le smobilizzazioni, e l’altro con le dimensioni di ogni singola operazione.

(25)

109

rappresenta il valore del portafoglio al tempo it. Dato che le operazioni avvengono in ogni tempo it, con i=1…n, se si ipotizza che ad ogni data si liquidano X /0 n unità del bene, la posizione residua al tempo it è pari a

) / (

0

0 X i n

X − . Quest’espressione è pari a X nel tempo 0 e a 0 al tempo 0 t

n T = ∆ .

Si ipotizzi che il rendimento logaritmico del fattore di rischio sia governato secondo la seguente espressione:

[e.1] ∆ln(wi)=∆Z

dove Z è un processo di Weiner dotato delle tradizionali proprietà e i è il tempo preso in considerazione. Avremo dunque i seguenti valori di varianza e covarianza del rendimento logaritmico:

[e.2] Var(∆ln(wi))=∆t

[e.3] Cov(∆wi,∆wj)=min(it, jt)

Nell’ipotesi di tasso di interesse r nullo, il cash equivalent value (CEV) di un portafoglio liquidato gradualmente e uniformemente, secondo uno scadenziario come quello rappresentato in Figura 4, sarà dato dall’espressione seguente:

[e.4]

= = n i i T P S n X V 1 0 ,

ovvero, se poniamo ∆Si =SiS0 la precedente diventa:

[e.5.1]

= ∆ + = n i i T P S S n X V 1 0 0 , ( ) ovvero [e.5.2]

= ∆ + = n i i T P S n X S X V 1 0 0 0 , .

Se applichiamo al valore un approccio di calcolo del VaR parametrico legato alla sensibilità del valore della posizione rispetto al fattore di rischio w, la [e.5.2] diviene:

(26)

110 [e.6]

= ∆ + = n i i T P M w n X S X V 1 0 0 0 ,

dove M è la derivata prima di S(w) (ovvero l’indice di sensibilità del valore rispetto al cambiamento del fattore di rischio considerato). Considerando l’approssimazione ∆wiw0∆ln(wi), la [e.6] si può scrivere come:

[e.7]

= ∆ + = n i i T P w n M w X S X V 1 0 0 0 0 , ln( )

Dalla [e.7] si può ricavare la varianza 2

,T P

V

σ

del valore del portafoglio a scadenza così calcolato: [e.8]       ∆       =

= n i i V Var w n M w X T P 1 2 0 0 2 ) ln( ,

σ

Conoscendo la matrice varianza-covarianza di ∆ln(wi), ∀i=1,...,n, l’espressione [e.8] può essere generalizzata come di seguito:

[e.9]

∑∑

= =       = n i n j j i V n M w X T P 1 1 , 2 0 0 2 ,

σ

σ

il valore σi,j rappresenta la covarianza fra ∆ln(wi) e ∆ln(wj) se ij, altrimenti la varianza di ∆ln(wi).

Dopo alcune semplificazioni145 si potrà poi scrivere:

[e.10.1]  ∆  + +       = 6 ) 1 2 )( 1 ( , 2 0 0 2 , n n n t n M w X j i VPT

σ

σ

[e.10.2] = ∆  + + n n n t M w X i j VPT 6 ) 1 2 )( 1 ( ) ( 0 0 2 , 2 , σ σ

A questo punto, essendo nota la varianza del portafoglio e ipotizzando che il valore medio del rendimento sia nullo (ovvero che E(VP,T)=VP,0), se definiamo

α

come l’inversa della cumulata di una distribuzione normale standardizzata ad

145

Per la dimostrazione matematica della risoluzione delle sommatorie si veda N. Shamroukh, op. cit. (2000)

(27)

111

un certo percentile definito, sarà possibile rappresentare il VaR corretto per l’effetto della liquidità (LA-VaR), secondo la seguente espressione:

[e.11] LA-VaR = T P T P P V V P P P T P P V V V V V V , , ,0 0 , 0 , 0 , * , 0 , − = −( −

ασ

)=

ασ

Sostituendo la deviazione standard del valore netto del portafoglio a scadenza con la sua espressione per come indicata in [e.10.2] si avrà:

[e.12] LA-VaR =        + +n n n t M w X VP ij 6 ) 1 2 )( 1 ( ) ( 0 0 , 0 ,

α

σ

.

Se poi si scrive T/n al posto di t∆ , la precedente si trasforma in:

[e.13] LA-VaR =        + + 2 , 0 0 0 , 6 ) 1 2 )( 1 ( ) ( n n n T M w X VP

α

σ

ij .

Ricordando che l’espressione del VaR tradizionale può essere scritta come: [e.14] VaR = VP,0

α

(X0w0M)

(

σ

i,j T

)

otteniamo che il LA-VaR dell’equazione [e.13] potrà essere ottenuto riscalando il VaR tradizionale per un certo fattore, funzione della velocità di liquidazione, espressa da n. Sarà dunque possibile calcolare la nuova misura seguendo la seguente espressione: [e.15] LA-VaR = 2 6 ) 1 2 )( 1 ( n n n VaR + + .

In maniera analoga, il LA-VaR potrà ottenersi scalando la varianza per il fattore sotto radice quadrata (che si può indicare con A) e, con il nuovo valore trovato, procedere al calcolo tradizionale del VaR.

E’ particolarmente interessante notare che, a partire dall’equazione [e.15] può essere ottenuto il valore limite di abbattimento del VaR in caso di incremento della frequenza delle negoziazioni. Infatti, laddove si ipotizzi che il numero di liquidazioni nell’arco temporale T sia molto elevato (quindi n tende a infinito e

t

∆ tende a zero) avremo: [e.16]

3 ) (

lim LA VaR VaR

(28)

112

f. Alcune generalizzazione del modello LA-VaR di Shamroukh

Il modello appena visto, si rivolge al caso di un solo asset, ovvero di un portafoglio omogeneo e formato da una sola tipologia di investimenti. L’approccio proposto, resta tuttavia valido, sebbene con alcune doverose modificazioni, anche in un contesto più generale. Oggetto di questo paragrafo, infatti, sarà quello di delineare gli aggiustamenti principali che sono necessari per rendere fruibile la metodologia proposta da Shamroukh in alcune ipotesi di lavoro meno semplicistiche rispetto a quella, già analizzata, del singolo titolo.

In primo luogo, si considera il caso di un portafoglio composto da k assets il cui valore è funzione di m fattori di rischio. Il cash equivalent value del portafoglio al tempo 0 è uguale a: [f.1.1]

= = + + = n i n i i k k i P S n X S n X V 1 1 , 0 , , 1 0 , 1 0 , ... [f.1.2]

= = ∆ + + + ∆ + = n i n i i k k k i P S S n X S S n X V 1 1 , 0 , 0 , , 1 0 , 1 0 , 1 0 , ( ) ... ( ).

dove con Sj,i si indica il valore di liquidazione dell’asset j al tempo i e con Xj,0

la quantità dello stesso asset j al tempo iniziale. Si può procedere ad una mappatura dei rischi secondo una delta-approssimazione, aggregando i termini per fattori di rischio. In tal modo la [f.1.2] si può scrivere nella forma:

[f.2]

∑ ∑

= = = = ∆       ∆       + +       ∆       + = n j n j j m p i m i i j p i i i P t P M w n X w M n X V V m 1 1 , 1 , 0 , , 1 1 1 , 0 , 0 , , ... 1

dove p è il numero di asset che dipendono dal fattore di rischio j w e j Mi,j è

l’indice di sensitività di primo ordine dell’asset i alle variazioni del fattore di rischio j. Se si utilizza, come fatto in precedenza, l’approssimazione

) ln( , 0 , ,i j ji j w w w ≅ ∆

(29)

113 [f.3]

∑ ∑

= = = = ∆       ∆       + +       ∆       + = n j n j j m p i m m i i j p i i i P t P M w w n X w w M n X V V m 1 1 , 1 0 , , 0 , , 1 1 0 , 1 1 , 0 , 0 , , ln ... ln 1

Quest’equazione, che rappresenta il mapping del portafoglio in posizioni equivalenti su portafogli elementari esposti, ciascuno, ad un solo fattore di rischio, laddove si definisca [f.4]

= = j j p i j j i i M w X Q 1 0 , , 0 ,

può essere riscritta nella forma più sintetica:

[f.5]

( )

= = ∆ = + ∆ + + ∆ n j n j j m k j i P t P w n Q w n Q V V 1 1 , , 1 0 , , ln ... ln( ).

Si può, inoltre, dimostrare che, indicati con:

 Q: vettore di dimensioni m×1 delle posizioni standardizzate Q , j

ovvero:

Q:=[Q1,...,Qm].

 V: matrice di varianza-covarianza annuale dei rendimenti

logaritmici dei fattori di rischio, di dimensione m×m e i cui elementi sono σi,j, ovvero:

V:=               2 1 , 2 2 1 , 2 , 1 2 , 1 2 1 . . . . . . . m m m

σ

σ

σ

σ

σ

σ

σ

 W: la matrice V scalata per il tempo ed il fattore A:

W:= n n n t 6 ) 1 2 )( 1 ( + + ∆ V

(30)

114 [f.6.1] LA-VaR = α σ =α T P V t , (Q’WQ 2 1 ) 146 [f.6.2] LA-VaR = A(VaR).

Shamroukh, dopo aver descritto gli aggiustamenti da operare alla misura tradizionale di rischio, per tener conto di una strategia di liquidazione continua, cerca di allargare il proprio formalismo ulteriormente, alla comprensione di situazioni maggiormente realistiche. In particolare, si prova ad incorporare nella misura di LA-VaR la relazione fra prezzo di liquidazione e entità della transazione, di modo da dare compiuta rappresentazione del rischio endogeno e di evitare l’assunto poco realistico della liquidazione continua147

Se indichiamo con δ < 0 la misura del costo di liquidità esogeno e con β < 0 la misura della sensitività del prezzo di liquidazione alla dimensione della transazione, possiamo scrivere il valore di liquidazione del singolo asset come: [f.7] S -liquidation = f(i S ,i δ ,β,dimensione della transazione)

e, utilizzando, a titolo di esempio, la seguente forma esplicita, avremo:

[f.8] S -liquidation =i       + n X i i i i e S β δ

A questo punto, possiamo nuovamente applicare le formule trovate in [f.1] e scrivere: [f.9]

= =       +       + ∆ + + + ∆ + = n i n i n X i k k m n X i T P k k k e S S n X e S S n X V 1 1 , 0 , , 1 0 , 1 1 , ( ) ... ( ) 1 1 1 β δ β δ ovvero: [f.10]

=       + = =       +         + ∆ + + ∆ + = n i n X i k k k j n i n X i n X j j T P k k k i j j j e S n X e S n X e S X V 1 , 1 1 , 1 1 0 , , ( ) ... ( ) 1 1 β δ β δ β δ

146 Naturalmente, si riproduce l’assunzione, già disposta nel caso di un portafoglio con un solo

asset e un solo titolo, per cui il valore atteso di

0 , , t P P V V = . 147

In altre parole, si cerca di far si che il tempo necessario per la liquidazione sia un output, piuttosto che un input del modello.

Figura

Figura 1 Possibili path della variazione del prezzo osservata non dovuta a nuova  informazione sul mercato
Figura 2 Combinare rischio di mercato e rischio di liquidità (Bangia, Diebold 1998)
Figura 3 Effetto sulla media e sulla varianza della distribuzione in seguito al cambiamento  della velocità di liquidazione (da Shamroukh, op

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