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l’automobili; ci dobbiam anda’ se vogliam ferma’ ‘na macchina, e dopo puoi torna’ a casa,” gli spiegò.

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Academic year: 2021

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UNO

GLI ZOCCOLI DI DOCK sulle pietre lungo il versante della collina e il suo respiro affannoso, avevano escluso ogni altro rumore, tanto che da un bel po’ di tempo le sembrava di non sentire nulla e Amos era troppo tranquillo: non si aggrappava più alla coperta come quando erano partiti. Giunsero sulla cima, dove la strada sterrata attraversava una zona sabbiosa con cespugli di pini, e mentre i ferri del mulo calpestavano silenziosi la distesa di aghi di pino, lei si chinò sul lungo fagotto messo di traverso al pomolo della sella, in ascolto. Si raddrizzò quasi all’istante, e colpì forte con i talloni i fianchi del mulo già fradicio di sudore, finché non si lanciò in un goffo galoppo. “Lo so che sei stanco, ma ormai ci siam quasi.” Gli bisbigliò con voce tesa.

Continuò a cavalcare in silenzio, l’alta figura curva sul fagotto come per proteggerlo. Di tanto in tanto, guardava con preoccupazione il cielo sempre più plumbeo che lasciava il posto al crepuscolo temporalesco di un pomeriggio di ottobre. Ma, per la maggior parte del tempo, i suoi occhi, grandi come il resto di lei, e dello stesso grigio scuro e opaco dei tronchi di pino zuppi di pioggia, guardavano fisso oltre le orecchie del mulo come se, guardando intensamente, avesse potuto aiutare con gli occhi lo stanco animale ad accorciare la distanza che li separava dalla strada.

Raggiunsero la statale che si snodava tra i pini, vuota e silenziosa; nessuna traccia di auto o di persone, quasi non fosse affatto una strada, ma una sperduta isola d’asfalto, che non proveniva da nessun posto e non portava da nessuna parte. Il mulo si fermò, muovendo lentamente le orecchie avanti e indietro, come non sapesse cosa fare. Lo colpì di nuovo sui fianchi: “È ‘na strada pe’

l’automobili; ci dobbiam anda’ se vogliam ferma’ ‘na macchina, e dopo puoi torna’ a casa,” gli spiegò.

Il mulo provò a rifiutarsi di andare avanti su quella strana roba nera: spostò violentemente la testa da una parte all’altra e, con le zampe tese, tornò sul suolo familiare dei pini e del terreno cedevole.

“No”, disse la donna, stringendogli i fianchi magri con le sue lunghe cosce, “no, ci devi anda’ nel mezzo così possiam ferma’ ‘na macchina pe’ anda’ dal dottore. Lo devi fa’.” Lo colpì di nuovo e lo fece girare.

Lui tentò stancamente di sgroppare con un balzo incerto, ma la donna

non fece altro che assestarsi meglio sulla sella, stringere più forte le

cosce, le ginocchia, i talloni. Poi, con un tono di voce tra la supplica e

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il rimprovero: “Be’, Dock, lo sai che giù ‘n ci riesci a buttarmici. ‘N ci riuscirvi nemmeno se eri fresco, figurati ora. Sicché vai.” Lo apostrofò con un tono di voce a metà tra la supplica e il rimprovero.

Il grande mulo pelle e ossa mostrò il suo malcontento muovendo le orecchie, agitò le redini, scartò di lato e andò contro un pino, ma accettò presto il fatto che la donna fosse ancora il padrone, anche su quella via così strana. Riprese il galoppo stando al centro dell’asfalto, lungo un crinale alto e stretto che, a tratti, faceva pensare a una strada nel cielo con in basso, su ambo i lati, il nulla delle valli immerse nella nebbia.

Passò un’auto. Il rumore spaventò Dock, che scartò verso il ciglio, ma la donna lo fermò parlandogli con dolcezza. “’N ti farà alcun male. È ‘na macchina, come ‘l camion del carbone. Questa noi

‘n la dobbiam ferma’, va dalla parte sbagliata.”

Nonostante le sollecitazioni della donna, il mulo fu lento a riprendersi dallo spavento del passaggio dell’auto. Tentava ripetutamente di spostarsi sul ciglio della strada che, in modo brusco, curvava in discesa, e quindi era difficile vederla da entrambe le direzioni. La donna si chinò ancora una volta sul fagotto, in ascolto, e il mulo si gettò concitato verso la pineta. Lei tirò forte le briglie, così repentinamente e con tale violenza, che il mulo ruotò su se stesso, s’impennò, tornò giù, dopodiché fece un balzo sgraziato a zampe tese che, per un istante, lo fece atterrare di traverso sulla strada.

Il rombo del motore di un’auto che si avvicinava si fece sempre più forte. Terrorizzato dallo strano rumore, dalla strada poco familiare, e dallo strano comportamento della donna, il mulo si lanciò di nuovo verso gli alberi. La donna strinse le gambe e tirò a sé le redini tanto da farli sembrare impegnati in una qualche danza scatenata, ma provata molte volte: girando e rigirando sul manto stradale, il mulo s’impennava, scuoteva la testa di qua e di là, cercando di abbassarla per poter disarcionare la donna.

Lei allentò un attimo la presa e poi tirò con tutte le sue forze.

Lui s’impennò ma rimase sulla strada. La luce gialla dei fendinebbia, pallida nella grigia foschia, li inondò illuminando il fango rossastro sotto una delle scarpe della donna, una scarpa da uomo con cinghie intorno ai tacchi premuta forte contro il corpo ritto del mulo, come a indicare un punto nella briglia rammendato con una striscia di cuoio.

Pareva fosse rimasta in sella in quel modo per tanto tempo: il mulo

sulle zampe posteriori, la luce dei fari su di lei, il bambino tenuto

saldamente nell’incavo del braccio sinistro, e lei che parlava col mulo

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nello stesso tono basso e incalzante usato per convincerlo ad andare sulla statale: “’N t’impauri’, Dock. Ora si ferman. Li facciam ferma’

noi. ‘N van forte in ‘ste curve, in discesa. Si devon ferma’. Scendiam tutti insieme da ‘sta scarpata.”

Si udirono un forte, prolungato colpo di clacson, uno stridio di freni e di gomme e le lingue di luce dalla donna si spostarono d’un tratto sulla nebbia che ricopriva la valle. Poi, mentre il mezzo sbandava, i fari la colpirono di nuovo, andando a illuminare i pini dall’altra parte, per poi tornare indietro quando l’auto, ormai a pochi passi da lei ma sull’altro lato della strada, smise di sbandare. La voce della donna, carica di una terribile urgenza, era appena un sussurro, mentre, coperta dall’urlo del clacson, pregava: “Di là, di là; fa’ che vien sull’altro lato.”

Diede un altro strattone e colpì il mulo, fin quando lui, ormai impazzito per lo spavento, balzò quasi davanti all’auto, costringendola a sterzare di nuovo, stavolta così bruscamente da finire del tutto fuori strada. Travolse gran parte di un folto di pini nani e poi si arrestò sulla banchina stretta e sabbiosa vicino all’orlo della scarpata. La donna dette un’occhiata all’auto, poi guardò altrove, oltre le orecchie del mulo tremante. E sebbene guardasse giù, era come cercare di scorgere il cielo quando è coperto di nubi. C’era soltanto una fitta nebbia che, sui pascoli, assumeva una sfumatura verdastra tendente al marrone sul granturco giù a valle, sotto alle cime degli alberi che costeggiavano l’orlo della scarpata.

“Sei stato proprio bravo,” sussurrò al mulo. Dopodiché, con un agile movimento, smontò passando la lunga gamba sopra la groppa della bestia e fissò con un cappio le briglie attorno al pomolo della sella. Girò il frastornato animale verso sud e gli diede una pacca sul dorso. “Va’,” gli disse. Non badò più a lui mentre schizzava via, con le strisce di schiuma che gli colavano discontinue lungo il muso, e il sangue che gli usciva da un taglio sulla zampa posteriore sinistra, dove l’auto l’aveva sfiorato.

Fece in fretta i pochi passi sull’orlo della scarpata che la separavano dall’auto, come se temesse che sarebbe ripartita. Ma aveva la mano già sulla maniglia della portiera anteriore ancor prima che si aprisse lentamente, con circospezione e uscisse un soldato, la testa vicinissima al mento di lei. La fissò di sotto in su e non rispose quando lo pregò tutto d’un fiato: “Ho bisogno di un passaggio. Il mi’

piccolo, lui …”

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Il soldato non guardava più. I suoi occhi, azzurri, con lo sguardo smarrito degli uomini molto anziani, erano fissi sulle cime dei pioppi che spuntavano dall’orlo della scarpata. Poi guardò oltre, giù verso la valle e poi, lentamente, distolse lo sguardo e allungò la mano verso la maniglia della portiera posteriore, ma si fermò non appena si accorse che il finestrino si stava abbassando.

La donna si girò verso il finestrino e guardò con impazienza mentre comparivano, prima un berretto militare rigido e lucido, e poi il volto di un uomo, impassibile, curato e con lo stesso aspetto rigido del berretto ma, in quel momento, rosso per la rabbia e lo stupore. La bocca si scorgeva a stento prima che parlasse, molto velocemente, ma scandendo le parole in modo secco e circospetto. “Si rende conto di avermi buttato fuori strada? Se non è in grado di gestire un cavallo, non venga a cavalcare sulla statale. Non lo sa che siamo in guerra e che per questa strada transitano …”

La donna lo aveva ascoltato intensamente, osservando le labbra, con le sopracciglia aggrottate come chi ascolta una lingua che capisce solo in parte. “Lo so che si fanno la guerra,” disse con la mano sulla maniglia della portiera. “E’ pe’ questo che ‘l dottore di qui se n’è andato. E poi era un mulo,” proseguì. “e io l’ho tenuto. Ma vi dovevo ferma’. Devo porta’ ‘l piccolo dal dottore, subito.” Aveva già un piede nell’auto e teneva il bambino sulle braccia, pronta ad adagiarlo sul sedile.

L’uomo, palesemente irritato per non aver tenuto chiusa la portiera, continuava a restare seduto accanto allo sportello, con le gambe distese a sbarrarle la strada. Le sue mani si mossero adagio, come volesse farle vedere che toccava la pistola nella lucida fondina che portava al fianco, e fece parlare la pistola, più delle sue parole inespressive e distaccate, nel dire: “Deve trovare un altro modo per portare suo figlio dal medico.” Lesto raggiunse la portiera e gli diede uno strattone cosicché lei, piegata in avanti, col pesante fagotto tra le braccia, barcollò. Batté la testa sulle ginocchia, ma riuscì a raddrizzarsi e continuò a tenere il piede nell’auto.

“Se i miei affari non fossero così urgenti,” disse lui, senza togliere la mano dalla portiera, “la farei arrestare per sabotaggio.

Vengo da …”, ebbe una leggera esitazione, “un posto importante e ho degli affari urgenti da sbrigare.” Ancora una volta, però, a parlare non era un uomo ma il berretto lucente, il cuoio lucido e la pistola. La voce dell’uomo si fece più severa quando si girò e si rivolse all’autista:

“Torna in auto e metti in moto.” Lanciò un solo sguardo verso quel

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fagotto da dove una manina abbronzata ma con le unghie bluastre, gesticolava nell’aria, sbucando dalle pieghe della coperta. Poi, dopo aver lasciato che lo sportello si spalancasse di nuovo, fu rapido nell’afferrarla e sbatterla contro la schiena della donna che si era chinata ancora a cercare il suo sguardo.

Lei si raddrizzò, mise una mano sotto la coperta, ma continuò a stare tra lo sportello e l’auto. “Mi dispiace che sei l’esercito. Di Oak Ridge, mi sa. Ma l’avrei fermato uguale.” La sua voce era calma come quella da sotto il berretto. “Mi puoi spara’ o puoi porta’ me e ‘sta creatura dal dottore più vicino.” E persino con gli scarponi da uomo, il lungo cappottone sdrucito ormai diventato verdognolo e sbottonato che lasciava intravedere un consunto grembiule azzurro con strani riquadri come se prima fosse stato qualcos’altro (dei jeans da uomo o magari una tuta con la pettorina), a testa alta e con orgoglio disse:

“Vuoi ‘l mi’ nome. Sono Gertie Nevels di Ballew, Kentucky. E ora, fammi mette’ giù ‘l mi’ bimbo sul sedile. ‘N te ne puoi anda’ via …”

L’ufficiale riaprì la portiera all’improvviso ma lei non cadde nemmeno quando gliela richiuse addosso, anche se, per evitare di cadere in avanti nella macchina e di schiacciare il bambino, si appoggiò sulle ginocchia, con i piedi che scivolavano sulla ghiaia verso l’orlo della scarpata. L’ufficiale afferrò il calcio della pistola e con voce un po’ stridula si rivolse al giovane soldato che se n’era stato immobile e in silenzio a fissare la donna: “Sali e metti in moto. Vedrai che dovrà mollare per forza.”

L’altro smise di guardare la coperta che ora era immobile. Fece il saluto e disse: “Signor sì, signore” ma restò dove si trovava, il corpo schiacciato contro l’auto, e gli occhi di nuovo sulle cime degli alberi sotto di lui.

“Fai marcia indietro sulla strada e parti,” ripeté l’ufficiale, col volto sempre più rosso e lo sguardo ostinatamente fisso davanti a sé.

“Signor sì, signore?” disse l’altro, ancora una volta, senza accennare a muoversi. Nel tono interrogativo che aveva usato per accettare l’ordine, si percepiva una leggera nota di soddisfazione.

Alzò gli occhi sull’alta figura della donna, quasi volesse condividere quel momento con lei. I loro sguardi si incrociarono, ma la preoccupazione e l’urgenza di lei non avrebbero permesso a nient’altro di trasparire dai suoi occhi.

Lei si rivolse di nuovo all’altro: “Vuoi che va’ sul burrone?” E

la sua voce era seccata e vicina a cambiare tono, come quando una

madre agitata parla a un figlio cocciuto.

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Per la prima volta, guardò oltre la donna e si rese conto che quello che aveva scambiato per un prolungamento del sottobosco e della macchia di pini, non era altro che la cima di grossi alberi al di là dell’orlo della scarpata. Distolse velocemente lo sguardo e fu lesto a scivolare sul bordo del sedile, per raggiungere la portiera opposta.

Solo una volta uscito dalla macchina e a pochi passi dall’orlo della scarpata, fu di nuovo in grado di parlare con la voce da “cuoio lucido”

e “calcio della pistola” per ordinare all’altro di fare retromarcia.

Non appena l’ufficiale si fu spostato, la donna adagiò il bambino sul sedile e rimase un momento accanto alla portiera, a guardare l’autista. Scuotendo lentamente la testa e aggrottando le sopracciglia quando lo sentì sgassare finché l’auto balzò in avanti e le ruote posteriori, con una fumata, scavarono grossi solchi sulla banchina di sabbia, disse: “Così ‘n ce la fai.” “C’hai un’accetta?”

gridò poi, più forte del rombo del motore.

Lui scosse la testa, accennando un sorriso, ma i suoi occhi tornarono subito inespressivi e seri come la sua bocca, quando l’altro gli disse di spegnere il motore. La donna raccolse una grossa pietra di arenaria, la gettò dietro una delle ruote posteriori infossate e chiese all’ufficiale: “E un cric? Con un cric la tiri su, e metti i sassi sotto a quelle ruote, e a marcia indietro ti rimetti in strada.”

“Tolga suo figlio dall’auto e vada via,” le rispose con una voce che aveva perso tutta la calma. “Probabilmente rimarremo bloccati qui fino a quando non riuscirò a trovare un carro attrezzi. Poi la farò arrestare.”

Gli lanciò un’occhiata, si aggiustò i capelli castano scuro con un braccio piegato, poi tirando su con una mano il fondo del grembiule a formare una specie di sacco, cominciò a raccogliere pietre con l’altra mano, veloce e sempre accovacciata, senza mai alzarsi o guardare in su.

Il giovane soldato, a quel punto, era smontato, ma rimase accanto all’auto schiena e spalle erette, le mani lungo i fianchi e una striscia di nastro colorato che brillava sulla scialba uniforme. La donna la guardò incuriosita, man mano che svuotava un carico di pietre accanto a una ruota. L’ufficiale lo guardò a sua volta e, con voce stridula, simile a quella di una donna su tutte le furie gli disse:

“Hatcher, non siamo a una parata militare.”

“Sissignore,” rispose l’altro, assumendo una posizione ancor

più rigida e impettita. “Tira fuori il cric,” gli ordinò l’ufficiale dopo

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aver lanciato, per una frazione di secondo, uno sguardo accigliato alla donna, riluttante a ripetere il suo suggerimento.

“Si, sbrigatevi, pe’ favore,” implorò la donna, senza smettere di raccogliere pietre, ma guardando il bambino sul sedile posteriore. Si era agitato finché la coperta non si era spostata scoprendogli il capo e mostrando una chioma scura su un visetto che, dal finestrino, sembrava pallido e giallastro, contratto dal terribile sforzo di piangere, vomitare o parlare. Proprio come la donna che correva accovacciata nel fango, anche il bambino, in difficoltà nella fatica, assomigliava più a un animale, o comunque a un essere non umano, in confronto ai due uomini vestiti in maniera impeccabile.

La donna tornò velocemente con un altro carico nel grembiule, lo gettò a terra e si rilanciò, rapida e sempre accovacciata, nella corsa lungo l’orlo della scarpata, alla ricerca di altre pietre. Il giovane soldato, nel modo a dir poco maldestro, tipico di un uomo a cui non piace né sa come portare a termine il suo incarico, aveva tirato fuori il cric e lo aveva messo nella melma sabbiosa sotto il paraurti posteriore.

“Così ‘n va,” gli disse la donna, che portava altre pietre. E mentre con una mano continuava a stringere il grembiule, con l’altra prese il cric e mise una pietra piatta dove prima c’era l’attrezzo, lo risistemò e valutò la situazione con uno sguardo. “Ora regge,” disse. Scaricò le pietre accanto alla ruota, ma continuò a stare accovacciata, stavolta per studiare i pini rimasti impigliati sotto la parte anteriore dell’auto.

L’ufficiale se ne stava in silenzio sul ciglio della strada asfaltata. Ogni tanto guardava avanti e indietro lungo la strada, e spesso guardava il suo orologio da polso ma, per lo più, il suo sguardo accigliato era fisso sull’auto. Adesso stava guardando la donna:

quando si era chinata accanto alla ruota, aveva ancora tra le mani il grembiule con le pietre. Ora, mentre si tirava su, con una mano reggeva ancora il grembiule appena svuotato ma nell’altra mano stringeva un lungo coltello, lucente, sottile e molto appuntito. L’uomo, sempre tenendola d’occhio, fece rapidamente un passo indietro riportando la mano sul calcio della pistola. La donna, senza prestare attenzione a nessuno dei due uomini, si inginocchiò davanti all’auto e, dopo aver infilato il braccio sotto di essa, con il coltello tranciò rapidamente gli alberelli che erano rimasti intrappolati, e con l’altra mano li liberò e li lanciò alle sue spalle.

Una volta finito coi rami dei pini, percorse rapidamente il

ciglio della scarpata e si precipitò al finestrino della macchina per

controllare il bambino che adesso era immobile, un braccino

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penzoloni e la mano che sfiorava il pavimento. Lo guardò solo per un istante e non si chinò in ascolto, perché nel silenzio si sentivano chiaramente i rantoli strozzati del piccolo, a breve distanza l’uno dall’altro. Di corsa, girò intorno alla macchina e si chinò sul soldato, che solo adesso stava posizionando il cric nel modo corretto.

“Muoviti,” lo implorò con il medesimo tono d’urgenza nella voce tesa, che aveva usato col mulo. “Pe’ favore, ‘n puoi fa’ più veloce? Sta a soffoca’.” Per la fretta di far appoggiare le ruote sul terreno solido, cominciò a scavare nel fango con le mani spingendo le pietre sotto la gomma, man mano che l’auto si sollevava.

In un attimo l’ufficiale gridò: “Basta così. Ora prova a ingranare la retromarcia.”

Un po’ della concitazione della donna sembrava essersi impossessata anche del soldato: si raddrizzò e lanciò uno sguardo rapido al bambino, la testa penzolava oltre il bordo del sedile, con gli occhi rovesciati, persi nel vuoto. Si voltò velocemente e si precipitò al posto di guida, senza perdere altro tempo a mettersi sull’attenti o a rispondere: “Sissignore.” La donna corse fino alla ruota posteriore che aveva scavato un solco profondo nel fango, e guardò ansiosamente mentre l’autista metteva in moto e sgassava mentre faceva retromarcia di qualche centimetro. Poi l’auto si fermò, il motore rombò, le ruote girarono, fumarono, gettando in faccia alla donna fango, pietre e rami di pino, mentre lei continuava a stare acquattata nello sforzo disperato di tenere la sterpaglia e le pietre sotto la ruota.

“Prova a farla dondolare,” disse l’ufficiale. “Fermala e poi rapido inserisci la retromarcia.”

Il soldato non disse una parola, mentre guardava il vuoto che si stendeva davanti a lui. Ora che gli arbusti di pino erano stati tagliati, il paraurti sembrava sospeso sulla valle. Alla fine si mosse qualche centimetro in avanti, ma lentamente, mentre la donna continuava a spingere pietre dietro le ruote posteriori, saltandoci sopra, sull’una e sull’altra, cercando di schiacciarle nel terreno con i suoi scarponi.

L’auto si fermò. L’autista inserì di nuovo la retromarcia. La donna aspettò in piedi tra il fianco della macchina e l’orlo della scarpata, le lunghe braccia leggermente sollevate, le grosse dita delle mani enormi ben aperte, gli occhi sul parafango posteriore, le spalle piegate in avanti come quelle di un animale raccolto su se stesso e pronto a spiccare un balzo.

Il motore rombò ancora una volta, le ruote posteriori

guadagnarono qualche altro centimetro sulle pietre e il fango, poi

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slittarono. La donna sprofondò, appiattendo i palmi induriti contro il parafango. Il corpo incurvato simile a un arco troppo teso, a causa della spinta. Gli occhi strabuzzarono, i muscoli del collo e del viso fremettero sotto la sottile pelle abbronzata, gli scarponi scavarono solchi nel fango per lo sforzo di restare immobile mentre spingeva con le mani. L’auto restò sospesa, tremò, sobbalzò, e uno dei piedi della donna cominciò a scivolare verso il ciglio.

Dopo che l’auto si fu mossa, il corpo di lei sembrò allungarsi lentamente. Le mani restarono sul paraurti finché la vettura non si fu un po’ allontanata. Cadde di traverso accanto all’orlo della scarpata e la ruota anteriore le graffiò il fianco, mentre il paraurti le sfiorò alcune ciocche dei folti capelli scuri, sfuggite dalla crocchia che portava alta sulla testa. Lei restò un momento nel fango, le ginocchia ripiegate sotto il corpo, le mani appiattite sul terreno, la testa china tra le braccia, il respiro corto e affannoso.

Sollevò la testa, la scosse come per schiarirsi la vista da una temporanea oscurità, ravviò i capelli, poi si rialzò lentamente. Ancora ansante e con un’andatura un pochino incerta, corse alla macchina che, nel frattempo, si era fermata ma era già pronta a ripartire, le ruote poggiate nuovamente sulla ghiaia compatta accanto alla strada.

Spalancò la portiera e fece per entrare ma con la goffaggine tipica di chi non è abituato alle auto, batté la testa contro il telaio della porta. Aveva appena infilato la portiera con le sue ampie spalle, lo sguardo fisso sul visetto del bambino, quando l’ufficiale, più basso di lei ma, in compenso, molto più avvezzo alle auto, aprì la portiera dal suo lato, si chinò all’interno e cercò di sollevare il bambino. Era più pesante di quanto aveva pensato e così, invece di sollevarlo, lo tirò a sé con una rapida mossa attraverso il sedile e poi fuori dalla portiera, una mano sulle spalle, e sempre tenendolo a distanza di sicurezza come se fosse stato un animale sporco e rognoso.

La donna provò a strapparglielo dalle mani ma riuscì ad

afferrare solo la coperta. Cercò di saltare in macchina, tuttavia restò

impigliata nella lunga coda del cappotto troppo largo col piede, perciò

restò accovacciata per un istante, intrappolata, incapace di rialzarsi. I

lunghi capelli, sporchi di fango, le erano caduti sul viso e si

intravedevano gli occhi grandi, increduli, mentre l’uomo, tirandosi su

dopo aver messo il bambino sulla strada a pochi passi dalla macchina,

disse: “Ci ha aiutato a riparare a un po’ dei danni che lei stessa ha

causato …” trasse rapidamente un profondo respiro, “Ma non ho

tempo per dare passaggi. Faccio parte dell’esercito e sono in viaggio

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per affari urgenti. Se deve venire con me, lascerà il bambino sulla strada. Non sta poi così male,” continuò, mettendo il piede oltre la portiera, anche se la donna, ancora rannicchiata, cercava con forza di aprire l’altra portiera. “Sembra piuttosto in forze, scalcia a destra e a manca,” dopodiché si rivolse all’autista, con calma stavolta, senza traccia d’isteria nella voce: “Vai.”

La donna lanciò un rapido sguardo indagatore all’autista e vide le spalle rigide e il viso rivolto davanti a sé, come fosse un tutt’uno con l’auto e potesse avviarsi o fermarsi al comando dell’altro.

L’automobile si mosse lentamente; l’ufficiale ormai era dentro, una mano sullo schienale del sedile anteriore, l’altra a chiudere la portiera.

Dalla sua posizione accovacciata, la donna si lanciò in macchina con i palmi delle mani aperti e distesi davanti a sé, come quando si era lanciata contro il parafango. Con una mano artigliò il polso dell’ometto sopra la pistola, con l’altra gli afferrò la spalla, in alto vicino al collo e, dato che era ancora intrappolata nel cappotto, non riuscì a colpirlo, ma gli si aggrappò addosso.

Lui per poco non cadde in strada: restò mezzo seduto, con un piede sollevato sul bambino. Lei non gli badò, ma cercò piuttosto di raggiungere il piccolo attraverso la portiera dell’auto e, quasi senza fiato, gemette: “’N lo vedi che la mi’ creatura sta a soffoca’? Lo devo porta’ da un dottore.”

Una delle manine del bambino si mosse alla cieca e colpì debolmente la coperta togliendola dal viso. Lei emise un verso strozzato, la voce stridula, rotta, come se la tensione e la calma che l’avevano accompagnata dalla cavalcata sul mulo all’intero episodio dell’auto, l’avessero abbandonata.

“Amos, Amos. Sono mammina. Amos, tesoro, mi senti?”

Adesso mormorava, un mormorio più simile a una domanda, mentre la testa del bambino le ciondolava sul braccio. Gli occhi erano roteati indietro tant’è che il bianco risaltava sul volto viola scuro, mentre muco e saliva gli gocciolavano dalle labbra gonfie e bluastre.

Gli mise rapidamente un dito in gola facendogli rigettare muco giallastro e vomito maleodorante. Lui fece un debole respiro che però non andò oltre la sua gola ostruita. Allora gli soffiò in bocca, lo scosse, lo girò, continuando a chiamarlo piano, la voce solo un mormorio: “Amos, Amos?”

L’autista, che quando lei aveva spinto l’altro fuori dall’auto era balzato in piedi, adesso se ne stava immobile, fissando il bambino.

Con le mani reggeva l’uomo più anziano per il gomito, sebbene

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quest’ultimo si fosse già rialzato raddrizzandosi il berretto. Per la prima volta guardò il bambino davvero. “Lo tenga per i talloni e lo scuota – lo colpisca sulla schiena,” le disse il giovane soldato.

“Si, lo tenga per i talloni,” ripeté l’altro. “Qualunque cosa lo stia soffocando, verrà fuori.” E adesso sembrava più un uomo che un soldato, preoccupato e al tempo stesso disgustato dal bambino malato.

La donna si guardava intorno, mentre con rapidi movimenti convulsi, scuoteva il bambino che teneva fra le braccia. “E’ ‘na malattia,” disse. “’N c’è gnente da scuote’ pe’ sputa’.” Finalmente vide ciò che evidentemente stava cercando. Qualche metro più avanti, sulla strada, c’era una grossa lastra di arenaria, liscia, simile a un piccolo portico sospeso sulla valle. Corse ad adagiare il piccolo sulla pietra, supplicando gli uomini: “Aiutatemi, aiutatemi.” Allo stesso tempo sbottonò il maglione di cotone azzurro del piccolo e poi anche la camicia, lo adagiò sulla pietra come fosse stato un cadavere.

“Portatemi un sasso,” disse sopra la spalla, “uno piatto, pe’ farci da guanciale.”

Il giovane soldato la osservò a bocca aperta, si guardò intorno e, alla fine, raccolse un sasso quasi quadrato. Lei lo fece scivolare più su, sotto le spalle del bambino, in modo che il collo gonfio si arcuasse verso l’alto, e restasse ben teso grazie al peso della testa, ricaduta all’indietro.

“Aiutami,” ripeté al giovane soldato. “Hai da stringergli forte la testa.” Sollevò il viso verso l’altro uomo, che si era fermato a qualche passo di distanza e che adesso la fissava, sconcertato, ma non più spaventato. “Tu tienigli fermi le mani e i piedi.” Riabbassò lo sguardo su quella faccia gonfia e bluastra e, con una carezza, gli tolse i capelli castano scuro dalla fronte alta e spaziosa tanto simile alla sua.“’N può resiste’ ancora pe’ tanto, credo. Mi sa che ormai ‘n sente più gnente.” C’era una tale disperazione nella sua voce che l’ufficiale le lanciò uno sguardo acuto, soppesandola come se pensasse che potesse essere pazza.

E disse: “Non sarebbe meglio portarlo subito dal dottore più vicino? Non è mica, voglio dire, c’è ancora il battito, no?”

Prese in considerazione l’idea, annuendo col capo un po’ come qualcuno che s’intende di certe cose, poi gli rispose:“Quand’ero laggiù ho continuato a provarci a sentirlo. ‘N ci riuscivo sul mulo. Ma, ora come ora, ‘l cuore ‘n va bene.” Lo guardò e disse in un bisbiglio:

“Ho veduto creature mori’. Lui respira a malapena,” poi riabbassò lo

sguardo sul bambino. “Tenetegli fermi mani e piedi; ‘n serve prende’

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e anda’ dal dottore; la guerra s’è pigliata ‘l più vicino; ‘l prossimo sarà a ‘na ventina di chilometri da qui – e ci sta pure che ‘n c’è nello studio.”

“Oh,” disse soltanto l’ufficiale e, con esitazione, attirò più vicino a sé il bambino, chinandosi su di lui, ma senza accennare a toccarlo.

“Tenetelo fermo,” ripeté la donna, “specialmente le mani.” La sua voce era di nuovo un mormorio teso, ma attraversato da un brivido, come se avesse molto freddo. Anche il suo viso appariva freddo e bluastro, proprio come quello del bambino. Ogni traccia di colore era scomparsa, era rimasta la pelle scurita dagli agenti atmosferici degli alti zigomi, naso e mento pronunciati, come una maschera di lentiggini scure dipinta su un volto freddo e spaventato, con occhi grandi e altrettanto spaventati. Guardò di nuovo il bambino, che adesso lottava debolmente, emettendo bruschi rantoli. Con lo sguardo e i pensieri rivolti unicamente a lui, le sembrava di essere rimasta da sola di fianco alla pietra inclinata, con la foschia che ricopriva la valle più in basso e i piccoli pini resi scuri dalla nebbia che, come una parete, la separavano dalla strada. Gli toccò la fronte sussurrando: “Amos, ‘n permetterò alla guerra di portarti via anche te.” Poi il suo sguardo fu sul collo esposto sopra il cuscino pietroso, e da lì non si spostò più, mentre ripeteva: “Adesso tenetelo immobile.”

L’uomo più anziano, con l’aria di uno che sta assecondando un essere sciocco e incapace, prese tra una delle sue mani quelle del bambino e mise l’altra sulle sue caviglie. Il giovane soldato, che teneva ferma la testa del bambino, improvvisamente, trattenne il respiro per lo stupore, ma l’altro, che aveva gli occhi fissi sulle ginocchia rattoppate della salopette, non si accorse di niente fino a quando non alzò lo sguardo. In quel momento vide che il lungo coltello lucente si stava allontanando rapidamente dal collo rigonfio, lasciandosi dietro una linea sottile che, in un primo momento, non aveva l’aspetto di un taglio, pareva a malapena un segno, ma poi il sangue iniziò a gocciolare ingrossando e distorcendo la linea.

La donna non distolse lo sguardo da quella linea rossa, ma

rimase immobile come fosse di pietra. Non emise un fiato, il viso

congelato, le labbra esangui, strette in una linea sottile. Le larghe

gocce di sudore che le imperlavano la fronte, restarono ferme,

sospese, mentre si chinava sul bambino. L’ufficiale gridò: “Non può

farlo! Lo sta – lo sta uccidendo. Non può farlo!”

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Quelle parole avrebbero potuto essere vento che agitava la nebbia nella valle, tanto non lo stava ascoltando. Le dita della mano sinistra si mossero rapidamente sulla pelle lacerata, tastando, separando la carne fra il pollice e l’indice, formando una piccola bocca rossa che ghignava dal collo del bambino. “Per favore,” l’uomo stava supplicando, la voce strozzata dalla nausea.

Il coltello si mosse ancora e, nel silenzio, giunse un fischio lieve. Una bolla rossa, striata di pus, fuoriuscì dalla ferita gocciolante, come una sottile pellicola; si gonfiò e scoppiò. Il bambino si dibatté e proruppe in un grido rauco e sibilante, quasi animalesco. La donna ripulì con una mano la lama del coltello sulla tomaia della scarpa, mentre con l’altra mano sollevava un po’ di più il collo del bambino.

Dopodiché, col gesto rapido di una sola mano, richiuse il coltello e lo rimise in tasca, tirandone fuori un fazzoletto pulito ripiegato.

Con movimenti delicati ma veloci, ripulì il grosso buco dal sangue e dal pus, sussurrando al bambino che continuava a dibattersi e a emettere le sue grida rauche e sibilanti, quasi animalesche:

“Risparmia ‘l fiato, tesoro; ‘sto taglietto ‘n ci fa gnente a un ragazzone come te di quasi quattro anni.” Parlava a voce bassa e convulsa, come qualcuno che avesse fatto una lunga corsa o sollevato un carico pesante, e non fosse in grado di proferir parola per il fiatone. Stese il fazzoletto e, con la mano libera, si tolse una forcina dai capelli raccolti sulla nuca. La pulì sul fazzoletto, dopodiché ne inserì l’estremità ricurva nel taglio. Lentamente, continuando a guardare il foro con attenzione, tirò via la mano da sotto il collo del bambino e, per tutto il tempo, tenne aperto il foro con la forcina.

Il giovane soldato, che non aveva mai abbandonato la presa sulla testa del bambino, trasse un lungo respiro tremante e guardò la donna con ammirazione, cercando i suoi occhi, ma visto che erano fissi sul bambino, guardò l’ufficiale e, subito, proruppe in un bisbiglio irato: “Oh Signore!”

La donna si guardò intorno e vide l’ufficiale, il quale, nel frattempo, aveva perso i sensi ed era crollato come un mucchio di stracci con la testa sui piedi di Amos e una mano che ancora stringeva quelle del bambino. “E’ un coniglio,” disse, tornando a guardare il bambino poi proseguì, rivolta oltre la spalla: “Faresti meglio a farlo distende’ e a sbottona’ ‘l colletto – e c’ha i vestiti troppo stretti. Va pure, posso cavarmela da sola.”

Il giovane soldato si alzò con una specie di sorrisetto

misterioso e compiaciuto, e la donna, distogliendo per un momento

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l’attenzione dal bambino, lo guardò a disagio “’N lo fa’ mica rotola’

giù dal dirupo!”

“No?” rispose l’altro, sorridendo ad Amos, che adesso respirava, rapidamente e con voce roca, ma respirava, e la sua faccia non era più di un colore scuro e bluastro. Il soldato guardò oltre l’ufficiale accasciato sulla pietra, giù nell’ampia vallata, e poi di nuovo su, dall’altra parte delle fila di colline che, a tratti, si aprivano un varco tra i brandelli e i banchi di nebbia bassi sopra di esse, mostrando altri luoghi nascosti, tanto che le basse colline, tra la nebbia, sembravano vaste e misteriose, come montagne che s’innalzavano oltre le nuvole. Indicò le colline e disse: “Scommetto che è bello andare a caccia lassù.”

La donna annuì senza alzare lo sguardo. “Molto bello. Ora però ‘n ci è più rimasto manco un ‘omo capace di tene’ in mano un fucile o di star a senti’ un cane da caccia.”

“Dov’è” aveva iniziato a dire il soldato, ma poi si fermò poiché l’ufficiale stava lentamente sollevando il capo e, improvvisamente, fu come se l’altro non avesse mai guardato le colline o parlato con lei.

Raddrizzò le spalle, si sistemò il cappotto, e indugiò un attimo ancora con lo sguardo. Mentre l’ufficiale continuava a sollevare la testa, gli si avvicinò e, dopo una breve esitazione e una rapida occhiata a Gertie, mise le mani sotto le braccia dell’uomo più anziano e gli si parò davanti affinché l’ufficiale si trovasse tra lui e l’orlo della scarpata.

La donna lanciò ai due una rapida occhiata preoccupata. “Fate attenzione: siete in alto lì.”

“Sto abbastanza bene,” disse l’ufficiale scansando le mani dell’altro. Alzò il viso dal colorito verdognolo e gli occhi lacrimosi, che adesso non somigliava più a quello di un soldato, ma soltanto a quello di un vecchio. “Come sta il piccolo?” domandò, rialzandosi lentamente.

“Respira,” gli rispose la donna.

“Lei ha fatto qualcosa che molti dottori non avrebbero il coraggio di fare senza una sala operatoria o roba del genere,” disse.

All’improvviso, tutta la sua fretta era in qualche modo sparita. L’altro gli aveva restituito il berretto, ma lui non se lo mise: se ne stava là, col cappello in mano, a guardare la donna come se avesse voluto dirle qualcosa senza riuscirci.

Lei tamponava il sangue, il muco e il pus che sgorgavano dal

foro. “Se ‘sta roba gli scende nella trachea e nei polmoni, le cose si

metton male,” disse più parlando fra sé e sé che non ai due uomini.

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“’Na pecora si può piglia’ la pormonite se gli va l’acqua nei polmoni quando la bagni.”

Si guardò intorno, prima verso i pini nani, le cime dei pioppi e delle piante di nyssa sylvatica che spuntavano dall’orlo della scarpata, e poi verso la strada, come se stesse cercando qualcosa. “Una volta ho salvato ‘na mucca che stava a soffoca’. Ci ho messo un pezzo di canna di bambù nella trachea.”

“Ma di cosa si tratta?” le domandò lui, facendo attenzione a non guardare il bambino. “Non sembra un semplice soffocamento.”

“È …” Si passò il braccio sulla fronte tirandosi indietro i capelli legati. “’N me lo rammento come la chiamano adesso; ma una volta la chiamavano laringite difterica membranosa. All’inizio credevo che era solo ‘na semplice laringite, ‘na bella forte: l’aveva già avuta prima. Ma poi zia Sue Annie è venuta a trovarci e mi ha detto che per posta aveva saputo che la sera prima ‘l bambino di Mealie Sexton era morto. Pensavamo che c’avesse la laringite dopo che era venuta a trovare la mi’ mamma arrivata da Cincinnati, … erano venuti insieme, lui e ‘l bambino di lei.” Guardò il giovane soldato che se ne stava in un rispettoso silenzio qualche passo dietro all’altro. “Puoi guardarmelo un momento e tenergli ‘sto foro aperto, pe’ favore? Devo anda’ a cerca’ qualcosa da infilarci. Mi ci vuole solo un attimo. Ci sta un pioppetto giusto di là dalla strada.”

Lui guardò l’ufficiale un momento, come a chiedergli il permesso, ma quest’ultimo si era girato dall’altra parte, sul viso di nuovo il colorito verdognolo e l’aria di voler vomitare; dopo un attimo di esitazione, il giovane si avvicinò con un fazzoletto fresco di bucato, prese la forcina e si sistemò al posto della donna accanto al bambino.

Lei attraversò la strada con passo spedito, raggiunse il pioppo e, con un colpo rapido, incise un rametto dello spessore del suo dito medio;

tagliò ancora una volta. Il rametto con foglie di un giallo uniforme,

senza alcuna screziatura rossa o marrone, si staccò. Poi, lavorando

mentre riattraversava la strada, rimosse la corteccia grigia che lo

ricopriva tutto, senza perdere di vista il bambino fra un colpetto di

coltello e l’altro. Aveva ormai riattraversato la strada quando, col

coltello ancora sollevato, si fermò a guardare un cartello rosso affisso

a un pino piuttosto grosso, che recava una scritta a caratteri neri. La

maggior parte dei caratteri era piccola, ma le parole UOMINI,

DONNE, IMPIANTO WILLOW RUN, ZIO SAM, ALLOGGI, erano

abbastanza grandi perché gli autisti di passaggio potessero leggerle

con chiarezza. Il coltello si alzò e si abbatté sul cartello con un lungo

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fendente. Quest’ultimo cadde a terra e lei riprese a camminare, il coltello che adesso praticava con destrezza delle incisioni curve sul legno per aprire un foro sull’estremità del bastoncino.

“Non avrebbe dovuto farlo,” le disse l’uomo più anziano, indicando col mento il cartello ai piedi del pino. “Hanno un disperato bisogno di lavoratori … quasi quanto di soldati.”

Lei annuì, lanciando un’altra occhiata al bambino. “Ma nel nostro paesino ‘n ci sta più nessuno che posson piglia’,” gli rispose.

“Suo marito è nell’esercito?” le chiese.

Lei scosse il capo: “Ci mancan ancora tre settimane alla visita medica.”

“Lavora in fabbrica?”

“Porta ‘l carbone col camioncino ... quando riesce a trova’ la benzina … e se i minatori riescon ad ave’ la dinamite e i caschi protettivi e tutta la roba che serve pe’ lavora’ in miniera.”

“Le miniere più grandi sono quelle più efficienti,” disse lui.

“Hanno dannatamente bisogno di materiali.”

“Gli unici minatori che c’han rimasti son due storpi e un vecchio.”

“Ma in queste piccole miniere – le ho viste lungo la strada – un bravo minatore sarebbe uno spreco di forza lavoro perché lavorerebbe senza macchinari,” le disse.

Lei esaminò il taglio sul collo del figlio, si mise in ascolto e, nell’udire il respiro rapido e sibilante, si accigliò. Alla fine annuì alle parole dell’uomo, ma controvoglia, come se le avesse già ascoltate molte volte ma non potesse o non volesse capirle, e sul viso aveva dipinta un’espressione impassibile mentre spostava lo sguardo dal coltello che lavorava il legno morbido, al figlio, e viceversa.

“E’ come per i coltivatori,” continuò l’ufficiale con un leggero rammarico nella voce mentre guardava il bambino che aveva ricominciato ad agitarsi, cosicché il soldato più giovane dovette posare il fazzoletto e trattenergli le mani, la fronte coperta di sudore per lo sforzo di tenergli ferma la forcina nella trachea. “Non possono esentare ogni piccolo coltivatore che ha poco da vendere. Un uomo deve produrre in gran quantità ciò di cui il Paese ha bisogno.”

Stavolta lei non annuì ma, al contrario, serrò le labbra così

strette che la bocca diventò una pallida linea sottile sotto il lungo

labbro superiore e il naso pronunciato, come quando aveva praticato

l’incisione sul collo del bambino. “In tutto ‘l paesino ‘n c’era un solo

coltivatore grande abbastanza,” rispose lei in tono basso e cupo.

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“Ha qualche parente nelle forze armate?” le chiese con una leggera disapprovazione nella voce.

“Ormai solo cuggini e parenti acquistati e roba simile.”

“Ormai?”

“Da ier mattina … fino a quel momento c’avevo un fratello.”

“Oh.” Il tono nella sua voce era cambiato, adesso carico di un’adeguata dose di tristezza. “Auguriamoci che sia soltanto disperso e che …”

“Jesse … ‘l fratello dell’omo mio ... è lui quello ch’è disperso.

Del mi’ fratello il telegramma diceva ‘Cascato in combattimento.’” Il coltello era immobile adesso e lei sedette un istante con lo sguardo fisso sulle colline senza vederle mentre, con voce atona, ripeteva adagio: “Cascato in combattimento.” Poi, con la medesima voce atona, quasi parlando tra sé e sé, disse: “’Ste foglie qui eran verde quando l’han pigliato … lui aveva impiantato ‘l su’ granturco. Certe piantine ha fatto a tempo a vederle germoglia’.”

“Era un coltivatore?” le domandò l’uomo.

Il coltello ricominciò a incidere il legno mentre lei rispondeva:

“Uno di quei piccoli coltivatori che si parlava prima.” Aggredì il legno con rapidi colpetti netti, creando un foro sul rametto del pioppo.

L’uomo osservava rigido, a disagio, cercando di non guardare né il bambino né il volto della donna e, infine, disse: “Lei è davvero molto abile col coltello.”

“Scarpello da sempre.”

“Che cosa?”

“Be’, manici.”

“Manici?”

Lei abbassò lo sguardo sulla mano che stringeva il ramo di pioppo, il dorso abbronzato e grinzoso, le unghie nere e irregolari, poi il palmo liscio, simile al cuoio ingiallito. Era come se quella mano fosse una pagina di nomi in rilievo mentre, con lo sguardo ora posato sul ramo del pioppo, replicava: “Manici di zappe, seghe, asce, falci, scope, aratri, sarchi, pestelli delle zangole, martelli, tutti i tipi di manici ... ci voglion un mucchio di manici. Certe volte li faccio pe’ i vicini.”

L’uomo restò in silenzio, gli occhi fissi sulle mani della donna.

“Manici,” ripeté alla fine. “Non sembra molto divertente fare manici.”

Il viso di lei si addolcì per un attimo e, mentre sollevava lo

sguardo, quell’espressione di odio che aveva avuto negli occhi era

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scomparsa. “’N c’ho mai avuto molto tempo pe’ scarpella’

sciocchezze. Oh be’, a parte le bambole. Cassie, la mi’ piccolina, lei va matta pe’ le bambole che scarpello, ma appena ho sistemato tutto ho intenzione di lavora’ un pezzo di legno di ciliegio che c’ho io. È abbastanza grande pe’ la testa e le spalle d’un omone. Se solo …” La sua voce si era abbassata ed era tornata vaga come se stesse parlando tra sé. “Se solo riesco a trova’ la faccia giusta” disse. Guardò il soldato che lottava per tenere le mani del bambino lontane dal collo.

“Resisti ancora un minutino. Ho quasi finito con ‘sto foro.”

L’uomo più anziano si alzò in piedi di modo che, se guardava fisso davanti a sé, riusciva a vedere la donna ma non il bambino. “Che tipo di faccia?” le chiese.

Lei scrollò via i trucioli dal foro che rapidamente si faceva più profondo e iniziò a lavorare l’altra estremità. “’N lo so. Pensavo a Cristo … però, in un certo senso, la faccia ‘n è mai chiara o che so io.

Forse qualcun altro … mi piaceva il vecchio Amos, oppure anche Ecclesiaste o Giuda.”

“Giuda?!” Le lanciò uno sguardo pungente, quasi sospettoso.

La donna guardò di nuovo il bambino e poi, mentre teneva gli occhi sulla lama del coltello, fece un cenno affermativo e riprese a parlare: “Mica ‘l Giuda con la bava alla bocca e la mano protesa pe’

piglia’ l’argento, ma ‘l Giuda che li butta quei trenta denari.” E dopo aver soffiato via i trucioli dal foro, proseguì: “Penso che c’è tanta gente che fa brutte cose pe’ i soldi … come Giuda.” Teneva gli occhi fissi sul pioppo mentre parlava. “Ma ‘n c’è n’è molta che poi, come lui, li butta via e si pente pe’ averli pigliati.”

Guardò verso il bambino e incrociò lo sguardo del soldato più giovane … vi lesse approvazione … ma lui rimase in silenzio dato che, nel frattempo, l’altro aveva ripreso a parlare: “Sembra che lei sia un’esperta della Bibbia.”

Scosse il capo: “La Bibbia è più o meno l’unica cosa ch’ho mai letto … quand’ero ‘na ragazzina la mi’ mamma era molto malata e papa’ s’era ferito ‘na gamba mentre tagliava la legna. Lo dovevo aiuta’, perciò ‘n ho mai ricevuto ‘na grande istruzione fuorché quella che m’ha dato lui.”

“E lui le ha fatto studiare la Bibbia?”

“M’ha fatto impara’ cose a memoria come si faceva ai vecchi

tempi … la poesia e la Costituzione e un mucchio di Bibbia.” Si alzò e

si avviò verso il bambino senza smettere di intagliare. Torreggiando

su di lui, lavorò con alacrità finché non fu pienamente soddisfatta del

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foro sul tubicino di legno, poi, con l’abilità e la delicatezza usate nel lavorarlo, lo inserì nel collo del bambino. Dopo avvolse rapidamente il piccolo nella coperta e si diresse in fretta all’automobile senza guardare nessuno dei due uomini.

L’ufficiale si rincantucciò in un angolo, il più lontano possibile dalla donna e dal bambino. Sedeva rigido, cercando di mascherare il disgusto per quella grossa donna che insudiciava la macchina immacolata e, allo stesso tempo, di non guardare il bambino, e non dar a vedere che il pianto disumano o il gorgoglio che emetteva a ogni respiro lo nauseavano, come pure la vista del tubicino di legno che, a più riprese, s’imperlava di pus e di muco sanguinolento.

Lei se n’era accorta e, provando a farsi piccola piccola, sedeva coi piedi infangati immobili vicino alla portiera, le ampie spalle curve sul bambino e leggermente piegate da un lato. L’autista teneva lo sguardo fisso sulla strada. La donna guardava per lo più il tubicino di legno. L’ufficiale guardava prima da un lato della strada e poi dall’altro, senza riuscire a tenere lo sguardo lontano dal bambino.

La strada lasciò gli alti crinali coperti di pini e seguì il corso sinuoso di un fiume, giù fino alla valle del Cumberland. Sopra di loro, sulla spalla del crinale, si stendeva una piccola radura in pendenza: un tozzo appezzamento di terra vergine coltivato solo a metà che non sembrava avere più di un anno. Perfino nel crepuscolo piovoso Gertie poteva vedere i germogli senza foglie che circondavano i ceppi di quercia bianca, e quanto fossero piccole le biche di fieno … certamente frutto del lavoro di una donna. Addossata al fianco della collina e sorretta da lunghi sostegni anteriori simili a pali, c’era una casetta di tavole di legno coperta da un tetto di carta catramata. I polli si stavano appollaiando su una sanguinella tutta storta vicino all’uscio, e un bambino dai capelli chiarissimi passò intorno alla casa incespicando sotto il peso della legna da ardere che stringeva tra le braccia, mentre sui gradini dell’alto portico, altri due bambini, uno troppo piccolo per camminare, giocavano con un cane pezzato.

Sebbene si trovasse sul lato della donna, la guardarono entrambi: era la prima casa che incontravano dopo chilometri e chilometri di Cumberland National Forest. Poi ambedue videro lo stendardo dell’esercito con la stella blu appeso alla finestra di fronte, accanto alla porta.

“Cosa si coltiva da queste parti?” chiese l’ufficiale, più per coprire il respiro del bambino che per un interesse genuino.

“Un po’ di tutto.”

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“Ma cosa si coltiva di più?” insistette.

“Creature,” gli rispose, stringendo le mani del bambino che continuavano a vagare verso il foro nel collo. “Creature pe’ le guerre e le fabbriche.”

L’uomo girò la testa di scatto come se non volesse ascoltare altro ma, quasi subito, il suo sguardo saettò riluttante sul viso del bambino dove il colorito bluastro era diminuito e gli occhi, ora meno sporgenti, mostravano il loro colore scuro attraverso le palpebre semiaperte. “Suo figlio deve andare in ospedale,” le disse mantenendo lo sguardo fisso sul finestrino. “Sarà meglio che viaggi con noi finché non ne troviamo uno.”

“’L più vicino che lo prende con ‘na malattia come ‘sta qua, forse è ‘l Lexigton … ma ci mancan ancora cento chilometri, a occhio e croce,” disse asciugando un filo di saliva giallognola all’angolo della bocca del piccolo. “C’ha bisogno di medicine apposta, come quelle che ti dan pe’ ‘sta roba ... ‘n si può aspetta’: gli servon subito.”

“Ha bisogno di ossigeno,” ritorse l’uomo. Cadde di nuovo il silenzio e, ancora una volta, il respiro tormentato del bambino fu l’unico suono a riempire la quiete della macchina. “Lei coltiva qualcosa?” continuò a voce alta l’ufficiale, nel disperato tentativo di coprire con la voce i versi del piccolo.

“Un po’.”

“Pensavo che su queste colline ogni famiglia avesse un piccolo appezzamento, una mucca o altro, e qualche pecora.”

La donna si girò a guardarlo, un’espressione interrogativa nei pacati occhi grigi. Scosse il capo lentamente. “Mica tutti ce l’han la terra.”

“Pensavo che lei l’avesse.”

Scosse di nuovo il capo con una lentezza che avrebbe potuto essere stanchezza: “Siam in affitto,” disse. “Nella proprietà del vecchio John Ballew; si fa mezzo e mezzo.” Dopo un breve attimo di esitazione proseguì adagio, a voce bassa, come se non fosse sicura delle proprie parole. “Pe’ adesso è così; ma vogliam … ci vogliam compra’ un posto … tutto pe’ noi.”

“Che bello,” le rispose, sempre a voce alta, lanciando un’occhiata al bambino. “Un posto per lei e i bambini mentre suo marito è in servizio.”

“Già” rispose, nello sguardo tormentato la stessa luce calda che

aveva avuto mentre parlava del ceppo di legno: “Silas Tipton è andato

con la su’ famiglia a Muncie pe’ lavora’ in fabbrica. Voleva con sé la

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su’ moglie e le su’ creature, quindi ha venduto la proprietà. È proprio bella … antica, con ‘na lunga casa … grande e costruita bene come si faceva ‘na volta. L’ha venduta al vecchio John Ballew pe’ averci i soldi pe’ trasferirsi. Ma ‘l vecchio John ‘n la vuole: i su’ ragazzi son andati via tutti.”

Lui assentì col capo. “E così la comprerà lei; e coltiverà la terra mentre suo marito è via.”

“Si,” disse lei con maggior sicurezza, come se fossero bastate quelle parole a rendere la terra davvero sua. “’l mi’ ragazzo più grande, Reuben, c’ha dodici anni,” c’era di nuovo calore nel suo sguardo. “Gli piace lavora’ in fattoria ed è molto bravo.”

“A lei piace coltivare,” disse lui. Non era una domanda. Le guardò le spalle ampie e i polsi muscolosi che spuntavano dalle maniche troppo corte del cappotto.

Annuì e disse: “Lavoro nei campi da sempre. Papà c’aveva ‘na grossa fattoria … io gli aiutavo fin da ragazzina. Mi’ fratello è …”

s’interruppe, poi riprese a parlare, ma la voce le uscì impastata: “più giovane di me.”

Dopo un breve tratto su strada pianeggiante, ricominciarono a scendere, e il buio tipico di un autunno piovoso calò su di loro, come un uccello che si posa a terra. C’era una serie di brusche curve in discesa dove i dirupi calcarei gocciolanti di pioggia sopra le loro teste rimandavano l’eco del clacson dell’automobile e, sotto di loro, si stendeva una stretta pianura scura punteggiata di luci. Più in alto, da qualche parte tra le pareti calcaree, si udì il fischio di un treno. Il bambino trasalì a quello strano rumore, e la madre gli sussurrò: “’N ave’ paura, tesoro.”

Sulla strada bassa, nel paesino lungo il Cumberland, le finestre illuminate delle case erano quadrati di luce dietro le ombre degli alberi gocciolanti, ormai privi di foglie. Poi scorsero i marciapiedi con le vetrine dei negozi illuminate, e l’autista rallentò guardando prima da una parte e poi dall’altra. La donna osservò le vetrine piene di una varietà di oggetti diversi e notò che sopra ognuna di esse erano incollati volantini bianchi, rossi, azzurri o gialli, con i ritratti dello Zio Sam, di soldati, marinai, avieri e belle soldatesse dalle pettinature curate; ma tutti quei volantini recavano le stesse parole a grandi caratteri neri che aveva già visto sul cartello rosso affisso al pino:

“DONA ALLA CROCE ROSSA – UNISCITI AL SAF – DONA IL

SANGUE – LAVORA A WILLOW RUN.”

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L’auto si fermò nel fiotto di luce di un’ampia vetrina, mentre più in alto, sulla strada, altre luci rendevano scintillanti i marciapiedi umidi di pioggia e ricoperti di foglie che si stendevano su ambo i lati della via. La donna, forse non abituata a tanto scintillio, strizzò gli occhi e girò la testa avvolgendo la coperta più stretta intorno al figlio.

“Un momento,” disse l’ufficiale. “Hatcher, assicurati che qua vicino ci sia lo studio di un medico e che lui sia di turno.”

La donna osservò il soldato attraversare la strada, poi lanciò un’occhiata all’ufficiale che, intento ad abbassare il vetro, guardava fuori dal finestrino. Qualcuno aveva aperto una porta, e da lì giunse un’esplosione di musica da jukebox. Lo sguardo della donna si spostò nella direzione di quel suono, un accenno d’interesse infantile dipinto negli occhi tormentati che, quasi subito, tornarono sulla nuca dell’ufficiale e, senza distogliere lo sguardo da lui, si sistemò il bambino nell’incavo di un braccio mentre, con l’altra mano, rapida e furtiva, iniziava a frugare nella tasca del cappotto fin dentro la fodera.

L’uomo si voltò a guardarla per un attimo, in quel suo modo brusco e impaziente, e la mano le si bloccò all’istante, riprendendo la sua ricerca soltanto quando lui tornò a girarsi dall’altra parte.

La mano si bloccò ancora una volta non appena il soldato più giovane aprì la portiera e disse: “Il dottore è nel suo studio, sull’altro lato della strada.”

La donna esitò mentre si spostava verso la portiera aperta, ma guardando l’ufficiale, adagio, tirò fuori dal fondo del cappotto la mano chiusa a pugno. Arrossì quando l’aprì mostrando una banconota logora e tutta stropicciata. “Voglio paga’ pel passaggio,” disse, “ma ‘n c’ho spicci.”

L’ufficiale guardò la banconota da cinque dollari spiegazzata e arrossì per la sorpresa e il disgusto. “Non avevo certo intenzione di farla pagare,” disse fissando la banconota talmente logora e spiegazzata che il cinque si leggeva a malapena.

“Ma io voglio paga’,”disse lei toccandogli la mano col denaro.

Lo prese velocemente come se all’improvviso avesse cambiato idea. “Le do il resto” le disse e, voltandole le spalle, tirò fuori il portafoglio; ma fu soltanto quando lei uscì dall’auto che le mise in mano alcune banconote ben ripiegate e le disse: “Credo che un dollaro sia più che sufficiente.” Dopodiché aggiunse: “Buona fortuna.

Hatcher, aiutala ad attraversare la strada.”

“’N c’è bisogno,” rispose lei, infilando il denaro nella tasca del

grembiule.

(23)

Il giovane soldato fu lesto nel chinarsi a raccogliere un oggettino scintillante caduto dalla coperta del bambino. Lo diede alla donna mentre attraversavano la statale. “La conservi per il piccolo,” le disse. “Stelle come questa sono piuttosto rare.”

“Oh,” disse lei. “È la stella di quell’omo … ‘N volevo strapparla. Farai bene a ridargliela; qualcuno gli può fa’ passa’ dei guai pe’ averla persa. Ho sentito che son molto severi coi soldati se ‘n c’han i vestiti a posto.”

“Non con quelli come lui,” le rispose l’altro. Avevano ormai percorso un bel tratto sul marciapiede, quando l’uomo le indicò una porta illuminata a qualche metro di distanza dalla strada. “Ecco lo studio del dottore,” le disse.

Lei guardò timidamente verso la porta. “’N ci son mai stata da un dottore. Era ‘l mi’ marito, Clovis, che ci portava le creature le poche volte che Sue Annie ‘n riusciva a curarle.”

Lui, sbalordito, sgranò gli occhi vacui e inespressivi. “Signora,

non c’è nulla che lei non possa affrontare. Entri e basta.”

(24)

DUE

ENTRÒ IN UN piccolo vestibolo quadrato e, per un momento, rimase ferma davanti alle due porte chiuse. Dopo un attimo di indecisione, aprì quella che le sembrava la più usata. Entrò nella stanza al di là della porta ma si fermò bruscamente, accecata dall’insolita illuminazione e vagamente consapevole del fatto che tutte le persone che affollavano la stanza, alcune sedute su sedie, altre su divanetti, altre ancora in piedi appoggiate alle pareti, al suo ingresso le avevano puntato gli occhi addosso. Tutti quanti le lanciavano occhiate furtive e interessate, tipiche di chi è stato per troppo tempo confinato in una stanza con i propri dolori e i propri problemi, per cui anche il più insignificante avvenimento diventa un piacevole diversivo. Adesso, la guardavano addirittura con più attenzione, poiché era più alta di qualsiasi altra donna avessero mai visto, e potevano indovinare, dall’abbigliamento sommario, dai capelli scarmigliati e dal viso striato di fango, un urgente bisogno di aiuto.

Una donna magra, con le spalle ingobbite, con un bambino addormentato in braccio, si schiacciò in un angolo del divanetto per far spazio tra lei e un adolescente in salopette, con la testa e metà della faccia avvolte in un bendaggio sporco di sangue.

Gertie si ritrasse rapidamente, dicendo: “Il tu’ bambino potrebbe piglia’ questa brutta malattia. E pel mio ‘n c’è tempo da perde’.” Tornò in fretta nell’atrio e bussò all’altra porta. Dalla sala d’attesa, una donna con la voce brusca della gente di città gridò: “Il dottore sta suturando la gamba di un uomo. Aspetti il suo turno.”

Gertie bussò più forte. Quando nessuno rispose, aprì la porta ed entrò in una stanzetta arredata con una scrivania, due sedie e alcuni libri su scaffali. Vide un’altra porta e si accinse ad aprirla quando una donna, completamente vestita di bianco, fece il suo ingresso da quella stessa porta: “Deve aspettare fuori. Anzi, torni un’altra volta. Il dottore è …”

“’N posso,” l’interruppe Gertie. Spostò la copertina e volse Amos verso di lei, così che potesse vederlo.

L’infermiera abbassò lo sguardo sul bambino e si soffermò un

istante sul viso prima di notare il collo striato di sangue, dal quale

sporgeva il tubicino di legno. Immediatamente si voltò ad aprire la

porta alle sue spalle. Aveva già attraversato metà della stanza attigua

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quando, con voce tranquilla e affabile, si rivolse a Gertie: “Da questa parte, prego.”

Gertie la seguì in un’altra stanzetta tappezzata di scaffali pieni di flaconi e barattoli di vetro. Passò davanti a una porta aperta, da cui vide un uomo disteso su un alto lettino, illuminato da una luce potente mentre, chinato su di lui, un altro uomo, di notevole altezza, era intento a lavorare. Udì dei gemiti di dolore e annusò qualcosa che le fece pensare al whisky.

L’infermiera la lasciò in una stanzetta, dove c’erano solo un alto letto di ferro, una sedia e, sul soffitto, una potente luce bianca. Ai piedi del letto c’era una finestra e, proprio davanti al vetro, nitido nella luce bianca, Gertie vide il ramo di un acero dal quale pendeva ancora qualche pallida foglia gocciolante di pioggia. “Lo adagi sul letto e lo spogli. Se possibile, eviti di fargli male al collo,” le disse l’infermiera prima di uscire. Gertie non aveva ancora finito di sfilare la tuta ad Amos, che lei era già di ritorno col dottore.

Era un uomo alto e magro, e aveva i capelli bianchi e la carnagione pallida, sebbene gli occhi, adesso increspati dalle rughe, erano dell’azzurro vivace tipico di chi ha i capelli rossi. Osservò il bambino per un attimo ma, diversamente dall’infermiera, lasciò che i suoi occhi si soffermassero sul tubicino di legno. Aprì la bocca, poi la richiuse, poi l’aprì di nuovo e, con il tono di voce calmo e apparentemente disinteressato che avrebbe usato per parlare del tempo disse all’infermiera: “Sarà meglio preparare subito la tenda dell’ossigeno.” Dopodiché, rivolto a Gertie: “Sarà meglio usare un tubo diverso.” E poi, da sopra la spalla, sempre rivolto all’infermiera che, adesso, stava trotterellando via: “Prepariamo subito una flebo con tutti i farmaci che riesce a trovare. Apra quella nuova confezione di siero. L’ultimo l’avevo usato per quel caso a Hidalgo. Mi porti subito quello.” E poi, mentre si sistemava lo stetoscopio, si rivolse di nuovo a Gertie: “E’ malato da tanto tempo?”

Lei arrossì e, a bassa voce, gli rispose: “Tre giorni.” La voce le si affievolì ulteriormente per via del senso di colpa: “I maiali del vecchio Dave Sexton ci sono entrati nel granturco. Il foraggio l’avevam già pigliato, ma ‘l granturco ancora ‘n lo avevam raccolto, e sicché io e i ragazzi abbiam lavorato tutto ‘l giorno pe’ cerca’ di salvarlo. Era così messo male: tutto sdraiato giù nel fango.

Ho dovuto …”

Si interruppe, incerta se il dottore la stesse ascoltando o no. Lui

aveva indossato lo stetoscopio e adesso stava auscultando Amos. Se

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ne restò in piedi tormentandosi le nocche della mano sinistra con la destra, cercando di decifrare l’espressione del dottore, come fosse una pagina scritta in una calligrafia illeggibile.

Non appena ebbe terminato la guardò e le chiese: “C’è un focolaio di difterite dalle vostre parti?”

Lei annuì continuando a torcere e a tormentarsi le mani. “Ma io ‘n lo sapevo. Almeno fino a stasera tardi. È venuta Sue Annie e me l’ha detto. Lui ‘n …?” Spostò lo sguardo sul tubicino di legno e ricominciò: “Ho fatto qualcosa di sbagliato? ‘N potevo sta’ con le mani in mano a guardarlo.”

Lui prese l’ago ipodermico che gli aveva passato l’infermiera e iniettò qualcosa nel fianco di Amos. “Credo che lei abbia fatto tutto quello che andava fatto” le disse, ma lei ancora non riusciva a leggergli l’espressione degli occhi o a interpretarne il tono della voce.

Poteva soltanto trovare un po’ di conforto nel fatto che adesso Amos sembrava combattere l’ago più di quanto non avesse fatto col coltello.

E tuttavia, quando vide entrare l’infermiera che spingeva con una mano un tubo di ferro collegato a un aggeggio su ruote, mentre con l’altra teneva un vassoio coperto da un asciugamano, e lui le disse di attendere fuori, lei ebbe più paura che mai.

Progressivamente diventava sempre più conscia dei rumori che la circondavano: udì ciò che sapeva essere lo squillo di un telefono.

L’infermiera andò a rispondere in un’altra stanza e il telefono per un po’ smise di squillare. La udì spesso pronunciare le parole “dottore” e

“occupato” e, una volta, la sentì dire: “Arriverà in tempo. Dopotutto l’intervallo tra una doglia e l’altra è ancora di cinque minuti.” Nel frattempo continuava a sentire gemiti di dolore provenire dalla stanza davanti a cui era passata e, di quando in quando, basso e smorzato dalle pareti, il pianto dei bambini, il chiacchiericcio dei malati nella sala d’attesa e la porta d’ingresso che veniva aperta e richiusa man mano che arrivava altra gente. E ogni volta che la porta si apriva, il fracasso della musica dei jukebox in fondo alla strada e lo scroscio della pioggia contro la finestra.

L’infermiera s’affrettava avanti e indietro senza sosta. Una volta Gertie la vide passare con in mano un flacone, nell’altra un piedistallo e un tubo di gomma che le dondolava dalla spalla.

Attraverso la porta aperta, la udì dire: “Qua fuori c’è un ragazzo che chiede se può andare da suo padre. Credono si tratti di polmonite:

tracce di sangue nel vomito, dolori, delirio causato dalla febbre,

malato più o meno da una settimana, circa dieci chilometri a est di

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